CAPITOLO DUODECIMO
Nel quale dopo un patetico addio alla spensierata giovinezza si comincia a vivere ed a pensare sul serio: ma pur troppo non ebbi il vento in poppa – Fin d’allora era pericoloso fidarsi alle promesse degli ospiti che volevano farla da padroni; ma gli ospiti, se non altro, furono benemeriti di averci dato la sveglia – Nel tempo la Clara si fa monaca, la Pisana si marita con S.E. Navagero, ed io seguito a scriver protocolli – Venezia cade la seconda volta in punizione della prima, e i patrioti si ricoverano sbuffando nella Cisalpina – Io resto, a quanto sembra, per far compagnia a mio padre.
Addio fresca e spensierata giovinezza, eterna beatitudine dei vecchi numi d’Olimpo, e dono celeste ma caduco a noi mortali! Addio rugiadose aurore, sfavillanti di sorrisi e di promesse, annuvolate soltanto dai bei colori delle illusioni! Addio tramonti sereni, contemplati oziosamente dal margine ombroso del ruscello, o dal balcone fiorito dell’amante! Addio vergine luna, inspiratrice della vaga melanconia e dei poetici amori, tu che semplice scherzi col capo ricciutello dei bambini, e vezzeggi innamorata le pensose pupille dei giovani! Passa l’alba della vita come l’alba d’un giorno; e le notturne lagrime del cielo si convertono nell’immensa natura in umori turbolenti e vitali. Non più ozio ma lavoro; non più bellezza ma attività; non più immaginazione e pace, ma verità e battaglia. Il sole ci risveglia ai gravi pensieri, alle opere affaticate, alle lunghe e vane speranze; egli s’asconde la sera lasciandoci un breve e desiderato premio d’obblio. La luna ascende allora la curva stellata del cielo, e diffonde sulle notti insonni un velo azzurino e vaporoso, tessuto di luce di mestizia di rimembranze e di sconforto. Sopraggiungono gli anni sempre più torvi ed accigliati, come padroni malcontenti dei servi; sembrano vecchi cadenti all’aspetto, e più son canute le fronti, più le orme loro trapassano rapide e leggiere. È il passo dell’ombra che diventa gigante nell’appressarsi al tramonto. – Addio atrii lucenti, giardini incantati, preludii armoniosi della vita!... Addio verdi campagne, piene di erranti sentieri, di pose meditabonde, di bellezze infinite, e di luce, e di libertà, e di canto d’augelli! Addio primo nido dell’infanzia, case vaste ed operose, grandi a noi fanciulli, come il mondo agli uomini, dove ci fu diletto il lavoro degli altri, dove l’angelo custode vegliava i nostri sonni consolandoli di mille visioni incantevoli! Eravamo contenti senza fatica, felici senza saperlo; e il cipiglio del maestro, o i rimbrotti dell’aia erano le sole rughe che portasse in fronte il nostro destino! L’universo finiva al muricciuolo del cortile; là dentro se non era la pienezza d’ogni beatitudine, almeno i desiderii si moderavano, e l’ingiustizia prendeva un contegno così fanciullesco, che il giorno dopo se ne rideva come d’una burla. I vecchi servitori, il prete grave e sereno, i parenti arcigni e misteriosi, le fantesche volubili e ciarliere, i rissosi compagni, le fanciullette vivaci, petulanti, e lusinghiere ci passavano dinanzi come le apparizioni d’una lanterna magica. Si avea paura dei gatti che ruzzavano sotto la credenza, si accarezzava vicino al fuoco il vecchio cane da caccia, e si ammirava il cocchiere quando stregghiava i cavalli senza timore dei calci. Per me gli è vero ci fu anche lo spiedo da girare; ma perdono anche allo spiedo, e torrei volentieri di girarlo ancora per riavere l’innocente felicità d’una di quelle sere beate, fra le ginocchia di Martino, o accanto alla culla della Pisana. Ombre dilette e melanconiche delle persone che amai, voi vivete ancora in me: fedeli alla vecchiaia voi non fuggite né il suo seno gelato né il suo rigido aspetto: vi veggo sempre vagolare a me dintorno come in una nube di pensiero e d’affetto; e scomparir poi lontano lontano nell’iride variopinta della mia giovinezza. Il tempo non è tempo che per chi ha denari a frutto: esso per me non fu mai altro che memoria desiderio amore speranza. La gioventù rimase viva alla mente dell’uomo; e il vecchio raccolse senza maledizione l’esperienza della virilità. Oh come mai avrà a finire in nulla un tesoro di affetti e di pensieri che sempre s’accumula e cresce?... L’intelligenza è un mare di cui noi siamo i rivoli e i fiumi. Oceano senza fondo e senza confine della divinità, io affido senza paura ai tuoi memori flutti questa mia vita omai stanca di correre. Il tempo non è tempo ma eternità per chi si sente immortale.
E così ho scritto un degno epitaffio su quegli anni deliziosi da me vissuti nel mondo vecchio; nel mondo della cipria, dei buli e delle giurisdizioni feudali. Ne uscii segretario d’un governo democratico che non aveva nulla da governare; coi capelli cimati alla Bruto, il cappello rotondo colle ali rialzate ai lati, gli spallacci del giubbone rigonfii come due mortadelle di Bologna, i calzoni lunghi, e stivali e tacchi così prepotenti che mi si udiva venire dall’un capo all’altro delle Procuratie. – Figuratevi che salto dagli scarpini morbidetti e scivolanti dei vecchi nobiluomini! Fu la più gran rivoluzione che accadesse per allora a Venezia. Del resto l’acqua andava per la china secondo il solito, salvoché i Signori Francesi si scervellavano ogni giorno per trovar una nuova arte da piluccarci meglio. Erano begli ingegni e ce la trovavano a meraviglia. I quadri, le medaglie, i codici, le statue, i quattro cavalli di San Marco viaggiavano verso Parigi: consoliamoci che la scienza non avesse ancor inventato il modo di smuovere gli edificii, e trasportar le torri e le cupole: Venezia ne sarebbe rimasta qual fu al tempo del primo successore di Attila. Bergamo e Crema s’erano già occupate definitivamente per riquadrare la Cisalpina; dalle altre provincie si vollero radunar a Bassano deputati che giudicassero sul partito da prendersi. Berthier, destreggiatore, presiedeva per attraversare ogni utile deliberazione; io scriveva a Bassano i desiderii dei Municipali, e ne riceveva le risposte. Il dottor Lucilio, che senza parerlo seguitava ad esser l’anima del nuovo governo, non voleva che si abbandonasse quell’ultima àncora di salute, e destreggiava e si ostinava anche lui. Sembrava che si fosse prossimi ad un accordo di comune gradimento, quando il furbo di Berthier dichiarò a precipizio che l’accordo era impossibile, e buona notte! Venezia restò colle sue ostriche, e le provincie coi loro presidenti, coi loro generali francesi. Victor a Padova gracchiava impudentemente che non si badasse ai Veneziani, razza putrida e incoreggibile d’aristocratici. Bernadotte, più sincero, proibiva che da Udine si mandassero deputati alla commediola di Bassano. I tempi erano così tristi che la crudeltà era poco men che pietosa, e certo più meritoria dell’ipocrisia. Nondimeno io tirava innanzi colla benda agli occhi e colla penna in mano, credendo di correre incontro ai tempi di Camillo o di Cincinnato. Mio padre squassava il capo; io non gli badava per nulla, e credeva forse che la volontà o la presunzione d’alcune teste calde avrebbe bastato a slattare quella libertà bambina e già peggio che decrepita. Una sera io vado in cerca della Contessa di Fratta alla solita casa, e mi dicono che essa ha sloggiato e che l’è ita a stare sulle Zattere1 all’altro capo della città. Trotto fino colà, mi arrampico per una scala di legno malconcia e tarlata, e guardagno finalmente un appartamento umido oscuro e quasi spovvisto di suppellettili. Non poteva tornare in me dalla maraviglia. Nell’anticamera mi vien incontro la Pisana col lume; Io stupore cresce, e la seguo quasi trasognato fino alla camera di ricevimento. Mio Dio, qual compassione!...
Trovai la Contessa accosciata in un seggiolone di vecchio marrochino nero tutto spelato; una lucernetta ad oglio agonizzava sopra un tavolino appoggiatosi al muro per non cadere. Del resto una vera camera da affittare, senza mobiglie, senza cortine, col pavimento di assicelle sconnesse, e il solaio di travi malamente incalcinati. Le pareti nude e lebbrose, le porte e le finestre tanto ben riparate che la fiamma miserabile della lucerna stava sempre per ispegnersi. Accanto alla Contessa un vecchietto slavato, bianco, paffutello sedeva sopra una scranna di paglia; egli portava l’elegante arnese2 dei patrizii, ma una tossicina ostinatella e grassiccia contrastava alquanto colla gioventù di quell’acconciatura. La Contessa lesse sulle mie sembianze la maraviglia e il rammarico; laonde si compose alla sua più bella cera d’allegria per darmi una smentita.
– Vedi, Carlino? – mi diss’ella con un brio piuttosto forzato. – Vedi, Carlino, se sono una madre di famiglia ben avveduta? La rivoluzione ci ha rovinati, ed io mi rassegno a ristringermi a sparagnare per queste care viscere di figliuoli!... – E in ciò dire guardava la Pisana, che le si era seduta a fianco rimpetto al nobiluomo, e teneva gli occhi sul petto e le mani nelle tasche del grembiale.
– Ti presento mio cugino, il nobiluomo Mauro Navagero, – continuò ella – un cugino generoso e disposto a stringere vieppiù con noi i vincoli della parentela. In poche parole fino da questa mattina egli è il promesso sposo della nostra Pisana!
Io credo che vidi in quell’istante tutte le stelle del firmamento come se un macigno piombatomi addosso m’avesse schiacciato il petto: indi, a quel balenio di stelle successe una cecità d’alcuni secondi, e poi tornai ad ascoltare e a guardare senzaché potessi raccapezzarci nulla di quelle faccie che aveva intorno e del ronzio che mi sussurrava nelle orecchie. M’immagino che la Contessa si sarà dilungata a magnificarmi il decoro di quel parentado; certo che il nobiluomo Navagero per la sua tosse, e la Pisana per la confusione, non aveano tempo da perdere in chiacchere. Confesso che l’amore della libertà, l’ambizione e tutti gli altri grilli, ficcatimi in corpo dalla generosità della stessa mia indole e dai raggiri di mio padre, fuggirono via, come cani scottati da un rovescio d’acqua bollente. La Pisana mi rimase in mente sola e regina; mi pentii, mi compunsi, mi disperai di averla trascurata per tutto quel tempo, e m’accorsi che io era troppo debole o viziato per trovare la felicità nelle grandi astrazioni. Benedetto quello stato civile dove gli affetti privati sono scala alle virtù civili; e dove l’educazione morale e domestica prepara nell’uomo il cittadino e l’eroe! Ma io era nato da un’altra fungaia; i miei affetti contrastavano pur troppo fra loro, come i costumi del secolo passato colle aspirazioni del presente. Malanno che si perpetua nella gioventù d’adesso, e di cui si piangono i guasti, senza pensare o senza poter provvedere al rimedio.
