CAPITOLO UNDECIMO
Come a Venezia si accorgessero che gli Stati della Serenissima facevano parte dell’Italia e del mondo – Mio ingresso nel Maggior Consiglio come patrizio veneziano al dì primo di Maggio 1797. Macchinazioni contro il governo fomentate dagli amici e dai nemici della patria. – Cade la Repubblica di San Marco come il gigante di Nabucco, ed io divento segretario della nuova Municipalità.
La prima persona che vidi e che abbracciai a Venezia fu la Pisana; la prima che mi parlò fu la signora Contessa la quale dal fondo dell’appartamento correndo verso di me s’affaccendava a gridarmi: – Bravo il mio Carlino, bravo!... Come ti vedo volentieri!... Su dunque, un bel bacione da vero nipote!... – Io passai di malissima voglia dai baci della Pisana a quelli della Contessa ancor più gialla e uncinata che per l’addietro. Ma anche in quel tumulto di affetti che mi turbava allora, rimase un buon cantuccio per la meraviglia d’un sì inusato accoglimento. Mi rassegnai a chiarirmene in seguito e intanto la Contessa mandò fuori la Rosa in cerca di mio padre. Questa missione della fida cameriera mi sorprese anche un poco, tanto più che essa, non più giovane ma sempre bisbetica com’era stata, vi si disponeva con assai borbottamenti. Tali incarichi appartenevano agli staffieri; e cominciai a dubitare che il seguito della Contessa non fosse molto numeroso. Infatti, stando lì ad aspettare, osservai nelle camere quello che non parrebbe possibile, un grandissimo disordine nella stessa nudità: polvere e ragnatele componevano gli addobbi; qualche mobile, qualche specchio infisso nel muro; poche seggiole sparute e tisicuzze qua e là; insomma la vera miseria abitante in un palazzo. Ma quello che distoglieva la mente da queste melanconie era l’aspetto della Pisana. Più bella più fresca più gioconda io non l’aveva veduta mai; e tale ella sapeva di essere, benché con mille vezzi imparati novellamente a Venezia cercasse di offuscare lo splendor di quei pregi. Ma fosse dono di natura, o cecità mia, perfino gli artifizii prendevano nelle sue fattezze un incanto di leggiadria. Peraltro la ritrovai ancor più taciturna e meno espansiva del solito; la mi guardava a tratti coll’anima negli occhi, indi chinava gli sguardi arrossendo, e le mie parole sembravano dilettarle voluttuosamente l’orecchio senzaché colla mente arrivasse a comprenderle. A tutto ciò io badava mentre la Contessa zia mi annegava in un subisso di chiacchere, ed io non ne capiva un iota; soltanto mi ferì spesse volte il nome di mio padre, e mi parve accorgermi ch’ella pure fosse molto lieta del suo inaspettato e miracoloso ritorno.
– E non torna mai quella sciocca di Rosa – borbottava la signora. – Io non ho voluto che ci andassi tu, perché voglio proprio ridonartelo io il tuo papà, ed esser presente alla gioia del vostro riconoscimento. Oh che buon papà che hai, il mio Carlino...
Mi parve che a quelle parole la Pisana arrossasse più del solito, e fosse turbata dagli sguardi ch’io teneva fermi continuamente in lei. Finalmente tornò la Rosa a dire che il mio signor padre finito un affare in piazza sarebbe stato da noi, e allora io volli ancora uscire in traccia di lui per anticiparmi la gioia di quel soave momento, ma la Contessa mi sforzò tanto che dovetti rimanere. Un’ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d’una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito entrò saltabeccando nell’anticamera. Io gli era corso incontro fin là; la Contessa, venutami dietro, si pose a gridare: – Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! – Io infatti mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né molto affettuoso né troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava mi fossi nicchiato in un così oscuro bugigattolo come era una cancelleria di campagna, e mi promise, che inscritto che io fossi come suo legittimo figliuolo nel Libro d’Oro1, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell’accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per corroborar l’argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinno di zecchini e di doble2. Ad ognuno di questi accordi metallici il viso giallognolo della Contessa s’irraggiava d’un roseo riflesso, come il cielo scuriccio d’un temporale all’occhiata di traverso che gli manda il sole. Io poi ascoltava e guardava quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia, colla ricchezza in una mano, la potenza nell’altra, e una larghissima dose di canzonatura in tutte le sue maniere, mi faceva un effetto maraviglioso. Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po’ sanguigni un po’ loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d’oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po’ autorevoli un po’ marinareschi che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo più arabo che veneziano. Si vedeva un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa più caso di nulla, che crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per lungo tempo alla speranza d’una futura commodità, trova tutto agiato tutto commodo perché tutto mena all’ugual fine. Così i mezzi sono alle volte scuola ed esercizio a disprezzar il fine. ln tal modo almeno io giudicai mio padre; e confesso sinceramente che mi misi intorno a lui fin dapprincipio con maggior curiosità che amore. Mi pareva che tali dovessero essere stati que’ vecchi mercatanti veneziani della Tana3 o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchere e d’attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costantinopoli, cristiani a San Marco, e mercanti dovunque, aveano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d’allora. Perfino una certa barbetta rada grigia e stizzosa accostava la fisonomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l’indomani. Tuttociò senza alcun pregiudizio della paterna autorità.
Intrattenutici un pochino, con molte interiezioni di cordialità e di maraviglia della signora Contessa, e qualche sospiro represso della Pisana, il signor padre m’invitò ad uscire con essolui; e mi menò infatti a San Zaccaria dove aveva preso alloggio in una bella casa, e addobbatala quasi alla turchesca con tappeti divani e pipe a bizzeffe. Vi si desideravano le tavole, e qualche forziere da riporre le robe, ma vi era per compenso un gran numero di armadii donde si cavava come per incanto ogni cosa che si potesse desiderare. Una mulatta scurissima di oltre a quarant’anni ammanniva il caffè da mane a sera, e tra lei e il padrone se l’intendevano a cenni e a monosillabi, che era un trastullo a vederli; non credo che parlassero nessuna lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli favellassero come loro nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre corni, sì tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si fece versare il caffè, e volle che sedessi come lui incroccicchiando le gambe sopra un tappeto. Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio occupato a compitare il galateo di Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie di avergli essa lasciato una sì bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie procacciategli col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva un occhio sopra alcuni rancidi sospetti che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre Venezia; finì col confessare che io gli somigliava, massime negli occhi e nell’apertura delle narici; tanto bastava per ricongiungerlo d’un affetto immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo ringraziai a mia volta di così benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva la mia educazione, per la condizione di orfano nella quale era vissuto; non volli aprirgli gli occhi sulla maniera poco onorevole della protezione accordatami dagli zii fino alla sua venuta; e col mio modesto contegno m’accapparrai, credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi osservava colla coda dell’occhio, e quanto sembrava poco attento alle parole, tanto notava in me tutti gli altri segni dai quali per lunga esperienza aveva imparato a conoscere gli uomini.
Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno così dovetti inferire dal maggior affetto dimostratomi in seguito. Indi volle ch’io gli narrassi della contessina Clara, come si era fatta monaca; e mi nominò sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la famiglia di Fratta non si tenesse onorata di imparentarsi con essolui. L’ugualità mussulmana temperava in lui l’aristocrazia naturale; almeno lo credetti, e più mi confermai in questa opinione, quand’egli tirò innanzi beffandosi dell’illustrissimo Partistagno che voleva tener indietro il secolo collo spadone di suo nonno. Io mi stupii di trovar mio padre istruito al pari di me in cotali faccende e che egli ne chiedesse contezza agli altri dove tanta ne aveva lui. Peraltro le cose val meglio saperle da due bocche che da una; ed egli si regolava giusta il sapiente dettato di questo proverbio. Mi parlò poi così in via di discorso della Pisana, e dei gran corteggiatori che aveva a Venezia, e del suo torto marcio di non appigliarsi al più ricco per ristorarne la dignità della casa e la fortuna della mamma. – Ahi, ahi!; pensai fra me; ecco l’aristocrazia che rigermoglia! – Giulio Del-Ponte sopratutto gli pareva, per usar la sua frase, un saltamartino4. La Pisana adoperava male a non torselo d’infra i piedi, che l’era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di melanconia. Le belle ragazze devono badare ai bei giovani, e quei mezzi omicciattoli in Levante si mandano a vender bagiggi5 per le contrade. Io mi scaldava tutto a questi aforismi del signor padre; e quasi sarei stato lì per fargli una confessione generale. Non mi tratteneva più la compassione per Giulio, ma una certa vergogna di mostrarmi ragazzo e innamorato ad un uomo così esperto e ragionatore. Egli continuava a codiarmi6, e intanto narrava le dilapidazioni della Contessa, e la ruinosa indifferenza del conte Rinaldo che si perdeva a far lunarii nelle biblioteche mentre la bassetta e il faraone strappavano di mano a sua madre le ultime razzolature del loro scrigno. Mi confessò con maligna compiacenza che la Contessa avea cercato di sentir il peso delle sue doble, ma che non avea potuto vederne neppur il colore; e in questo batteva la mano al taschino sulla solita sonagliera di monete. Tale guardinga taccagneria non mi andò a’ versi affatto, e son quasi certo ch’egli se ne avvide. Ma non usò per questo la cortesia di cambiar registro, anzi vi ribadì sopra come uomo incapato nella propria opinione, che il danaro sia la cosa meglio apprezzata ed apprezzabile. Io invece dei pochi ducati che aveva in tasca ne avrei dato la metà al primo accattone che me li chiedesse; e forse la pensava così perché ne aveva sempre avuti pochi. La povertà mi fu maestra di generosità; ed i suoi precetti mi giovarono anche quando io non l’ebbi più per aia e per compagna. Peraltro ebbi campo indi a poco a rilevare che mio padre non era uno spilorcio. Egli mi trasse quel giorno alle migliori botteghe, perché vi provvedessi da raffazzonarmi come il più compito damerino di San Marco. Indi mi condusse alla mia stanza che aveva una porta libera sulla scala, e mi lasciò colla promessa ch’egli avrebbe fatto di me il secondo capostipite della famiglia Altoviti.
