CAPITOLO DECIMOQUARTO

Nel quale si scopre che Armida non è una favola e che Rinaldo può vivere anche molti secoli dopo le crociate – La sbirraglia mi rimette sulla via maestra della coscienza; ma nel viaggio incappo in un’altra maga – Cosa sarà?

Il giorno appresso, non mi vergogno il dirlo, ronzai tutta mattina nelle vicinanze di Santa Maria Zobenigo, ma mi dava non poco pensiero il vedere affatto chiuse le finestre del palazzo Navagero. Mi scontrai, è vero, un paio di volte nel tenente d’Ajaccio che pareva in grandi faccende; ma questo non era il conforto che cercava, per quanto l’inquietudine e il malumore che dimostrava il signor Minato fossero per me buoni pronostici. Tuttavia tornai alla mia tana col maggior grugno del mondo, pensando che se anche i Francesi partivano, non partiva perciò né isteriliva la semenza dei vaghi officiali; e che, per giunta all’ostacolo del marito, ci avrei avuto contro anche quest’altra mostruosità della Pisana. In quel momento né la lettura degli Enciclopedisti né la frenesia della libertà me la scusavano di quel subito invagarsi d’uno sbarbatello in assisa. Mi chiusi in casa e poi in camera a rosicchiare come la vigilia un tozzo di pane ammuffito; in tre giorni era diventato magro come un chiodo, ma neppur la fame mi induceva a capitolare. Così alla superficie del mio cervello era un pelago di sdegni patriottici, d’elegie funerarie, e di aerei disegni; a guardar sotto si sarebbe trovato il mio pensieruccio di sedici anni addietro vigile e tenace come una sentinella. Quell’allontanarmi dalla Pisana, Dio sa per quanto tempo, senza vederla, senza parlarle, senza aiutarla del mio consiglio contro i pericoli che la circondavano, mi dava uno sgomento così grande, che piuttosto avrei arrischiato il collo per rimanere. E questi rischi che io correva infatti, rimanendo anche dopo lo sloggio dei Francesi, servivano a puntellarmi contro la coscienza che di tanto in tanto mi faceva memore di coloro che m’attendevano a Milano. Peraltro cominciava nell’animo qualche avvisaglia d’un prossimo conflitto. Le parole di mio padre m’intronavano le orecchie, vedeva lontano lontano quell’occhiata severa e fulminante di Lucilio... Oimè! credo che soltanto il timore di questa mi facesse correre pel baule; ma nel mentre appunto ch’io lo spolverava, ed aveva acceso un lume per vedere in un camerone buio e profondo, ecco scrollarsi una gran tirata di campanello.

«Chi può essere?» pensai. E i buli degli Inquisitori, e le guardie di sicurezza francesi, e gli scorridori tedeschi mi si ingarbugliarono dinanzi la fantasia. Volli piuttosto scender la scala che tirare la corda, e per le fessure dell’uscio diedi uno strepitoso: – Chi va là?

Mi rispose una voce tremante di donna: – Son io; apri, Carlino!

Ma perché ella fosse tremante non la conobbi meno, e mi precipitai ad aprire col petto in angoscia così profonda che appena bastava a frenarmi. La Pisana vestita a nero, coi suoi begli occhi rossi di sdegno e di lagrime, coi capelli disciolti e il solo zendado1 sul capo mi si gettò fra le braccia gridando che la salvassi. Credendo che l’avessero insultata per istrada, io feci per balzar fuori della porta a vendicarla contro chichessifosse; ma ella mi fermò per un braccio, e appoggiandovisi sopra mi menò verso la scala e su per essa fino alla stanza di ricevimento, come se appunto la conoscesse tutti i buchi della casa; e sì che a mio credere non la ci era mai stata. Quando fummo seduti l’un vicino all’altro sul divano turchesco di mio padre, e si fu sedato in lei il respiro affannoso che le affaticava il petto, non potei ristare dal chiederle tosto cosa significasse quello smarrimento, quel tremore e quella subitanea apparizione.

– Cosa significa? – rispose la Pisana con una vocina rabbiosa che si arrotava contro i denti prima di uscir dalle labbra. – Te lo spiego ora io cosa significa! Ho piantato mio marito, sono stanca di mia madre, fui respinta dai miei parenti. Vengo a stare con te!...

