CAPITOLO NONO

L’amico Amilcare disfà la conversione del padre Pendola e mi rimette allo studio della filosofa. Passo per Venezia ove Lucilio seguita ad insidiare la Repubblica e la pace della Contessa di Fratta – Mia eroica rinunzia a favore di Giulio Del Ponte – Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la cancelleria della giurisdizione di Fratta ove comincio col prestare segnalati servigi.

Fra coloro cui doveva premere assaissimo all’avvocato Ormenta e al padre Pendola di convertire io avea conosciuto taluno che mi andava a sangue più assai dei due Veronesi, miei alleati. Cominciai a fare qualche escursione nel campo nemico a profitto dell’avvocato; poi ci trovai il mio conto, e da ultimo scopersi tanta differenza fra il male che si diceva di quei giovani e quello che era infatti, che presi a dubitare della buona fede dell’avvocato, e della convenienza dell’ufficio affidatomi. Ch’io cercassi la quiete ai dolori che mi tormentavano nell’adempimento di più alti doveri, andava benissimo; che cercassi di scordare un amore indegno e sciagurato benché fervidissimo, alzando l’anima nell’adorazione di quelle grandi idee che sono la poesia dell’umanità, in ciò pure non vedeva che bene. Ma che il mio ossequio a quelle grandi idee dovesse ridursi a una fintaggine continua, ad uno spionaggio indecoroso, che quei miei doveri così alti così sublimi dovessero scader tanto nella pratica, cominciava a metterlo in dubbio. Di più io avea fatto la prova come il padre Pendola voleva, ma non ne era rimasto gran fatto contento. La mia mente si era svagata, ma l’anima era ben lungi da quell’ideale contentamento che la compensa d’ogn’altro rammarico. In poche parole, il cervello era occupato ma non il cuore, e questo, attraversato1 nel suo amore d’una volta, e vuoto d’ogni altro affetto, mi dava grandissima noia co’ suoi inutili battiti. Alla prima mi era confusamente infervorato all’ardore altrui, ma poi sia che quest’ardore fosse fittizio, sia che in me non avesse trovato materia da alimentarsi, m’era sfreddato talmente che non mi conosceva più per quello d’una volta. Quella continua manovra di passi compassati, d’antiveggenze, d’accorgimenti, di calcoli si affaceva male ad un’anima giovane, e bollente. Aspirava a qualche cosa di più vivo, di più grande: capiva ch’io non era fatto per le estasi ascetiche, e ho già narrato in addietro quanto fossi debolino in punto a fede.

Figuratevi quanti sforzi facessi per rinforzarmi!... Ma l’avvocato Ormenta, anziché aiutarmi a ciò, mi contrariava sempre colle sue mene un po’ troppo mondane. Stava bene che la meta fosse alta spirituale e che so io; ma io la perdeva di vista, e anch’essi non se ne ricordavano che quando io ne chiedeva conto. Uno studente trevisano, un certo Amilcare Dossi, s’era stretto a me con molta intrinsichezza; egli aveva un ingegno forte e arditissimo, un cuore poi che oro non bastava a pagarlo. Con costui andavamo spesso ragionando di metafisica e di filosofia, perché io avea dato il capo in quelle nuvole e non sapea più liberarmene; egli poi ci studiava da un pezzo e potea darmi scuola. Dopo qualche giorno m’accorsi che egli era proprio un tipo di coloro che il padre Pendola definiva avversatori spietati d’ogni idealità e d’ogni nobile entusiasmo. Metteva tutto in dubbio, ragionava su tutto, discuteva tutto. E non pertanto mi maravigliava di rinvenire in lui un amore di scienza e un fuoco di carità che mi parevano incompatibili coll’arida freddezza delle sue dottrine. Finii col fargli parte di questa mia maraviglia ed egli ne rise assaissimo.

– Povero Carlino! – diss’egli – come sei indietro! Ti maravigli ch’io mi sia preso di così violento affetto per quelle scienze che vado dissecando2 alla maniera dei notomisti? Gli è, caro mio, che l’amore della verità vince tutti gli altri in purità ed in altezza. La verità, per quanto povera e nuda, è più adorabile, è più santa della bugia incamuffata e suntuosa. Perciò ogni volta ch’io le tolgo di dosso qualche fronzolo, qualche orpellatura, il cuore mi balza nel petto, e la mia mente si cinge di una corona trionfale! Oh benedetta quella filosofia che mortali, deboli, infelici pur c’insegna che possiamo esser grandi nell’uguaglianza, nella libertà, nell’amore!... Ecco il mio fuoco, Carlino; ecco la mia fede, il mio pensiero di tutti i giorni di tutti i momenti! Verità ad ogni costo, giustizia uguale per tutti, amore fra gli uomini, libertà nelle opinioni e nelle coscienze!... Qual essere ti parrà più grande e più felice di quello che tende con ogni sua forza a far dell’umanità una sola persona concorde, sapiente, e contenta per quanto lo permettono le leggi di natura?... Oggi poi, oggi che queste idee ingigantiscono, e pesano, fremendo, sulla sfera riluttante dei fatti, oggi che io veggo affievolirsi sempre più quella nebbia che le nascondeva agli occhi degli uomini, chi più felice di me?... Oh questa, questa, amico, è la vera calma dell’animo!... Sollevati una volta a quella fede libera e razionale, né fortune avverse, né tradimenti, né dolori potranno turbare la serenità dello spirito. Son forte, incrollabile in me, perché credo e spero in me e negli altri!

Figuratevi! Durante questa professione di fede che rispondeva sì bene a’ miei bisogni, io diventava di tutti i colori. Mi ricordo che non mi bastò il cuore di soggiungere una sola parola, e Amilcare credette ch’io non ne avessi proprio capito un’acca. Tuttavia se non aveva capito, aveva tremato. Vergognai di me che aveva ondeggiato sì a lungo; ebbi compassione di padre Pendola e dell’avvocato Ormenta (i quali, sia detto di volo, non ne abbisognavano punto), e decisi di studiare come Amilcare, e di interrogar finalmente il mio cuore su quello propriamente ch’egli voleva amare. Intravvidi per la seconda volta un mondo pieno di idee altissime, di nobili affetti, e sperai che anche senza la Pisana l’anima mia avrebbe trovato il bandolo di vivere. Questo rivolgimento delle mie opinioni s’era già compiuto quando rividi l’avvocato Ormenta; e quel giorno, poco disposto a passargli tutto buono come al solito, appiccai con lui una mezza lite. Egli era malcontento di me perché non era mai stato alla conversazione della Marchesa che si mostrava, a quanto pare, tenerissima del fatto mio. Perciò ci separammo un po’ ingrugnati, dicendo egli che la buona causa non sapea che farsi di servitori condizionati e raziocinanti. Io non gli risposi quanto mi bolliva entro, ma corsi tosto da Amilcare, e per la prima volta gli narrai le mie relazioni coll’avvocato, e tutto l’andamento delle cose dalla predica del padre Pendola fino alla contesa di quel giorno stesso. Al mio racconto egli sporse le labbra come chi non ode cose molto piacevoli, e mi buttò in volto una certa occhiata che non mi dimenticherò mai. La mi diceva: «Sei pecora o lupo!?». In verità io ne rimasi così sconvolto, che per poco non mi pentii di essere sdrucciolato in quella lunga confessione. Ma il sospetto fu un lampo: l’anima di Amilcare non era di quelle che esperte nel male lo avvisano dovunque; egli era buono, e si ravvide subito di quella breve incertezza: la bontà non gli tornò dannosa, come spesse volte. Egli mi parlò allora della fama che aveva l’avvocato in città; e come egli fosse tenuto un vigilantissimo ministro dell’Inquisizione di Stato.

– Ah cane! – io sclamai.

– Cos’è stato? – mi chiese Amilcare.

Io non ebbi il coraggio di confessare che il furbo m’aveva forse adoperato come strumento delle sue ribalderie; e il coraggio mi mancò affatto quando mi raccontò che la cattura di alcuni studenti avvenuta il giorno prima, e lo sfratto intimato ad alcuni altri, e le perquisizioni a moltissimi si ascrivevano comunemente a merito del signor avvocato.

– Quel tuo padre Pendola deve essere qualche inquisitore travestito che lavora a doppio per tenerci al buio; – continuò Amilcare, – a Venezia sono ancora al mille quattrocento e si ha paura del mille ottocento che s’avvicina, ma noi, noi, oh no, per dio, che non muteremo in loro servigio la nostra fede di nascita. Il buonsenso omai non è il retaggio di cento famiglie di nobili. Tutti vogliono pensare, e chi pensa ha diritto di operare pel bene proprio; e comune. Troppo ci condussero colle bretelle; il padre Pendola può esser giubilato: noi vogliamo camminar soli.

Amilcare pronunciando queste parole si trasformava in tutta la persona; la sua fronte alta e rilevata, gli occhi profondi, le narici sottili e dilatate mandavano fiamme. Diventava più grande ancora che non fosse naturalmente, e pareva che per tutte le sue vene scorresse una vampa di orgoglio e di virtù.

– Cos’erano i Greci, cos’erano i Romani? – seguitava egli. – Gente che ha vissuto prima di noi, dell’esperienza dei quali noi possiamo giovarci, e furono potenti perché virtuosi, virtuosi perché liberi. Ma la virtù provenga dalla libertà o questa da quella, bisogna cimentarvisi. Il conato alla libertà sarà poderoso ed efficace ammaestramento di virtù. Licurgo che ha fatto per ridonare a Sparta la sua potenza? Le ha ridonato colle leggi i robusti costumi. Imitiamolo, imitiamolo! Leggi nuove, leggi valide, leggi universali, chiare, severe senza scappatoie senza privilegii! Ricordiamoci degli avi nostri che si chiamarono Bruti, Cornelii e Scipioni! La storia si ripete allargandosi; l’ordine nuovo nasce dal disordine antico. Il buon tempo è giunto per l’eguaglianza, per la verità e per la virtù! L’umanità unificata vuol regnare sola; noi saremo i suoi banditori!

Io strinsi la mano all’amico senza mover parola; ma l’anima mia era tutta con lui: non avea più pensiero che non volasse anelando incontro a quelle immense speranze. Giustizia, verità, virtù! le tre stelle che governano il mondo spirituale, e lunge da esse ogni cosa s’abbuia, ogni cuore trema o si corrompe! Io le vedeva sorgere come una costellazione divina sul mio orizzonte; tutto l’amore di cui era capace tendeva ad esse con impeto irresistibile. Ancora una nebbia da diradarsi, ancora un batter d’ala in quel cielo profondo e la mia religione era trovata, il mio cuore calmo per sempre. Ma quella nebbiolina era come quelle frazioni infinitesimali che impiccoliscono sempre senza svanir mai; quella luce era tanto lontana che quando appunto credeva di lambirne l’atmosfera infocata un nuovo spazio d’aria si frametteva fra me e lei. Molte volte discorsi poi con Amilcare di tali mie dubbiezze; ed egli mi assicurava che provenivano da difetto di meditazione; io credo anzi che l’aver guardato di primo colpo senza affaticarmi troppo le ciglia a voler vedere quello che non è, mi giovasse a scoprire quello che veramente era. Giustizia, verità, virtù! Tre ottime cose, tre parole; tre idee da innamorare un’anima fino alla pazzia e alla morte; ma chi le avrebbe recate di cielo in terra, per usar l’espressione di Socrate? – Questa era la spina del mio cuore; e non la capiva allora così chiaramente, ma la mi doleva a sangue. Nuove istituzioni, nuove leggi, diceva Amilcare, formano uomini nuovi. Ma a volerlo anche credere, chi ci avrebbe dato queste ottime istituzioni, queste leggi eccellenti? Non certo gli inetti e spensierati governanti d’allora. Chi dunque?... Una gente nuova, giusta, virtuosa, sapiente; e dove e come trovata? e come portata a capo della cosa pubblica?... In verità io ci avrei capito poco ora, che di quel guazzabuglio mi do in qualche maniera ragione. Ma a que’ tempi di letargo appena smosso, di annebbiamento intellettuale, e di infanzia politica, qual più grande uomo di governo ci avrebbe capito più di me?...