Quando osai rivolgere gli occhi alla fanciulla sentii come un impedimento che me li faceva stornare; erano gli sguardi freddi e permalosi del frollo fidanzato che erravano dal volto della Pisana al mio coll’inquietudine dell’avaro. Vi sono certe occhiate che si sentono prima di vederle; quelle di Sua Eccellenza Navagero ferivano dirittamente l’anima senza incommodare il nervo ottico. Però mi incommodavano tutto quanto, per modo che dovetti ricorrere per ultimo e disperato rifugio al viso raggruzzolito3 della Contessa. Costei appariva così raggiante di contentezza che ne arrabbiai a tre tanti e finii col perder la bussola affatto. Uno sprovveduto che appicca lite in un crocchio dove tutti gli stanno contro, sarebbe in una condizione migliore assai della mia d’allora. La Pisana col suo riserbo quasi beffardo mi inveleniva peggio degli altri. Stava per alzarmi, per scappar via disperato a sfogare dovechessia il mio accoramento, quando entrò a saltacchioni il mio signor padre. Egli era più vispo, più strano del consueto; e pareva a notizia di tutto ciò che aveva tanto sorpreso e sconsolato me, poiché si congratulò della buona fortuna col Navagero, e volse alla sposina uno di que’ suoi occhietti che parlavano meglio d’una lingua qualunque. Cosa volete? quel vedere anche mio padre schierarsi fra i miei nemici, a papparsi come tanta manna la mia disgrazia, mi diede un furor tale che non pensai più ad andarmene, e sentii nell’animo qualche cosa di simile all’eroismo d’Orazio solo contro Toscana tutta. Mi rassettai sulla mia seggiola sfidando orgogliosamente il risolino della Contessa, l’indifferenza della Pisana, la gelosia del Navagero, e la crudeltà di mio padre. Quando poi convenne alzarsi per partire, m’avvidi troppo tardi che le ginocchia mi reggevano appena, e chi ci avesse osservato camminare, me, mio padre, e il nobiluomo Navagero ci avrebbe scambiati per tre felicissimi ubbriachi in grado diverso. Non poteva dar retta ai discorsi che mi facevano, e per la prima volta mi ficcai in letto senza pensare al corno dorato del futuro doge democratico di Venezia. Mille disegni varii, bizzarri, spaventevoli mi improvvisavano nel cervello tali arabeschi che non arrivava a tenerci dietro. Sfidare a stocco e spada il Navagero, infilzarlo come un ranocchio, indi intimare alla Pisana la mia solenne maledizione e gettarmi nel canale per la comoda via della finestra; ovvero dopo ammazzato colui prender fra le braccia costei, trafugarla sopra uno stambecco4 di Smirne, e menarla meco alla vita del deserto, fra le rovine di Palmira o sulle sabbie dell’Arabia Petrea, ecco i miei voli pindarici meno arrisicati. Del resto poetava senza numeri senza accenti senza rime: non pensava né al difficile, né all’impossibile, e avessi avuto in istalla un ippogrifo e nelle tasche i tesori di Creso. non avrei edificato castelli in aria con maggior libertà e magnificenza. Così sognando m’addormentai, e sognai poscia dormendo, e svegliatomi di buon mattino rappiccai il filo ai sogni del giorno prima.
Amilcare mi domandò ragione di quella mia continua fantasticaggine, ed io fuori a contargliene più forse che non avrebbe voluto. – Vergogna! un segretario della Municipalità perdersi in cotali giullerie! Oh non arrossiva di esser geloso di un vecchio aristocratico bavoso e slombato; e di sdilinquire scioccamente per una vanerella che pur di maritarsi avrebbe sposato un satiro?... Questo già si vedeva apertamente; e il bel contratto che sarebbe stato il mio di sostenere una tal parte!... Meglio attendere a mostrarsi uomo, darsi tutto alla patria, al culto della libertà, allora appunto che ci stava addosso tanto bisogno!
Amilcare parlava col cuore e mi persuase; non valeva proprio la pena di inasinire dietro la Pisana; invece le cure del governo esigevano tutto il mio tempo, tutta la mia premura. Feci forza a me stesso; perdonai la vita al Navagero, e quella scena ch’io aveva immaginata da rappresentarla alla Pisana prima di annegarmi o di partire per l’Arabia, la mutai in una tacita apostrofe: – «Sta’ pure, spergiura! Sei indegna di me!» – Che io avessi il diritto di pronunciare una tale sentenza, ne dubito alquanto. Primo punto la ragazza nulla mi aveva giurato, e in secondo luogo la mia pietosa cessione in favore di Giulio del Ponte e la successiva trascuraggine potevano averle dato a credere che mi fosse uscita dal cuore ogni smania di farla mia. Invece io so benissimo che mai non ne ho smaniato tanto come allora; ma la bizzarria e l’incredibilità del mio temperamento mi obbligavano appunto a non tenerle nascoste le sue intime transazioni. Il fatto sta peraltro, che decisi di romperla colla ferma convinzione di esser io la vittima: e questo mi autorizzava a farle ancora il patito più che non me lo consentissero i miei intendimenti eroici e la pazienza del Navagero. Il conte Rinaldo, che rade volte compariva nella camera di sua madre, usciva in qualche moto di stizza a vedermi tortoreggiare dinanzi a sua sorella. Anch’egli, poveretto, dava addosso al cane con tutti gli altri; ed io non mi convertiva d’un punto, persuaso persuasissimo di essere tutto nella mia segreteria, e di non pensare alla Pisana, né al suo matrimonio.
Gli affari della casa di Fratta s’imbrogliavano peggio che mai. La signora Contessa giocava sempre accanitamente, e quando non c’erano denari ne cercava al Monte di Pietà. La filosofia del Contino e la spensieratezza della Pisana non se ne incaricavano punto; e credo che Sua Eccellenza Navagero fosse destinato secondo essi a raccomodare tutti quegli sdrucii. Quello che mi maravigliava assaissimo si era la dimestichezza che continuava fra la Contessa e mio padre, benché questi non avesse allentato d’un punto le cordicelle della sua borsa e avesse attraversato con mille modi il disegno che covava la Contessa di un buon matrimonio fra me e la Pisana. Io aveva capito così in ombra che a mio padre non garbavano questi progetti, e che egli senza parlarmene indovinava la mia propensione e studiavasi di sviarla. Ma come aveva poi fatto a contrastare le mire della Contessa serbandosele in grazia lo stesso? Ecco quello che m’ingegnai di chiarire; e scopersi bel bello che egli era stato il sensale dello sposalizio col cugino Navagero, e che la mia sfortuna io la doveva sopratutto a lui. Quanto a me, egli il vecchio negoziante aveva delle alte idee; una donzella ricchissima della famiglia Contarini gli sarebbe piacciuta per nuora, e non mancava di darmi qualche colpetto di tanto in tanto perché io la distinguessi fra le molte ragazze, le quali (bando alla superbia) non avrebbero sdegnato a quel tempo di unire il mio al loro nome. Tutti gli attori hanno sulle scene del mondo la loro beneficiata; e allora toccava a me. Il cittadino Carletto Altoviti, ex-gentiluomo di Torcello, segretario della Municipalità, prediletto del dottor Lucilio, e celebre in piazza San Marco pei suoi begli abiti, per la sua disinvoltura, e sopratutto pei milioni del signor padre, non era un uomo da buttarlo in un canto. Io peraltro, raumiliato nella mia boria dalla ribellione della Pisana, non mi gonfiava più per cotali meriti; e in onta alle esortazioni di Amilcare non sapeva più sostenere il mio volo nel cielo sublime della libertà e della gloria. Quel cielo cominciava ad oscurarsi a minacciare tutto all’intorno grossi temporali. Mi fosse anche crollata la terra sotto i piedi, non ci mancava altro! Tuttavia, siccome era uomo di cuore ed onorato, non trasandava le mie occupazioni al palazzo Municipale. Soltanto mi piaceva più rodermi di rabbia al fianco della Pisana che fiutare in quel palazzo la futura aura dogale pronosticatami da mio padre.
In quel torno, quando le faccende di Venezia s’erano acconciate alla servitù francese, e alla vaga aspettazione d’un avvenire che appariva sempre più triste, il dottor Lucilio comparve in casa della Contessa di Fratta. Costei temeva già da un mese quella visita e non avea più il coraggio di rifiutarla. Il dottore sedette adunque dinanzi alla Contessa con quel suo solito fare né umile né arrogante, e le chiese nei debiti modi la mano della Clara. La Contessa finse una gran sorpresa e di essere scandolezzata da una tale domanda; rispose che la sua figliuola era prossima a pronunciar i voti e non intendeva per nulla di avventurarsi ai pericoli del mondo, da lei con tanta prudenza schivati; accennò da ultimo ai diritti anteriori del signor Partistagno il quale seguitava sempre ad empire bestialmente Venezia delle sue lamentazioni sul sacrifizio imposto alla Clara, e certo non avrebbe consentito che ella uscisse di convento per isposarsi ad un altro. Lucilio rimbeccò netto o e tondo che la Clara s’era promessa a lui prima che a nessuno, che i voti non erano ancor pronunciati, che le leggi democratiche non impedivano omai la loro unione per nessun conto, che la Clara aveva toccato la maggiore età, e che in quanto al Partistagno, egli se ne rideva come de’ suoi sussurri che divertivano da un anno i crocchi d’ogni ceto. La Contessa soggiunse colle labbra strette e con un sorriso maligno che, giacché aveva messo in campo l’età omai adulta della Clara, poteva rivolgersi direttamente a lei, e che si congratulava di vederlo così fermo ne’ suoi propositi, benché forse un po’ tardivo a decidersi, e che gli augurava del resto che tutto andasse a seconda de’ suoi desiderii.
– Signora Contessa, – conchiuse Lucilio – io son fermo com’ella dice ne’ miei propositi, e lo fui sempre da molti anni a questa parte, benché volessi piuttosto in grazia loro capovolgere il mondo che violare una convenienza od implorare a mani giunte un favore. Ora che le circostanze ci hanno messo del pari, non esito a chiedere quello che altri è pronto a concedermi. Io sono ben fortunato che ella non voglia opporsi colla materna autorità alle mie più soavi ed ostinate speranze.