– Misericordia!! – Fu proprio questa la mia esclamazione: me la ricordo come fosse ora; del pari mi ricordo che la Pisana non se ne adontò per nulla, e non si ritrasse d’un atomo dalla sua risoluzione. Quanto a me non mi maraviglio punto che il precipizio d’un cotal cambiamento di scena mi fosse cagione d’una penosa confusione, maggiore pel momento d’ogni gioia e d’ogni paura... Comunque fosse, mi sentii sbalzato tanto fuori dall’aria solita a respirarsi, ch’ebbi alla gola una specie di strozzamento; e soltanto dopo qualche istante mi venne fatto di rinsennare e di chiedere alla Pisana qual fosse la ventura che me le rendeva utile in qualche modo.

– Ecco, – soggiunse ella – già sai che a sbalzi io sono anche troppo sincera, come son bugiarda alcune altre volte, e chiusa e riservata per costume. Oggi non posso tacerti nulla: ho tutta l’anima sulla punta della lingua, e buon per te che imparerai a conoscermi a fondo. Io mi maritai per far dispetto a te e piacere a mia madre, ma sono vendette e sacrifizii che presto vengono a noia, e col mio temperamento non si può voler bene ventiquattr’ore ad un marito decrepito, magagnato, e geloso. Dal signor Giulio io avea sofferto qualche omaggio per tua intercessione, ma era stizzita contro di te; figurati poi col tuo raccomandato!... Per giunta io aveva l’anima riboccante d’amor di patria e di smania di libertà; mentre mio marito veniva colla tosse a predicarmi la calma, la moderazione; ché non si sapeva mai come potessero volger le cose. Figurati se andavamo d’accordo ogni giorno meglio!... Io m’accontentava sulle prime di veder mia madre gustare saporitamente i manicaretti di casa Navagero, e perdere alla basetta i zecchini del genero; ma poco stante mi vergognai di quello che innanzi mi appagava, e allora tra mio marito, mia madre e tutti gli altri vecchi, mediconzoli e barbassori che mi stringevano alle coste, mi parve proprio di essere la pecora in mezzo ai lupi. Mi annoiava, Carlino, mi annoiava tanto, che fui le cento volte per iscriverti una lettera, buttando via ogni superbia; ma mi tratteneva... mi tratteneva per paura di un rifiuto.

– Oh che ti pensi ora? – io sclamai. – Un rifiuto da me... Non è cosa neppur possibile all’immaginazione! – Come si vede, durante il discorso della Pisana io aveva cercato e trovato il filo per uscire dal laberinto; questo era di amarla, di amarla soprattutto, senza cercare il pelo nell’uovo, e senza passare al lambicco della ragione il voto eterno del mio cuore...

– Sì, temeva un rifiuto, perché non ti aveva dato caparra di condotta molto esemplare; – ella soggiunse – ed ora voglio dartene una col mettere a nudo tutte le mie piaghette, e stomacartene, se posso.

Io feci un gesto negativo, sorridendo di questa sua nuova paura; ella racconciandosi i capelli sulle tempie, e puntandosi qualche spillo malfermo nel corsetto, continuò a parlare.

– In quel torno fu alloggiato in casa di mio marito un officiale francese, un certo Ascanio Minato...

– Lo conosco – diss’io.

– Ah! lo conosci?... Bene! non potrai dire che non sia un bel giovine, d’aspetto maschio e generoso, benché lo abbia poi trovato al cimento un perfido, uno spergiuro, un disleale, un vero capo d’oca col cuore di lepre...

Io ascoltai con molto malgarbo questa infilzata d’improperii che, secondo me, chiariva anche troppo la verità di quanto Giulio Del Ponte mi avea raccontato il giorno delle feste per la Beauharnais. E la Pisana non si vergognava di confessare sfacciatamente la propria scostumatezza; e non si accorgeva del dolore che mi avrebbe recato la sua importuna sincerità. Io mi mordeva le labbra, mi rosicchiava le unghie, e rimproverava la Provvidenza che non mi avesse fatto sordo come Martino.

– Sì, – tirava innanzi ella – mi pento e mi vergogno di quel poco di fede che aveva riposto in lui. Credeva che i Corsi fossero animosi e gagliardi, ma vedo che Rousseau aveva torto di aspettarsi dalla loro schiatta qualche grande esempio di fortezza e di sapienza civile!...

«Rousseau, Rousseau!» pensava io.