– I nostri antenati furono tra i fondatori di Venezia: – mi diss’egli prima di partire – venivano da Aquileia ed erano Romani della stirpe Metella. Ora che Venezia tende a rifarsi, bisogna che un Altovito ci ponga le mani. Lascia fare a me!
Il signor padre sbruffava in tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello; ma le doble levantine s’adoperarono tanto che il mio diritto all’iscrizione nel Libro d’Oro fu riconosciuto immantinente, ed io comparvi per la prima volta come patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797. Quanto a lui, egli non voleva immischiarsene; pareva non si tenesse degno di porsi in cima al rinnovamento del casato e che stesse contento di fornirmene i mezzi. Quei pochi giorni vissuti signorilmente a Venezia, e per mezzo della Contessa di Fratta e degli Eccellentissimi Frumier nelle migliori conversazioni, mi avevano fruttato una fama straordinaria. Non era spiacevole di figura, le mie maniere si stoglievano un poco dalle solite leziosaggini, la coltura non mancava affatto ma non soffocava neppure colle pedanterie quel modesto brio concessomi da natura; più di tutto poi credo che la voce di dovizioso mi accreditasse come ottimo partito presso tutte le zitelle, o presso le madri che ne avevano. Carlino di qua, Carlino di là, tutti mi chiamavano, tutti mi volevano. Anche qualche sposina non fece la disdegnosa; e insomma io non ebbi che a scegliere fra molte maniere di felicità. Per allora non ne scelsi alcuna, e la novità mi occupò talmente, che perfin la Pisana non mi dava più da pensare una volta ch’io l’avessi fuori degli occhi. Ella forse se ne stizziva; ma per essere in una fase di superbia non si degnava di mostrarlo, e soltanto si accontentava di sfogar quella stizza contro il povero Giulio. Mi ricorda che a quel tempo lo vidi parecchie volte, e sarei anche tornato ad averne compassione, se le mie occupazioni me ne porgevano il tempo nulla nulla. Il povero giovine stava sempre fra la vita e la morte e dàlli una volta e dàlli due s’era ridotto a tale che ad ogni mosca che ronzasse intorno alla Pisana sdilinquiva di paura.
Intanto le cose d’Italia si stravolgevano sempre più. Già da più che sei mesi Modena Bologna e Ferrara aveano dato l’esempio d’una servile imitazione di Francia dietro eccitamento francese: avevano improvvisato, come una bolla di sapone, la Repubblica Cispadana. Carlo Emanuele succedeva a Vittorio Amedeo nel regno di Sardegna già occupato e ridotto in provincia militare francese. Tutta Italia s’insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte ed egli ingannava questi sbeffeggiava quelli con alleanze con lusinghe con mezzi termini. Gli Stati veneziani di terraferma da lui astutamente stuzzicati si levavano a romore contro lo stendardo del Leone: sorgevano per tutto alberi della libertà; egli solo sapeva con quanta radice. E fu un momento ch’egli dubitò della propria fortuna pel gran nugolo di nemici che aveva dinanzi a combattere, per la grande distanza di provincie non tanto fedeli né pienamente illuse che lo divideva da Francia; ma rifiutatigli i proposti negoziati, buttò via ogni timore e andò fino a Leoben ad imporre all’Austria i preliminari di pace. La Serenissima Signoria aveva veduto passarsi dinanzi quel turbine di guerra, come l’agonizzante che travede nell’annebbiata fantasia lo Spettro della morte. Altro non avea fatto che avvilirsi, pazientare, pregare e supplicare, dinanzi al nemico prepotente che la schiacciava oncia ad oncia, disonorandola cogli inganni e col vitupero. Francesco Battaja, Provveditore straordinario in terraferma, fu l’interprete più degno di cotali vilissimi sensi di servitù; e infamò peggiormente la sua codarda obbedienza coll’inobbedienza e col tradimento più codardi ancora. Alle umilianti proteste contro l’invasione delle città, l’occupazione dei castelli e delle fortezze, il sollevamento delle popolazioni, lo spoglio delle pubbliche casse, e la devastazione universale Buonaparte rispondeva con beffarde proposte d’alleanza, con ironici lamenti, e con domande di tributi. Il Procuratore Francesco Pesaro e Giambattista Corner, Savio di terraferma, si erano abboccati con lui a Gorizia per protestare contro la parte presa da officiali francesi nelle rivoluzioni di Brescia e di Bergamo, nonché contro le piraterie degli armatori francesi negli intimi recessi del golfo. Ne ebbero tale risposta che, sulla chiusa del loro rapporto, i due inviati non esitarono ad affermare che soltanto dalla divina assistenza bisognava sperare alla loro negoziazione quell’esito che dalle durissime circostanze non era permesso in alcun modo di attendere. Francesco Pesaro ebbe animo retto e chiara antiveggenza; ma gli mancavano la costanza e l’entusiasmo, come mostrò dappoi; per questo né fu capace salvar la Repubblica né di imprimere alla sua caduta un suggello di grandezza.
I turbolenti intanto romoreggiavano; i paurosi davano ansa al partito, e fu veduto nel Maggior Consiglio lo strano caso che la filosofia e la paura votassero contro la stabilità ed il coraggio. Ma la vera filosofia a quei giorni avrebbe dovuto consigliare di cercar la salute nella propria dignità, non di chiederla in ginocchione alla sapienza politica d’un condottiero. Io per me fui degli illusi, e me ne pento e me ne dolgo; ma operava a fin di bene, e d’altra parte l’amicizia di Amilcare ancora prigione, Lucilio intrinseco affatto dell’ambasciatore francese, e mio padre più di tutti fiducioso nel prossimo rinnovamento di Venezia, mi spingevano per quella via. O terribile insegnamento! Ripudiare schernire le virtù antiche senza prima essersi ricinti il cuore colle nuove, e implorare la libertà col lievito della servitù già gonfio nell’animo! Vi sono diritti che sol meritati possono chiamarsi tali; la libertà non si domanda ma si vuole: a chi la domanda vilmente è giusto rispondere cogli sputi: e Buonaparte aveva ragione e Venezia torto. Soltanto anche un eroe che ha ragione può esser codardo nei modi di farsela. Il partito democratico, che allora poteva chiamarsi ed era infatti francese, non predominava forse a Venezia per numero; sibbene per gagliardia d’animo, per forza d’azione, e sopratutto per potenza d’aiuti. I contrarii non formavano partito; ma un volume inerte di viltà e d’impotenza, che dalla grandezza non riceveva nessun accrescimento di forza. I nervi ubbidiscono all’anima, le braccia all’idea, e dove non vi sono né idee né anima o intorpidisce il letargo o la vita stultizza7. I perrucconi veneziani erano nel primo caso. La Legazione francese non il Senato né il Collegio dei Savii governava allora. Essa sotto l’occhio stesso e a marcio dispetto dell’Inquisizione preparava i fili della trama che dovea precipitare dal trono la sfibrata aristocrazia; e buona parte della gente di lettere e di garbo le dava mano in cotali macchinazioni. I Piombi ed i Pozzi8 erano vani spauracchi; un monitorio dell’ambasciatore Lallement spalancava ai rei di Stato quelle porte che non si riaprivano di solito che ai condannati del capo o ai cadaveri. Il dottor Lucilio si facea notare per la sua fervorosa devozione alla causa dei Francesi; e forse l’addentellato a questo zelo virile si trovava da lungo tempo disposto nelle misteriose turbolenze della sua gioventù. Si sa già ch’egli era, come allora si diceva, filosofo; e tra i filosofi principalmente si cernevano i caporioni delle società secrete, che serpeggiavano fm d’allora cupe e corrosive sorto la vernice crepolante della vecchia società. Ad ogni modo nel suo apostolato liberalesco ei ci metteva tutto il calore tutta l’accortezza di cui era capace; e i patrizii che lo incontravano in piazza tremavano, come i peccatori alla notturna apparizione d’un demonio. Gli è vero che se uno d’essi ammalava, non era restio dal ricorrere a questo demonio, perché trovasse il bandolo di guarirlo. Allora il celebre medico tastava quei polsi, guardava quelle faccie con un certo ghigno che lo vendicava dell’odio sofferto. Pareva che dicesse: Io vi disprezzo tanto che voglio anche guarirvi, e so che mi siete nemici, ma non me ne cale.