– S’accomodi, s’accomodi pure! – aggiunse in fretta la Contessa. Pareva che così parlasse per paura di Lucilio, ma forse ella pensava alla madre Redenta e derogava fiduciosamente a lei quello scabroso incarico di difender l’anima della Clara contro gli artigli del diavolo. La reverenda madre stava alle vedette da un pezzo; e il dottor Lucilio nell’accomiatarsi dalla Contessa non credette forse di essere ancora al bel principio dell’impresa. Tuttavia che fosse molto sicuro non lo vorrei affermare. Egli avea procrastinato di giorno in giorno per veder prima assicurato a Venezia il trionfo del suo partito e delle opinioni democratiche. Allora, forse prima d’ogn’altro, fiutava il vento contrario; e superbo in volto ma disperato nell’animo s’affrettava a giovarsi di quegli ultimi favori della fortuna, per soddisfare il voto supremo del suo cuore. Vedeva capitombolare que’ bei castelli in aria di libertà politica, di gloria, e di pubblica prosperità, e sperava salvarsi, aggrappandosi con un’ancora alla felicità domestica. Con tali pensieri pel capo s’avviò al convento di Santa Teresa, annunciò alla portinaia il proprio nome, e chiese di avere in parlatorio la contessina Clara di Fratta. La portinaia scomparve nel monastero e tornò indi a poco a riferire che la nobile donzella desiderava sapere la cagione della sua visita, che ella avrebbe cercato di soddisfarlo senza distogliersi dal raccoglimento claustrale. Lucilio trabalzò di sorpresa e di rabbia; ma vide sotto questa risposta una gherminella fratesca, e tornò a ripetere alla portinaia che un suo colloquio colla signora Clara era necessario, indispensabile; e che la signorina doveva ben saperlo anche lei, e che nessuno al mondo poteva negargli il diritto di reclamarlo. Allora la conversa rientrò ancora; e tornò dopo pochi istanti a dire con faccia arcigna che la donzella sarebbe discesa indi a poco in compagnia della madre compagna. Questa madre compagna non andava giù pel gozzo a Lucilio, ma egli non era uomo da prendersi soggezione d’una monaca, e aspettò un po’ irrequieto, misurando a gran passi il pavimento marmoreo, rosso e bianco del parlatorio. Passeggiava a quel modo da lunga pezza quando entrarono la madre Redenta e la Clara: quella col collo torto cogli occhi bassi colle mani incrocicchiate sullo stomaco, e i mustacchietti del labbro superiore più irti del solito: questa invece calma e serena come sempre; ma la sua bellezza erasi illanguidita pel chiuso del monastero, e l’anima ne traluceva più pura e ardente che mai, come stella da una nebbia che va diradando. Erano molti anni che i due amanti non si vedevano così dappresso; pure non diedero segno di gran turbamento; la loro forza il loro amore stavano così profondi nel cuore, che alle sembianze non ne giungeva che un riflesso fioco e lontano. La madre Redenta cercava fra le folte siepaie delle sue ciglia un traforo per cui spiare senz’essere osservata; le sue orecchie vigilavano così spalancate che avrebbero sentito volare una mosca all’altro capo della stanza.
– Clara, – cominciò a dire Lucilio con voce forse più commossa ch’ei non voleva – Clara, io vengo dopo un lunghissimo tempo a ricordarvi quello che mi avete promesso; credo che anche per voi come per me questi lunghi anni non saranno stati che un sol giorno di aspettazione. Ora nessun ostacolo si oppone ai desiderii del cuor nostro; non più coll’impazienza e colla sbadataggine della giovinezza, ma col senno afforzato, e col proposito immutabile dell’età matura, io domando che mi ripetiate con una parola la promessa di felicità che m’avete fatta al cospetto del cielo. Né volontà di parenti né tirannia di leggi né convenienze sociali impediscono più la vostra libertà o la mia delicatezza. Io vi offro un cuore, pieno d’un solo affetto, acceso tutto d’una fiamma che non morrà mai più, e provato e riprovato dal lavoro dalla pazienza dalla sventura. Clara, guardatemi in volto. Quando è che sarete mia?
La donzella tremò da capo a piedi, ma fu un attimo; ella appoggiò sul petto una mano che contrastava pallidissima colla nera tonaca delle novizie, e alzò nel volto di Lucilio uno sguardo lungo e misterioso che pareva cercasse traverso ad ogni cosa le speranze del cielo.
– Lucilio, – rispose ella premendo alquanto quella mano sul cuore – io ho giurato innanzi a Dio di amarvi, ho giurato nel mio cuore di farvi felice per quanto starà in me. È vero: me ne sovvengo sempre, e mi adopero sempre perché le mie promesse abbiano quel maggiore effetto che Dio loro consente.
– Come sarebbe a dire? – sclamò ansiosamente Lucilio.
La madre Redenta s’arrischiò a sollevare le palpebre, per metter fuori due occhi così spaventati come se appunto l’avesse veduto le corna di Berlicche. Ma il calmo aspetto della Clara rimise più tranquilli quegli sguardi di dietro le solite feritoie.
– Vi dirò tutto, – soggiungeva intanto la donzella – vi dirò tutto, Lucilio, e voi giudicherete. Io son entrata in questo luogo di pace per fidare l’anima mia a Dio e alla sua Provvidenza; vi ho trovato affetti pensieri e conforti che mi fanno omai guardare con ribrezzo al resto del mondo... Oh no, no, Lucilio! non vi sdegnate! Le anime nostre non erano fatte per trovare la felicità in questo secolo di vizio, e di perdizione. Rassegniamoci e la troveremo lassù!
– Che dite mai? quali parole pronunciate ora, che mi straziano il cuore ed escono dalle vostre labbra colla soavità d’una melodia? Clara, per carità tornate in voi!... Pensate a me!... Guardatemi in volto... Ve lo ripeto colle mani in croce; pensate a me!
– Oh ci penso! ci penso anche troppo, Lucilio; perché son troppo impigliata nelle cose mondane per sollevarmi pura e semplice a Dio... Ma che volete, Lucilio, che volete da me?... La Repubblica nostra è caduta in balia di uomini stranieri senza religione e senza fede. Non v’è più bene non v’è più speranza, altro che nel cielo per le anime timorate di Dio. Perché fidarsi, Lucilio, alle lusinghe di quaggiù?... Perché stabilire una famiglia in questa società che non ha più rispetto a Dio ed alla Chiesa?... Perché?...
– Basta, basta, Clara!... Non prendetevi scherno del mio dolore della mia rabbia! Pensate a quello che dite, Clara; pensate che voi dovete render conto dell’anima mia a quel Dio che adorate e che intendete servir meglio consumando un sì atroce delitto. La Repubblica è caduta?... la religione è in pericolo?... Ma che ha a far tutto ciò con le promesse ch’io ebbi da voi?... Clara pensate che il primo precetto e il più sublime del Vangelo vi comanda di amare il vostro prossimo, nulla più che come prossimo, io vi domando non pietà solamente, ma giustizia!... Vi domando che vi ricordiate dei vostri giuramenti e che non vi facciate un merito presso a Dio di essere spergiura!... Dio abborre e condanna gli spergiuri; Dio rifiuta i sacrifizii offerti a prezzo delle lagrime e del sangue altrui!... Se volete sacrificarvi, or bene sacrificatevi a me!... Se non come felicità accettatemi come martirio!...
La madre Redenta tossì romorosamente per guastare l’effetto di queste parole recitate da Lucilio con un furor tale di disperazione e di preghiera che spezzava l’anima. Ma la Clara si volse a lei rassicurandola con un gesto, indi levato uno sguardo al cielo non temé di avvicinarsi a Lucilio e di mettergli castamente una mano sulla spalla. Il povero sapiente indovinò tutto da quello sguardo da quell’atto, e sentì col cuore lacerato di non poter seguire in cielo quell’anima che gli sfuggiva, beata nei proprii dolori.
– Ma perché, perché mai, o Clara? – proseguì egli senza pur aspettare ch’essa gli dichiarasse il senso terribile di quei movimenti. – Perché volete uccidermi mentre potreste risuscitarmi?... Perché vi dimenticate dell’amore santo eterno indissolubile che m’avete giurato?
– Oh quest’amore, più santo più eterno più indissolubile di prima ve lo giuro anche adesso! – rispose la donzella. – Soltanto le nostre nozze siano in cielo poiché sulla terra Iddio le proibisce ai suoi fedeli!... Ve lo giuro, Lucilio! Io vi amo sempre, io non amo che voi!... Quest’amore ho potuto purificarlo santificarlo, ma non potrei strapparmelo dalle viscere senza morire! Da ciò appunto vedete se la mia vocazione è vera e tenace. Vi amerò sempre, vivrò sempre con voi in comunione di preghiere e di spirito. Ma di più, Lucilio, voi non avete diritto di chiedermi... Di più io non potrei concedervi perché Dio me lo proibisce!
– Dio adunque vi comanda di uccidermi! – sclamò con un urlo Lucilio.
La madre Redenta gli corse dappresso a raccomandargli la temperanza perché le suore stavano allora in meditazione e potevano aver molestia da quelle vociate. La Clara abbassò gli occhi; pianse la poveretta; ma né si piegò né si scosse dal suo fermo proposito. Le torture ch’ella provava erano immense; ma la suora compagna avea contato bene sulle astuzie adoperate per affatturarla5 in quel modo. Omai l’anima della Clara abitava in cielo, e le cose di quaggiù non le vedeva che da quelle altezze infinite. Avrebbe scontato colla propria morte un peccato veniale di Lucilio, ma l’avrebbe anche ucciso per assicurargli la salute eterna. Infatti ella tramortì e tremò tutta, ma si strinse più vicina a lui, e riavendosi subitamente soggiunse:
– Lucilio, mi amate?... Or bene fuggitemi!... Ci incontreremo, siatene certo, in luogo migliore di questo... Io pregherò per voi, pregherò per voi nei cilicii e nel digiuno...
– Bestemmia! – gridò l’altro allora. – Voi pregare per me?... Il carnefice che intercede per la vittima!... Dio avrà orrore di tali preghiere!
– Lucilio! – soggiunse modestamente la Clara. – Tutti siamo peccatori, ma quando...
La madre Redenta interruppe queste parole con una opportuna gomitata.
– Umiltà, umiltà, figliuola! – brontolò essa. – Non vi bisogna parlare né insegnare altrui quando non ne sia mestieri strettamente.
Lucilio sbalestrò alla vecchia un’occhiata quale ne suol dardeggiare il leone tra le sbarre della sua gabbia.
– No, no – soggiunse egli amaramente. – Insegnatemi anzi, ché son molto novizio in quest’arte, e morrò certo di crepacuore prima d’averla imparata!...
– Ed io, credete ch’io brami e voglia vivere un pezzo? – soggiunse mestamente la Clara. – Sappiate che nessuna grazia domando alla Madonna con tanta insistenza con tanto fervore quanto questa di morir fra breve e di salire in cielo a intercedere per voi!...
– Ma io, io sdegno le vostre preghiere! – scoppiò rugghiando Lucilio. – Io voglio voi! voglio la mia felicità, il ben mio!...
– Calmatevi! abbiate compassione di me!... Nel mondo non v’è più bene, lo so pur troppo!... Sapete che corre già la voce dell’abolizione di tutti gli ordini religiosi, e della demolizione dei conventi!...
– Sì sì; e questa voce si avvererà!... Ve lo giuro io che si avvererà. Io stesso farò sì che di questi sepolcri di viventi non resti più pietra sopra pietra!...
– Tacete, Lucilio, per carità tacete! – riprese la Clara guardando affannosamente la madre compagna che si dimenava forse con segreta compiacenza sulla sua seggiola. – Convertitevi al timore di Dio e alla fede vera fuor della quale non v’è salute!... Non commettete questi peccati di eresia che vi fanno colpevole mortalmente dinanzi a Dio! Non oltraggiate la santità di quelle anime che sposano su questa terra il loro creatore per renderlo più clemente verso i loro fratelli d’esiglio!...
– Anime ipocrite, anime false e corrotte, – sclamò digrignando Lucilio – le quali si adoperano per accallappiare per domare altre anime semplici e deboli!...
– No, signor dottore carissimo; non voglia calunniarci così alla cieca – entrò a dire con voce secca e nasale la madre compagna. – Queste anime ipocrite che sacrificano la vita intiera per afforzare e per salvare le deboli, sono le sole che difendano omai la fede e i buoni costumi contro le perversità mondane. È merito loro se molte anime deboli diventano così forti e sublimi da appoggiare ogni speranza in Dio, e da riguardar le parole d’un semplice voto come una barriera insuperabile che le divide per sempre dal consorzio dei tristi e degli increduli. Gli è vero – soggiunse ella chinando il capo – che restiamo congiunte ad essi col vincolo spirituale dell’orazione, la quale, vogliamo sperarlo, gioverà a salvarne qualcuno dagli artigli infernali.