Queste filippiche e queste citazioni m’infastidivano; avrei voluto giungere alla fine e saperla tutta senza tante virgole; laonde mi dimenava sui cuscini e pestava un po’ i piedi, presso a poco alla maniera d’un ragazzo ch’è stufo della predica.

– Cosa gli chiedeva io? cosa pretendeva da lui? – riprese con maggior impeto la Pisana – forse cose soprannaturali, o impossibili, o vili?... Non gli chiedeva altro che di farsi il benefattore dell’umanità, il Timoleone della mia patria!... Voleva renderlo l’idolo il padre il salvatore d’un popolo intero; e in aggiunta a questo dono gli prometteva anche il mio cuore, tutto quello ch’egli avrebbe voluto da me!... Codardo, scellerato!... E mi si inginocchiava dinanzi, e giurava e spergiurava d’amarmi più della sua vita, più del suo Dio!... Oh cosa credeva? ch’io volessi offrirmi al primo capitato pei suoi begli occhi, pei suoi lucenti spallini?... S’accontenti allora di portar impressi sul viso i segni d’uno schiaffo di donna. Già dove non ci sono uomini, tocca proprio alle donne.

– Calmati, Pisana, calmati! – le andava dicendo dubbioso ancora di non aver capito a dovere – racconta le cose per ordine: dimmi da che nacquero queste tue ire col signor Minato... cosa egli chiedeva da te, e cosa tu di rimando pretendevi da lui?

– Cosa egli mi chiedeva?... Che facessimo all’amore insieme, sotto gli occhi del geloso che avrebbero finto di dormire per troppo rispetto alla furia francese!... Cosa pretendeva io da lui?... Pretendeva ch’egli persuadesse, ch’egli eccitasse i suoi commilitoni a un atto di solenne giustizia, a contrapporsi concordi alle spergiure concessioni del Direttorio e di Bonaparte, ad unirsi con noi, e a difendere Venezia contro chi domani ne diverrà impunemente il padrone!... Tuttociò ognuno di essi anche il più imbecille anche il più pusillanime sarebbe tenuto a farlo senz’altra persuasiva che la rettitudine della coscienza, e l’abborrimento di comandi ingiusti e sleali!... Ma uno che amasse una donna, e si udisse profferta da lei questa nobile impresa, non dovrebbe anzi fare di più?... Non dovrebbe adottare la patria di quella donna e ripudiare la propria vergognosamente colpevole d’un tanto misfatto?... Ogni francese che udisse simili esortazioni dalla bocca di colei ch’egli giura di amare, non dovrebbe alzar la visiera come Coriolano, e dichiarare un odio eterno e avventarsi furibondo contro questa Medea che divora i proprii parti? – Che resta la patria senza umanità e senza onore?... Manlio condannò a morte i figliuoli, Bruto uccise il proprio padre! Ecco gli esempi per chi ha cuore e polsi da imitarli!...

Vi confesso ch’io non avrei avuto né cuore né polsi da sfoderare una tirata così violenta come questa della Pisana; ma aveva cuore e intendimento bastevole per comprenderla, onde ammirando piucché altro quei fieri moti d’un’indole ardente e generosa, mi pentii di averla assai mal giudicata dalle prime parole. Gli epitteti con cui ella infamava il repubblicano tiepido e neghittoso, io li avea creduti rivolti all’amante malfermo o infedele. Così alle volte si pigliano de’ grossi granchi trascurando l’osservazione generale d’un temperamento per metterne in conto solamente una parte.

– E dimmi, dimmi, – soggiunsi – come sei venuta a questo scoppio vulcanico contro di esso e contro tutti?