Io restava adunque col mio amore aereo e affatto sentimentale; come chi s’invaghisse d’una donna veduta in sogno. Ammirava Amilcare che a quei sogni dava fiduciosamente la saldezza della realtà, ma non poteva imitarlo. Peraltro le vicende di Francia incalzavano; e le grandi novelle di colà, appurate dalla distanza e dall’immaginazione giovanile de’ miei compagni, soccorrevano la mia sfidanza. Mi diedi a sperare, ad aspettare cogli altri; leggeva intanto i filosofi dell’Enciclopedia, e più ancora Rousseau; sopratutto il Contratto sociale, e la Professione di fede del Vicario Savoiardo. A poco a poco prestai della mia mente un corpo a quei fantasmi; quando me li vidi innanzi vivi spiranti, gettai le braccia al collo di Amilcare, gridando: – Sì, fratello, oggi lo credo finalmente! Un giorno saremo uomini!... L’avvocato Ormenta, che mi vedeva di raro e sempre più taciturno e riguardoso, mi fece spiare da qualcheduno de’ suoi; egli seppe le mie nuove abitudini, la mia amicizia col Trevisano, e indovinò il resto. Il mondo non correva a quel tempo secondo i loro desiderii; il poveruomo avea un bel darsi attorno, capiva che erano formiche incapate tristamente ad arrestare un macigno, e se anche non lo capiva, il fatto sta che era stralunato peggio che mai. Però non volle deporre ogni lusinga; mi accarezzò ugualmente sperando di carpire forse alla mia ingenuità quello che raccoglieva prima dall’ubbidienza. Avvisato da Amilcare io stava sull’intese e spiava a mia volta la fisonomia dell’avvocato come un barometro del tempo. Quando lo vedeva mogio, umile, annuvolato, correva a far gazzarra coi compagni; e si facevano fra noi allegri brindisi alla libertà, all’eguaglianza, al trionfo della Francia, alla Repubblica e alla pace universale. Il vino costava allora pochissimo, e coi tre ducati di mesata passatimi dal Conte, io era in grado di partecipare alle agapi di quei capi guasti. Questo entusiasmo politico e filantropico poteva occupar l’animo d’un giovane come io era non già la religione intrigante mondana e furbesca del signor avvocato. Forse il vangelo puro di carità e di santità mi avrebbe potuto entrare; ma ad ogni modo il passo era fatto. Divenni un volteriano battagliero e fanatico. Stetti anche più volentieri che mai a predicare, a disputare fra i miei compagni di studio; e l’esser più simile a loro me li fece giudicare meno flosci e spregevoli. Il fatto sta che le idee rinfiammano, e che la vita comune del pensiero soffoca o attira a sé l’egoismo privato. Da ciò avviene che l’egoismo inglese è proficuo alla nazione, benché comune e potente; in altri paesi invece la carità è inutile perché casuale e slegata. Così quella gioventù in un solo anno avea fatto un gran salto: formicolavano ancora le passioni, gli astii, le pigrizie di prima; ma il vento che soffiava da occidente sollevava le menti fuori di quella cerchia compassionevole. In fondo forse la paura, il vizio, l’inerzia poltrivano ancora; ma di sopra si slanciava la fede, capace di grandi cose benché momentanee in indoli cosifatte. Basta; io me ne accontentava: e d’altra parte, conosciuto ben bene Amilcare, io m’era fitto in capo che tutti somigliassero a lui; il che non era pur troppo. Come tutti i giudici che non hanno barba al mento, peccava allora in un estremo come l’anno prima avea peccato nell’altro: assolveva per innocenti coloro che altre volte avea condannato a morte. Amilcare mi trascinava colla sua foga di fede, di entusiasmo, di libertà, colle sue abitudini di spensieratezza di giocondità e di audacia; con lui il sentimento che non fosse consacrato al bene dell’umanità mi sembrava un sentimento dappoco.

Non mi ricordava di aver vissuto prima d’allora; la Pisana mi pareva una creatura piccina piccina, quasi veduta in una valle dalle sommità azzurine e pure d’una montagna; più spesso la mi usciva di mente affatto, poiché il mio cuore avea trovato cosa amare in vece di lei. Peraltro, rimasto che fossi solo, avveniva nell’animo mio quasi una separazione di due elementi diversi, che mescolati violentemente insieme ne componevano per poco un solo; ma poi lasciati sedare tornavano a dividersi ciascuno dal proprio canto. La fede nella virtù, nella scienza, nella libertà sorgeva pura ed ardente a cantar inni di speranza e di gioia; la memoria della Pisana si ritraeva in un angolo a brontolare e a stizzirsi in segreto. Allora io mi dava attorno per confonder ancora quei sentimenti; m’incaloriva artifiziosamente e anfanava tanto, che le più volte vi riesciva. Ma perché ciò avvenisse spontaneamente m’era proprio di mestieri la compagnia e l’esempio di Amilcare.

Intanto il romore delle armi francesi cresceva alle porte d’Italia; con esse risonavano grandi promesse d’uguaglianza, di libertà; si evocavano gli spettri della repubblica romana; i giovani si tagliavano la coda per imitar Bruto nella pettinatura; per ogni dove era un fremito di speranza che rispondeva a quelle lusinghe sempre più vicine e vittoriose. Amilcare mi pareva pazzo; gesticolava, gridava, predicava nei crocchi più turbolenti, sui caffè e per le piazze. L’avvocato Ormenta diventava sempre più livido e musonato; io credo che fosse arrabbiato anche contro la Marchesa che non si decideva mai a morire. Io bel bello nelle rade visite mi prendeva beffe di lui. Un giorno egli mi parlò con un certo sapore amaro della mia amicizia con un giovine trevisano, e mi avvertì quasi beffardamente che se gli voleva bene doveva ammonirlo di essere meno corrivo e sussurrone3 nelle sue parlate. La sera stessa Amilcare con parecchi altri scolari fu imprigionato e condotto a Venezia d’ordine degli Eccellentissimi Inquisitori; a me credo si sparagnò quella sagra, perché speravano di sgomentirmi e forse di ripigliarmi. Ma la codardia, grazie al Cielo, non s’apprese mai al mio temperamento. Di quella vicenda toccata al mio amico io ebbi un dolor tale che mi fece odiare tre volte tanto i suoi nemici, e m’infervorò piucchemai nelle nostre speranze comuni. Allora poi che dall’avveramento di queste dipendeva la sua salute, la mia impazienza non conobbe più freno.

Solamente il tempo si prese briga di calmarmi. Ai primi impeti successe una tregua lunga e dubbiosa. Le alleanze continentali si erano rafforzate; la Francia si ristringeva in sé, come la tigre per uno slancio più fiero; ma fuori si credeva ad uno scoramento fatale. La Serenissima patteggiava con tutti, soffriva e barcamenava; gli Inquisitori sorridevano fra loro di vedersi sperperare un temporale che avea fatto tanto fracasso; sorridevano, stringendo fra le unghie quei disgraziati che aveano sperato nella grandine e nelle saette mentre tutto accennava ad un nuovo sereno di bonaccia. Di Amilcare e di molti altri che lo aveano preceduto o seguito nelle carceri non si parlava più; solamente si mormorava che la Legazione francese aveva cura di loro e che non li avrebbe lasciati sacrificare. Ma se la prossima campagna fosse sfortunata alla Francia? Io tremava solo a pensarne le conseguenze.

Intanto una mattina mi capitò una lettera suggellata a nero. Il signor Conte mi partecipava la morte del suo cancelliere, aggiungendo che in quasi due anni di studio io ne avea potuto imparare abbastanza, che poteva sostener l’esame quando voleva, e che corressi intanto presso di lui a dirigere la cancelleria. Cosa provassi alla lettura di quel foglio non ve lo saprei spiegare; ma credo che in fondo fossi contento assai che la necessità mi richiamasse vicino alla Pisana. Senza Amilcare e senza la speranza di riaverlo presto, Padova mi somigliava una tomba. Le mie speranze si dileguavano ogni giorno più; l’impazienza giovanile una volta delusa si volge facilmente in scoraggiamento; e la cera gioconda e trionfale dell’avvocato Ormenta tornava a darmi la stizza. Mediante, una commendatizia del senatore Frumier sostenni con buon esito l’esame del secondo anno; e partii poscia da Padova così sconvolto e confuso che nel mio cervello non ci raccapezzava più nulla. Peraltro mi sapea duro di togliermi di colà senza chiarirmi meglio delle faccende di Amilcare, e confidando nel patrocinio della Contessa e de’ suoi nobili parenti sperai che a Venezia sarei venuto a capo di qualche cosa. Chiesi dunque consiglio ai miei pochi ducati i quali mi permisero quella breve diversione se avessi usato la maggior parsimonia. Feci un fardello delle mie robe, e le imbarcai sul burchio; indi così per creanza fui a prender commiato dall’Ormenta.

– Ah, buon viaggio, carino! – mi diss’egli. – Peccato che non siate rimasto con noi tutto l’anno; siete accorto, e sareste tornato a visitarmi sovente, e forse anco la signora Marchesa vi avrebbe avuto al suo circolo. Riveritemi il padre Pendola, carino; e fidatevi agli attempati un’altra volta. I giovani credono troppo, e vi faranno fare dei cattivi negozii!

Capisco ora quello che volle dire il caro avvocato, ma egli mi credeva un volpone ghiotto ed avaro simile a lui; allora non ci capii nulla. Dovetti peraltro, dietro suo invito, baciare in viso quel sucido figliuolo, che funzionava4 al solito nell’andito colla sua vestaccia nera e puzzolente. Questa cerimonia mi rese due volte più gradita la mia partenza da Padova; e del resto lasciava l’incarico alla fortuna di far comparire degno cancelliere un giovinastro di non ancora vent’anni.