– Oh presto presto i tristi e gli increduli sciorranno i vostri voti! – sclamò Lucilio con voce tonante. – La società è opera di Dio e chi si ritragge da essa ha il rimorso del delitto o la codardia dello spavento, o la dappocaggine dell’inerzia nell’animo!... – In quanto a voi (e si volgeva specialmente alla Clara), in quanto a voi che avete pervertito la coscienza vostra disumanandola, quanto a voi che salite al cielo calpestando il cadavere d’uno che vi ama, che non vede, che non vive, che non pensa che per voi, ah abbiatevi sul capo l’ira e la maledizione...
– Basta Lucilio! – sclamò la donzella con piglio solenne. – Volete saper tutto? Or bene ve lo dirò!... I voti ch’io pronuncierò domenica solennemente dinanzi all’altare di Dio, li ho già espressi col cuore dinanzi al medesimo Dio in quella notte fatale che i nemici della religione e di Venezia entrarono in questa città. Fummo otto ad offerire la nostra libertà la nostra vita per l’allontanamento di quel flagello, e se quegli infami quegli scelerati saranno costretti ad abbandonare la preda sì vilmente guadagnata, Dio avrà forse benignamente riguardato il nostro sacrifizio!...
La madre Redenta ghignò sotto la cuffia, Lucilio dimise un poco del suo furore e mosse alcun passo verso l’uscio: indi tornò presso la Clara quasi gli fosse impossibile di abbandonarla a quel modo.
– Clara, – riprese egli – io non vi pregherò più; lo veggo, sarebbe inutile. Ma vi darò lo spettacolo di tanta infelicità che i rimorsi vi perseguiteranno fin nel silenzio e nella pace del chiostro. Oh voi non sapete, non avete mai saputo quanto vi amassi!... Non avete misurato gli abissi profondi ed infiammati dell’anima mia tutti pieni di voi: non avete dimenticato voi stessa, come io dimenticava affatto me, per vivere sempre in voi. I sacrifizii ve li imponete con mille sottigliezze mentali, non li accettate dalla santa spontaneità dell’affetto e del sentimento!... Clara, io vi lascio a Dio ma Dio vi vorrà egli?... L’adulterio è egli permesso da quei santi comandamenti che sono il sublime compendio dei nostri doveri?
Non so se così parlando Lucilio intendesse di capitolare o di tentare un ultimo colpo. Del resto fra lui e la Clara combattevano come due schermitori fuori di misura, contendevano come due litiganti ognuno de’ quali adoperava una lingua sconosciuta all’altro. La madre Redenta trionfava sotto la sua cuffia di quel potente e instancabile macchinatore che, si può dire, aveva dato l’ultimo crollo ad un governo di quattordici secoli, e mutato faccia ad una bella parte di mondo. Perché mai godeva ella di adoperare così?... Prima di tutto perché non v’ha orgoglio che superi l’orgoglio degli umili; indi perché si vendicava sugli altri della infelicità propria, e da ultimo perché voleva mantenere alla Contessa ciò che le aveva promesso. Dopo tanti anni di lento lavorio ammirava allora nella costanza della Clara l’opera propria, e non avrebbe dato quei momenti per l’abbazia più cospicua dell’Ordine. Quanto a Lucilio, dopo tanti anni di fatica, di perseveranza e di sicurezza, dopo aver superato ogni impedimento, e atterrato ogni ostacolo, vedersi respinto senza remissione dallo scrupolo divoto d’una donzella, e non poter conquidere un’anima dov’egli sapeva di regnar ancora, era per lui un delirio che vinceva la stessa immaginazione!... Con ogni sforzo di mente e di cuore era giunto là dove impossibile l’avanzare e il retrocedere: era giunto a diffidare di sé, dopo una sì lunga sequela di continui trionfi. La fiducia avuta per l’addietro aggiungeva alla sconfitta una vera disperazione. Tuttavia non credo ch’egli si desse per vinto; giacché egli era di quella tempra che cede solamente alla frattura della morte. Ma l’amore diventò in lui rabbia, odio, furore: e in quelle ultime parole rivolte amaramente alla Clara la sola superbia lottava forse ancora. L’amore s’era sprofondato dentro l’anima sua ad attizzarvi un incendio di tutte quelle passioni che prima servivano a lui ubbidienti e quasi ragionevoli. La donzella nulla rispose agli insulti ch’egli le scagliava; ma quel silenzio esprimeva più cose d’un lungo discorso, e Lucilio tornò a saltargli contro con un impeto di rimbrotti e d’imprecazioni, come il toro furibondo, che impedito di uscir dall’arena, si spacca il cranio contro lo steccato. Infuriò a sua posta con grande scandalo della madre Redenta, e molta compassione della Clara: indi la volontà riebbe il freno di quelle furie scomposte, e fu tanto forte e orgogliosa da persuaderlo ad andarsene, lasciando per ultimo saluto alla donzella uno sguardo di pietà insieme e di sfida. Lo ripeto ancora che la ferita dell’orgoglio fu in lui forse più profonda che quella dell’amore; infatti anche in quei terribili momenti egli ebbe campo a pensare di ritirarsi coll’onor delle armi. Io sarei morto ingenuamente di crepacuore; egli si sforzò a vivere per persuadere se stesso che delle proprie passioni della propria vita egli era sempre il solo padrone. Fosse poi vero non potrei assicurarlo. Anzi io mi ricordo averlo veduto a quei giorni; e benché fossi anche troppo occupato de’ casi miei, pure non mi sfuggì affatto una tal quale costernazione ch’egli si studiava indarno di celare sotto la solita austera imperturbabilità. A poco a poco peraltro vinse l’uomo vecchio; egli si rizzò ancora, l’orgoglioso gigante, dalla sua breve sconfitta; le sventure della patria lo trovarono forte invincibile a sopportarle; forse tanto più forte ed invincibile quanto era più disperato di sé. La Clara pronunciò solennemente i suoi voti, e Lucilio serbò tutta per sé l’angoscia e la rabbia per questa perdita irrimediabile.
La Pisana si sposò poco dopo al nobiluomo Navagero: e Giulio Del Ponte li seguì all’altare col sorriso della speranza sul volto. Egli non l’amava come l’amava io. Io solo adunque rimasi a fare spettacolo per ogni luogo del mio furore del mio accoramento. Non potea darmi pace, non potea pensar al futuro senza rabbrividire; eppur non osava neppur allora nei delirii del dolore maledire alla Pisana; e tutte le mie maledizioni le serbava per la Contessa che aveva avvilito la propria figlia in un matrimonio mostruoso per godere l’abbondanza e le comodità di casa Navagero. Seppi poi di più, che anche le astuzie adoperate per imbigottire la Clara dipendevano da una questione di quattrini. La vecchia non avea pagato al convento che metà della dote e promesso il resto ed assicuratolo sopra le sue gioie: ma lo scrigno era vuoto, le gioie brillavano al Monte di Pietà, ed essa temeva sul serio che la Clara maritandosi le avrebbe chiesto conto di ogni suo avere. Ecco molti guai dovuti alla smania troppo furiosa d’una dama per la bassetta e pel faraone. Il conte Rinaldo si era salvato da quella rovina e dal disonorevole patrocinio del cognato accettando un posto oscurissimo nella Ragioneria del governo. Un ducato d’argento al giorno e la Biblioteca Marciana lo assicuravano da tutti i bisogni della vita. Ma io lo vedeva anche lui camminare per via col capo chino e cogli occhi internati; scommetto che non era l’ultimo a sentire dolorosamente la viltà di quei costumi, di quei tempi.
Lo confesso colla vergogna sul volto; era proprio viltà. Tutti sapevano ove si precipitava e ognuno faceva le viste di non saperlo per esser liberato dall’incommodo di disperarsene. Il solo Barzoni fra i letterati osò alzare la voce contro i Francesi con quel suo libro già in addietro accennato dei Romani in Grecia. Ma questa erudizione falsificata in libello, questa satira stiracchiata colle analogie è già indizio di temperamento fiacco, e di letteratura evirata. Fu un gran sussurro intorno a quel libro ed all’anonimo autore; ma lo leggevano a porte chiuse col solo testimonio della candela, pronti a gettarlo sul fuoco al minimo sussurro ed a proclamare il giorno dopo sui caffè che le depredazioni di Lucullo e l’astuta generosità di Flaminio non somigliavano per nulla al governo generoso e liberale di Bonaparte. Infatti egli ci spogliava della camicia per farne un presente alla libertà di Francia; i futuri servi dovevano restare ignudi come gli iloti di Sparta. Egli aveva già rimpastato intorno a Milano la Repubblica Cisalpina, minaccia piucché promessa alla sempre provvisoria Municipalità di Venezia. La liberazione del signor d’Entragues, ministro borbonico, vilmente consegnatogli dalla scaduta Signoria, lo aveva messo in voce di galantuomo presso gli emigrati: ne speravano un Monk6; guardate che nasi! Invece i repubblicani incorreggibili, i demolitori della Bastiglia, gli adoratori degli alberi, i Bruti, i Curzii, i Timoleoni lo adocchiavano di sbieco, tacciandolo sottovoce di alterigia, di falsità, di tirannia. La Municipalità, che dopo lo scacco di Bassano si sentiva mancar sotto i piedi il terreno; ebbe l’ingenuo capriccio di chieder l’incorporamento degli Stati veneziani nella nuova Repubblica lombarda. Ma i governanti di questa risposero parole dure ed altiere; sarebbe un fratricidio, se la volontà sottintesa del Bonaparte non la spiegasse per servilità. Ad ogni modo restino infamati per sempre i nomi di coloro che sottoscrissero un foglio dove si negava aiuto a una città sorella, sventurata e pericolante. Meglio annegare insieme che salvarsi senza stendere una mano al congiunto all’amico che implora pietosamente soccorso.
Io per me sperava come gli altri nella venuta del generale; sperava che i segni i monumenti della nostra grandezza passata lo avrebbero distolto dalla crudele e premeditata indifferenza ch’egli già cominciava ad ostentare a nostro riguardo. Ma invece del generale, trattenuto da rimorsi o da vergogna, non ci capitò che sua moglie, la bella Giuseppina. Essa sbarcò in Piazzetta con tutta la pompa d’una Dogaressa; e ne aveva se non la maestà certo lo splendore in quelle sue sembianze di vera creola. Tutta Venezia fu a’ suoi piedi; coloro che avevano accarezzato Haller, il banchiere, l’amico di Bonaparte, per ottenerne una prolungazione di agonia alla vecchia Repubblica, accarezzarono, adularono, venerarono allora la moglie del sensale dei popoli, perché non si uccidesse prima della nascita quell’aborto nuovo di libertà. Io pure mi pavoneggiai colla mia splendida tracolla di segretario nel corteggio dell’Aspasia parigina. Vidi la sua bella bocca sorridere alle gentilezze veneziane, udii la sua voce carezzevole bisbigliare il francese quasi come un dialetto italiano; io, che n’avea studiato un pochino in quei tempi di infranciosamento universale, balbettava a mia volta l’oui ed il n’est pas con taluno degli aiutanti di campo che l’accompagnava. Infine fosse prestigio di bellezza, o apparenza di buona volontà, o tenacità di lusinghe, le speranze degli illusi ebbero qualche ristoro dalla visita di quella donna. Perfino mio padre non iscrollava più il capo, e mi spingeva ad avanzarmi a farmi vedere nella prima fila degli adulatori.