– Ci son venuta perché il tempo stringeva, perché da un pezzo egli mi menava d’oggi in domani con certi sorrisi, con certi attucci che non mi assicuravano punto, credendo forse ch’io mi drappeggiassi alla Romana per innamorarlo meglio, e che da ultimo poi gli avrei tutto concesso per le sue sdolcierie!... Oh l’ha veduta ora! e son proprio contenta che quest’italiano bastardo abbia imparato a conoscere una vera italiana!... Sai già che ieri i Commissarii Imperiali vennero a trattare per le forme della consegna; io dunque mi vidi alle strette, e mi affrettai a stringere, tanto più che egli si incaloriva piucchemai, e figurati cosa ha avuto l’audacia di propormi!... Mi invitava ad abbandonare Sua Eccellenza Navagero ed a partire con lui quando la guarnigione francese si sarebbe ritirata da Venezia! – «Si,» gli risposi «io verrò con voi quando voi avrete proclamata in piazza la libertà della mia patria, quando guiderete i vostri commilitoni a sorprendere a vincere a sgominare coloro che si credettero d’impadronirsene senza colpo ferire!... Allora sarò con voi sposa amante serva, quello che vorrete!...» E quello che diceva lo avrei fatto; me ne sento capace. L’amor mio non so, ma ben tutta me stessa io darei a chi tentasse questa illustre vendetta!... Tutta me gli darei col cieco entusiasmo d’una martire, se non colla voluttà di un’amante! Vuoi invece sapere com’egli mi rispose?... S’attorcigliò dispettosamente il labbro superiore; poi; si rimise alla buona e stendendomi la mano per una carezza ch’io rifiutai, balbettò a mezza voce: «Sei un’incantevole pazzerella!». Oh se mi avessi veduta allora!... Tutte le mie forze si condensarono in queste cinque dita, e gli stampai sulla guancia uno schiaffo così strepitoso che mia madre mio marito i servi e le cameriere accorsero al romore dalle stanze vicine... Il bell’ufficiale ruggì come un leone. Bugiardo!... con quel cuore di coniglio!... Egli corse a mano alla spada ma si ravvide tosto vedendosi ritto coraggiosamente dinanzi il mio petto di donna: allora si precipitò fuori della stanza movendo intorno occhiate di furore e gesti di sfida. – «Che hai mai fatto?... Per carità! Guarda! Sei la rovina della casa!... Bisogna tollerar il male per fuggir il peggio...» Ecco le parole con cui mia madre e mio marito mi ricompensarono; ma mio marito sopratutto mi moveva a schifo... Dire ch’egli era geloso! «Ah io sono il cattivo augurio della casa? – io gridai. – Or bene cambierò casa e vi lascierò in pace!» – E tosto uscii correndo senzaché alcuno mi trattenesse, e preso un zendado all’infretta nella mia camera, andai in traccia di mio fratello. – Non sapevano dove fosse, lo credevano partito! – Chiesi allora degli zii Frumier al loro palazzo. – Dormivano tutti, aveano comandato che nessuno entrasse, né uomo né donna né parente né amico. Che mi rimaneva da ultimo?... Carlino, non mi restavi che tu!... – (Grazie del complimento.) – Mi pentii di non essere ricorsa a te pel primo. – (Meno male!) – Seppi alla porta dei Frumier che tu eri ancora a Venezia e dove abitavi; ed adesso eccomi in tua balia senza paura e senza riguardo, perché a dirlo schietta io ho voluto proprio bene a te solo e se tu non me ne vuoi più per le stranezze e per le sciocaggini che commisi, la colpa il danno il dispiacere sarà tutto mio. Una buona parte peraltro ne toccherà anche a te, perché ad ogni modo, in virtù della nostra antica amicizia, commoda o incommoda, piacevole o noiosa, io mi ti pianto alle coste e non mi movo più. Se tuo padre volesse darti ancora la Contarini, ch’egli te la dia pure in santa pace; ma le converrà alla sposina sopportar con pazienza questa pillola amara d’avere almeno almeno una cognata fra i piedi...