Le signore dimostravano a Lucilio quel rispetto timido e vergognoso che pare uno stregamento, e suole ad una sola occhiata ad un sol cenno trasformarsi più che in amore in venerazione ed in servitù. Dicevano ch’egli fosse maestro nell’arte di Mesmer, e ne contavano miracoli; certo peraltro di quel suo potere egli usava assai parcamente. E non vi fu donna che potesse dire di aver raccolto da’ suoi occhi il lampo d’un desiderio. Serbava l’indipendenza la castità il mistero del mago; ed io solo conosceva forse il segreto di tale sua ritenutezza, poiché i costumi d’allora e più la sua fama di gran medico, di gran filosofo non consentivano il sospetto d’un amore che lo preoccupasse tutto. Eppur era; e ve lo posso dir io; e quell’amore, allargatosi in un’anima capace come la sua, pigliava oggimai la forza e la grandezza d’una passione irresistibile. Direte voi, ch’egli avea lasciato tranquilla la Clara presso sua madre, che non s’era sbizzarito nel darle la scalata al balcone, o nel cantarle la serenata dalla gondola, che l’avea lasciata entrare in convento e che so io. Ma l’amor suo non apparteneva ai comuni: egli non voleva rapire ma ottenere: sicuro della Clara e ch’essa lo avrebbe aspettato un secolo senza piegare e senza disperarsi, egli agognava e maturava con ogni fervore d’opere e di sacrificii il momento quando lo avrebbero pregato di prendersela, tenendosi onorati del suo parentado. L’amore e la religione politica s’erano confusi in un solo sentimento tanto vivace tanto potente tanto ostinato quanto possono esserlo tutte le forze d’un’indole così robusta, strette ed attortigliate in un sol fascio. Quand’egli si abbatteva nel viso adunco e orgoglioso della Contessa, o nella faccia nebbiosa slavata aristocratica del conte Rinaldo, o in quei visetti mobili graziosi sdolcinati di casa Frumier, egli sorrideva di sottecchi. Sentiva che era prossimo a diventar il padrone lui, e allora avrebbe potuto intimare a quei vanerelli i patti qualunque da lui stimati convenevoli. La loro pieghevole natura e la facilità degli spaventi lo assicuravano dal timore d’un’importuna opposizione. Ma la Contessa dal canto suo non si stava colle mani alla cintola; essa conosceva Lucilio più forse ch’egli non credesse, e le mura d’un monastero le sembravano debole riparo contro la sua temerità. Perciò aveva raccomandato particolarmente la figliuola a una certa madre Redenta Navagera che era la più gran santa e astuta monaca del convento, perché con altri argomenti le afforzasse l’anima contro le tentazioni del demonio. Infatti costei ci si mise di gran lena e non dirò che a quel tempo fosse ita molto innanzi, ma avea fatto già uscire del capo alla Clara se non Lucilio certo tutte le altre cose del mondo. Non era poco; molti fili erano tagliati; restava il capo grosso, la gomena maestra, ma scuoti sega e risega non disperava di recidere anche quella, e di ridurre quella diletta animina al beato isolamento dell’estasi claustrale. La Clara per mezzo d’una servigiale9 del monastero riceveva qualche notizia di Lucilio; ma ciò succedeva di raro e negli intervalli chiedeva conforto alle reminiscenze ed alla devozione.
Ma la divozione spostò appoco appoco le reminiscenze, massime quando il confessore e la madre Redenta la ebbero persuasa a non divagar troppo in immagini mondane, e ad abbondar nella preghiera, allora che se ne avea tanto bisogno per gli urgenti pericoli della Repubblica e della Religione. Per quelle monache, quasi tutte patrizie, Repubblica di San Marco e Religione cristiana formavano un solo impasto; e a udirle parlare delle cose di Francia e dei Francesi sarebbe stato il gusto più matto del mondo. Nominar Parigi o l’inferno era per esse l’egual cosa; e le più vecchie tremavano di raccapriccio pensando le orrende cose che avrebbero potuto commettere quei diavoli incarnati una volta entrati in Venezia. Le più giovani dicevano: – Non bisogna spaventarsi, Iddio ci aiuterà! – E taluna fors’anco che avea fatto i voti per ubbidienza o per distrazione sperava di abbisognare quandocchesia di questo soccorso divino. Qui non è il caso di dire che sarebbe stato il soccorso di Pisa; ma ad ogni modo chi non ebbe una decisa vocazione, non è poi obbligata a cercare e ad adorare la necessità di fingere d’averla avuta. La Clara più sincera e meno bigotta si scandolezzava di queste mezze eresie. Quanto ai Francesi ella stava colle vecchie, massime dopo l’orrenda tragedia della nonna, che sebbene contata a lei con tutti i debiti riguardi, pure l’aveva fatta piangere lunghi giorni e lunghissime notti. Ella li credeva con tutta buona fede eretici, bestiali, indemoniati; e nelle litanie dei Santi, dopo aver pregato il Signore per l’allontanamento di ogni male, lo supplicava mentalmente di liberar Venezia dai Francesi che le sembravano il male più grosso.
Per Venezia infatti se non il più grosso erano certo il male più nuovo ed imminente. Le altre disgrazie già incancrenite non davano più sentore di sé. Quella era la piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluir al cuore gli umori guasti, e stagnanti. Ogni giorno recava l’annunzio d’una nuova defezione, d’un nuovo tradimento, di un’altra ribellione. Il Doge si scomponeva il corno10 sul capo anche nelle grandi cerimonie; i Savii perdevano la testa e commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche portiere i segreti del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Buonaparte per una lunga trafila d’amici, di cui il primo capo era un banchiere francese stabilito a Venezia e pagato perciò, credo, alcune migliaia di ducati. Figuratevi che puntelli da sostenere un governo pericolante! – La storia della Repubblica di Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d’inverno; una tragedia non basta ad occupare le ore troppo lunghe; ci vuole dopo la farsa. E la farsa ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d’opinione, ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di quei perrucconi senza cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli, a tutti i potenti ridotti inetti che s’hanno subito addosso le maledizioni il danno e le beffe. I libelli, i versacci, le cantafere11 che andarono attorno a quel tempo servirono lunga pezza dappoi a incartocciar sardelle; ma sembra impossibile il merito che allor si faceva agli autori di quelle sconcie e vili parodie. Giulio Del Ponte, letteratuzzo sparvierato12 non gli parve vero d’impiegar il proprio ingegno a sì alta usura e si mescolò per bene in tali pettegolezzi. Egli godeva di vedersi segnato a dito; e bisogna anche dire che le sue composizioni si stoglievano dalle solite; e taluna non mancava né di forza né di brio né quasi anche d’opportunità. La Pisana, nel vederlo tanto stimato e temuto, gli concedeva qualche d’una delle sue occhiate d’una volta, e a merito di queste egli sfidava gli atti villani, e perfino i rabbuffi della Contessa. Io poi, anch’io le era andato in uggia alla signora zia pei miei grilli democratici, ma le doble del signor padre me la tenevano buona; e spesso ella lavorava di gomito nelle coste alla figliuola perché mi usasse maggior cortesia. Queste gomitate e il mio svagamento continuo davano la stizza alla Pisana, e la allontanavano col pensiero da me: rimaneva però sempre qualche sguardo fuggitivo qualche subito rossore, che ad osservarlo come andava osservato, m’avrebbe potuto lusingare. Giulio Del Ponte se ne accorgeva e ne diventava giallo di bile; ma cercava un compenso nella vanità, e correva a’ suoi amici che lo incensavano mattina e sera come il Persio e il Giovenale o l’Aristofane del suo tempo. Soltanto il dottor Lucilio, benché simile d’opinioni, gli avea parlato chiaro dimostrandogli il pericolo di infervorarsi a un alto ministero civile non già per salda persuasione e per istudio del pubblico bene, ma per frivolezza e per albagia.
– Che ne sapete voi? – gli rispondeva Giulio. – Posso ben avere anch’io come pretendete averla voi la vera virtù del cittadino!... Devo proprio prendere a prestito tutte le idee dall’orgoglio e dall’irrequietudine?...
Lucilio squassava il capo vedendo quel cervellino gonfio di boria sfarfallare in tali gradassate; ma forse impietosiva entro sé a tante belle doti già appassite in una persona esile e diroccata. Il dottore ci vedeva a doppio nell’anima e nel corpo. Lì in Giulio egli ebbe tantosto indovinato i segni d’una passione, ed erano segni fatali; di più s’accorgeva che la calma di quella passione non bastava a cancellarli; e perciò guai per lui s’ella risorgesse mai con tutta la sua misera violenza! – ll giovinotto invece non badava a tali paure: ormai persuaso di valer qualche cosa, se la Pisana lo disdegnava egli s’arrischiava a punirla con un’ombra d’indifferenza. Poco dopo se ne pentiva, perché la banderuola era pronta a piegar altrove; e raddoppiava allora di premura e di brio per rendersele desiderabile e gradito. E sopratutto in mio confronto egli s’affaccendava a primeggiare, perché nelle maniere usate dalla Pisana verso di me aveva fiutato una vogliuzza non mai sazia, una rimembranza non ancora spenta d’amore. Io non mi rassegnava tanto facilmente a sparir dietro lui, massime dopo le belle accoglienze ch’era usato a ricevere per tutta Venezia. E a poco a poco ne nacque un astio, una inimicizia scambievole che scoppiò molte volte perfino dinanzi alla Pisana stessa in rimbrotti e in improperi. Giulio cominciò a tacciarmi di aristocratico e di sammarchino; io presi dal canto mio a trascendere nei sentimenti di libertà e d’eguaglianza; la Pisana in tali dispute si scaldava anch’ella, e in breve ella diventò, al pari di noi, la più sfrenata e incorregibile libertina13. Credo che simili contese nelle quali tutti andavamo d’accordo e ognuno anzi non faceva che correr innanzi al compagno nei disegni e nelle speranze, non possano rinnovarsi così di leggieri. I Francesi erano il tema prediletto de’ nostri discorsi; e senza di essi non vedevamo salute. Giulio li cantava in versi, io li invocava in prosa; la Pisana ne sognava fuori tanti paladini della libertà colla fiamma dell’eroismo accesa sulla fronte. E sì che giorni prima, praticando nel convento di sua sorella, essa era giunta a vincer le monache nel loro odio contro di essi.