– Le donne, figliuol mio, le donne son tutto –; mi diceva egli – Chi sa? forse il cielo ce l’ha mandata: da picciol seme nascono le grandi piante; non mi stupirei di nulla.
Invece il dottor Lucilio, che addomesticato col ministro di Francia fu ammesso più d’ogni altro all’intrinsichezza della bella visitatrice, non partecipò, per quanto mi pare, a codesto invasamento generale. Egli studiò in Giuseppina non la donna ma la moglie; da questa indovinò il marito, e il pronostico che ne trasse per la nostra sorte che stava nelle sue mani non fu molto favorevole. Si confermò piucchemai nella sua profonda disperazione; e lo vidi a quei giorni più tetro e misterioso del solito. Gli altri ballonzolavano tutti che parevano alla vigilia del millennio. Municipali, capi-popolo, ex-senatori, ex-nobili, dame, donzelle, abati e gondolieri s’affoltavano dietro la moglie del gran capitano. La bellezza può molto a Venezia; essa potrebbe tutto quando fosse avvivata internamente da qualche alto sentimento, e ce ne diedero tempi più vicini una prova. Le donne fanno gli uomini, ma l’entusiasmo improvvisa le donne anche dove l’educazione non ha preparato che delle bambole. Più volte facendo codazzo alla Beauharnais, o nelle sue anticamere, la Pisana e il suo frollo sposino mi passarono rasente il gomito. Io ne guizzava tutto, come se mi rovesciassero una catinella d’acqua sul dorso; ma mi sovveniva della mia dignità, delle raccomandazioni di mio padre e mi faceva pettoruto e disinvolto per attrar l’attenzione dell’ospite illustre.
Essa infatti mi osservò, e la vidi chieder conto di me a Sua Eccellenza Capello che le reggeva il braccio: si parlarono sottovoce, ella mi sorrise e mi porse la mano che baciai con molto rispetto. Così si trattavano allora le mogli dei liberatori, con bocca devota e ginocchi piegati. Gli è vero che quella mano era così paffutella così morbida e perfetta da far uscir di capo che la appartenesse ad una cittadina; molte imperatrici ne avrebbero desiderato un paio di simili, e Catterina II non le ebbe mai, per quanti saponi ed acque nanfe7 le componessero i suoi distillatori. Allora io diventai, dico dopo quel bacio, un personaggio di gran momento, e la Pisana mi onorò d’un’occhiata che non era certo indifferente. Sua Eccellenza Navagero mi guardò anch’esso con minor indifferenza della moglie, né ci voleva di più per farmi smarrire affatto. In buon punto mi soccorse Giulio Del Ponte, che seguiva a quanto sembra la coppia fortunata, e mi volsi tutto confuso a parlare con lui. Non so di che discorressi, ma mi ricorda che cascammo alla Pisana ed al suo matrimonio. Giulio non era più felice l’un per cento di quanto aveva sperato di poterlo diventare il giorno delle loro nozze; infatti lo adocchiai allora, e lo vidi incadaverito, come un amante in procinto di fallire. La malattia dell’animo lo aveva ripreso; e rodeva lentamente un corpo gracile di natura e già offeso da precedenti disgrazie. Però non lo compatii allora come per l’addietro: aveva capito di qual tempra fosse l’amor suo, e non lo reputava degno né di stima né di pietà. Io mi maraviglio ancora che colla maniera di mia educazione avessi potuto serbare una tal rettitudine di giudizio nelle cose morali. Ma dubito ancora che l’avessi a danno degli altri, e che verso di me sarei stato di gran lunga più indulgente. Comunque la sia non entrai a parte per quella volta dell’accoramento di Giulio, e lo lasciai smaniare e disperarsi a sua posta senza piangere: tanto più che allora non poteva fargli cessione della Pisana, né cancellare a suo conforto quella larva incommodissima di marito. Infatti l’occhiuta e pettegola gelosia di costui era il primo tormento del povero Giulio; ma se ne aggiungeva uno di peggiore assai.
– Vedi – mi bisbigliava egli all’orecchio con un rabbioso scricchiolio di denti –, vedi quel lesto ufficialino che tien sempre dietro alla Pisana, e saltella dal fianco di lei a quello del marito, ed ora si avvicina alla bella Beauharnais e le fa riverenza, e le stringe il dito mignolo con tanta leggiadria?... Or bene, quello è il cittadino Ascanio Minato, di Ajaccio, un mezzo italiano e mezzo francese, un compaesano di Bonaparte, aiutante di campo del generale Baraguay d’Hilliers e alloggiato per ordine della Municipalità nel palazzo Navagero... Come vedi è un bel giovine, un brunetto svelto e di alta corporatura, pieno di brio di superbia e di salute; coraggioso, dicono, come un disperato, e spadaccino più di don Chisciotte... Per giunta poi ha l’assisa del soldato che alle donne piace più della virtù. Il vecchio Navagero che non vuol per casa damerini e cascamorti di Venezia ha ben dovuto sopportar in pace questo intruso d’oltremare. Il poveretto ha paura, e per non incorrere nel sospetto d’aristocratico o di misogallo8 sarebbe anche capace di lasciarsi... Basta!... È l’eroismo della paura e gli sta bene a quel visetto decrepito e bambinesco, chiazzato di giallo e di rosso come l’erba papagallo9. La signorina diventa francese ogni giorno più; già ella ne cinguetta mezzo dizionario come una parigina, e temo che le parole più interessanti le abbia già fatte entrare nel dialogo. S’intende già che l’ufficiale còrso non si degna dell’italiano... Io non parlo che italiano!... Figurati!.. Ma se n’accorgeranno, se n’accorgeranno di questi liberatori! Hanno cancellato il Pax tibi Marce dal libro del Leone per inscrivervi i Diritti dell’uomo. Peggio per noi che l’abbiamo voluto!... Peggio mille volte tanto per quelli che si rassegnano!... Oh la si vuol veder bella!... Fin qui io lasciai correre senza argine quel fiume di eloquenza; ma quando egli si mise a far gazzarra d’una sì triste speranza, e a desiderar quasi da una pubblica e così grande sventura la vendetta d’un proprio torto affatto privato, allora mi sentii gonfiar entro un temporale di sdegno e scoppiai in un’apostrofe che lo fece restare come una statua.
– E tu ti rassegneresti a vederla? – gli dissi io con uno stupore pieno di sprezzo negli occhi. Vi ripeto ch’egli rimase lì a modo d’una statua: salvoché respirava con tanta fatica che almeno le statue questa fatica non l’hanno. Pure un qualche cruccio lo provava anch’io per questo nuovo trascorso della Pisana ch’egli mi raccontava; e nullameno lo giuro che non mi rimase posto nel cuore per un tale rammarico, tanto mi aveva inorridito la cinica scappata di Giulio. Seguitai a rampognarlo a tempestarlo della sua sacrilega speranza; e gli dimostrai che non sono i più codardi quelli che si rassegnano, appetto di coloro che mettono la loro soddisfazione nella viltà altrui e nella rovina della patria. M’infervorava tanto che rimasimo soli senzaché me ne avvedessi: la comitiva avea seguito la Beauharnais nel Tesoro di San Marco, donde si doveva estrarre una magnifica collana di cammei per farlene presente. Quando ci avviammo per raggiungerli erano già usciti in Piazza e tornavano verso il palazzo del governo. Voi non vi figurerete mai la mia grandissima sorpresa nel discernere fra la gente che corteggiava la francese Raimondo Venchieredo; e misti colla folla, Leopardo Provedoni e sua moglie, che, anch’essi si lasciavano menare dalla curiosità in quella processione. Per quel giorno la cerimonia era finita, onde io, abbandonando il Del Ponte alla sua stizza m’accostai a questi ultimi, colle festose accoglienze e con quei tanti oh di maraviglia e di piacere, che si usano coi compaesani e coi vecchi amici in in paese forestiero.
La Doretta aveva gli occhi perduti dietro a Raimondo, che era scomparso nell’atrio del Palazzo coi cortigiani più sfegatati; Leopardo mi strinse la mano e non ebbe coraggio di sorridermi. Peraltro condotta ch’egli ebbe la moglie a casa in due stanzette vicino al Ponte Storto, e rimasto solo con me, rimise un poco di quella sostenutezza e mi diede il perché e il percome di quella loro venuta a Venezia. Il vecchio signor di Venchieredo pareva fosse molto domestico a Milano del general Bonaparte; lo aveva seguito a Montebello in un segreto abboccamento coi ministri dell’Austria, e poi aveva fatto un gran correre da Milano a Gorizia, da Gorizia a Vienna, e da Vienna ancora a Milano per tornar poi a Vienna indi a poco. Reduce da quest’ultimo viaggio e ravviato per Lombardia avea fatto sosta a Venchieredo per veder il figliuolo, e gli avea comandato di recarsi tosto a Venezia, ove un prossimo rivolgimento di cose gli preparava grandi fortune. Il signor Raimondo non volendo separarsi dal suo segretario, Leopardo e la Doretta avean dovuto spiantar casa pur essi; e così si trovavano a Venezia. Ma questi non ne era punto contento e se non fossero state le preghiere della moglie si sarebbe fermato volentieri in Friuli. Il povero giovine in tali discorsi diventava di tutti i colori, e durava uno stento grandissimo a non iscoppiare. Io me n’accorsi, e ne lo sviai col domandargli novelle del paese nostro e de’ miei amici e conoscenti. Così conversando e passeggiando per calli e per fondamenta egli si svagò dalla solita tetraggine, e quasi dimenticava le proprie sciagure: ma io soffriva per lui pensando al momento quando se ne sarebbe pur troppo risovvenuto. Intanto egli mi confermò la novella della tristissima piega che prendevano gli affari della famiglia di Fratta. Il Capitano e Monsignore non pensavano che a banchettare e ad attizzar il fuoco: ai vecchi servitori o morti o licenziati era sottentrata una mano di ladroncelli che mettevano a ruba quel poco che rimaneva. Non c’erano più cazzeruole o tegami che bastassero pel pranzo di Monsignore. La Faustina s’era maritata con Gaetano, lo sbirro di Venchieredo, liberato da poco dalla galera; e partendo avea trafugato e venduto gran parte delle biancherie. Il Capitano e Monsignore litigavano oltrecché per l’attizzatoio anche per la camicia: la signora Veronica li accomodava, strapazzandoli ambidue; e il più buffo si era che al vecchio Sandracca saltava talvolta il ticchio della gelosia; e questo formava un terzo argomento di grandi contese fra lui ed il canonico. Del resto Fulgenzio faceva alto e basso. Già subito dopo la mia partenza egli avea comperato un podere di casa Frumier vicino a Portovecchio; e poi lo veniva arrotondando col convertire in ipoteche i sussidii che anticipava alla famiglia dei padroni. Per esempio c’era il frumento in granaio e da Venezia gli domandavano denari; se il frumento andava a buon mercato, egli fingeva di comperarlo lui con quella somma che spediva a Venezia, e poi quando le derrate crescevano di prezzo egli ne guadagnava dalla vendita il suo bel salario. Se i grani calavano sempre, si scordava di quel finto contratto, e la somma della compera si scambiava in un mutuo, pel quale egli si tratteneva il sette l’otto o il dodici per cento. Così conservava la pace della propria coscienza, accrescendo smoderatamente gli utili del proprio ministero.