Ciò dicendo la Pisana si diede a saltacchiare sul divano quasi confermarvi la sua parte di padronanza; e ad averla udita due minuti prima e ad osservarla allora, non sembrava più certamente la stessa persona. La repubblicana spiritata, la filosofessa greca e romana erasi convertita in una donnetta spensierata e burbanzosa, tantoché lo schiaffo del povero Ascanio poteva anche credersi non meritato. Tuttavia quelle due persone così diverse e compenetrate in una sola, pensavano, parlavano, operavano coll’uguale sincerità cadauna nel suo giro di tempo. La prima, ne son sicuro, avrebbe disprezzato la seconda, come la seconda non si ricordava guari della prima; e così vivevano fra loro in buonissima armonia come il sole e la luna. Ma il caso più strano si era il mio, che mi trovavo innamorato di tutte due non sapendo a cui dare la preferenza. L’una per copia di vita, per altezza di sentimenti, per facondia di parola, l’altra per tenerezza, per confidenza, per avvenenza mi portava via il cuore: insomma o a dritto o a ragione era innamorato fradicio; ma ognuno de’ miei lettori trovandosi nei miei panni sarebbe stato altrettanto. Soltanto quelle due brune pupille che mi guardavano tra supplici pietose e spaventate di mezzo alle sopracciglia, lasciando arieggiare sott’esse il bianco azzurognolo dell’occhio, avrebbero vinto la causa. Senza contare il resto, che ce n’era da far belle una dozzina di morlacche. D’altronde, se quella parte tragica sostenuta con tanta veemenza dalla Pisana mi dava soggezione, ci aveva anche argomenti da consolarmene. Era effetto di troppe letture abborracciate avidamente in un cervello volubile e impetuoso; quel fuoco di paglia si sarebbe svampato; sarebbe rimasta quella scintilla di generosità che l’aveva acceso, e con essa io vivrei di buonissimo accordo, come una mia antica conoscenza che la era. Di più la sfogata eloquenza e la pompa classica di quelle parlate mi assicuravano ch’ella sarebbe stata un bel pezzo senza batter becco. Così si argomentava durante la sua infanzia; e sovente la Faustina per consolarsi d’una domenica irrequieta e rabbiosa diceva fra sé: «Oggi la signorina ha la lingua fuori dei denti, e il pepe nel sangue! Buon per noi che ci lascierà in pace per tutto il resto della settimana.» Infatti così avveniva. Né io ebbi a sbagliar mai anche più tardi mettendo in opera il ragionamento della Faustina.

Io risposi adunque di tutto cuore alla Pisana che la era la benvenuta in mia casa; e fattole prima osservare il grave passo che la arrischiava, ed il danno che massime nella riputazione le ne poteva derivare, vedendola ciononostante ferma nel suo proposito, mi limitai a dirle che la era dessa la padrona di sé, di me, e delle cose mie. La conosceva troppo per credere che ella si sarebbe ritratta dalle sue idee per le mie obbiezioni; fors’anco l’amava troppo per tentarlo, ma questo è null’altro che un dubbio, non già una confessione. Accettato ch’io ebbi così all’ingrosso e senza tanti scrupoli il suo disegno, si venne a metterlo in pratica; allora nel minuto mi si opposero parecchie difficoltà. Prima di tutto poteva io assumere una specie di tutela sopra di lei, incerto com’era di fermarmi a Venezia, anzi sicuro per le date promesse e per legge d’onore di dovermene allontanare? E cosa ne avrebbe detto la sua famiglia, e Sua Eccellenza Navagero, più di tutti, il marito vecchio e geloso? Non si avrebbe trovato a mezzo loro qualche pretesto per darmi il bando? E a me si stava di farmi complice dell’ingiuria che la Pisana scagliava sopra di loro? – E non bastava; c’era l’ultimo scrupolo, l’impiccio più grosso, la difficoltà capitale. Come doveva io coonestare agli occhi del mondo e alla lunga alla lunga anche alla coscienza quella vita intrinseca e comune con una bella giovane che amava, e dalla quale aveva tutte le ragioni per credermi amato? – Doveva io dire che aspettavamo così meno noiosamente la morte del marito? – Peggiore la rappezzatura che il buco, si dice da noi. – E tutti questi impicci mi saltavano agli occhi, mi affaticavano inutilmente la mente, intantoché la Pisana si consolava cantando e ballando della racquistata libertà, e non si dava un fastidio al mondo di quello che potrebbe mormorarne la gente. Ella si fece condurre per tutta la casa dalla cantina alla soffitta, trovò di suo grado i tappeti i divani e perfino le pipe; m’assicurò che noi staremmo là dentro come due principi, e non si prendeva cura né delle apparenze né della modestia. Sapete bene che quando una donna non si sgomenta di certe coserelle, sgomentirsene non tocca a noi; più che ridicolaggine di chiettineria, sarebbe un’offesa alla sua delicatezza, e non vanno lodati quei confessori che suggeriscono i peccati alle penitenti. Tutto ad un tratto mentr’io ammirava l’allegra e sfrontata spensieratezza della Pisana, non sapendo se dovessi ascriverla a sincero amore per me, a scioltezza di costumi, o a pura levità di cervello, ella si fermò colle braccia in croce nel mezzo della sala: levò gli occhi un po’ turbata nei miei, dicendo;