Giunto a Venezia non perdetti tempo né ad ammirare San Marco né a passeggiar la riva, e deposto il mio fardello in una locanda corsi al palazzo Frumier. Dio mio come trovai cambiata in quei pochi anni la signora Contessa! La era divenuta più scura, più cattiva di fisonomia; il naso le si era uncinato come ad uno sparviere, e gli occhi lampeggiavano di un certo fuoco verdognolo che non augurava nulla di buono, e nel vestire mostrava una trascuranza quasi schifosa. Non avea più né nastri rosei, né merli alla cuffia; e i capelli grigi le ingombravano spettinati la fronte e le tempie. Perciò, lo confesso, neppur la pietà di Amilcare poté indurmi a tentar qualche cosa da quella banda. M’infinsi venuto a Venezia per ossequiarla e credetti aver addotto un’ottima scusa per riescirle gradito; ma ella mi rispose un grazie così sgarbato che mi fece calare ogni forza giù dei ginocchi, e mi tolsi da quella stanza che non vedea l’ora di essere in istrada. Peraltro uscito che fui nell’anticamera, mi si rifece il cuore, e mi tornò il desiderio di vedere la contessina Clara e confidarmi a lei, Mentre appunto mi volgeva in cerca d’un servo che mi conducesse da lei, ecco venirmi incontro ella stessa che avea saputo del mio arrivo e non volea lasciarmi partire senza un saluto. Tanta cortesia mi commosse e mi diede animo. La povera Contessina era tal quale l’aveva veduta l’ultima volta; più pallida, peraltro, più grave, e con due cerchi rossi intorno agli occhi che dinotavano l’abitudine del pianto o di lunghissime veglie. Ma questi segni di dolore, anziché togliere alla confidenza, vi aggiungevano l’incentivo della compassione. Mi apersi dunque con lei, narrandole del mio amico, ed esponendole il desiderio ch’io aveva di sapere almeno perché lo si sostenesse in prigione, e quando c’era speranza che lo lasciassero. La Contessina si turbò alquanto udendo il caso di Amilcare, e più la causa probabile del suo imprigionamento; e due o tre volte fu per suggerirmi qualche spediente, ma poi la si tratteneva sospirandoci sopra. Finalmente lo spettacolo del mio dolore la vinse, e mi disse che a Venezia c’era persona la quale dovea saperne di ciò meglio che molti altri, e che io la conosceva, e che cercassi del dottor Lucilio Vianello che certo mi avrebbe detto ogni cosa ch’io bramassi sapere intorno al giovane trevisano. Ma mi disse ciò arrossendo, la poveretta, e raccomandandomi di non iscoprire altrui questo suo consiglio; e poi quand’io le chiesi dove avrei potuto trovare il dottor Lucilio, mi rispose di non saperne nulla, ma che egli non avrebbe mancato di capitar qualche volta in Piazza ove era allora, come adesso, il grande ritrovo di tutti i Veneziani.

Infatti io tolsi commiato da lei, ringraziandola di tanta sua bontà, e piantatomi in Piazza aspettai girando su e giù finché diedi di naso nel signor Lucilio. Le gelosie non mi frullavano più pel capo, e pieno di zelo pel maggior bene di Amilcare lo accostai risolutamente. Egli o stentò a conoscermi o ne fece le viste, ma poi mi usò mille finezze, mi chiese conto de’ miei studi, della mia vita; e da ultimo mi domandò se avessi veduto la Contessa e sua figlia. Io gli narrai tutto, e come le avessi trovate. Ed egli allora mi raccontò che la Contessa s’era data sfrenatamente alla passione del gioco, come usavano le dame veneziane d’allora; che perdeva ogni giorno grosse somme di denaro, che gli usurai le stavano a’ panni, e ch’ella non pensava ad altro che a racquistare quanto aveva perduto, con rischi più gravi e pericolosi. Il suo temperamento avea sempre peggiorato; tiranneggiava la figliuola peggio che mai, ed erano sette mesi che la poverina non usciva di casa che per andar a messa a San Zaccaria, ov’egli la vedeva una volta per settimana. E poi scompariva come un’ombra, e non la lasciavano nemmeno affacciarsi alla finestra perché le avevano destinato una camera interna del palazzo. Quanto al poter penetrare fino a loro non avea mai potuto riescire; e sì che la fama acquistatasi grandissima nella sua professione, gli aveva aperto le sale più cospicue della nobiltà. La Contessa era inesorabile; ed egli sapeva da fonte sicura che stava in trattative colle monache di Santa Teresa perché la Clara fosse da loro accettata come novizia; soltanto faceva ostacolo la dote, ché la Contessa era in grado di pagarne al momento non più della metà, e secondo la regola non potevano accettarla che dopo l’intero pagamento. La giovane si sarebbe piegata ai voleri della madre, e se quel sacrifizio non era già consumato, lo si doveva a quelle differenze d’interesse. Soltanto egli sperava che non avrebbe obbedito quando avessero voluto farla professare, e che non si sarebbe divisa dal mondo colla barriera insormontabile dei voti. Lucilio mi narrava di ciò colla rabbia forzatamente compressa di chi non può vincere un’opposizione giudicata frivola e ridicola; ma da ultimo la sua fronte si era rialzata, e ben si accorgeva ch’egli non avea smesso nulla dell’antico coraggio, e che sperava ancora e che le sue speranze non erano sogni. Quel suo animo vigoroso e prudente non poteva acquetarsi in vane lusinghe, e perciò la sicurezza che travidi nelle sue ultime parole mi diede qualche fiducia. Allora vedendolo più tranquillo gli comunicai la cagione dell’averlo io sì a lungo aspettato, non tacendogli anche, forse con un po’ di furberia, che la Clara stessa mi aveva a lui indirizzato. Parve allora che molte confuse memorie gli balenassero in capo, e tornò a guardarmi come se fosse quello il primo momento che mi rivedeva.

– Da quanto tempo non avete notizia del padre Pendola? – mi chiese egli senza nulla rispondere alla mia domanda.

– Oh da lungo tempo! – risposi io con qualche stupore di essere interrogato a quel modo. – Credo che col reverendo padre non ce la intenderemo più e che egli per lo meno non sarà gran fatto contento del fatto mio.

– Non vi aveva egli dato qualche commendatizia per Padova? – mi domandò ancora con un fare svagato Lucilio.

– Sì certo; – soggiunsi – per un certo avvocato Ormenta che mi è andato fuori affatto dei gangheri; e pochi mesi fa ho saputo che è in voce di essere una spia dei Serenissimi Inquisitori.

– Bene, bene, sarà: ma non parlate di cotali cose a voce alta qui in Venezia; il vostro amico deve esser caduto in male acque appunto per questo.

– Oh sì, è facilissimo! egli parlava tanto forte da farsi udire da un capo all’altro della città e non facea mistero delle sue opinioni.

– Infatti fu rimeritato, come vedete, della sua sincerità; tuttavia rassicuratevi che egli e i suoi compagni stanno, credo, sotto la protezione della Legazione francese, e non interverrà loro alcun male.

– Ne è ben sicuro, lei? Ma se la Francia è invasa dagli alleati, se...

Lucilio mi troncò la parola in bocca con una risata, laonde io lo guardai alquanto meravigliato.

– Sì, sì, guardatemi! – egli soggiunse. – Ho riso della vostra innocenza. Credete anche voi, come i gazzettieri di Germania, che la Francia sia esausta, discorde e che si lascierà mettere i piedi sul collo dal primo venuto!... Guardatemi in viso ancora!... Io non sono che un medico, ma vi garantisco che ci vedo più lungo assai di tutti questi politiconi in toga e parrucca. La Francia omai non è più solamente in Francia: è in Svizzera, è nell’Olanda, è in Germania, è in Piemonte, è a Napoli, è a Roma, e qui! qui dove parliamo io e voi. Essa lo sa e si raccoglie, per attirarsi intorno le forze attive dei nemici, e sbarazzarsene più presto in un paio di colpi, e lasciar libero lo slancio agli amici, ai fratelli di qui!... Vedete; così per abitudine io vi raccomandava poco fa di parlar adagio, e ora io grido e non me ne curo. Gli è, vedete, che omai hanno paura, e che non si corre nessun pericolo. Voi potete narrare quanto vi ho detto all’avvocato Ormenta ed anche al padre Pendola, che non me ne importerebbe gran fatto.

In ciò dire Lucilio mi guardava con occhi fiammeggianti e severi, tantoché io fui costretto, contro l’usanza, di chinare i miei. Ma egli ebbe forse compassione di quel mio smarrimento e mi diede una mano a rialzarmi.

– Quanti anni avete? – mi chiese.

– Presto ne avrò venti.

– Solamente venti? animo allora; eravate un bambino e credevano di mettervi la benda, ma io spero che non vi lascierete infinocchiare, o che vi ravvederete finché ne avete il tempo. Coraggio dunque; confessatemi che la vostra amicizia per Amilcare e il vostro interessamento per lui presso di me è un effetto di consigli altrui non del vostro spontaneo sentimento...

– Oh chi vuol ella mai che mi spingesse a ciò!!

– Chi? il padre Pendola per esempio, o l’avvocato Ormenta!

– Essi? tutt’altro anzi: credo che mi sapranno pochissimo grado della mia intrinsichezza con quel giovane; e infatti a lui ho dovuto di essermi disgustato di loro e delle loro trame frivole e inoneste.

– Frivole le loro trame? non tanto, ragazzo mio. Inoneste potrebbe darsi: ma non precipitiamo i giudizii, perché chi difende la pagnotta ha molti e molti diritti. Credereste voi che il reverendo padre e il degno avvocato sarebbero persone autorevoli e di rilievo se venisse un buon vento di giustizia che buttasse a terra, sì, che buttasse a terra, tutti i privilegii della nobiltà e delle fraterie?... Essi lavorano pel loro utile come gli altri pel proprio: non so cosa dirne!

Io mi stupii oltremodo di questa maniera di vedere di Lucilio; un odio aperto mi quadrava meglio di questa fredda calcolata inimicizia; e il mio amico trevisano la pensava secondo me più dirittamente del dottore di Fossalta. Soltanto mi dimenticava che in questo la gioventù s’era sbollita, e il sentimento s’era impietrato in profonda convinzione.

– Ma parliamo dunque di voi; – continuava egli intanto – voglio credervi che la contessina Clara vi abbia indirizzato a me, e non l’avvocato Ormenta. Se così è, vivete tranquillo; il vostro amico Amilcare è più sicuro nella sua prigione che io e voi in Piazza. Lo direi anche al Collegio dei Savii il quale se fosse savio avrebbe a cavare il suo pro’ da questo giudizio. Ve lo ripeto, v’è gente che veglia per lui; e non c’è pericolo che si lascino andar a male giovani così preziosi. Intanto voi cercate di non lasciarvi abbindolare dal padre Pendola. Per carità, Carlino! Eravate un ragazzo di mente e più assai di cuore. Non guastatevi sul più bello. Vi lascio per qualche visita che ho da fare in questa casuccia di poveri diavoli. Cosa volete? l’amore della gente è la paga più bella del medico. Ma se vi fermate a Venezia, cercate di me all’Ospitale dove sto sempre fino alle dieci del mattino.

– Grazie; – gli diss’io – se la mi assicura proprio che Amilcare...

– Sì, vi assicuro che non gli interverrà alcun male. Cosa volete di più?

– Allora la ringrazio; e la riverisco. Io parto quest’oggi stesso.

– Salutatemi il Conte, la Contessina, i nobiluomini Frumier e mio padre se lo vedete – soggiunse Lucilio. – Ohimè! salutatemi anche Fratta e Fossalta! Chi sa se quei solitarii paeselli mi vedranno mai più!