I suoi figliuoli non erano più sagrestani o portinai; ma Domenico faceva pratica di notaio a Portogruaro, e Girolamo studiava teologia in seminario. In paese si prevedeva che una volta o l’altra Fulgenzio sarebbe divenuto il castellano di Fratta o poco meno. L’Andreini, a cui il conte Rinaldo avea commesso prima di partire una sorveglianza così all’ingrosso sulle faccende del castello, se la pigliava con tanto comodo, che quasi quasi pareva anche lui a parte della mangeria. Il Cappellano, poveretto, aveva paura perfino dell’ex-sagrestano e non ci guardava pel sottile: il Piovano di Teglio, veduto di mal’occhio nella parrocchia pel suo costume arcigno e tirato, aveva in casa sua troppe seccature per poter mettere il naso in quelle degli altri. Già la Diocesi dopo la venuta dei Francesi e la partenza del padre Pendola (costui secondo Leopardo doveva essere anch’egli a Venezia) tornava a dividersi e suddividersi in partiti ed in combriccole. Tanto più credevano averne il diritto, che la concordia impiastricciata dalle mene furbesche del Reverendo non era della miglior lega.
– A Venezia il padre Pendola! – sclamai io come fra me. – Che cosa ci sia venuto a fare?... Non mi sembra né luogo né stagione per lui!...
Leopardo sospirò sopra a queste mie parole, e soggiunse a voce sommessa che pur troppo i segni non mentiscono, e che soltanto le carogne attirano i corvi. Ciò dicendo eravamo giunti in Piazzetta; ond’egli levando gli occhi scoperse quel miracoloso edifizio del Palazzo Ducale; e due lagrime gli corsero giù per le guancie.
– No, non pensiamo a ciò! – seguitò egli squassandomi il braccio con forza erculea. – Ci penseremo a suo tempo! – Indi riprese a darmi contezza delle cose di laggiù: come sua sorella Bradamante si era sposata a Donato di Fossalta, e Bruto suo fratello e Sandro il mugnaio, presi da furore eroico, s’erano assoldati in un reggimento francese. Questa novella mi sorprese non poco, ma in quanto a Sandro ne pronosticava bene e pensava che avrebbe fatto buona figura, come poi i fatti non mi diedero torto. Bruto, secondo me, si scalmanava troppo per riuscire un soldato perfetto; a menar le mani sarebbe andato di lena, ma quanto al voltare a destra e a sinistra ne operava poco assai. Leopardo mi toccò del gran cordoglio provato da suo padre per quella determinazione; il povero vecchio aveva perduto la memoria e le gambe, e le faccende del Comune volgevano a caso come Dio voleva. Già del resto l’egual guazzabuglio c’era in tutto; e quell’interregno di ogni governo, quell’intralciarsi quel contrastarsi di tre o quattro giurisdizioni, impotenti le une per vecchiaia e per debolezza, tiranniche le altre per l’indole loro arbitraria e militare, opprimeva la gente per modo che pregavano concordemente perché venisse un padrone solo a cacciar via quei tre o quattro che li angariavano senza esser capaci o interessati a difenderli. Municipalità cittadine, congregazioni comunali o foresi, tirannia feudale, governo militare francese, non si sapeva dove dare il capo per ottenere un bricciolo di giustizia.
Perciò anche in quel continuo affaccendarsi di reggitori la giustizia privata reputava necessario l’intervenire; le violenze, le risse, gli ammazzamenti erano giornalieri; la forca lavorava a doppio, e i coltelli avevano il loro bel che fare lo stesso. Solamente dove risiedeva un quartier generale duravano perpetue le feste e il buon umore; colà gli ufficiali facevano scialo delle cose rapite nel contado e nei paesi minori; il popolaccio gavazzava nell’abbondanza d’ogni ben di Dio, e le signore civettavano per vezzo di moda coi lindi francesini. Qual maggior comodità di diventar patrioti e liberali, facendo all’amore?... Succedeva dappertutto come a Venezia: si guardavano in cagnesco alle prime per finire coll’abbracciarsi da ottimi amici. I vizii comuni sono mezzani ad ogni viltà: e vi furono molte che senza avere il temperamento subitaneo e il marito decrepito della Pisana, s’aggiustarono come lei con qualche tenentino di linea per fuggir la mattana di quel tempo provvisorio. Lo so che erano difetti e vigliaccherie ereditate dai padri e dai nonni; ma non bisogna poi passarle buone perché le sono ereditate; s’eredita anche la scrofola che non è poi una giuggiola da tenersela cara. Quanto alla democrazia e al culto della ragione erano piucché altro pretesti cacciati innanzi dalla paura e dalla vanità; infatti chi ballò allora intorno all’albero della libertà, ballò anche al seguente carnevale nelle sale del Ridotto in barba al trattato di Campoformio, e s’insudiciò più tardi i ginocchi dinanzi al Nume di Austerlitz. Credo che festa popolare più funebre e grottesca di quella nella quale si piantò in piazza San Marco l’albero della libertà, non la si possa vedere al mondo. Dietro a quattro briachi a venti pazzerelle che saltavano, si sentivano strascicate sul lastrico le sciabole francesi; e i Municipali (io in mezzo a loro) stavano ritti e silenziosi sulla loro loggia, come quei vecchi cadaveri appena disotterrati che aspettano un solo buffo d’aria per cader in polvere. Leopardo mi accompagnò a quella festa, e si morsicava le labbra come un arrabbiato. In una loggia rimpetto a noi sua moglie sedeva vicina a Raimondo, mettendo in mostra tutte le smorfie veneziane che aveva saputo aggiungere alle sue in una settimana di tirocinio.
Passavano i giorni tristi monotoni soffocanti. Mio padre era tornato grullo come un turco; egli non parlava che colla sua serva a sgrugnate e a monosillabi; sbatteva raramente la sacoccia delle doble, e non mi seccava più coi panegirici della Contarini. I Frumier stavano imbucati nel loro palazzo quasi per paura di qualche aria pestilenziale; soltanto Agostino compariva qualche volta al caffè delle Rive per recitare altamente il suo credo giacobinesco. Egli era fra quelli che credevano alla durata del dominio francese; e speravano racquistare per amore o per forza un grado almeno della perduta importanza. Lucilio passava come un’ombra da casa a casa: si vedeva il medico che non tien più conto né della propria vita né dell’altrui, e attende a guarire più per abitudine che per convinzione di operar così qualche bene a vantaggio dell’umanità. Leopardo diventava sempre più cupo e taciturno; l’ozio finiva di consumargli lo spirito; egli non faceva pompa dei proprii dolori, ma si accontentava di morirne oncia ad oncia. Raimondo e la Doretta non gli badavano punto; diventavano sfrontati a segno da recitare in sua presenza qualche scenetta di gelosia. Egli si cacciava allora la mano nel petto e la traeva colle unghie lorde di sangue; tuttavia le rughe marmoree della sua bella fronte coperta di nuvole non si risentivano guari di nulla. Unico ristoro gli era il versar nel mio seno non i suoi dolori ma le fatali rimembranze della perduta felicità. Allora rompeva per breve tempo il suo silenzio da certosino; le sue parole somigliavano un canto su quelle labbra pure e fervorose; ricordava con dolore infinito, con amara voluttà, senz’ombra di odio o di rancore.
Quello invece che smaniava daddovero e sempre era Giulio Del Ponte. In lui era risuscitata con maggior violenza quella malattia che l’avea menato in fil di morte al tempo delle civetterie della Pisana col Venchieredo. Stavolta peraltro egli pareva più debole, più affranto, e il suo competitore a tre doppii più bello, più spensierato, più certo della vittoria. Io non andava mai in casa Navagero, perché ne avrei avuto troppo grave angoscia, ma me ne dava novelle Agostino Frumier. Quello sciagurato di Giulio si ostinava indarno a posseder un cuore che gli sfuggiva sempre più. Ricominciava la lotta del cadavere col vivo; lotta spaventevole che prolunga i dolori e lo spavento dell’agonia senza dare né il desiderio né la pazienza della morte. Il suo volto, scarnato dall’etisia, contraffatto dal dolore e dalla rabbia, metteva raccapriccio: lo spirito gli si torceva impotente e furioso in un perpetuo giro di pensieri truci ed orribili; se mai si sforzava di mostrar qualche brio, i suoi occhi il sorriso la voce si contrapponevano alle parole. ll fiato gli mancava, il discorso gli si ingarbugliava per l’idea dolorosa e inesorabile che lo preoccupava. La stizza di non poter essere piacevole lo guastava peggio che mai, e gli spremeva dalla fronte il vero sudore della morte. Il gaio officiale còrso si prendeva beffe di quello spettro che si frammischiava coi suoi ossi sporgenti coi capelli irti e le mani tremolanti alla loro allegria. La Pisana non si accorgeva di lui, o accorgendosene lo trovava così brutto e ingrugnato che le scappava ogni voglia di guardarlo due volte. Esso gli avea piaciuto per la sua vivacità e la magia de’ modi, e la copia e l’incanto della parola; svanito tuttociò, non discerneva più il Giulio d’altri tempi. Fosse anche restato tal quale, gli è assai dubbio se il bel officiale non le lo avrebbe fatto dimenticare; ad ogni modo non lo curava più, non lo amava per nulla; forse anco non lo avea mai amato, e da ultimo non voglio ficcarmi addentro in tante conghietture, perché, tra la materia così arcana e confusa com’è l’amore, e il temperamento precipitoso variabile indefinito della Pisana, non ci caverei un pronostico da far onore al lunario.
Giulio scappava alle volte colle mani alle tempie, e i furori della gelosia e dell’orgoglio offeso nel cuore. Cercava fra le ombre della notte, sulle fondamenta più lontane e spopolate, quella pace che gli fuggiva dinanzi come la nebbia a chi sale una montagna. Là, sotto il pallido sguardo della luna, al fresco ventolio dell’aura marina, al lontano mormorare dell’Adriatico un ultimo sforzo di poesia lo faceva risorgere da quel profondo abbattimento. Pareva ch i fantasmi rinatigli d’improvviso in capo lo sospingessero a una corsa sfrenata, a un’ultima baldoria di vita e di gioventù. Gli pareva allora di essere o un genio che ha creato un poema come l’Iliade, o un generale che ha vinto una battaglia, o un santo che ha calpestato il mondo e si sente degno del cielo. Amore gloria ricchezza felicità, tutto era poco per lui. Reputava spregevoli e basse queste fortune terrene e passeggere, si sentiva maggiore di esse, e capace di guardarle come il pascolo di esseri mezzi e striscianti. Ergeva alteramente il capo, fisava il cielo quasi da eguale a eguale, e diceva fra sé: Tutto che io voglia fare lo farò! Quest’anima mia chiude tanta potenza da sollevare il mondo: il punto di leva io l’avrei insegnato ad Archimede: è la fortezza dell’animo! – Misere illusioni! Provatevi a toccarne una sola ed essa vi svanirà fra le dita come l’ala d’una farfalla. Ognuno, almeno una volta in sua vita, ha creduto facile l’impossibile, e onnipotente la propria debolezza. Ma quando, ricredendoci da questa opinione giovanile, qualche cosa di forte, qualche cosa di sano ci resta, la vita serba ancora per noi un’ora di riposo se non di gioia. La vera disperazione ci atterra allora soltanto che, tornati alla coscienza della nostra inezia, non troviamo nessun punto ove appoggiare la speranza, nessuna nuvola da appendervi l’orgoglio. Allora lo smarrimento dello spirito ci fa traballare come ubbriachi e cader supini per non più rialzarci a mezzo il cammino della vita. Non più labbra che ci sorridono, non più occhi che ci invitano, e profumo di rose e varietà di prospetti e barbaglio di luce che ne persuada di andar avanti. Il buio dinanzi, ai lati, sul capo; di dietro la memoria inesorabile che, colle immagini dei mali crescenti sempre e dei beni per sempre fuggiti, ci toglie la forza della volontà e la potenza del moto.