Un giorno capitò la notizia dell’entrata dei Francesi in Verona, creduta fino allora la città più restia a far novità. I villici armati s’eran dispersi, le truppe raccolte per ridurre Bergamo e Brescia ritirate a Padova e a Vicenza. Fu una gran baldoria pei fautori di Francia. Alcuni giorni dopo succede lo spavento delle tremende Pasque Veronesi con tutte le atrocità sopra i Francesi che le contaminarono. Giungono le furiose proteste di Bonaparte, e l’intimazione di guerra in tutta regola. Senatori, Savii, Consiglieri, e tutti cominciano a credere che quello che ha durato molto possa anche finire; essi di buon accordo si danno attorno per provvedere di viveri la Serenissima Dominante; quanto alla difesa ci pensano poco, perché a dirla chiara nessuno ci crede. Finalmente il generale Baraguay d’Hilliers cinge col suo campo l’estuario; le comunicazioni sono intercettate; Donà e Zustinian, inviati al general Bonaparte, svelano le intenzioni di questo che una nuova forma più libera e più larga sia introdotta nel governo della Repubblica. Egli impone di più che l’Ammiraglio del Porto e gli Inquisitori di Stato siano consegnati nelle sue mani, come colpevoli di atti ostili contro una nave francese che voleva sforzare l’ingresso del Porto di Lido. I signori Savii capirono l’avvertimento e si disposero umilmente a servire il generale di barba e di perucca, come si dice a Venezia. Parve a loro che le deliberazioni del Maggior Consiglio fossero troppo lente alla stretta del bisogno, e improvvisarono una specie di Magistratura funeraria, un Collegio di becchini per la moribonda Repubblica, il quale si componeva di tutte le cariche componenti la Signoria, dei Savii di Consiglio, dei tre Capi del Consiglio di Dieci e dei tre Avogadori di Comune; in tutto quarantuna persona, e il Serenissimo Doge a capo, col titolo comodissimo di Conferenza. Intanto si ciarlava per Venezia sedicimila congiurati coi loro pugnali fossero già appostati in città per rinnovare su tutti i nobili la strage degli innocenti. Figurarsi che conforto per la Conferenza! – Mi ricordo che con modi da furbo io domandai Lucilio di quello ch’egli credesse esservi di vero in quella voce, e che il dottore mi rispose squassando le spalle:
– Oh, Carlino mio! credete che siano pazzi i Francesi ad assoldare sedicimila congiurati reali, mentre facendoli balenare affatto immaginarii si ottiene lo stesso effetto?... Credetemi che in tuttociò non c’è di vero la punta d’un chiodo, eppur sarà come fosse vero, perché questi patrizii non è necessario ammazzarli! Sono già belli e morti!
La Conferenza si radunò per la prima volta la sera del trenta aprile nelle camere private del Doge. Questi spifferò un esordio che principiava: La gravità e l’angustia delle presenti circostanze, ma le sciocchezze che vi si dissero poi se designarono bassamente l’angustia non corrisposero affatto all’accennata gravità delle circostanze. Si tornò a proporre di toccar il cuore del general Bonaparte per mezzo di certo Haller suo amicissimo. E il cavalier Dolfin fu ritrovatore d’un sì decisivo consiglio. Il Procuratore Antonio Cappello, da me conosciuto in casa Frumier, si levò a deriderne la puerilità; e con lui si strinse il Pesaro per far deliberare sulla costanza nella difesa e nulla più. Infatti le intenzioni dei Francesi non avean oggimai bisogno d’esser chiarite, ed era inutile illudersi con vane chimere. Ma i Savii adoperarono in modo che si perdesse il filo di questo discorso; quando sul più bello giunse al Savio di Settimana un piego dell’Ammiraglio Tommaso Condulmer, che riferiva l’avanzarsi dei Francesi sulla laguna coll’aiuto di botti galleggianti. La costernazione fu subitanea e quasi generale; alcuni cercavano cavarsela, altri proponevano si trattasse, o meglio si offrisse la resa. Fu in quella circostanza che il Serenissimo Doge Lodovico Manin, passeggiando su e giù per la stanza14 e tirandosi le brachesse sul ventre, pronunciò quelle memorabili parole: Sta notte no semo sicuri gnanca nel nostro letto. Il Procurator Cappello mi assicurava che la maggior parte dei consiglieri uguagliava Sua Serenità in altezza d’anima ed in coraggio. Fu deciso a rompicollo che si proporrebbe al Maggior Consiglio la parte, per cui ai due deputati fosse concesso di trattare col Buonaparte sui cambiamenti nella forma del governo. Il Pesaro indignato di sì vigliacca deliberazione proruppe colle lagrime agli occhi in parole di compassione sulla rovina della patria, già sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi, e credo che l’andasse per le poste a Vienna. Davvero che a me non basta l’animo di palliare per un misero orgoglio nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e severo insegnamento. Siate uomini se volete esser cittadini; credete alla virtù vostra se ne avete; non all’altrui che vi può mancare, non all’indulgenza o alla giustizia d’un vincitore, che non ha più freno di paure e di leggi.
Il primo maggio colla mia toga e la mia perrucca io entrai nel Maggior Consiglio a braccetto del nobiluomo Agostino Frumier secondogenito del Senatore. Il primo apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunela con noi. Quel giorno il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti senza il quale, per legge, nessuna deliberazione era valida. I vecchi erano pallidi non di dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero e contento; ma molti sapevano dentro a sé di esser costretti a darsi la zappa sui piedi, e quell’allegria non era sincera. Si lesse il decreto che dava facoltà ai negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva a Bonaparte la liberazione di tutti gli arrestati politici dal primo ingresso delle armate francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l’influenza del dottor Lucilio, pensai ad Amilcare, e fui forse il solo che ne gioisse non indecorosamente. Del resto era un capo d’oca a non intendere la vigliaccheria di quella promessa, e a trovarla giusta per un sentimento affatto privato. Il decreto fu approvato con soli sette voti contrarii; altri quattordici ne furono di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né rigettavano la proposta ma ne negavano la presente opportunità. E appena esso fu noto in piazza, subito i favoreggiatori dei Francesi, che vi tumultuavano, corsero con gran impeto alle carceri. Coi buoni uscirono i galeotti, coi fanatici i tristi, e la favola dei sedicimila congiurati ottenne maggior fede di prima. I patrizii credettero aver dato prova di sommo coraggio col non deliberare sulla consegna richiesta dell’Ammiraglio del Lido e dei tre Inquisitori. Ma ecco che il general Buonaparte torna da capo col dichiarare al Donà e al Zustinian che non gli accoglierà come inviati del Maggior Consiglio se prima quei quattro magistrati non siano imprigionati e puniti. L’umilissimo Maggior Consiglio si inchinò un’altra volta non più con cinquecento ma con settecento voti: e il Capitano del Porto e i tre inquisitori furono carcerati quel giorno stesso per lo strano delitto di aver ubbidito meno infedelmente degli altri alle leggi della patria. Francesco Battaja, il traditore, fu tra gli Avogadori di Comune incaricati dell’esecuzione di quel sacrilego decreto. Ma questo non bastava né all’impazienza dei novatori né alla spaventata condiscendenza dei nobili. La solita Conferenza ammanì un altro decreto nel quale veniva ordinato al Condulmer di non resistere colla forza alle operazioni militari dei Francesi, ma soltanto di persuaderli a non entrare nella Serenissima Dominante, finché si avesse il tempo di allontanar gli Schiavoni a scanso di spiacevoli conseguenze... Volevano tosarsi perfino le unghie per non dare in isbaglio qualche graffiatura a chi si apprestava a soffocarli. Se questa non fu mansuetudine meravigliosa anzi unica al mondo, io sfido i pecori ad inventarne una migliore. Mio padre era proprio tornato da Turchia a tempo, per far me poverello partecipe senza saperlo di tali codarde castronerie. E d’altra parte cosa valeva il sapere? Il dottor Lucilio fu invischiato peggio di me in quella brutta pece. Guai anche ai sapienti cui non corrisponde la virtù dei contemporanei: sorretti dalla confidenza nelle proprie dottrine essi salgono facilmente ad abitare le nuvole: e se non disperano prima per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d’esperienza. Amilcare intanto era uscito di prigione e secolui avevamo rappiccato l’antica amicizia; un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del mondo, e fin lì forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li credeva i liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse a infervorare e persuadere maggiormente anche me: poiché il suo ardore non era chiuso come quello di Lucilio ma tendeva a dilatarsi con tutta l’espansione della gioventù. Insieme ad Amilcare indovinate mo’ chi fu liberato dagli artigli dell’Inquisizione? – Il signor di Venchieredo. Non ve l’aspettavate forse, perché il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo che o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire. Il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d’Anfo egli era corso a Milano dove era allora la stanza del general Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica Veneta.
Una sera (già si correva precipitosamente all’abisso del dodici maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grandi cose a comunicarmi, e che stessi bene attento e ponderassi tutto perché dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia.