Mi abbracciò e mi lasciò, credo, con istima migliore di quando mi aveva incontrato. Certo al ripensarci poi mi parve che gli avessero riferito di me cose non troppo onorevoli; e in seguito venni a sapere com’egli mi credeva venduto anima e corpo al padre Pendola. Ma l’ingenuità della mia confessione lo aveva rimosso da questo avventato giudizio; senzaché la mia giovinezza lo lusingava che non fossi tanto incallito nell’impostura, come pretendevano. Ad ogni modo imbarcato ch’io fui col mio fardelletto sulla corriera di Portogruaro, la mia mente ebbe di che lavorare a riandar il colloquio avuto con Lucilio; sopratutto l’autorità che era nelle sue parole, nel suo contegno mi parea più strana ancora che mirabile. Un semplice medico, un giovane paesano da poco trapiantato a Venezia parlava e sentenziava a quel modo! Ergersi per poco ad arbitro dei destini d’una repubblica, se non ad arbitro, a giudice e a profeta!... la mi sapeva un po’ di commedia! Che fossi rimasto corbellato? Che la mia inesperienza gli avesse offerto un’occasione di burlarsi saporitamente di me? Quasi quasi mi rimordeva di avere abbandonato Amilcare a sì manchevole malleveria; ed è vero che nulla più avrei forse potuto tentar per lui, ma dubitava fra me che quella troppo facile confidenza fosse effetto di poco animo e di infingardaggine. Mi riconfortava poi col pensiero che Lucilio non era mai stato uno spaccamonti, e che per ingegno e per istudio soprastava tanto agli altri uomini, da darmi il diritto di crederlo superiore ad essi di antivedere e di potenza. Che egli fosse secretamente addetto alla Legazione francese lo avea udito mormorare anche a Portogruaro l’autunno passato; e allora alcune sue parole m’avevano riconfermato la verità di questa diceria. Tali relazioni forse lo ponevano in grado di poter sapere e vedere nelle cose più addentro degli altri; e in fin dei conti poi io non ci trovava una causa per cui dovesse egli divertirsi a gabbarsi di me.

Queste considerazioni unite al rispetto istintivo che nutriva per Lucilio e alla nessuna lusinga che poteva avere di giovare ad Amilcare per qualche altra via fecero ch’io mi acquetassi in quanto aveva operato; anzi cessai a poco a poco di darmi pensiero della sorte dell’amico per badare alla mia. Mano a mano che mi allontanava dalle lagune per entrare in quel laberinto di fiumane, di scoli e di canali che uniscono a Venezia il basso Friuli, mi si abbuiavano nella mente le vicende di quell’ultimo anno, e quelli vissuti prima vi ricomparivano col guizzante barbaglio dei sogni. Mi pareva che la barca nella quale era mi rimenasse verso il passato, e che ogni colpo di remo distruggesse un giorno della mia vita, e per meglio dire, mi riconquistasse uno dei giorni trascorsi. Niente dispone meglio alla meditazione, alla mestizia, alla poesia di un lungo viaggio traverso a paludi nella piena pompa della state. Quegli immensi orizzonti di laghi, di stagni, di pelaghi, di fiumi, inondati variamente dall’iride della luce; quelle verdi selve di canne e di ninfee dove lo splendor dei colori gareggia colla forza dei profumi per ammaliare i sensi, già spossati dall’aria greve e sciroccale; quel cielo torrido e lucente che s’incurva immenso di sopra, quel fremito continuo e monotono di tutte le cose animate e inanimate in quello splendido deserto mutato per magia di natura in un effimero paradiso, tutto ciò mette nell’anima una sete inesauribile di passione, e un sentimento dell’infinito.

Oh la vita dell’universo nella solitudine è lo spettacolo più sublime, più indescrivibile che ferisca l’occhio dell’uomo! Perciò ammiriamo il mare nella sua eterna battaglia, il cielo ne’ suoi tempestosi annuvolamenti, la notte ne’ suoi fecondi silenzii, nelle sue estive fosforescenze. È una vita che si sente e sembra comunicare a noi il sentimento di un’esistenza più vasta più completa dell’umana. Allora non siamo più i critici e i legislatori, ma gli occhi, gli orecchi, i pensieri del mondo; l’intelligenza non è più un tutto ma una parte; l’uomo non pretende più di comprendere e di dominar l’universo, ma sente, palpita, respira con esso. Così io cedeva allora a questa corrente di sogni e di pensieri che mi respingeva carezzevolmente alle beate memorie dell’infanzia. L’esule canuto che torna al focolare domestico dopo aver sfruttato5 i suoi giorni sopra terra ingrata e straniera non è certo più lieto e commosso ch’io allora non fossi. Ma era tuttavia un contento pieno di melanconia, perché l’apparizione nei crepuscoli della memoria d’una gioia passata somiglia alla visita notturna d’un diletto defunto, e ci invita alla voluttà delle lagrime. Ricordava, insieme dimenticava e sognava; ricordava le beatitudini del fanciullo, dimenticava i dolori dell’adolescenza, il ravvedimento del giovane, e sognava un ritorno allegro e felice a quelle rive incantate d’Alcina, donde cacciati una volta, invano si cerca di approdare ancora. Chi dopo una qualche assenza non ha osato di fingere la propria amante cambiata per miracolo nell’amante ideale dei sogni, nella creatura del nostro cuore e della nostra poesia?... Bambolaggine senza verità e senza fiducia della quale la mente s’innamora; e la speranza e l’amore e ogni altro tesoro dell’anima si profonde a drappeggiar vagamente una bambola immaginata. Io prendeva allora la mia Pisana in culla; non vedeva che i suoi lunghi capelli, i suoi occhi dolcissimi, i suoi sorrisi da angelo; di lei fanciulletta ricordava la grazia, l’ingegno, la pietà, e la voce soave e carezzevole; la vedeva poi crescere d’orgoglio e di bellezza; ricordava i suoi moti magnanimi, i suoi gesti alteri, i suoi baci di fuoco; sentiva il suo braccio tremar sotto il mio, vedeva il suo petto gonfiarsi ad una mia occhiata, e i suoi sguardi... Oh! chi saprà descrivere com’ella avea saputo guardarmi, e come io ricordava allora, e ricordo perfino adesso il linguaggio celeste di quelle due pupille incantevoli! Come ricordare un solo di quei lampi d’amore e sovvenirsi insieme delle nubi che lo offuscavano? No, l’anima sua, la parte più bella e spirituale di lei che viveva in quegli occhi, non si è insozzata nel fango della colpa. No, l’uomo non è un congegno meccanico che produce umori e pensieri, ma è veramente un impasto d’eterno e di temporale, di sublime e d’osceno, in cui la vita, diffusa talvolta equabilmente, si condensa tal’altra in questa parte od in quella per trasformarlo in un eroe od in una bestia! Una parte divina splendeva negli occhi della Pisana; e rimase sempre pura perché impeccabile. Ecco il perché di quella passione violenta, immortale, completa ch’ella ha saputo inspirarmi; e che nessun prestigio di bellezza, nessuna blandizie di sensi avrebbe potuto prolungare oltre al sepolcro di lei nel cuore d’un vecchio ottuagenario. Io adorava, io compativa lo spirito schiavo ed immemore, ma sempre dolente e redivivo da’ suoi lunghi torpori.

A Portogruaro quelle mie fantasticherie ebbero a fare un gran capitombolo. Tutti parlavano delle stranezze della Pisana; perfino sua zia me ne mosse cenno pregandomi col mio criterio di porvi qualche riparo, giacché il Conte, per quante gliene avessero dette, non s’ingeriva di nulla. Ella lo aveva perfin consigliato di collocarla in sua casa; ma le aveva risposto che la ragazza non voleva a nessun patto, e così si lasciava menar pel naso dalla figlia con gravissimo danno della sua riputazione.

– Sentite, Carlino; – mi diss’ella – se si può dare di peggio. Raimondo Venchieredo le sta sempre intorno ostinatamente; ella gli tien bordone con centomila moine che è una vera sconcezza a vederli; ma poi quand’egli venne a chiederla seriamente in isposa, che oggimai l’ha diciott’anni e si potrebbe pensarvi, essa dichiarò solennemente che non lo avrebbe preso mai per marito e che la lasciassero stare. Si dice che vi covi sotto un amore più vecchio con Giulio Del Ponte, ma non si capisce poi perché ella strapazzi sempre questo giovine e lusinghi invece quell’altro che si è proposta di rifiutare. Oltracciò Giulio è quasi povero, e tanto malandato di salute che non gliela danno lunga fino alla primavera ventura!...

– Come? Giulio è a questi estremi? – io sclamai.

– Sì, poveretto; – soggiunse la gentildonna – e a dirvi la verità sarebbe quasi meglio che se ne andasse, perché non attraversi ogni buon collocamento della Pisana come il dottor Lucilio ha fatto colla Clara. Quella almeno era quieta, ragionevole e cristiana, e si è potuto trattenerla dal fare spropositi. Ma con costei?... Uhm! non ci spero nulla, e temo che voglia diventare il disonore della famiglia.

Io mi dimenticai sul momento della Pisana per ricordarmi di Giulio; e lo dichiaro a mia lode, che le tristi novelle della sua salute mi desolarono. Infatti nell’ultima volta che l’aveva veduto, avea notato il suo pallore più tetro del solito, e una difficoltà di respiro che gli mozzava a mezzo le parole. Ma ne accagionava unicamente i crucci e le battaglie inseparabili da un amore colla Pisana; anzi vedendo nelle sue pene quasi la mia vendetta ne godeva barbaramente. Dopo il cattivo pronostico della Frumier cominciai a discerner meglio, e a temere ch’egli non fosse la prima vittima dell’indole bollente e sfrenata della fanciulla; mi dolsi della sua sventura e più forse del delitto che avrebbe macchiato la coscienza di chi lo uccideva a quel modo senza misericordia e senza pensarci. Le colpe di coloro che amai, ebbero sempre virtù di affliggermi più che i miei stessi dolori; credo che a quel tempo avrei perdonato alla Pisana l’amore per Giulio purché ella gli ridonasse con quello la salute e la vita. Pur troppo infatti ebbi campo a persuadermi che le paure della Frumier non erano fallaci. La sera stessa vidi la Pisana a Portogruaro; amorosa, timida, taciturna con me, come chi avesse bisogno d’amore e di pietà; lusinghiera e provocatrice col Venchieredo, indifferente e beffarda con Giulio. Raimondo aveva dimenticato i rifiuti della Clara, e le lusinghe della Pisana lo riconducevano in casa Frumier, dove forse avea sperato ricattarsi di quelli coll’acquisto di un boccone più ghiotto e desiderato. E lo sfuggirgli di questo, altro non avea fatto che attizzargli viemmaggiormente le voglie; poiché la Pisana, pur respingendolo come marito, lo accettava, lo accarrezzava in qualità di vagheggino. Il giovine scapestrato se potea ottenere di contrabbando quello che avea cercato di avere legalmente si sarebbe tenuto il più furbo e felice degli uomini; e il contegno della Pisana dava piuttosto ansa a questa lusinga. Se aveste veduto qual’era in tali frangenti lo stato compassionevole del povero Giulio, potreste capire come la pietà ammutisse in me perfino l’interesse dell’amore. Cosa quasi incredibile! Io aborriva il Venchieredo non per conto mio ma per conto di Giulio; io era geloso della Pisana più per lui che per me, e lo spettacolo di quel giovane, pieno d’animo di cuore d’ingegno, che si disfaceva dolorosamente pel cancro segreto e inesorabile d’una passione infelice, mi metteva in cuore quasi un rimorso dell’odio che altre volte gli aveva serbato. Vi sembro troppo buono?... Non c’è caso: era fatto così. Quella lunga scuola di abnegazione e di pazienza, al fianco della Pisana, mi avea fruttato una pietà quasi eroica a profitto dei miseri. Ne diedi la prova in seguito colla mia condotta, la quale se potrà tacciarsi di sciocca, non potrà mancare di qualche lode per coraggio e per generosità.