Tale Giulio restava dopo quei notturni delirii d’impotente poesia: tanto più misero e abbietto, quanto meglio sentiva la vanità di quella sognata grandezza. Come Nerone cred’io egli avrebbe tagliato la testa al genere umano per ottenere dalla Pisana non un sorriso d’amore ma un occhiata di desiderio, e vedere frementi le labbra e sconfitta l’arrogante sicurezza di quel rivale abborrito. Mettere a sì alto prezzo una semplice occhiata, egli che pochi momenti prima si dava ad intendere d’aver sotto i piedi ogni cosa del mondo! Quale avvilimento! E non poter nemmeno ricorrere per ultimo scampo all’idea della morte!... No, non lo poteva!... Una morte gloriosa compianta lagrimata gli avrebbe sorriso come un’amica; ma allora il trionfo del còrso e l’indifferenza della Pisana lo perseguitavano perfin nel sepolcro. Ben s’arrende alla morte chi sa di poter vivere, ma egli, senza osar confessarlo a se stesso, fiutava con raccapriccio nelle sue carni scalducciate ed inferme l’odore dei vermi. Egli lottava disperato nel mare della vita, ma le forze gli mancavano, l’acqua gli saliva al petto alla gola; già ne avea piene le fauci, già la mente si scombuiava nell’abisso del nulla e dell’obblio, dove non più superbia non più speranza; il nulla, il nulla, eternamente il nulla. Si scoteva dal sogno affannoso con un ribrezzo che somigliava viltà; sentiva di aver paura, e la paura gli cresceva dalla propria dappocaggine. «Oh la vita, la vita! datemi ancora un anno, un mese, un giorno solo della mia vita piena confidente rigogliosa d’un tempo! Tanto che possa rinfiammare un lampo d’amore, bearmi di piacere e d’orgoglio e morire invidiato sopra un letto di rose! Datemi un giorno solo del mio bollor giovanile, perché possa scrivere a caratteri di fuoco una maledizione che abbrucii gli occhi di quelli che oseranno leggerla, e rimanga terribilmente famosa fra i posteri, come il Mane Tecel Fares del convito di Baldassare! Ch’io muoia; sì ma che possa coll’ultimo grido dell’anima lacerata sgominare per sempre gli impudenti tripudii di coloro che non ebbero una lagrima pei miei dolori!... Se mi è vietata la felicità d’amore, la coppa felice degli Dei, mi rimanga almeno l’immortalità di Erostrato e la superbia dei demonii!...»
Così farneticava lo sciagurato stringendo la penna con mano convulsa, e cercando disperatamente nella tetra fantasia quelle parole tremende, infernali, che dovevano prolungare nella posterità la sua vita di martirio, e vendicarlo delle angoscie sofferte. Da un turbine vorticoso d’idee monche e cozzanti, d’immagini camaleontiche, di passioni mute e furenti non uscivano che due pensieri dozzinali e quasi codardi: la rabbia della felicità altrui, e l’orrore della morte! – Almeno avess’egli potuto imprimere a tali pensieri quell’impronta straziante di verità nella quale l’uomo si specchia rabbrividito, e non può a meno d’ammirare il lugubre profeta che lo satolla d’orrore e di disperazione!... Ma neppur questo gli veniva concesso dalla continua instabilità della paura. Le forze dell’anima vanno tutte raccolte per creare alla verità un’immagine vera e sublime; egli invece si scioglieva in fantasticherie senza colore e senza fine. Non era la meditazione del sapiente, ma il vaneggiamento del malato. La mistione chimica soverchiava il lavoro spirituale, supremo castigo dell’orgoglio pigmeo! «Ah dover morire così, vedendo spegnersi ad una ad una le stelle della propria mente! sentendo sciogliersi atomo per atomo la materia che ci compone, e attirare abbrutita con sé quell’anima sfolgorante e serena che poco prima spaziava nell’aria e s’ergeva fino al cielo! Dover morire come il topo del granaio e la rana della palude, senza lasciare un’orma profonda incancellabile del proprio passaggio!... Morire a ventott’anni, assetato di vita, avido di speranza, delirante di superbia, e sazio solo d’affanno e d’avvilimento! Senza un sogno, senza una fede, senza un bacio abbandonare la vita; sempre col solo spavento, colla sola rabbia dinanzi agli occhi, di doverla abbandonare!... Perché fummo generati? perché ci educarono e ci avvezzarono a vivere, quasiché durassimo eterni?... Perché la prima parola che ci insegnò la balia non fu morte?... Perché non ci abituarono lungamente a fisar in volto, a interrogare con ardito animo questa nemica ignorata e nascosta, che ci assale poi d’improvviso, e ci insegna che la nostra virtù non fu altro che viltà? Dove sono i conforti della sapienza, le illusioni della gloria, le consolazioni degli affetti? – Tutto si getta d’in sulla nave per rifuggire al naufragio; e quando il flutto vorace si spalanca per ingoiarla, rimane solamente sulla più alta antenna nudo e disperato il nocchiero. Son vani gli sforzi e le lagrime; vane le preghiere o le bestemmie. La necessità è ineluttabile e il confuso fragore dell’onde attuta tre passi lontano le grida del furente e i gemiti del pauroso. Di sotto sta il nulla, tutto intorno l’obblio, di sopra il mistero – Che mi dice il filosofo?... Dimentica, dimentica! Ma come dimenticare? La mia mente non ha più che quest’idea sola, i miei nervi non ripercotono al cervello che una sola immagine; le altre idee le altre immagini son morte per me. Io sono entrato più che mezzo nel gran regno delle ombre; il resto vi entrerà fra poco. L’amore degli uomini, la religione della libertà e della giustizia sparirono dall’anima mia, come fantasmi ideati per ingannare i fantasmi. Crollato il fondamento, come reggerà la parete? Che v’ha di saldo nell’uomo, se l’uomo appunto svanisce come il vapore del mattino? Sfreddato il calore del sentimento, le parole suonano sulle labbra come il vento in una fessura: vanità, tutto vanità!...
Eppure, ad onta di questi scorati soliloquii, egli riprendeva la penna per iscrivere qualche inno patriottico, qualche filippica repubblicana che consolasse d’un’aureola di gloria il suo prossimo tramonto. Si vergognava poi di quanto avea scritto e lo buttava sul fuoco. Quando mal si può esprimere quello che più ci occupa l’animo, peggio poi si tenta d’interpretare sentimenti annebbiati lontani. Giulio pensava troppo a sé e si rinserrava troppo nella considerazione del proprio destino, per poter comprendere degnamente le speranze e gli affetti dell’umanità intera. Cotali cose egli le aveva non dirò imparate ma trovate sui libri; gli si erano appiccicate al cervello come fantasticaggini di moda e nulla più. Figuratevi se in tanta stretta di passioni proprie ed urgenti poteva ritrarre di colà quell’entusiasmo pieno e sincero che solo incalorisce le opere d’arte!... L’erudite declamazioni di Barzoni e la greca pedanteria del giovane Foscolo da lui sì crudamente satireggiate covavano più fuoco di tutti i suoi pensieri politici, imbrodolati di Rousseau e di Voltaire, ma privi d’ogni suggello di persuasione. Egli se n’accorgeva, e stritolava la penna coi denti, e si gettava sfinito sul letto. Una tosse profonda e ostinata affaticava le sue lunghe notti, mentre egli inondato di sudore, dolente sopra ogni fianco, e col volto sbigottito dalla paura si palpava il petto, e sollevava stentatamente i polmoni sfibrati, per pur persuadersi che la morte gli stava ancora da lunge. In quei momenti Ascanio e la Pisana, affacciati ad un balcone che dava sul Canalazzo, cinguettavano d’amore con tutte quelle tenerezze del vocabolario francese, mentre Sua Eccellenza Navagero sgomentito degli occhiacci dell’ufficiale sonnecchiava o fingeva di sonnecchiare sopra una poltrona. Io che non ardiva penetrare in quella casa, passava poi nel Canalazzo colla mia gondola a notte profonda; e vedeva profilarsi nel quadro illuminato della finestra le figure dei due amanti. Povero Giulio! Povero Carlino! La Provvidenza, a guardar le cose in monte, governa tutto con giustizia. Non vi sono due esseri felici, che non si oppongano loro, come ombre in un dipinto, due sventurati. Peraltro se la mia disgrazia era forse minore, ognuno mi consentirà ch’io la meritava assai meno di Giulio. La sventura vendica tutto ma non santifica nulla, men che meno poi la superbia, l’invidia e la libidine. Se egli volle consumarsi in queste tre brutte passioni, fu sua la colpa; e noi lo compiangeremo, ben lontani dal glorificarlo. La croce era un patibolo, e il solo Cristo ha potuto cambiarla in un altare.
L’estate volgeva al suo termine. Già i fieri Bocchesi di Perasto avevano arso piangendo l’ultimo stendardo di San Marco. La Repubblica di Venezia era morta, e un ultimo suo spirito vagolava ancora nei remoti orizzonti della vita sulle marine di Levante. Vidiman, il governatore di Corfù, fratello al più saggio, al più generoso dei Municipali, spirava l’anima nel dolore alle continue vessazioni dei Francesi, sbarcati colà a guisa di padroni. Le popolazioni, stomacate della veneziana debolezza, sdegnavano di servire ai servi; meglio addirittura i Francesi o qualunque altro che la floscia inettitudine di cento patrizii. Ciò che molti secoli addietro si rispettava per la forza, poi si venerava per la prudenza, indi si tollerava per abitudine, allora cadeva nel disprezzo che conséguita sempre all’ossequio goduto lungamente a torto. Nella Municipalità la stessa disperazione d’ogni consiglio ingenerava la discordia: Dandolo e Giuliani predicavano la repubblica universale, quest’ultimo senza alcun riguardo dei sospettosi alleati. Vidiman consigliava la moderazione, perché la storia gli insegnava che se v’è salute pei governi nuovi essa dipende dalla prudenza e dalla lentezza delle mutazioni. Strepitavano fra loro in quella sala del Gran Consiglio, ove la schietta parola d’un patrizio avea deciso altre volte delle sorti d’Italia. Il sommo impiccio era per me che doveva dar forma di protocolli a interminabili chiaccherate, a vicendevoli rimbrotti senza scopo e senza dignità. Finalmente la gran notizia che serpeggiava negli animi in forma di paura, scoppiò dalle labbra in suono di vera e certa disperazione. La Francia consentiva pel trattato di Campoformio che gli Imperiali occupassero Venezia e gli Stati di Levante e di terraferma fino all’Adige. Per sé teneva i Paesi Bassi austriaci, e per la Repubblica Cisalpina le provincie della Lombardia veneta. Il patto e le parole erano degne di chi le scriveva.