– E tuo padre? Allora solo mi saltò in mente ch’ella non sapea nulla della sua partenza; e mi maravigliai a tre doppi della sua franchezza nel venirsi a stabilire presso di me, mentreché ci vedeva nello stesso tempo meno trascurato il pudor femminile. Quando c’è un padre di mezzo, due giovani son più sicuri dalle tentazioni, e dalle chiacchere dei vicini. Insieme a questo pensiero me ne balenò alla mente un altro, ch’ella si spaventasse di trovarmi solo e si ritraesse dalla sua eccessiva confidenza. Poco prima mi doleva di doverla credere noncurante del proprio onore e delle convenienze sociali, allora avrei voluto che la fosse anche più svergognata d’una sgualdrina purché la stesse contenta della mia compagnia. Guardate come siam fatti! – Peraltro il desiderio grandissimo che nutriva di averla meco non andò tant’oltre da mettermi in bocca delle menzogne. Le raccontai dunque schiettamente la partenza di mio padre, e come io abitassi soletto quella casa senza neppure una serva che scopasse i ragnateli.

– Meglio, meglio! – gridò ella con un salto battendo le mani. – Tuo padre mi dava soggezione, e chi sa se mi avrebbe veduto di buon occhio.

Ma dopo questo scoppio di giocondità s’impensierì tutto d’un colpo, e non ebbe fiato di andar innanzi. Le si strinsero le labbra come per voglia di piangere, e le sue belle guancie si scolorarono.

– Che hai Pisana? – le chiesi – che hai ora che t’ingrugni tanto? Hai paura di me, o di trovarti con me solo?

– Non ho nulla – rispose ella un po’ stizzita, ma più contro sé stessa, mi parve, che contro nessuno.

E poi fece un paio di giri per la stanza guardandosi le punte dei piedi. Io aspettava la mia sentenza col tremito d’un innocente che ha una discreta paura di esser condannato; ma la sospensione della Pisana mi blandiva soavemente il cuore, come quella che mi dava a conoscere che io era proprio amato come voleva io. Finallora quella sua sicurezza a tutta prova e quella soverchia confidenza mi avevano un sapore affatto fraterno che non mi solleticava punto il palato.

– Dove mi metterai a dormire? – uscì ella a chiedere di sbalzo con un tal tremito di voce e un così vago rossore sul volto che la rabbellì cento volte. Mi ricordo ch’ella mi guardò in faccia sulla prima di quelle quattro parole, ma le altre le pronunciò più sommesse, e cogli occhi erranti qua e là.

«Sul mio cuore!» io ebbi volontà di risponderle «sul mio cuore ove hai dormito tante volte essendo bambina e non hai avuto a lagnartene!» Ma la Pisana s’era fatta tanto leggiadra in quel movimento mescolato d’amore e di vergogna, di sfacciataggine e di riservatezza, ch’io fui costretto a rispettare una sì bella opera di virtù, e trattenni perfino il soffio del desiderio per non appannarne la purezza. Giunsi financo a dimenticare la dimestichezza in altri tempi avuta con lei, e a credere che se avessi osato toccarla allora, sarebbe stato proprio la prima volta. Somigliava un valente sonatore di violino che si propone le più ardue difficoltà per aver il piacere di superarle; ed egli è certo del fatto suo, ma se ne compiace sempre come d’altrettante sorprese.

– Pisana, – le risposi con voce assai calma e una modestia esemplarissima – qui tu sei la padrona, te l’ho detto fin da principio. Tu mi onori della tua confidenza, e si spetta a me il mostrarmene degno. Ogni camera ha solidi catenacci e questa è la chiave di casa; tu puoi serrarmi fuori sulla calle, se vuoi, che non me ne lamenterò.

Ella per risposta mi buttò le braccia al collo, e riconobbi in quel subito trasporto la mia Pisana d’una volta. Tuttavia ebbi la delicatezza e l’accorgimento di non prevalermene, e le diedi tempo a riaversi e a correggere colla parola la soverchia ingenuità del cuore.

– Siamo come fratelli, n’è vero? – soggiunse ella imbrogliandosi colla lingua in queste parole, e rassettando l’imbroglio con un colpo di tosse. – N’è vero che staremo bene insieme, come ai nostri giorni beati di Fratta?

Si stette allora a me di scrollarmi tutto per un brivido che corse per tutte le vene; e la Pisana stoglieva lo sguardo e non sapeva cosa aggiungere, e alla fine io m’addiedi in tempo che per la prima sera eravamo iti anche troppo innanzi e che conveniva separarsi.