– Domani – egli mi disse – si compirà la rivoluzione a Venezia.
Io diedi uno strabalzo di sorpresa, perché colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio e i negoziati pendenti ancora a Milano non mi entrava quel bisogno di rivoluzione.
– Sì, – egli riprese – non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito di tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via perché non ti perda poi nel momento decisivo. Sai tu, figliuol mio, cosa voglia dire una repubblica democratica?
– Oh certo! – io sclamai coll’ingenuo entusiasmo d’un giovane di ventiquattr’anni. – Essa è la concordia della giustizia ideale colla vita pratica, è il regno non di questo o di quell’uomo ma del pensiero libero e collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente ha diritto di governare e governerà bene. Ecco il suo motto.
– Va bene, va bene Carlino – riprese biasciando mio padre. – Questo sarà un bel concetto scientifico e mettilo da una banda perché il signor Giulio se ne faccia bello in qualche canzonetta. Ma un governo di tutti, cercato da pochi, imposto da pochissimi, e creato da un generale còrso; un governo libero di gente che non vuole e non può esser libera, sai tu qual piega sia disposto a prendere?
Io mi guardai intorno confuso perché in tali materie usava far i conti senza pensare agli uomini; e sommava e moltiplicava, e divideva come se tutto fosse oro, ma alla fine invece di trovarmi innanzi una somma netta e liquida di zecchini, poteva darsi benissimo che rimanessi con un ciarpame di soldacci e di quattrinelli. Io, come dissi, non ci pensava, e perciò mi confusi affatto alla domanda di mio padre.
– Ascolta – continuò egli col fare paziente del maestro che riprende l’insegnamento dal bel principio. – Queste cose che tu abbellisci di sogni e di illusioni, io le ho prevedute da anni, tali quali devono essere. Non capisco per verità né pretendo capire a fondo le tue immaginazioni, ma ci veggo per entro una buona dose di gioventù e d’inesperienza. Se fosti stato per qualche tempo alle prese con un bascià o col gran visir, credo che sputeresti meno filosofia, ma ci vedresti meglio e più da lontano. La grossaccia furberia dei Mamelucchi ci insegna a conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che l’ho provato. E non l’ho provato per nulla, giacché lavorava al mio buon fine, ed ora sarei in ballo io, se tornando a Venezia non mi fosse risovvenuto di te. Figurati che allora ho pensato: Per Allah, che la Provvidenza ti manda la palla in buon punto! Tu eri vecchio ed essa ti ringiovanisce di quarant’anni con un giochetto di mano. Coraggio, Bey. Cedi il posto al cavallo più giovane e giungerete prima! In poche parole, Carlino, io ti ho preso per mio figlio certo e legittimo, e ho voluto cederti anche prima di morire l’eredità delle mie speranze. Sarai tu tale da raccoglierla?... Ecco quello che si vedrà in breve.
– Parlate, padre mio – soggiunsi io vedendo prolungarsi la pausa dopo quella gran chiaccherata mezzo maomettana.
– Parlare, parlare!... non è tanto facile quanto credi. Son cose da capirsi al volo. Ma pure, veduta la tua ignoranza, guarderò di spiegarmi meglio. Sappi dunque che io ho qualche merito con questi signorini infranciosati e cogli stessi Francesi che reggono ora le cose d’Italia. Meriti arcani, lontanetti se vuoi, ma pur sempre meriti. Di più mi fanno corona alcuni milioni di piastre che non corteggiano male coi loro raggi brillantati il fuoco centrale della mia gloria. Carlino, io ti cedo tutto, io dono tutto a te, purché tu mi assicuri un divano, una pipa, e dieci tazzine di caffè il giorno. Ti cedo tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Cosa vuoi? È la mia idea fissa! Aver un Doge in famiglia! – Ti assicuro che ci riesciremo se vorrai fidarti di me!
– Che? io... io Doge? – sclamai colla voce sospesa e non osando quasi respirare. – Vorreste che di punto in bianco io diventassi Doge?
– Ottimamente, Carlino, tu pigli le cose di volo, come non avrei sperato. Il mestiere del Doge diventerà tanto più proficuo, quanto meno seccante e pericoloso. Tu guadagnerai ducati, io li farò fruttare. Dopo sei anni compreremo tutto Torcello, e la famiglia Altoviti diventerà una dinastia.
– Padre mio, padre mio, cosa dite mai!... – (V’accerto proprio ch’io lo credetti agli ultimi guizzi per diventar matto).
– Ma già, – egli riprese – e non c’è da stupirsene. Coi nuovi ordinamenti che ci incastreranno, ognuno che ha meriti dovrebbe soverchiare chi non ne ha. Questo in via di astrazione. Ma nel concreto colle vostre abitudini coi vostri costumi credi tu che il più ricco ed il più furbo non abbia ad esser giudicato il più meritevole?... Ogni tempo ha i suoi fortunati, figliuolo mio; e saremmo corbelli a non farcene il nostro pro’!...
– Per carità, come vedete tutto brutto e corrotto! Qual trista parte mi date a sostenere a me che m’accingeva a combattere per la libertà e la giustizia!
– Benone, Carlino! Per accingersi a questo non c’è che la mia strada; perché del resto se rimani al di sotto ti sfido io a combattere, sarai schiacciato. Dunque per far trionfare il vero e il buono bisogna farsi posto fra i primi, a gomitate anche, non importa. Ma figurati il gran danno che ne verrebbe se in quei posti ci spuntassero dei tristi e dei fannulloni! Or dunque avanti, figliuol, per far poi ire innanzi gli altri; e l’intenzione scusi la maniera. Non dico che tu voglia farti Doge domani o dopo; ma pazienza un pochino, e le nespole matureranno più presto di quello che si crede!... Intanto io ti voglio avvertire perché tu assecondi le mire de’ tuoi amici e non ti abbia a tirare indietro per falsa modestia. Credi tu di aver retto animo e buone e sode intenzioni?... Credi tu che sia utilissimo metter a capo della cosa pubblica uno che ami il proprio paese e non scenda a patti coi suoi nemici?...
– Oh, si! padre mio, lo credo!
– Animo dunque, Carlino! Stasera il signor Lucilio ti parlerà più chiaro. Allora intenderai, vedrai, deciderai. Tienti daccosto a lui. Non tentennare, non indietreggiare. Chi ha cuore e coscienza deve farsi innanzi coraggiosamente generosamente non per proprio orgoglio ma per l’utilità di tutti.
– Non temete, padre mio. Mi farò innanzi.
– Basti per ora che tu ti lasci spingere. Intanto siamo intesi. Tu sarai spalleggiato dai nobili ed hai il favore dei democratici: la fortuna non può fallirti. Io vado dal signor Villetard per metter in ordine qualche ultima clausola. Ci rivedremo stasera.
Dopo un tale colloquio io rimasi tanto strabiliato e perplesso che non sapeva a qual muro dar il capo. Il maggior malanno si era che ci intendeva ben poco. Io salire ai primi posti, al più alto seggio forse della Repubblica?... Cosa volevan dire cotali sogni? – Certo mio padre avea recato seco dall’Oriente qualche volume di Appendice alle Mille e una notte. E cosa volevan dire quelle sue vaghe parole di rivoluzione, di clausole, di che so io? – Il signor Villetard era un giovine segretario della Legazione francese, ma quale autorità aveva il mio signor padre d’ingerirsi con essolui in faccende di Stato? – Più ci pensava e più i miei pensieri volavano fra le nuvole. Non ne sarei disceso più, se non veniva Lucilio a orizzontarmi. Egli m’invitò a seguirlo in un luogo ove si aveva a deliberare sopra cose importantissime al pubblico bene: nella calle ci unimmo ad altre persone sconosciute che lo aspettavano, e tutti insieme presimo via verso uno dei sestieri più deserti della città, dietro il ponte dell’Arsenale. Dopo una camminata lunga sollecita e silenziosa entrammo in un casone buio e spopolato; salimmo la scala al dubbio chiarore d’un lumicino d’oglio; nessuno ci aperse, nessuno ci introdusse; somigliavamo una coorte di fantasmi che andasse a spaventare i sonni d’un malandrino. Finalmente entrati in una sala umida e ignuda ci fu concessa una luce meno avara: e al lume di quattro candele poggiate sopra una tavola vidi ad una ad una tutte le persone della radunanza e ne distinsi bene o male le fattezze. Eravamo in trenta all’incirca, la maggior parte giovani: ravvisai fra questi Amilcare e Giulio Del Ponte: il primo acceso in volto e coll’impazienza negli occhi, il secondo pallidissimo e con un fare neghittoso che sconsolava. V’era l’Agostino Frumier, v’era anche il Barzoni, giovane robusto, impetuoso, innamorato di Plutarco e de’ suoi eroi: quello che scrisse poi un libello contro i Francesi intitolandolo I Romani in Grecia. Tra i più attempati conobbi l’avogadore Francesco Battaja, il droghiere Zorzi, il vecchio general Salimbeni, un Giuliani da Desenzano, Vidiman, il più onesto e liberale patrizio di Venezia, e un certo Dandolo che aveva acquistato gran fama di sussurrone nei crocchi più tempestosi; gli altri mi erano quasi sconosciuti, benché di taluno non mi comparissero nuove le sembianze. Costoro si stringevano con grande impegno intorno ad un omiciattolo lattimoso e rossigno che parlava poco e sotto voce, ma agitava le braccia come un primo ballerino. Il dottor Lucilio s’aggirava per la sala muto e pensoso; tutti gli facevano largo rispettosamente e pareva attendessero i comandi da lui solo. Vi fu un momento che il Battaja tentò primeggiar lui colla voce e attirare a sé l’attenzione di tutti; ma non gli badarono; uno scantonò di qua e l’altro di là; chi si raschiava in gola e chi tossiva nel fazzoletto; nessuno si fidava ed egli restò come il corvo dopo ch’ebbe cantato. Così si rimase lunga pezza senzaché io potessi capir nulla né dalle mie previsioni né dalle parole tronche di Amilcare né dai sospiri di Giulio; finalmente un altro perruccone giallo, sfinito e livido di paura si precipitò nella stanza. Lucilio gli era ito incontro fin sulla soglia, e alla sua comparsa tutta l’adunanza si dispose in cerchio come per udire qualche grande ed aspettata novella.