Il Venchieredo portava addosso tutto lo sfarzo della felicità. Nel volto, nel gesto, nel vestire, nel parlare si conosceva il giovane contento del fatto suo, che non ha nulla a desiderare, e che non può pensare ad altro che alla propria gioia, tanto essa è grande e potente. La contentezza gli rabbeliva le guancie d’una fiamma rosea e vivace, gli rendeva snella e leggiera la persona, facile e colorita la parola. Vedea tutto bello, tutto buono, tutto incantevole; ognuno gli faceva festa, perché lo spettacolo d’una gran felicità racconsola gli uomini, colla fiducia di poterla anch’essi un giorno o l’altro raggiungere. La Pisana era tutta per lui; tremava e abbassava gli occhi a’ suoi sguardi, sorrideva al suono della sua voce, lo seguiva in ogni movimento. Come io l’aveva veduta ragazzina per Lucilio, tale la vedeva allora già donzella per Raimondo; lo stesso turbamento, la stessa veemenza non trattenuta né da pudore né da paura, e un incanto di voluttà cresciuto a mille tanti nel pieno splendore della sua bellezza di diciott’anni. Io l’amava allora disperatamente per me, la odiava per lo spietato martirio cui ella condannava il povero Giulio, la disprezzava per la sua perfida idolatria a un giovinastro frivolo e scostumato com’era il Venchieredo. Non so quale smania mi sentissi in cuore di calpestarla di svilaneggiarla: insuperbiva fra me di amarla ancora, e di poter dire tuttavia che l’avrei ceduta ad un altro per salvargli la vita! Ella invece procedeva innanzi cieca come il carnefice. Cieca! Ecco la sua scusa: credo ch’ella non vedesse nulla che non s’accorgesse di nulla. Le sue passioni furono sempre così eccessive che le vietarono di discernere alcuna cosa fuori di loro. A veder l’anima straziata di Giulio dibattersi in un corpo smunto e consumato per lottare ancora per difendersi fino alla morte contro il facile e sereno predominio di Raimondo, venivan proprio agli occhi le lagrime. Il fuoco delle pupille, lo splendore dello spirito che un tempo gli trapelava dal volto era scomparso; con ciò ogni sua bellezza s’era spenta, perch’egli non ne aveva altra; fino la maestà del pallore pareva insozzata dalle macchie brune e verdastre di cui la chiazzava il sangue corrotto dalla bile. Pareva un malato di pellagra, e la vergogna del proprio aspetto toglieva ogni coraggio a’ suoi sguardi, ogni sicurezza alle sue parole. Il brio già attutito al soverchiar dell’amore sforzava indarno il coperchio sepolcrale della disperazione. Brillava a tratti come un fuoco fatuo di cimitero; e lo sforzo di volontà, che lo accendeva momentaneamente, ricadeva poco stante in un peggiore abbattimento. Aveva piacciuto per esso; per esso era stato amato; senz’esso doveva perire; egli lo sapeva, e infuriava fra sé di non poterne avvivare almeno un funebre lampo colle ceneri dell’anima sua. Morire sfolgorando era omai la sua unica speranza d’amore e di vendetta; ma più si ostinava, e meno gli ubbidiva l’ingegno affiocato dalla malattia e dalla passione. Io rimasi costernato dagli ultimi sforzi d’un’anima moribonda che fra le rovine d’un corpo già fatto per lei simile a un sepolcro, anelava invidiosamente a quella parte di bene ch’era stata sua e che le veniva rapida da una forza giovane, arrogante e spensierata. Mi pareva di veder Lazzaro agonizzante di fame, che chiede agli epuloni le briciole della mensa e non ottiene che scherno e ripulse. Ma fosse almeno stato così! Giulio avrebbe trovato un’ultima gioia nello sfogo d’un’ira giusta e magnanima; sarebbe morto colla fede che le sue parole a vendetta della sua sciagura avrebbero risonato eternamente nell’anima della spergiura. Nulla di ciò invece: la Pisana non aveva per lui né occhi né orecchi: egli moriva goccia a goccia, senza lusingarsi che il rantolo della sua maledizione avrebbe turbato un istante la felicità del suo sorriso!

Durante quella lunga sera accumulai nel cuore tanta compassione per quel poveretto, che addussi al Conte qualche pretesto per rimanere a Portogruaro, e lo lasciai partire soletto colla Pisana, la quale si maravigliò non poco di cotal mia stravaganza. La attribuì forse a gelosia, e mi buttò un’occhiatina che potea essere di conforto o di gratitudine; ma io ne ebbi orrore, mi rivolsi precipitosamente, e lasciando il Venchieredo guardar la carozza che si dileguava, presi a braccetto il Del Ponte, e lo trassi lunge da quella casa. Questi mi seguiva a malincuore, ansava come un naufrago che sta per perdere l’ultima tavola, e teneva la testa rivolta ostinatamente ad osservare la contentezza del fortunato rivale.

– Giulio, che fai?... – gli dissi scotendolo. – Ritorna in te! abbracciami! non mi hai ancora salutato!...

Mi guardò quasi trasognato, indi, poiché fummo nel buio d’una calle remota, mi mise le braccia intorno al collo senza parlare né piangere. Così non ci eravamo lasciati. Egli allora trionfante e felice non s’avvedeva di me misero ed avvilito; m’avea fatto della mano un cenno di commiato, quasi di protezione e di pietà; io non avea né voluto né potuto stringere la mano di chi mi rubava la ricchezza dell’anima mia. Oh quanto mutati ci ricongiungeva la fortuna! Io sotto il peso d’un doppio disinganno aveva il coraggio di compatire a lui più che a me stesso, a lui decaduto dalla ricca noncuranza del trionfo alla mendicità della sventura, a lui tanto crudele e nocivo contro di me un anno prima, quanto a lui stesso lo era allora Raimondo.

– Giulio, che fai? – tornai ancora a dire sollevandogli la fronte. – Tu vuoi ammalarti e ci riesci a forza di esser crudo e spietato in te stesso.

– Voglio ammalarmi?... No, no, Carlo, – rispose egli con voce fioca e straziante – voglio anzi guarire, voglio vivere! voglio che la giovinezza rifiorisca sul mio volto, che le allegre immagini si ricoloriscano alla mente, che l’anima si rigonfii come la gemma del rosaio al soffio primaverile, e che trabocchi fuori in lieti discorsi, in frizzi faceti, in cantici smaglianti d’amore di poesia! Voglio che la luce scacci dal mio volto le tenebre della melanconia, e il bel sole della vita vi rianimi queste fattezze smorte ed appassite! Sarà un miracolo; sarà un trionfo. Chi ha sul volto l’altera e grossolana bellezza della carne, una volta che l’abbia perduta deve aspettarne il ritorno dopo una lunga e incerta convalescenza; ma chi risplende nel viso per l’interna fiamma dello spirito può ritrovare in un momento la luce ammaliatrice d’una volta. L’anima non è soggetta alle lungherie della medicina; né la passione ha l’andamento greve e compassato della malattia; essa corrode e rimpolpa, essa uccide e risuscita! È veleno e balsamo ad un tempo. Io l’ho visto le cento volte, l’ho provato per esperienza, lo proverò ancora!...

Egli parlava con enfasi febbrile, le parole gli si affollavano sulle labbra confuse e smozzicate; rivedeva nella mente un barlume dell’antico splendore e non voleva perderlo; ma gli venia meno la lena e il respiro convulso affannato s’agitava in mezzo a quel tumulto di pensieri, di speranze, di illusioni, come un guerriero ferito a morte tra fantasmi di gloria e delirii di comando.

– Calmati, Giulio! – soggiunsi io non so se più impietosito o spaventato da quell’orgasmo – vedi che della vita ne hai nell’anima oltre il bisogno; appunto la soverchia vitalità ti opprime; bisogna rintuzzarla. Io conosco il tuo male, e ne conosco anche il rimedio. So che ami disperatamente, come si ama quella donna che è venuta incontro all’amor nostro, e ci ha stregato la fantasia colle gioie più dolci che l’amor proprio e la voluttà sappiano ammannire, lavorando di conserva! Ora quando un cotal amore è divenuto un tormento, che si tratta di fare per guarirne? Studiarne le origini, guardarne la fonte più in noi stessi che in altrui. Fu un inganno, fu un granchio preso; ecco tutto. Rialzati e ti si porgerà il destro di coglierlo un’altra volta, se sarai debole tanto da degnarti!...

– Capisco, – entrò egli a dire amaramente – capisco, amico mio, cosa mi domandi. Credi che io pure a mia volta non ti abbia conosciuto?... Ti ho perduto di vista in seguito, ma dapprincipio mi era accorto che tu pure amavi la Pisana. Figurarsi se doveva prendermi soggezione d’un fanciullo!... Ora poi che sei grande roseo tarchiato intendi accampare i tuoi diritti, e ti garba meglio accamparli contro un avversario che contro a due! Vieni a dirmi pietosamente; ritirati pel tuo meglio; me ne saprai grado; vedi le mie spalle? esse hanno speranza e forza di recarti al cataletto – Non è vero che questo è il sugo del tuo ragionamento?

– No, non è vero! – sclamai, compassionando in questi ingiusti sospetti la tormentosa diffidenza del malato. – Non è vero, Giulio, e tu lo sai ch’io non son capace d’una frode, e ch’io non m’abbasserò mai a pregar un rivale!... Ah, lo sapevi dunque?... Sì, io ho amato la Pisana quand’era fanciullo; non voglio nasconderti nulla, io la amo ancora: e per questo appunto mi duole di vederla inesorabile contro di te!

– Inesorabile? lo credi dunque! – gridò egli afferrandomi convulsivamente la mano.

– Inesorabile come chi non ricorda, come chi non vede – io soggiunsi.

– Ma dunque tu vorresti persuadermi dell’impossibile! – riprese egli. – Vorresti darmi a credere che ti dia noia il veder la tua amante crudele verso un altro!... O impostore, o codardo, ecco qual vuoi comparirmi!... Ancora ancora io fui indulgente a crederti impostore. Se così non fosse io ti disprezzerei maggiormente, e avrei ribrezzo del tuo vile compianto! come d’un lenocinio pagato.

– Taci, Giulio, taci! – sclamai trattenendo un impeto di sdegno e ponendogli una mano sulla bocca. – Sì, tu l’hai detto; io inorridisco di vedere non la mia amante, ma colei che amo più della vita, torturare e uccidere spensatamente un’anima come la tua; vorrei purgarla da questa taccia, risparmiarle questo rimorso!... Poiché, sappilo, Giulio, e vedi se sono sincero, io so e sento di doverla amar sempre e sarebbe per me un dolore infinito quello di amare non una vanerella, non una spensierata, non una sirena, ma una furia e un’assassina!...

– Amala dunque, amala pure! – rispose egli con voce soffocata dai singhiozzi. – Non vedi che sono un’ombra? i tuoi scrupoli vengono tardi; ella mi ha già ucciso; e le sue labbra sono vermiglie del sangue che mi ha succhiato. Talvolta m’illudo ancora; è superbia, è speranza di vendetta! Ma poi mi torna il coraggio della verità, e godo quasi di scongiurar fronte a fronte la furia che mi divora. Va’, io mi vendico fin d’ora della felicità che attende te pure, e che s’aspetta a tutti quelli che aspetteranno pazientemente! Va’, se vuoi amare una cosa abbietta, immonda, spregevole senz’anima senza cuore e senza ingegno; cerca la bambola istupidita dalla ubbriachezza dei sensi e accecata dall’orgoglio! nata donna nella crudeltà nella sciocchezza nella lascivia, e bambola eterna in tutto il resto, anche nella pietà che è la scusa delle donne e che a lei fu negata per un mostruoso prodigio della natura!... I tuoi diritti sono innegabili; nasceste insieme nella corruzione, potete amarvi senza vergogna alla vostra maniera, come si amano i rospi nel pantano, e i vermi nel cadavere!