– Ecco, – ripresi io facendo forza a me stesso e conducendola nella camera di mio padre – qui tu starai sicura, e libera a tuo grado; il letto te lo acconcerò io in quattro salti...

– Figurati se lascierò fare il letto a te!... È faccenda che s’appartiene alle donne per diritto; anzi io voglio fare anche il tuo, e domattina, giacché c’è qui la caffetiera, – (ve n’avea una per ogni canto nella stanza di mio padre) – voglio portarti il caffè.

Allora ci fu una piccola gara di cortesie che ci svagò dalle prime tentazioni; e contento di essermi fermato lì, io m’affrettai a ritirarmi beato di dormire o di non dormire ancora una notte in compagnia dei desiderii: compagnia molestissima quando non si ha speranza esserne abbandonati, ma che è piena di delicati piaceri e di poetiche gioie per chi si crede vicino a perderla. Io mi credeva a torto o a ragione in quest’ultimo caso; ma bestia che sono! ci aveva anzi tutte le ragioni, e me lo provò la notte seguente. Qui poi sarebbe il luogo da rispondere a una dilicata domanda che poche lettrici ma molti lettori sarebbero audaci di farmi. A che punto era a quel tempo la virtù della Pisana? – In verità io ho parlato finora di lei con pochissimo rispetto, mettendone in piena luce i difetti, e affermando le cento volte che la era più disposta al male che al bene. Ma le disposizioni non son tutto. In realtà, di quanti gradini era ella scesa per questa scala del male? E infatti s’era ella calata giù con tutta la persona mano a mano che vi scendeva l’immaginazione, fors’anco il desiderio? – Non parrà forse, ma dal fiutare una rosa allo spiccarla e al mettersela in seno ci corre un bel tratto Ogni giardiniere per quanto sia geloso non vi proibirà mai di odorar un fiore; ma se fate motto di volerlo toccare, oh allora sì ch’egli si fa brutto, e si affretta a condurvi fuori della stufa!... La domanda è dilicata; ma dilicatissimo è l’obbligo di rispondere. Come potete credere, una piena malleveria io non vorrei farla per nessuno; ma in quanto alla Pisana io credo fermamente che suo marito l’ebbe se non casta certo vergine sposa, e tale la lasciò per la necessaria ritenutezza dell’età canuta. Sia stato merito suo o della precoce malizia che la illuminava, ci sia entrata la fortuna o la Provvidenza, il fatto sta che per le mie ottime ragioni io credo così. E con quel temperamento, con quegli esempi, con quella libertà, con quella educazione, colla compagnia della signora Veronica e della Faustina non fu piccolo miracolo. È inutile il negarlo. La religione è per le donne il freno più potente; come quella che domina il sentimento con un sentimento più forte ed elevato. Anche l’onore non è freno bastevole, perché affatto nell’arbitrio nostro, e imposto a noi soltanto da noi stessi. La religione invece ha il momento della sua forza in un luogo inacessibile agli umani giudizi. Essa ci comanda di non fare, perché così vuole chi può tutto, chi vede tutto, chi punisce e premia le azioni degli uomini secondo il loro intimo valore. Non c’è scampo dalla sua giustizia, né sotterfugii contro i suoi decreti: non v’hanno rispetti umani, né doveri né circostanze che rendano lecito ciò ch’ella ha proibito assolutamente e per sempre. La Pisana sprovveduta di questo aiuto, con un’opinione molto imperfetta dell’onore, fu assai fortunata di arrestarsi alla premeditazione del peccato, senza consumarlo. Non voglio inferirne per lei un gran merito, poiché, lo ripeto, mi sembra ancora piuttosto miracolo che altro: ma debbo stabilire un fatto, e soddisfare anche di ciò la curiosità dei lettori. Mi si perdoni di trattare un po’ alla distesa questa materia, perché racconto di tempi assai diversi dai nostri in tale argomento. Gli è vero che la differenza potrebbe essere più nella vernice che nella cosa.