Venezia si destò raccappricciando dalla sua letargia, come quei moribondi che rinvengono la chiarezza della mente all’estremo momento dell’agonia. I Municipali mandarono ambascerie al Direttorio, a Bonaparte, perché fosse loro permesso di difendersi. Questa frase corrispondeva appuntino all’altra del trattato suddetto nel quale si consentiva l’occupazione di Venezia. Domandar al carnefice un’arma per difendersi contro di lui, è invero un’ingenuità fuori d’ogni credenza! Ma i Municipali sapevano la propria impotenza e non altro cercavano che illudersi fino all’estremo. Buonaparte cacciò in prigione gli inviati; quelli di Parigi credo non giungessero neppur in tempo da recitare la loro commedia. Una bella mattina il Villetard, lagrimoso cocodrillo, capitò ad annunziare in piena adunanza che Venezia doveva sacrificarsi al bene di tutta Europa, che gli piangeva il cuore di tale necessità, ma che dovevano subirla con grande animo; che la Repubblica Cisalpina offeriva patria cittadinanza e perfino il luogo ad una nuova Venezia per quanti fra essi rifuggivano dalla nuova servitù: e che i danari dell’erario e la vendita dei pubblici averi servirebbe a confortare il loro esiglio di qualche agiatezza. La superba indole italiana si rivelò subitamente a quest’ultima proposta. Deboli, discordi, creduli, ciarlieri, inetti sì; venali non mai! Tutta l’adunanza diede in un grido d’indignazione; si rifiutarono le indegne offerte, si rifiutò di approvare quanto la Repubblica francese aveva sì facilmente e barbaramente consentito, si decise di rimettere nel popolo la somma delle cose, dimandando a lui la scelta fra servitù e libertà. Il popolo votò frequente, raccolto, silenzioso; e il voto fu per la libertà; indi la Municipalità si disciolse, e molti partirono per l’esiglio, donde alcuni, Vidiman fra gli altri, non tornarono mai più. Villetard ne scrisse a Milano, e Buonaparte rispose altero schernitore ma furibondo. Lasciarsi schiacciare ma non obbedire è ancora un delitto pei tiranni. Serrurier entrò a quei giorni, vero beccamorti della Repubblica. Disalberò le navi, mandò a Tolone cannoni, gomene, fregate e vascelli, diede un’ultima mano al saccheggio delle casse pubbliche, delle chiese e delle gallerie, raschiò le dorature del Bucintoro, fece baldoria del resto, e si assicurò per sempre dal rimorso di aver lasciato pei nuovi padroni il valsente vivo d’un quattrino. Questo fu il rispetto all’alleanza giurata, alla protezione promessa, ai sacrificii imposti e vilmente forse, più che generosamente, consentiti. Così adoperarono coloro verso Venezia che avea difeso per tanti secoli tutta la cristianità dalla barbarie mussulmana. Ma quei maiali non leggevano storie; preparavano orrendi capitoli alle storie future.
La sera stessa che i Municipali deposero la propria autorità, quanti eravamo rimasti amici della libertà, e nemici coraggiosi del tradimento, convenimmo alla solita casa dietro il ponte dell’Arsenale. Il numero era più scarso del solito: altri si schivavano per paura, molti eran già partiti con diversi propositi. L’adunanza fu più per confortarsi a vicenda e per istringerci la mano che per deliberare. Agostino Frumier non comparve, benché sottovoce me ne avesse dato promessa un’ora prima; mancava il Barzoni che dopo un pubblico alterco con Villetard s’era imbarcato per Malta proponendosi di pubblicar colà un giornale antifrancese: non vidi Giulio Del-Ponte e ne sospettai il perché. Lucilio passeggiava come il solito su e giù per la sala col volto imperturbato e la tempesta nel cuore: Amilcare gridava gesticolava contro il Direttorio contro Buonaparte contro tutti; egli diceva che bisognava vivere per vendicarci; Ugo Foscolo sedeva da un canto colle prime parole del suo Jacopo Ortis scolpite sulla fronte. Io per me non so cosa avessi nell’anima, o mostrassi nel volto. Mi sentiva nullo affatto, come chi soffre senza comprendere. Udii la maggior parte essere propensa a cercare ricovero nel territorio della Cisalpina, ove sarebbe sempre durata qualche speranza per Venezia; anch’io trovava giusto un tale partito, come quello che rendeva onorevole e attivo l’esiglio, menandolo in paese fraterno e già quasi italiano. La permalosa alterigia di taluno che sdegnava affidarsi ad una ospitalità offerta in nome di Francia, e dalla Francia stessa guarentita, sconveniva troppo a quei momenti necessitosi e supremi. Ci demmo la posta10 per Milano dove o nel governo o nell’esercito o colla parola o colla penna o colla mano si sperava di potersi adoperare per la salute comune. S’avvicendavano così frequenti i trabalzi e i rivolgimenti di fortuna in quel tempo che la speranza si ravvivava dalla stessa disperazione più fiduciosa più intemperante che mai. Ad ogni modo si voleva dare un esempio della costanza e della dignità veneziana contro quelle terribili accuse che i fatti ci scagliavano. Ora l’uno ora l’altra partiva per dar qualche ordine alle cose sue, e metter insieme qualche roba prima di avviarsi all’esiglio. Chi correva a baciare la madre, chi la sorella o l’amante; chi si stringeva al cuore i bambini innocenti, chi consumava dolorosamente quell’ultima notte contemplando dalla Riva di Piazzetta il Palazzo Ducale, le cupole di San Marco, le Procuratie, queste sembianze venerabili e contaminate dell’antica regina dei mari. Le lagrime scorrevano da quelle ciglia devote; e furono le ultime liberamente sparse, gloriosamente commemorate.
Io era restato solo col dottor Lucilio perché non aveva la forza di muovermi, quando salì per la scala un rumore frettoloso di passi, e Giulio Del Ponte coi colori della morte sul volto si precipitò nella stanza. Il dottore, che avea parlato pochissimo fino allora, gli si volse contro con molta veemenza a domandargli cosa l’avesse e perché tanto s’era attardato. Giulio non rispose nulla, aveva gli occhi smarriti, la lingua aderente al palato e pareva incapace di capire quanto gli dicevano. Lucilio rabbuffò con una mano i suoi neri capelli tra i quali traluceva già qualche filo d’argento, strinse il braccio del giovane e lo trasse a forza in cospetto della lucerna.
– Giulio, te lo dirò io cos’hai! – diss’egli con voce sommessa ma ricisa – tu muori per un dolor tuo, quando non è lecito morire che pel dolore di tutti!... Tu ti arrendi vilmente alla tisi che ti consuma, quando dovresti salire con animo forte al martirio!... Io son medico, Giulio; non voglio ingannarti. Una passione mista di rabbia d’orgoglio d’ambizione ti divora lentamente: il suo morso avvelenato è incurabile. Soccomberai senza dubbio. Ma credi tu che l’anima non possa sollevarsi sulle malattie del corpo, e prescrivere a se stessa un fine grande, glorioso?...
Giulio si sfregolava smarrito gli occhi le guancie la fronte. Tremava da capo a piedi, tossiva di tratto in tratto e non poteva articolar parola.
– Credi tu, – riprese Lucilio – credi tu che sotto questa mia scorza dura e ghiacciata non si celino tali tormenti che mi farebbero preferire l’inferno, nonché il sepolcro, alla fatica di vivere? – Or bene; io non voglio morire piangendo me, compassionando a me, badando solo a me, come il pecoro sgozzato!... Quando le membra saranno consunte, l’anima fuggirà da esse libera forte beata piucchemai!... Giulio, lascia morire il tuo corpo, ma difendi contro la viltà contro l’abbiezione un’intelligenza immortale!...
Io guardava meravigliando il gruppo di quelle due figure, l’una delle quali pareva infondere nell’altra il coraggio e la vita. Alle parole al contatto del dottore, Giulio si drizzava della persona e si rianimava negli occhi; la vergogna gli ottenebrava nobilmente la fronte, ma l’anima ridestata a un grande sentimento coloriva i segni della prossima morte d’un sublime splendore. Non tossiva, non tremava più; il sudore dell’entusiasmo succedeva a quello della malattia; la sua bocca balbettava ancora parole tronche e confuse, ma solo per impazienza di pentimento e di generosità. Fu un vero miracolo.
– Avete ragione – rispose egli alla fine con voce calma e profonda. – Fui un vile finora; non lo sarò più. Morire debbo certamente, ma morrò da forte e dallo sfacelo del corpo andrà salva l’anima mia!... Vi ringrazio Lucilio!... Venni qui a caso per abitudine per disperazione; venni desolato avvilito infermo; partirò con voi, sicuro, dignitoso e guarito! Dite dove s’ha da andare, io son pronto!...
– Partiremo domattina per Milano – riprese Lucilio – là vi sarà un fucile per ciascuno di noi; ad un saldato non si domanda se è malato o sano, ma se ha forza d’animo e di volontà!... Giulio, te lo accerto, non morrai tremando di paura e desiderando la vita. Abbandoneremo insieme questo secolo di illusioni e di vigliaccherie per ricoverarci contenti in seno dell’eternità!
– Oh io pure, – sclamai – io pure partirò con voi!... – Strinsi la mano al dottore, e buttai le braccia al collo di Giulio come ad un fratello. Era così sorpreso e commosso che nessuna sorte vedeva migliore di quella di morire con tali compagni.
– No, tu non devi partire per ora; – soggiunse dolcemente Lucilio. – Tuo padre ha altri disegni; ti consulterai con essolui, che ne hai stretto dovere. Quanto al mio, ricevetti oggi stesso l’annunzio della sua morte. Vedete bene che son solo oggimai; nudo affatto di quegli affetti che racchiudono una gran parte di nostra vita fra le pareti domestiche. Per me gli orizzonti si allargano sempre più; dall’Alpi alla Sicilia, è tutta una casa. L’abito con un solo sentimento che non morrà mai neppure colla mia morte.
Una memoria del monastero di Santa Teresa attraversò come un lampo gli occhi di Lucilio mentre proferiva queste parole; ma non commosse punto il suono tranquillo della sua voce, né lasciò orma alcuna sulle sembianze di melanconia o di sconforto. Ogni affanno scompariva in quella superba sicurezza d’uno spirito che sente in sé qualche parte d’eterno. Ci separammo allora; i commiati severi senza rimpianti senza lagrime. Negli ultimi nostri discorsi non trovarono posto i nomi della Clara e della Pisana. E sì che a tutti e tre, anche a Lucilio, ne sono certo, un amore sventuratissimo dilaniava le viscere. Essi n’andarono verso l’Ospitale, divisando mettersi in viaggio il mattino all’alba; io mi avviai curvo e frettoloso in cerca di mio padre. Non sapeva quali fossero i suoi disegni perché Lucilio non avea voluto dirmene di più, e mi tardava l’ora di conoscerli per iscaricarmi poi dei miei dolori privati in qualche grande e non inutile sacrifizio, come il povero Giulio me ne dava l’esempio.