La sua voce si era rianimata; egli parlava e camminava come un demente; sentiva scricchiolare i suoi denti come volessero arrotare la punta a quelle parole d’imprecazione e di sprezzo. Ma io era armato nel cuore contro a tali ferite, e lasciai sfogarsi quel suo impeto di furore e di sdegno, finché racquistò almeno la calma della stanchezza. Allora tentai un ultimo colpo, fidando nella rettitudine delle mie intenzioni che Dio sa se potevano essere più generose.

– Giulio, – gli bisbigliai gravemente all’orecchio – tu hai giudicato la Pisana!... Or guarda adunque se così come la conosci il tuo orgoglio ti permette d’amarla.

– E tu, l’ami pur tu? – rimbeccò egli con fare aspro e riciso.

– Sì, io l’amo; – soggiunsi – perché mi vi usai fin dalla nascita, perché quell’amore non è un sentimento ma una parte dell’anima mia, perch’esso è nato in me prima della ragione, prima dell’orgoglio!

– E in me dunque? – riprese egli quasi piangendo – credi tu che due anni non l’abbiano radicato in me così profondamente come in te dodici o quindici?... Credi tu ch’egli fosse un trastullo per me?... Non vedi che muoio solo perché esso mi è tolto? L’orgoglio, tu dici, l’orgoglio?... Sì, io sono superbo; mi duole di cedere altrui quello ch’io possedeva, e di non poter nulla nulla per racquistarlo!... Oh se sapessi con quanti spasimi, con quante lagrime, con quante viltà comprerei ora un raggio fuggitivo di bellezza, un barlume momentaneo di spirito, un giorno un giorno solo della mia vita rigogliosa d’una volta!... Se sapessi quante lunghe ore sto dinanzi allo specchio contemplando con rabbiosa impotenza lo smarrimento delle mie sembianze, gli occhi pesti e annebbiati, le carni ingiallite e rugose!... Sono orribile, Carlo, orribile davvero! Fo raccapriccio a me stesso; fossi una donna da trivio non concederei un bacio al disgraziato che mi somigliasse. Uno scheletro ritto ancora, ma non vivo non animato! Almeno mi restasse l’energia spaventosa del fantasma! Mi vendicherei collo spavento, colle maledizioni! Ma l’anima si ritira da me, come l’acqua del fiume dalla sponda inaridita: tutto appassisce, tutto manca, tutto muore! Mi restano solo memorie e desiderii; un popolo sconsolato di pensieri muti e rabbiosi che non sa nemmeno gridare per destar compassione.

Allora solamente egli tacque, allora solamente io intravvidi con ribrezzo la profonda disperazione di quell’anima, e la pietà stessa rimase stupita e paralitica. Era un martire dell’orgoglio, più ancora che dell’amore: e tuttavia non so qual interna pressura mi traeva a tentare ogni sacrifizio per cercar di salvarlo. Credo che amassi tanto la Pisana da credermi a parte perfino delle sue colpe e de’ suoi doveri di riparazione; fors’anco mirava in altrui quello ch’io stesso avrei potuto diventare, e la paura mi eccitava alla carità. Mi ricordai di aver udito il Del-Ponte opporsi tal volta alla satirica miscredenza di Lucilio e di qualche altro nel crocchio del Senatore; laonde mi parve utile tentare anche questo mezzo.

– Giulio, tu almeno sei cristiano! – ripresi dopo un breve silenzio. – Puoi dunque chieder conforto a Dio e rassegnarti.

– Sì, infatti son cristiano! – mi rispose egli – e mi rassegno, e ne do prova bastevole col non ammazzarmi.

– No; dicon che non basta; bisogna seguitare la pratica delle altre virtù cristiane, oltre la rassegnazione; bisogna essere caritatevoli agli altri ed a sé.

– Lo sono fin troppo; non ho ancora schiaffeggiato lei, non ho sbranato quel nobile liscio e cialtrone che mi opprime colla sua arroganza! Ti par poco?...

– Bada, Giulio, che la passione ti fa esser parziale verso te ed ingiusto verso gli altri. La Pisana è colpevole, ma il Venchieredo, per quanto...

– Non parlarmi di lui!... Per pietà non parlarmi di lui, perché mi dimentico alle volte perfino i comandamenti di Dio!...

– Or dunque ti parlerò di me: vedi se la passione ti accieca sui tuoi doveri? Poco fa dovevi ringraziarmi e mi hai insultato!...

– Ti ho insultato perché infatti tutto il tuo contegno di questa sera mi sembra ancora molto bizzarro; ma ora voglio crederti; ti ringrazio delle buone intenzioni. Sei contento?

– Sarei più contento se volessi aiutarti de’ miei consigli per vivere meno infelice!

– Mi aiuterò invece de’ miei per morire. Son cristiano, credo al Paradiso, e tutto sarà finito. Dubito peraltro di poter morire perdonando!... Oh sì, ne dubito assai; ma la malattia sarà lunga, mi fiaccherà, e sarò convertito se non da altro dalla debolezza. Dio voglia passarmela buona!...

– No, per carità, Giulio, non finire di avvelenarti con questi tetri pensieri!...

– Vedi anzi che ora son calmo, che sto meglio, che mi par di essere guarito. Hai fatto benissimo a farmi risovvenire di Dio. Questa notte, scommetto che dormirò, e sì che da due mesi non godo una tanta ventura. Ho piacere di doverla a te: guarda se son ingiusto ora?... Mi perdoni, non è vero, Carlo?

Io gli buttai le braccia al collo; quelle sue ultime parole, benché intinte ancora di qualche amarezza, mi toccarono il cuore più che le smanie di prima. Sentii il suo cuore battere sul mio precipitosamente, come quello d’un viaggiatore che ha fretta di arrivare; baciai quel suo volto scarno, e madido tutto d’un sudore gelato; indi lo vidi entrare in casa, lo udii tossire a più riprese nel montar le scale e mi tolsi di là col malcontento di chi ha fatto una buona azione ma pur troppo inutile.

Il giorno seguente me n’andai a Fratta prima dell’alba, giacché tutta la notte non avea fatto altro che volgere in capo i disegni più strani e le speranze più inverosimili. Stetti molte ore in cancelleria a ravviare le faccende d’uffizio, coll’aiuto di quel vecchio sornione di Fulgenzio; riverii poscia il Conte e Monsignore, questo sempre più morbido e paffuto, quello incartocciato come una vecchia cartapecora abbrustolita sulla bragiera. Ma mi tardava l’ora di sbrigarmi per parlare alla Pisana, e finalmente fui libero e la trovai che la scendeva dalla camera della nonna per andare a pigliar fresco nell’orto. La Faustina e la signora Veronica che le stavano alle coste scantonarono in cucina ghignando fra loro per lasciarla sola con me. Io mi sentii rivoltare lo stomaco e seguii la fanciulla con un’occhiata lunga e pietosa.

– Finalmente ti si vede! – mi diss’ella la prima.

– Come finalmente? – risposi io – ci siam veduti e salutati mi pare anche iersera.

– Iersera sì! ma non eravamo soli, e la gente, a dirti il vero, comincia a darmi soggezione.

– Hai ragione, iersera non eravamo soli; c’era molta gente; fra gli altri Raimondo Venchieredo e Giulio Del Ponte.

Io introdussi questi due nomi per giungere al discorso che voleva intavolare con lei, ma ella ci odorò all’incontro un grano di gelosia, e credo che me ne seppe buon grado.

– Il signor Giulio Del Ponte – soggiunse ella – e il signor Raimondo di Venchieredo non mi fanno adesso né caldo né freddo: peraltro sono anch’essi gente come gli altri, e non mi ci trovo più di fare spettacolo pubblicamente de’ miei sentimenti.

– Questo sarebbe un gran bene, Pisana; ma col fatto non mantieni la promessa. Ieri per esempio mi pare che i tuoi sentimenti pel signor Raimondo fossero abbastanza chiaramente espressi, e che Giulio li comprendesse a meraviglia.

– Oh non mi secchi più il signor Giulio! ho anche troppo fatto e sofferto per lui!

– Dici davvero? hai sofferto per lui?

– Figurati!... io gli voleva un po’ bene ed egli se ne ingalluzzì tanto che s’era, credo, messo in capo di sposarmi. Ma già sai come la sentano i miei su questo tasto del matrimonio. Sarebbe stata una replica di quella brutta commedia di Clara e di Lucilio; io ho dovuto metter giudizio anche per lui, gli ho parlato fuor dei denti, e per ridurlo meglio a ragione ho preso a far meno la ritrosa con Raimondo. Lo crederesti che al signor Giulio non andò a sangue questa mia ragionevolezza, egli che se mi voleva bene doveva appunto incoraggiarmivi?... Cominciò a far il patito il geloso e confesso, che, in onta a tutto, mi faceva anche compassione; ma cosa doveva fare? seguitar ad ingannarlo e a menarlo di palo in frasca?... Fu meglio come ho pensato io, tagliar il male alla radice; la ruppi affatto con lui, e buona notte. Allora fu che si mise sotto Raimondo sul serio, e questo, ti dico la verità, mi conveniva come marito; ma mentre appunto che si bisbigliava da tutti d’una prossima domanda formale da parte sua, ecco capitarmi addosso Del-Ponte cogli occhi fuori della testa, e a gridare che se avessi sposato Raimondo, si sarebbe ammazzato, e che so io altro! Io forse fui troppo credula troppo buona, ma cosa vuoi? non ci penso troppo alle cose e questo è il mio difetto, tantoché per consolarlo per quietarlo e più ancora per liberarmene gli promisi che non avrei sposato Raimondo. E da ciò provenne che lo rifiutai, benché, ti giuro, egli mi piacesse, e sentissi di fare un gran sacrifizio!... Questa è amicizia, mi pare! cosa doveva fare di più!?

– Oh diavolo! – soggiunsi io – Giulio non mi ha detto nulla di ciò!

– Come, tu gli hai parlato a Giulio? – sclamò la Pisana.

– Sì, gli ho parlato ieri sera, perché mi faceva compassione la sua cera desolata per la brutta maniera con cui lo trattavi.

– Io trattarlo con brutta maniera?

– Caspita! non gli hai rivolto mai neppur un’occhiata!

– Oh bella! dovrebbe anche ringraziarmene! Se avessi continuato a lusingarlo avrebbe finito col disperarsi più tardi; meglio è separarsi da buoni amici ora finché il male è sanabile.

– Sembra che questo male non sia tanto sanabile come tu credi. Forse tu non ci badi, ma egli ne soffre all’anima di vederti incapricciata del Venchieredo e noncurante di lui. La sua salute peggiora di giorno in giorno, ed io credo che la passione lo consumi.

– Cosa dunque mi consiglieresti di fare?

– Eh!... il consiglio è difficile; ma pur mi sembra che, giacché hai promesso di non maritarti col Venchieredo, dovresti romperla addirittura anche con questo.

– Per rappiccarla con Giulio? – m’interruppe malignamente la Pisana.

– Anche; se senti proprio di volergli bene – risposi io con uno sforzo violento sopra me stesso. – Ma ad ogni modo, separata che ti fossi da Raimondo, egli si affliggerebbe meno, e chi sa che anche senza il rimedio dell’amor tuo non giunga a guarire.

La Pisana si raddrizzò accommodandosi i capelli sulle tempie e sorridendo accortamente. Ella credette che tutta quella mia manovra non tendesse ad altro che a liberare il campo da ambidue i pretendenti a mio totale benefizio.

– Si potrà provare, purché tu mi aiuti – ella soggiunse.

– Non so in che possa aiutarti: – le risposi – ieri sera anche senza di me facevi benissimo i tuoi soliti vezzi al Venchieredo: e non hai mostrato di accorgerti che io fossi tornato da Padova se non al mio entrar nella sala per un lieve saluto.