– È il Savio supplente in settimana! – mi bisbigliò all’orecchio Amilcare. – Ora vedremo se sono disposti a cedere colle buone.
Io finsi di capire, e considerai più attentamente il perruccone che non sembrava per nulla agevolato a sfoggiar d’eloquenza da quella numerosa combriccola che lo circondava. Il Battaja se gli fece a’ panni per interrogarlo, ma Lucilio gli tagliò la strada, e tutti stettero zitti ad ascoltare quanto diceva.
– Signor Procuratore; – cominciò egli – ella sa il deplorabile stato di questa Serenissima Dominante dappoiché tutte le provincie di terraferma hanno inalberato lo stendardo della vera libertà. Ella sa l’inettitudine del governo dopo l’imbarco dei primi reggimenti schiavoni, e la fatica durata finora ad imbrigliare la rabbia del popolo... – Sì... sissignore, so tutto – balbettò il Savio di Settimana.
– Io ho ritenuto mio dovere di chiarire all’Eccellentissimo Procuratore tali tristi condizioni della Repubblica – soggiunse il Battaja.
Lucilio, senza degnarsi di badare a costui, riprese la parola.
– Ella conosce del pari, signor Procuratore, gli estremi sommarii del trattato che si firmerà fra breve a Milano fra il cessante Maggior Consiglio e il Direttorio di Francia!
Questo crudele ricordo cavò dagli occhi del Procuratore due lagrimone che se non accennavano il coraggio non erano peraltro senza una tal qual dignità di mestizia e di rassegnazione. Esse bagnarono tortuose la cipria di cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne più giallo e men bello di prima.
– Signor Procuratore, – riprese Lucilio – io sono un semplice cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti i cittadini! Dico che si farebbe atto di patria carità e prova d’indipendenza correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri; così si risparmierebbero molti disordini eterni che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del trattato. Io per me son alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno dal posto che mi si è voluto concedere nel quadro della futura Municipalità. Il signor Villetard (e annennava l’ometto irrequieto e rossigno) ha favorito scrivere le condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme del governo, un presidio francese entrerà a proteggere il primo stabilimento della vera libertà in Venezia. Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e lo scorreva rapidamente). Erezione dell’albero della libertà, proclamazione della democrazia con rappresentanti scelti dal popolo, una Municipalità provvisoria di 24 Veneziani alla testa dei quali l’ex doge Manin e Giovanni Spada, ingresso di quattromila Francesi come alleati in Venezia, richiamo della flotta, invito alle città di terraferma, di Dalmazia e delle isole ad unirsi colla madre patria, licenziamento definitivo degli Schiavoni, arresto del signor d’Entragues, manutengolo dei Borboni, e cessione delle sue carte al Direttorio pel canale della Legazione francese. Son tutte cose note e concesse dall’unanime assenso del popolo. Infatti ieri stesso il Doge si dichiarò pronto in piena assemblea a deporre le insegne ducali e a rimettere le redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di quello ch’ei sia disposto a concedere. Vogliamo ch’egli resti a capo del nuovo governo, arra di stabilità e d’indipendeza per la futura Repubblica; non è vero, signor Villetard?
L’omiciattolo accennò di sì con gran lavorio di gesti e di boccaccie. Lucilio si rivolse allora di bel nuovo al Savio in Settimana e gli porse quello scritto che aveva scorso poco prima.
– Ecco, signor Procuratore, – egli soggiunse – qui stanno i destini della patria: guardi ella di capacitarne l’animo del Serenissimo Doge e degli altri nobili colleghi, altrimenti... Dio protegga Venezia! io avrò fatto per salvarla quanto umanamente poteva.
Rispose colle lagrime agli occhi il Procuratore:
– Io sono veramente grato a tanta deferenza di loro illustri signori – (Gli incorruttibili cittadini rabbrividirono a questi titoli scomunicati) – il Serenissimo Doge ed i colleghi Procuratori, come cariche perpetue della Repubblica sono pronti a sacrificarsi per la sua salute, – (sacrificarsi voleva dire cavarsela) – tanto più che la fedeltà degli Schiavoni rimasti comincia a tentennare, e non si maraviglierebbe per nulla di vederli unirsi ai nostri nemici... – (Il Procuratore s’accorse d’aver detto uno sproposito e tossì e tossì che ne divenne scarlatto come la sua tonaca) – dico di vederli unirsi ai nostri amici, che... che... che... Vogliono salvarci... ad ogni costo... Dunque io mi riprometto che queste condizioni – (e mostrava il foglio come se stringesse fra le dita una vipera) – saranno accettate con tutto il cuore dalla Serenissima Signoria, che il Maggior Consiglio ratificherà i nostri salutari intendimenti, e che presto formeremo una sola famiglia di cittadini uguali e felici.
La voce moriva in gola al Procuratore come un singhiozzo; ma le sue ultime parole furono coperte da una salva di applausi. Egli ne arrossì, il poveruomo, certo di vergogna, e poi s’affrettò a chiedere che taluno di quella egregia adunanza volesse accompagnarsi con lui per recar quel foglio a Sua Serenità. Fu scelto a voti unanimi lo Zorzi: un droghiere da appaiarsi ad un procuratore, per intimar l’abdicazione ad un doge!... Due secoli prima l’intero Consiglio dei Dieci s’era presentato al Foscari per chiedergli il corno e l’anello. Venezia tutta silenziosa e tremante aspettava sulla soglia del Palazzo la gran novella dell’ubbidienza o del rifiuto. Il vecchio e glorioso Doge preferì l’ubbidienza e ne morì di dolore; ultima scena terribile e solenne d’un dramma misterioso. Qual divario di tempi!... L’abdicazione del Doge Manin potrebbe entrare come incidente in una commedia di Goldoni senza tema di derogare alla propria gravità.
Intanto partirono il Procuratore e lo Zorzi, partì il Villetard col Battaja e alcuni altri patrizii, stupidamente traditori di se stessi: restammo noi pochi, l’eletta il fiore della democrazia veneziana. Il Dandolo era quello che parlava di più, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s’era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce alta:
– Temo che faremo un bel buco nell’acqua!
– Come? – gli diede sulla voce il Dandolo. – Un buco nell’acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d’Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall’abiezione ove eravamo caduti?
– Io sono medico – soggiunse pacatamente Lucilio. – Indovinare i mali è mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo.
– Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! – uscì a dire come ruggendo un giovinetto quasi imberbe e di fisonomia tempestosa. – Bruto disperò morendo; noi siamo per nascere!
Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d’un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant’Angelo avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c’era l’invidia dell’ingegno, la più fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s’accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll’accrescer veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d’uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l’orecchio, o se gli dava qualche zaffata era più per noia che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il più strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto a tu per tu una lettera di consiglio all’Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de’ suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano così facilmente né all’apatia né alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta. – Giulio Del Ponte non fu il solo che si scotesse alla romana apostrofe del Foscolo; anche Lucilio la onorò d’un sorriso tra l’amichevole e il pietoso; ma non credette opportuno rispondere direttamente.
– Chi di voi – soggiunse egli – chi di voi ha badato questa sera al Villetard mentr’io esponeva le sue condizioni all’ex-Procuratore?
– Ci ho badato io – soggiunse un uomo alto e ben tarchiato che seppi essere lo Spada, quello che volean dar per compagno al Manin nel nuovo governo. – Egli mi avea viso di traditore!
– Bravo cittadino Spada! – riprese Lucilio – soltanto egli crederà di essere niente più che un buon servitore del proprio paese, un ministro accorto e fortunato. Già è qualche tempo che sulle bandiere di Francia la gloria ha preso il posto della libertà!
– E che volete farci? – sclamò rozzamente lo Spada.
– Nulla, – continuò Lucilio – perché non ci possiamo nulla. Soltanto, per chi ancor nol’ sapesse, voglio dichiarare la mente nostra nell’operare questa rivoluzione prima che ce ne venga il comando formale da Milano. Gli è appunto che la diffidenza è un’ottima virtù sopratutto pei deboli, ma temo che non basti. Si vorrebbe che i Francesi fossero aiuto e non esecutori; ecco l’idea. Vorremmo mutarci da noi, non farci mutare da altri come gente che ha perduto la facoltà di moversi. I Francesi ci dovranno venire perché lo possono e lo vogliono; ma trovino almeno tutto fatto, e non ci si incastrino nei fianchi come padrini!...
– Vengano i Francesi a risparmiarci la guerra civile, e le proscrizioni di Silla! – sclamò il Foscolo.
Il Barzoni, che non aveva mai parlato, alzò il capo per fulminar d’una occhiata l’imprudente oratore.