– Oh bella! e se avessi voluto vendicarmi della tua stessa freddezza?

– Via, via bugiarda! E l’altra sera di che ti vendicavi dunque? Credi che io non sappia da quanto tempo dura questa tua scalmana per Raimondo!

– Ma se ti ripeto che tutto era per distoglier Giulio! Vorresti che avessi il coraggio di dargli un rifiuto se mi piacesse sul serio?

– Vedi, come fai smacco alla tua stessa virtù?... Ti vantavi pure poco fa del tuo rifiuto come d’un gran sacrifizio!

La fanciulla restò attonita confusa e stizzita. Era la prima volta che le sue lusinghe non mi trovavano pronto a farmi corbellare; e questo appunto la spronò a insistervi, perché non era donna da ritrarsi da nessuna cosa senza prima averla spuntata.

Infatto, fosse merito della mia presenza, della predica, o della sua bontà; il fatto sta che il suo bollore per Raimondo si sfreddò tutto d’un colpo, e il povero Giulio si vide onorato da alcuni di quegli sguardi che tanto più sembrano cari quando sono da lunga pezza insoliti. In fondo in fondo, per altro, ella non dedicava a lui che la parte d’attenzione che gli veniva come persona della conversazione; e le premure della donzella tornavano a poco a poco a concentrarsi in me. Andò tant’oltre questa mia fortuna che ne fui turbato e sconvolto. A Fratta vicino alla Pisana, ammaliato dalle sue occhiate, dalla sua bellezza, infiammato dalle sue parole, rade, bizzarre, ma talvolta sublimi e talaltra perfin pazze di delirio d’amore, io dimenticava tutto, io riprendeva la servitù d’una volta, era tutto per lei. Ma a Portogruaro mi si rizzava dinanzi come una larva la faccia cadaverica e beffarda di Giulio: io aveva paura, rabbia, rimorso; mi pareva ch’egli avesse diritto di chiamarmi amico sleale e traditore e che la Pisana avesse fiutato meglio di me la innata viltà del mio cuore quando aveva sospettato che non pel bene di Giulio ma pel mio io cercassi distoglierla affatto dal Venchieredo. Eppure quella sete inesauribile, quel diritto che ci sembra avere a un’ombra almeno di felicità, combatteva sovente cotesti scrupoli. Quando mai era io stato l’amico di Giulio? Non era anzi egli stato il primo a romper guerra con me, rubandomi l’affetto della Pisana, o almeno attirandone a sé la parte più fervida e bramata? Qual amante sfortunato non ha aperto l’adito alla rivincita e non se ne giova? E poi non aveva io adoperato verso di lui con ottime intenzioni? Se queste intenzioni in mano della fortuna le avean servito per favorir me, doveva io confessarmi colpevole; o non piuttosto approfittar della mia ventura, giacché me ne cadeva il destro? – La coscienza non s’acquetava a questi argomenti. È vero, rispondeva, è vero che non vi è ragione alcuna per cui tu debba essere l’amico di Giulio; ma quante cose non accadono senza apparente ragione? La stima, la somiglianza delle indoli, la compassione, la simpatia generano l’amicizia. Il fatto sta che per quanto tu dovessi piuttosto odiar Giulio, appena arrivato da Venezia, la sua miseria i suoi tormenti te lo hanno fatto amare; gli dimostrasti affetto d’amico; tanto basta perché tu debba allontanare perfino il solo dubbio che le tue profferte d’allora non fossero sincere. Hai avuto rimorso del suo smarrimento per conto della Pisana, e non vuoi averlo per te?... Vergogna! Impari le sofisticherie dell’avvocato Ormenta e a non essere galantuomo colla pretesa di parerlo. Volevi che la Pisana sacrificasse il Venchieredo per la salute di Giulio, or dunque adesso sacrifica te, o ti dichiaro un codardo!

Quest’ultima intemerata della mia padrona mi persuase. A poco a poco con mille accorgimenti, con mille sforzi tutti premeditati e dolorosi, mi ritirai dalla Pisana. Ella invece si apprendeva a me coll’umiltà del cagnolino cacciato; ma quella sentenza di codardia mi minacciava sempre nel cuore; io soffocava i miei sospiri, nascondeva i miei desiderii, divorava le lagrime, e cercava lungi da lei la solitudine e l’innocenza del dolore. Tanto feci che, fosse consapevole assentimento a’ miei disegni, o riscossa d’orgoglio, od altro, ella cessò dal perseguitarmi; e allora toccò a me tornarmi a dolere di quella freddezza, provocata con tanta arte, con tanta costanza. Il giovine Venchieredo, per poco geloso di me, si rallegrò in breve di non vedermi più in casa Frumier e di sapermi trascurato. Ma argomentava male di credersi destinato a raccoglier di nuovo i frutti del mio abbandono. La Pisana non badava per allora né a lui né ad altri, o se mostrava qualche preferenza, l’era piuttosto a favore di Giulio Del-Ponte. Questi accoglieva quei rari contrassegni di benevolenza, come il calice del fiore riceve avidamente dopo un mese d’arsura qualche goccia di rugiada. Se ne ravvivava tutto, e a ravvivarlo meglio contribuiva il credere che non al mio sacrifizio né alla generosità della Pisana, ma alla propria virtù si dovesse quel rilievo d’amore. Ciò io aveva temuto e sperato insieme. Il tumulto che si rimescola nell’animo all’azzuffarsi della pietà della gelosia dell’amore e dell’orgoglio, non può esser dichiarato così facilmente; figuratevi di esser nel caso, se potete, e vi saranno chiare le continue contraddizioni dell’animo mio.

Raimondo intanto, frodato della sua lusinga, non disperava per nulla di soperchiare un nemico così malconcio e avvantaggiato di poco com’era il Del-Ponte. Ma la sicurezza ch’egli mostrava sull’esito di quel duello allontanava da lui piucchealtro il cuore della Pisana. Le donne son come quei generali cui preme più l’onore della bandiera che la vittoria; accondiscendono a capitolare, ma vogliono esser cinti dalle parallele6 e minacciati dalle bombe. Un’intimazione alla bella prima senza apparecchi militari e senza avvisaglie non la si fa che alle fortezze di poco conto; e non v’è figliuola d’Eva così spudorata da confessare di esser tale. Raimondo, respinto colle belle parole, tornò all’assalto coi regali. La Pisana era più orgogliosa che delicata e accettò coraggiosamente i regali senza quasi domandare da chi le venissero. Passeggiera contentezza per Raimondo, e nuova bile per me. Ma dopo tutto, la segreta soddisfazione d’una buona opera mi teneva il cuore in una calma triste e monotona bensì, ma non priva di qualche diletto. Adoperava anche possibilmente di metter in pratica una delle massime ereditate da Martino, di dimenticare cioè i piaceri venutimi dall’alto, e di cercarli al basso fra i semplici e gli umili. A questo mi erano continua occasione le faccende di cancelleria. Ho la vanagloria di credere che dal tempo dei Romani in poi la giustizia non fosse amministrata nella giurisdizione di Fratta colla rettitudine e colla premura da me adoperata. Un bricciolo di cuore, qualche po’ di studio e di ponderazione aiutata da un discreto buon senso mi dettavano sentenze tali che la firma del Conte era onorata di potervi far in calce la sua comparsa. Tutti portavano a cielo la pazienza, la bontà, la giustizia del signor Vice-cancelliere: la pazienza sopratutto, che è altrettanto rara quanto necessaria in un giudice di campagna. Ho veduto alle volte taluno fra questi, arrovellarsi infuriare tempestare pel tardo ingegno delle parti; andar coi pugni al muso dell’attore, minacciar bastonate al reo convenuto e pretendere da essi quella moderazione quella chiaroveggenza quel riserbo che son frutto solamente di una lunga educazione. Appetto ai ragionamenti bisogna ficcarsi in capo che gli ignoranti son come i bambini; bisogna perciò usare la logica lenta e minuziosa d’un maestrucolo elementare, non la retorica sommaria d’un professorone d’Università. La giustizia vuol esser largita, ma non imposta; e convien mantenerle la sua fama, il suo decoro di giustizia colla persuasione, non darle colore di arbitrio coi rabbuffi e coll’arroganza. Finché non si muti il galateo dei tribunali foresi, i codici alla gente di campagna parranno non differenti per nulla dalle antiche sibille. Sentenziavano perché di sì, e chi aveva ragione non ci capiva meglio di quello cui si dava torto. Avvezzo dalla culla a vivere fra gente rozza e ignorante, io non durai fatica a vestirmi di questa tolleranza; anzi la mi venne di suo piede, perché non si potea farne senza. E il mio esempio fu efficace anche sugli uomini di Comune incaricati della giustizia più minuta; sicché non si udirono più tanti lagni per la tal trascuranza a favore di questo, o per la tal rappresaglia a carico di quello. L’Andreini, il vecchio, era morto poco prima del Cancelliere; e suo figlio che gli era succeduto non fu restio a secondare il mio zelo pel buon andamento delle cose giurisdizionali. Il Cappellano era al colmo della consolazione; non lo inquietavano più per la sua amicizia collo Spaccafumo; e purché costui, che cominciava a darsi all’ubbriachezza, non turbasse la pace festiva con qualche baruffa, era in facoltà di far visita cui più gli piacesse. Il bando era scaduto, la sua vita, è vero, non somigliava a quella di tutti; ma non si potea parlar male, e ciò bastava perché io non lo angariassi senza costrutto.

Qualche inverno prima per un mal di petto ribelle gli era mancata la Martinella, che solea provvederlo di sale di polenta e delle derrate più necessarie. Allora dunque egli usciva più spesso dalle lagune per provvedersele da sé; ma del resto non se ne sapea nulla e viveva come un’ostrica in mezzo alle ostriche. Il Cappellano mi disse ch’egli si ricordava di quella sera quando mi avea recato in groppa fin vicino al castello, e che se ne lodava sempre per la buona riuscita che avea fatto e pei grandi diritti che aveva alla gratitudine del Comune. Le lodi dello Spaccafumo mi lusingavano non poco: quelle poi del vecchio piovano di Teglio mi mandavano in estasi. Ed egli me le decretava con un certo fare autorevole e moderato, come chi ha facoltà di darle e di negarle; e poi non convien tacere che le glorie del discepolo riverberavano in volto al maestro. Per lui io rimasi sempre lo scolaretto dalle orecchie spenzolate, e il latinante da quattro sgrammaticature al periodo. Perfino Marchetto ci trovava il suo conto della mia amministrazione, perché la sua pancia cominciava a brontolare delle troppo lunghe cavalcate, ed io gliele sparagnava coi spessissimi componimenti. I faccendieri e Fulgenzio mio aiutante brontolavano; perché le liti degli altri erano la loro pasqua, ma io non ci badava al malumore dei tristi, e a quest’ultimo sopratutto rivedeva le buccie assai di sovente perché si ravvedesse affatto della sua vecchia usanza di farsi pagar a doppio le proprie fatiche dal giurisdicente e dalle parti. Giulio Del-Ponte m’ebbe ad avvertire di non urtarmi troppo con lui, perché colla sua umiltà e colla sua gobba aveva voce di esser ben sentito da chi poteva molto. Ed io ripensando al processo del vecchio Venchieredo mi capacitai benissimo di questi sospetti; ma il mio dovere sopratutto; ed io avrei lavato il muso ai Serenissimi Inquisitori nonché ad una loro sucida spia se li avessi colti in flagrante di disonorare il mio ufficio. C’era del resto un altro personaggio che senza farne le viste mi mandava di cuore a tutti i diavoli; e questi era il fattore. La mia presenza, la mia nuova autorità avea sgominato certi suoi vecchi sotterfugi di mangerie e di rubamenti. Io ne aveva scoperto la trafila, gliel’avea perdonata, ma non gli avrei perdonato in seguito; ed egli sel sapeva e sopportava la mia sorveglianza con discreto malumore. Il Conte del resto era felicissimo di risparmiar il salario del cancelliere; e non parlava né di farmi fare gli esami né di mettermi in posto regolarmente. Quelle condizioni di ripiego gli accomodavano assai. Ed io tirava innanzi abbastanza contento delle benedizioni che mi venivano da tutti per la mia imparzialità, per la mia premura, sopratutto poi per la moderazione nel riscuotere le tasse. Donato, il figliuolo dello speziale, e il mugnaio Sandro, da antichi rivali che mi erano stati, divenuti allora miei compagni ed amici, mi crescevano il favor della gente coi loro panegirici. Insomma, io provava allora la verità di quella massima, che nello zelante adempimento dei proprii doveri si nasconde il segreto di dimenticare i dolori, e di vivere meno male che si può.