– Ben detto, – riprese tuttavia Lucilio – ma dovevi dire: vengano a risparmiarci un altro secolo di torpore uguale ai decorsi e con diverse apparenze. Vengano a scuoterci, a spaventarci, a farci vergognare di noi, a sollecitare colla paura di lor tirannia lo svegliarsi operoso e sublime di nostra libertà!... Ecco quello che dovevi aggiungere!... Se noi saremo tali da prenderli per emuli non per padroni, lo sapremo di qui a qualche mese. Villetard ne dubita e ne teme, e ciò mi fa supporre che più in alto di lui si desideri altrimenti!
– Che importa questo? – lo interruppe Amilcare. – Noi rispettiamo le tue parole, cittadino Vianello, ma sentiamo i nostri polsi intolleranti di schiavitù, e ci ridiamo di Villetard e di chi sta sopra lui, come ci ridiamo di San Marco, degli Schiavoni, e del procurator Pesaro!
Lucilio stornò la mente da tali conversazioni forse troppo tristi o tardive per lui, e si volse a me con un fare quasi paterno.
– Cittadino Altoviti; – egli disse – vostro padre si è adoperato moltissimo a vantaggio della libertà; gli si deve una ricompensa ch’egli vuol cedere a voi. Non se gli avrebbe badato se la vostra indole e la vostra condotta non davano lusinga di veder continuati in voi gli esempi famigliari. Voi siete uno dei membri più giovani del Maggior Consiglio, siete uno fra i pochi, anzi fra i pochissimi che voterete per la libertà non per codardia ma per altezza di animo. Vi notifico adunque che foste scelto per primo segretario del nuovo governo.
Un mormorio di maraviglia dei giovani lì presenti accolse tali parole.
– Si, – proseguì Lucilio – e chi ha speso qualche milione a Costantinopoli per volgere la Turchia a danno della Sacra Alleanza, chi ha sacrificato molti anni della propria vita a rannodare nel lontano Oriente le trame di quest’opera di redenzione che ci farà forse liberi e certo uomini, chi ha fatto questo pretenda altrettanto pel figliuol suo!... Lo dico io, lo posso dir io che all’indomani del trionfo tornerò nell’ospitale a salassare i miei malati!
Un applauso unanime scoppiò da tutta la radunanza, e dieci paia di braccia si litigarono il dottor Vianello per istringerlo al cuore. Io scomparvi affatto in questa frenesia d’entusiasmo, e restai da un canto pensieroso, colla pietra di mulino sul petto del mio segretariato. Allora il discorrere diventò generale; si parlava della flotta, della Dalmazia, del modo più sicuro per ottener l’adesione del general Bonaparte alla nuova forma di governo. Si buttò via molto fiato fino a mezzanotte quando lo Zorzi rientrò nella sala, col portamento autorevole d’un bottegaio che ha rovesciato un governo di tredici secoli.
– E così? – gli domandarono tutti.
– E così, – rispose lo Zorzi – il Doge mi ha pregato di recarmi dal Villetard per ottenere le sue condizioni in iscritto; non sapeva Sua Serenità che noi le avevamo già in tasca. Domani adunque sarà proposta nel Maggior Consiglio la parte di adottar sul momento per la Repubblica di Venezia il sistema democratico del nuovo governo provvisorio da noi ideato.
– Viva la libertà! – gridarono tutti. E fu un tal fremito di gioia e d’entusiasmo che io pure mi sentii scorrere per le vene come una striscia di fuoco. Se in quel momento mi avessero comandato di credere alla risurrezione di Roma coi Camilli e coi Manlii non ci avrei trovato nulla di strano ad ubbidire. Indi a poco ci separammo, e benché l’ora fosse tardissima il galateo veneziano permise a me ed a Giulio di passare in casa della Contessa. Io era fuori di me addirittura senza saperne il perché: tale deve sentirsi un cavallo generoso al sonar della tromba. Giulio all’incontro pareva malcontento della parte troppo modesta da lui sostenuta nell’adunanza di quella sera; e sì che doveva essere avvezzo a tali combriccole, perché tanto egli che Foscolo erano stati imputati di immischiarsi in tali faccende, e la madre di quest’ultimo dicevasi averlo consigliato a perire piuttosto che svelare alcuno de’ suoi compagni. Così tornavano allora di moda le madri spartane. Il fatto sta che la Pisana quella sera non ebbe occhi che per me, ma io era troppo addentro nel pensiero del nuovo governo, del Maggior Consiglio della dimane e dei pronostici di mio padre per fermarmi in quelle amorosità. La guardava sì, ma come un’attenta ascoltatrice delle mie declamazioni, e questo mio contegno non le garbava punto. Quanto a Giulio al vederlo così uggioso appena lo sopportava, e le sue affaticate galanterie non ottenevano il premio della quarta parte di ciò che gli costavano. Ben è vero che la Contessa ne lo rimunerava con un subisso d’interrogazioni sulle novelle della giornata, ma il letteratuncolo non la intendeva a quel modo, e si arrischiava più volentieri alla taccia d’ingrato che al martirio della noia. L’accorta vecchia mano a mano che il mal tempo cresceva andava raccogliendo le vele, e omai era ridotta a parole una mezza sanculote. Di dentro poi Dio sa quanto odio e quanta bile covasse!
– Cosa dice, signor Giulio? Verranno questi Francesi?... Si casseranno i crediti ipotecati sopra le rendite feudali?... E i patrizii che sieno sicuri d’una pensione o d’una carica, e San Marco che sia conservato sugli stendardi?
Giulio sospirava, sbadigliava, digrignava, si storceva, ma l’inesorabile Contessa voleva pur cavarne qualche risposta, e credo ch’egli con maggior buona grazia si sarebbe lasciato cavar un dente. Io intanto non poteva resistere al piacere di pavoneggiarmi dinanzi alla Pisana colle mie future splendidezze, e lasciava travedere che nel nuovo governo ci sarebbe stato un bel seggio anche per me.
– Davvero Carlino? – mi chiese cheta cheta la donzella. – Ma non siamo intesi che dobbiate metter sul trono l’eguaglianza?
Io alzai le spalle dispettosamente. Andate dunque a filosofeggiare con donne! Non so peraltro se tacqui per disdegno o per non saper cosa rispondere. Il fatto sta che per quella sera l’ambizione scavalcò affatto l’amore, e che mi partii dalla Pisana che non avrei nemmen saputo dire di qual colore avesse gli occhi. Salutai Giulio soprappensiero in Frezzeria15, e m’avviai soletto e ballonzolando d’impazienza per la Riva degli Schiavoni. Mi ricorderò sempre di quella sera memorabile dell’undici maggio!... Era una sera così bella così tiepida e serena che parea fatta pei colloquii d’amore per le solinghe fantasie per le allegre serenate e nulla più. Invece fra tanta calma di cielo e di terra, in un incanto sì poetico di vita e di primavera una gran Repubblica si sfasciava, come un corpo marcio di scorbuto; moriva una gran regina di quattordici secoli, senza lagrime, senza dignità, senza funerali. I suoi figliuoli o dormivano indifferenti o tremavano di paura; essa, ombra vergognosa, vagolava pel Canal Grande in un fantastico bucintoro16, e a poco a poco l’onda si alzava e bucintoro e fantasma scomparivano in quel liquido sepolcro. Fosse stato almeno così... Invece quella morta larva rimase esposta per alcuni mesi tronca e sfigurata alle contumelie del mondo; il mare, l’antico sposo, rifiutò le sue ceneri; e un caporale di Francia le sperperò ai quattro venti, dono fatale a chi osava raccoglierle! Ci fu un momento ch’io alzai involontariamente gli occhi sul Palazzo Ducale e vidi la luna che abbelliva d’una vernice di poesia le sue lunghe loggie e i bizzarri finestroni. Mi pareva che migliaia di teste coperte dell’antico capuccio marinaresco o della guerresca celata sporgessero per l’ultima volta da quei mille trafori i loro vacui sguardi di fantasma; poi un sibilo d’aria veniva pel mare che somigliava un lamento. Vi assicuro che tremai; e si ch’io odiava l’aristocrazia e sperava dal suo sterminio il trionfo della libertà e della giustizia. Non c’è caso; vedere le grandi cose adombrarsi nel passato e scomparire per sempre è una grave e inesprimibile mestizia. Ma quanto più son grandi queste cose umane, tanto più esse resistono anche colle compagini fiacche e inanimate all’alito distruttore del tempo; finché sopraggiunge quel piccolo urto che polverizza il cadavere, e gli toglie le apparenze e perfin la memoria della vita. Chi s’accorse della caduta dell’Impero d’Occidente con Romolo Augustolo? – Egli era caduto coll’abdicazione di Diocleziano. – Chi notò nel 1806 la fine del Sacro Romano Impero di Germania? – Egli era scomparso dalla vista dei popoli coll’abdicazione di Carlo V. – Chi pianse all’ingresso dei Francesi in Venezia la rovina d’una grande Repubblica, erede della civiltà e della sapienza romana, e mediatrice della Cristianità per tutto il Medio Evo? – Essa si era tolta volontariamente all’attenzione del mondo dopo l’abdicazione di Foscari. Le abdicazioni segnano il tracollo degli stati; perché il pilota né abbandona né è costretto ad abbandonare il timone d’una nave che sia guernita d’ogni sua manovra e di ciurme esperte e disciplinate. Le disperazioni, gli abbattimenti, l’indifferenza, la sfiducia precedono di poco lo sfasciarsi e il naufragio. Io volsi dunque gli occhi al Palazzo Ducale e tremai. Perché non distruggere quella mole superba e misteriosa, allora che l’ultimo spirito che la animava si perdeva per l’aria?... In quei marmi rigidi eterni, io presentiva più che una memoria un rimorso. E intanto vedeva più in giù sulla riva i fedeli Schiavoni che mesti e silenziosi s’imbarcavano; forse le loro lagrime consolarono sole la moribonda deità di Venezia. Allora mi sorse nell’anima una paura più distinta. Quella nuova libertà quella felice eguaglianza quella imparziale giustizia coi Francesi per casa cominciò ad andarmi un po’ di traverso. Avea ben avvisato Lucilio di operare la rivoluzione prima che Buonaparte ce ne mandasse da Milano l’ordine e le istruzioni; ma ciò non toglieva che i Francesi sarebbero venuti da Mestre: e una volta venuti, chi sa!!!... Fui pronto ad evocare la magnanima superbia d’Amilcare per liberarmi da queste paure – Oh bella! pensai – siam poi uomini come gli altri; e questo nuovo fuoco di libertà che ci anima sarà all’uopo fecondo di prodigii. Di più l’Europa non potrà esserci ingrata; il suo proprio interesse non gliel consente. Colla costanza con la buona volontà torneremo ad esser noi: e gli aiuti non devono mancare o da poggia o da orza!...
Con tali conforti tornai verso casa ove mio padre mi significò che era molto contento del posto a me riserbato nella futura Municipalità; e che badassi a condurmi bene e ad assecondare i suoi consigli, se voleva andare più in su. Non mi ricordo cosa gli risposi; so che andai a letto e che non chiusi occhio fino alla mattina. Potevano esser le otto e tre quarti quando suonò la campana del Maggior Consiglio, ed io mi avviai verso la Scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i Signori Nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse più d’un quarto d’ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecento trentasette; numero illegale giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un’adunanza di almeno seicento membri si considerava illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e d’impazienza; avevano fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di svestir quella toga omai troppo pericolosa insegna d’un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza e gioia; erano i traditori; altri sfavillavano d’un vero contento, d’un orgoglio bello e generoso pel sacrifizio che cassandoli dal Libro d’Oro li rendeva liberi e cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano. In un canto della sala venti patrizii al più stavano ravvolti nelle loro toghe rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi che non comparivano da più anni al Consiglio e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e impotente suffragio; qualche giovinetto fra loro, qualche uomo onesto che s’inspirava dai magnanimi sentimenti dell’avo del suocero del padre. Mi stupii non poco di vedere in mezzo a questi il senatore Frumier e il suo figlio primogenito Alfonso; giacché li sapeva devoti a San Marco, ma non tanto coraggiosamente, come mi fu veduto allora. Stavano uniti e quasi stretti a crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo né col livore dell’odio, ma colla fermezza e la mansuetudine del martirio. Benedetta la religione della patria e del giuramento! Là essa risplendeva d’un ultimo raggio senza speranza e tuttavia ripieno di fede e di maestà. Non erano gli aristocratici, non erano i tiranni; né gli inquisitori; erano i nipoti dei Zeno e dei Dandolo che ricordavano per l’ultima volta alle aule regali le glorie i sacrifizii e le virtù degli avi. Li guardai allora stupito ed ostile; li ricordo ora meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie bugiarde, e non evocare dall’ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all’umana natura.
In tutta la sala era un sussurrio, un fremito indistinto; solo in quel canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e il silenzio. Fuori il popolo tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell’estuario, alcuni ultimi drappelli di Schiavoni che s’imbarcavano, le guardie che contro ogni costume custodivano gli anditi del Palazzo Ducale, tutti presagii funesti. Oh è ben duro il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se non uscirono dai loro sepolcri gli eroi, i dogi, i capitani dell’antica Repubblica!
Il Doge s’alzò in piedi pallido e tremante, dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio. Egli avea letto le condizioni proposte dal Villetard per farsi incontro ai desiderii del Direttorio Francese, e placar meglio i furori del general Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le sosteneva per dappoccaggine, e non sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che nessuno aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri. Ludovico Manin balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile, anzi impossibile, sulla magnanimità del general Bonaparte, sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per mezzo delle consigliate riforme. Infine propose sfacciatamente l’abolizione delle vecchie forme di governo e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano d’uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale, e stritolare la sua testa codarda su quel pavimento dove avevano piegato il capo i ministri dei Re e i legati dei Pontefici! – Io stesso ne ebbi pietà; io che nell’avvilimento e nella paura d’un Doge non vedeva altro allora che il trionfo della libertà e dell’eguaglianza.
Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria: il Doge si ferma costernato e vuol discendere i gradini del trono; una folla di patrizii spaventata se gli accalca intorno gridando: – Alla parte, ai voti! – Il popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento. Sono gli Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora e salutavano con quegli spari l’ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati (i sogni di Lucilio). È il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il popolo nonché preferire l’obbedienza a que’ nobili alla più dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell’obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte; non ancor letta, che conteneva l’abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d’un Governo Provvisorio Democratico, sempreché s’incontrassero con esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l’urgenza dell’interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie che vidi allora in quella torma di pecori avvilita tremante vergognosa, le veggo anche ora dopo sessant’anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l’aspetto smarrito e come ubbriaco di altri, e l’angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred’io, gettati dalle finestre per abbandonare più presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d’un vitupero maggiore. Chi usciva in piazza avea cura prima di gettare la perrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei), corsimo alle finestre e alla Scala gridando: – Viva la libertà! – Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il romore il gridio cresceva sempre; io credetti che un puro e generoso entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella piazza, gettando in aria la mia perrucca e urlando a perdifiato: – Viva la libertà! – Il general Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s’era già messo a strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la turba gli si scagliò contro furibonda, e lo costrinse a gridare: – Viva San Marco! – Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime i lontani, credettero che la vecchia Repubblica fosse uscita salva dal terribile cimento della votazione. – Viva la Repubblica! Viva San Marco! – fu una sola voce in tutta la piazza gremita di gente; le bandiere furono inalberate sulle tre antenne; l’immagine dell’Evangelista fu portata in trionfo; e un’onda minacciosa di popolo corse alle case di quei patrizii che erano in voce d’aver congiurato per la chiamata dei Francesi. In mezzo alla folla, incerto confuso diviso dai compagni, m’incontrai in mio padre e in Lucilio forse meno confusi ma più avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso la Frezzeria. Quei pochi patrizii che aveano votato per l’indipendenza e la stabilità della patria ci passarono rasente colle loro lunghe perrucche, colle loro toghe strascicanti. Il popolo faceva largo senza improperii ma senza plauso. Lucilio mi strinse il braccio.
– Li vedi? – mi bisbigliò all’orecchio – il popolo grida: «Viva San Marco!» e non ha poi il coraggio di portar in trionfo, e di crear Doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... Servi, servi, eternamente servi!
Mio padre non si perdeva in sofisticherie; egli affrettava il passo come meglio poteva, e gli tardava l’ora di trovarsi nella sua camera per meditare al sicuro il pro’ e il contro.
Un proclama della nuova Municipalità che dipingeva la vile condiscendenza dei patrizii come un libero e spontaneo sacrifizio alla sapienza dei tempi, alla giustizia e al bene di tutti rimise la tranquillità nel buon popolo veneziano. Come il dente d’un topo basta per far calare a fondo una nave tarlata, così l’intrigo di un segretariuccio parigino, di quattro o cinque traditori, e d’alcuni repubblicani avea bastato per rovesciare quell’edifizio politico che aveva resistito a Solimano II e alla lega di Cambrai. Rivolgimenti senza grandezza perché senza scopo; ai quali dovrebbero chiedere lume d’esperienza i caporioni di partito, quando la fortuna consegna alle loro mani le sorti della patria. Quattro giorni dopo barche veneziane condussero a Venezia truppe francesi: e una città difesa pochi giorni prima da undicimila Schiavoni, da ottocento pezzi d’artiglieria, e da duecento legni armati si consegnò spoglia, volontaria incatenata alla soldatesca balia di quattromila venturieri capitanati da Baraguay d’Hilliers. La Municipalità fece codazzo a costoro fra il silenzio e il disprezzo della folla. Io pure come segretario ebbi la mia parte di quei taciti insulti; ma l’entusiasmo della Pisana, e le esortazioni di mio padre mi animavano a tutto sopportare per amore della libertà. Compativa agli ignoranti né credeva di compatire ai miseri. Il mio coraggio fu debolmente smosso dalle risposte venuteci dalle provincie di terraferma al nostro invito di accedere al nuovo governo. I podestà tentennavano, i generali francesi si beffavano di noi. Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio. – L’Istria e la Dalmazia venivano intanto occupate dall’Austria, giusta la facoltà concessa dai segreti preliminari di Leoben. Anche questo non mi andava a versi. La Francia con flotte veneziane s’impadroniva de’ nostri possedimenti nell’Albania e nell’Ionio; minaccia di peggiori oltracotanze. Povero segretario io non aveva testa bastevole da accordare tutte queste contraddizioni e farmene un criterio. Sospirava, lavorava, e aspettava di meglio. Intanto gioverà notare il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompianta dopo quattordici secoli di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era più che una città e voleva essere un popolo. I popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati perché certi di risorgere.