La salute di Giulio Del-Ponte che pareva ristabilirsi ogni giorno più era la più cara ricompensa che m’avessi dei miei sacrifizii. Io riguardava quel miracolo come opera mia, e mi sarà perdonato se fra me ne osava insuperbire. Raimondo, stanco stanchissimo di veder la Pisana portare gli abiti donatigli da lui e affibbiarsi i suoi spilloni senza tornar per nulla alle tenerezze d’una volta, se l’avea svignata pulitamente. Giovandosi delle dissensioni che inacerbivano sempre più in casa Provedoni, e della vecchiaia omai quasi impotente del dottor Natalino, persuase egli Leopardo di accasarsi a Venchieredo per aiutarvi lo suocero. Il buon pastriccione, sempre più infinocchiato dalla Doretta, accondiscese; e così tutti dicevano che il signor Raimondo era ben fortunato di abitar colla ganza sotto le stesse tegole. Il solo marito non credeva a ciò; egli era innamorato e più che innamorato servitore di sua moglie. Così le cose s’erano raccomodate o bene o male per tutti; ma il mondo non era solamente a Fratta, e fuori di là i romori i guai le minaccie di guerre e di rivoluzioni crescevano sempre. Le novelle di Venezia si chiedevano ansiosamente, si commentavano, si storpiavano, si ingrandivano e formavano poi il tema a burrascose contese dintorno al focolare del castello. Il Capitano provava, come due e due fanno quattro, che le paure erano esagerate e che la Signoria avvisava saggiamente di ristare dai provvedimenti straordinarii, perché i Francesi, anche con ogni buon vento in poppa, avrebbero dovuto impiegare tre anni al passaggio delle Alpi, e altri quattro ad un avanzamento dalla Bormida al Mincio. Numerava le linee di difesa, le forze dei nemici, i capitani, le fortezze; insomma, secondo lui quella guerra o sarebbe finita al di là dei monti, o al di qua sarebbe caduta in retaggio alla generazione seguente. Giulio Del Ponte e qualchedun altro che veniva da Portogruaro non erano di questo parere; secondo loro i vantaggi degli alleati eran ben lungi dall’assicurar completamente la Repubblica contro le esorbitanze dei Francesi, e questi di lì a due di lì a tre mesi poteva benissimo darsi che avessero già invasi gli Stati di terraferma, e lo stesso Friuli. Il Conte e Monsignore rabbrividivano di queste previsioni; e toccava poi a me distruggere i cattivi effetti di tanto soverchie e precoci paure.

Così barcheggiando7 si venne alla primavera del ’95. La Repubblica di Venezia avea già riconosciuto solennemente il nuovo governo democratico di Francia; il suo rappresentante Alvise Querini aveva fatto al Direttorio la sua chiaccherata, e a saldare la recente amicizia s’era anzi dato lo sfratto da Verona al Conte di Provenza. Il Capitano diceva: – Fanno benissimo. Pazienza ci vuole e non por mano subito alla borsa e alla spada. Vedete? le cose si vanno già raffreddando laggiù! Quelli che ammazzavano i preti, i frati ed i nobili, l’hanno finita anch’essi sul patibolo: la crisi può dirsi nel decrescere, e la Repubblica se l’è cavata senza esporre a pericolo la vita d’un uomo. – Rispondeva Giulio: – Fanno malissimo; ci metteranno i piedi sul collo; si tace ora per gridar più forte di qui a poco. Ora che ci par d’essere avvezzi al pericolo, e pericolo non c’è, verrà il pericolo vero e ci troverà assopiti e sprovveduti. Dio ce la mandi buona, ma alla meglio non ci faremo la miglior figura! – Io mi accostava all’opinione di Giulio, tanto più che Lucilio mi avea scritto da Venezia che sperassi bene, ché mai la sorte del mio amico non era stata più vicina a un propizio rivolgimento. Ma la sua invece, la sorte del povero dottorino, subì a que’ giorni un grave tracollo. La Clara fu relegata finalmente al convento di Santa Teresa; e a Fratta se n’ebbe la novella quando la Contessa scrisse perché le mandassero i danari della dote: ella diceva di essersi intanto impegnata con un usuraio, ma che non si voleva udir parlare di termini troppo lunghi con quei torbidi che c’erano allora. Il Conte sospirò molto e molto; ma raccolse anco una volta i danari richiesti, e li mandò alla moglie: io m’accorgeva pur troppo che la famiglia correva alla rovina, e dovea limitarmi a stagnare qualche goccia della botte, lasciando poi che lo spillone gettasse a piena gola perché da quel lato non potea rimediare. Al Conte non mi arrischiava, al Canonico era inutile, al fattore dannoso il mover parola: e la Pisana, cui ne accennai qualche volta, mi rispondeva squassando le spalle, che alla mamma non si potea comandare, che le cose erano sempre ite così, e che già lei non se ne dava fastidio, ché avrebbe vissuto in una maniera o nell’altra. La tristarella pareva essersi corretta di molto dalle sue bizzarrie. Senza mostrarsi né adirata né contenta del mio riserbo mi trattava con bastevole confidenza; e a Giulio poi faceva sempre buon viso, benché si vedesse che non era nella solita smania de’ suoi innamoramenti. La maggior parte della giornata la passava in camera della nonna, e pareva si fosse preso l’assunto di farle dimenticare la lontananza della sorella maggiore; ma la povera vecchia, omai affatto imbecillita, non era neppur più in grado di esserle riconoscente de’ suoi sacrifizii. Questi non ne diventavano perciò che più meritorii.

Quando la nuova del noviziato della Clara fu sparsa nei dintorni, capitò in castello il Partistagno che non vi si era più fatto vedere dopo l’esito tragico-comico della domanda solenne. Egli urlò strepitò e sragionò molto; spaventò il Conte e Monsignore, e partì dichiarando che andava a Venezia a chieder giustizia e a liberare una nobile donzella dall’inconcepibile tirannia della sua famiglia. Il tempo trascorso lo avea persuaso sempre più del valore irresistibile de’ proprii meriti, e contro tutte le ragioni che aveva per ritenere il contrario, si ostinava a credere che la Clara fosse innamorata di lui, e che i suoi parenti non gliela volessero concedere per qualche causa misteriosa ch’egli si proponeva di svelare in seguito. Infatti si udì poco dopo ch’egli avea levato il campo da Lugugnana per trasportarlo a Venezia; e da Fratta si affrettavano a dar di ciò contezza a Venezia; ma non essendo venuti di colà ulteriori ragguagli si finì coll’acquietarsi nella fiducia che il grande sussurro8 del Partistagno dovesse svamparsi in chiacchere.

Frattanto quello ch’io già prevedeva da un pezzo avvenne pur troppo. La salute del signor Conte andava scadendo di giorno in giorno: e alla fine ammalò gravemente e prima che si potesse prevenirne la Contessa del pericolo, egli spirò senza accorgersene fra le braccia del Cappellano, di Monsignor Orlando e della Pisana. Il dottore Sperandio gli aveva cavato ottanta libbre di sangue, e recitò poi un numero straordinario di testi latini per provare che quella morte era avvenuta per legge di natura. Ma il defunto, se avesse potuto buttar un’occhiata fuori della cassa, sarebbe rimasto quasi contento di esser morto tanta fu la pompa del funerale. Monsignor Orlando pianse con moderazione e cantò egli stesso l’Uffizio d’esequie con voce un po’ più nasale del solito. La Pisana se ne disperò ai primi giorni più ch’io non avessi creduto possibile: ma poi tutto ad un tratto ne parve smemorata. E quando vennero i Frumier a prenderla e ad avvertirla che la volontà di sua madre la richiamava a Venezia, parve che tutto dimenticasse per la grandissima gioia di cambiare la noia di Fratta coi divertimenti della capitale. Ella partì quindici giorni dopo; e soltanto nell’accomiatarsi parve che il dolore di doversi separare da me soverchiasse la contentezza di correre a una vita nuova piena di splendide lusinghe. Io le fui grato di quel dolore, e dell’averlo essa lasciato travedere senza alcuna superbia. Conobbi ancora una volta che il suo cuore non era cattivo; mi rassegnai e rimasi.

La mia presenza a Fratta era proprio necessaria. Narrare la confusione che vi avvenne dopo la morte del Conte sarebbe discorso troppo lungo. Usurai, creditori, rivendicatori calavano da ogni parte. I beni messi all’asta, le derrate sequestrate, i livelli ipotecati: fu un vero saccheggio. Il fattore se la svignò dopo aver abbrucciati i registri; restai io solo povero pulcino ad arrabbattarmi in quella matassa. Per soprassello le istruzioni mi mancavano affatto e da Venezia capitavano solamente continue ed affamate inchieste di danaro. I Frumier mi erano di pochissimo aiuto; e poi il padre Pendola credo ci soffiasse sotto contro di me, e mi guardavano allora piuttosto in cagnesco. Io peraltro risolsi di rispondere coi fatti: e sudai e lavorai e m’adoperai tanto, sempre col pensiero in testa di giovare alla Pisana e di esser utile a chi bene o male mi aveva allevato, che quando il contino Rinaldo capitò a prender le redini del governo, gli ottomila ducati di dote delle Contessine erano assicurati, i creditori pagati o acchetati, le entrate correvano libere, e i poderi, diminuiti di qualche appezzamento in qua ed in là, continuavano a formare un bel patrimonio. I guasti c’erano ancora pur troppo, ma di tal natura che davano tempo ad esser sanati. Peraltro io non fui l’ultimo a credere che per tal operazione un signorino di ventiquattr’anni uscito allora allora di collegio (la Contessa ve lo avrebbe lasciato fino a trenta senza la morte del marito) non era l’uomo più adatto. Basta! non sapeva che farci, e mi proposi solamente di tenerlo d’occhio per potergli giovare con qualche consiglio. Del resto mi ritirai nella cancelleria ove, sostenuti i miei esami, diventai poco dopo cancelliere in formis9.

Giulio Del Ponte, non potendo più reggere al tormento della lontananza, avea seguito la Pisana a Venezia. Io rimasi solo soletto a consolarmi del bene che aveva fatto, a farne ancora quanto poteva, a vivere di memorie, a sperar di meglio dal futuro, e a leggere di tanto in tanto i ricordi di Martino. Quella vita, se non felice, era tranquilla utile occupata. Io aveva la virtù di contentarmene.