La mattina dopo, non erano ancora le otto che la Pisana mi capitò in camera col caffè. «Ella voleva, mi disse, fin dal primo giorno prendere le costumanze d’una buona e diligente massaia». I sogni innamorati della notte nei quali aveva perduto la memoria di tutte le mie afflizioni, la mezza oscurità della stanza protetta contro il sole già alto da cortine azzurre di seta all’orientale, le rimembranze nostre che ci sprizzavano fuori da ogni sguardo, da ogni parola, da ogni atto, la bellezza incantevole del suo visino sorridente, dove le rose si rincoloravano appena allora di sotto ai madori del sonno, tutto mi eccitava a rappiccar un anello di quella catena che era rimasta per tanto tempo sospesa. Presi dalle sue labbra un solo bacio; ve lo giuro; un bacio solo dalle sue labbra, ed anco ne mescolai la dolcezza coll’amaro del caffè. Si dirà poi che al secolo passato non c’era virtù!... Ce n’era sì; ma la costava doppia fatica per la nessuna cura che si davano di educarla in abitudine. Vi assicuro che Santo Antonio non ebbe tanto merito di resistere nel deserto alle tentazioni del demonio, quanta io di ritirare le labbra dalla coppa, prima di avermi levata la sete. Cionullameno io era certo e deliberato a levarmela un giorno o l’altro; questo potrebbe mutare la mia virtù in un raffinamento di ghiottornia. Allora appena fui alzato ci convenne pensare a vivere: cioè ad ire in traccia d’una donna che attendesse alla cucina e ai fatti più grossolani della casa. Non si potea campare di solo caffè, massime coll’amore che ci divorava. Io stesso per la prima volta in mia vita mi occupai con tutto il piacere di queste minute faccenduole.

Conosceva qualche comare nel Campo vicino, mi raccomandai a questa e a quella, e mi accomodarono d’una serva che almeno a vederla dovea bastare di per sé a guardare una casa contro i Turchi e gli Uscocchi2. Brutta come l’accidente, ed alta e scarnata che pareva un granatiere dopo quattro mesi di campagna; con occhi e capelli grigi e un fazzoletto rosso attorcigliato intorno al capo alla foggia dei serpenti di Medusa. Era un pochettino losca, e discretamente barbuta, con una vociaccia sonata pel naso che non parlava né veneziano né schiavone, ma un certo gergo imbastardito a mezza strada. Costei aveva ricevuto da madre natura tutte le più brutte impronte della fedeltà: perché io ho sempre osservato che fedeltà ed avvenenza litigano sovente fra loro e s’acconciano assai di rado a una vita tranquilla e comune. Di più era certo che chi volesse entrare in casa e s’affacciasse a quello spettacolo, sarebbe ito piuttosto a casa del diavolo che avanzar un passo oltre la soglia; tanto era graziosa e piacevole. S’intende che io le diedi precetto assoluto di dir sempre ed a tutti che i padroni eran fuori di Venezia; e di restar nascosto ci aveva molti buoni perché. Sarebbe bastato quello della felicità; che già appena gli altri uomini se n’accorgono, non possono far a meno di saltarvi addosso per guastarvela. Or dunque appostato questo mio Cerbero alla cucina, e provveduto che ebbi alla sicurezza ed al vitto, tornai alla Pisana e mi dimenticai di tutto il resto.

Forse quello non era il miglior punto; forse, Dio mel perdoni, altri doveri allora m’incombevano, e non era tempo da svagarsi come Rinaldo nel giardino d’Armida; ma badate che io non dissi di avermi fatto violenza per dimenticare il resto; me ne dimenticai anzi così spontaneamente, che quando ulteriori circostanze mi richiamarono alla vita pubblica, mi parve tutto un mondo nuovo. Se furono mai scuse ai delirii dell’amore, e all’ubbriachezza dei piaceri, io certo le aveva tutte. Peraltro non voglio nascondere le mie colpe, e me ne confesserò sempre peccatore. Quel mese smemorato di beatitudine e di voluttà, vissuto durante l’avvilimento della mia patria, e rubato alla decorosa miseria dell’esiglio, mi lasciò nell’anima un eterno rimorso. Oh quanta distanza ci corre dal meschino accattonaggio delle scuse alla superba indipendenza dell’innocenza! Con quante bugie non fui io costretto a nascondere agli occhi degli altri quella mia felicità clandestina e codarda! No, io non sarò mai indulgente verso di me né d’un momento solo di smemorataggine, quando l’onore ci comanda di ricordarsi robustamente e sempre. La Pisana, poveretta, pianse assai, quando vide da ultimo che tutti i suoi sforzi per rendermi felice non riuscivano ad altro che a interrompere con qualche lampo di spensieratezza un malcontento che sempre cresceva e mi faceva vergognar di me stesso. Oh, perché non si volse ella a me con quell’amore inspirato e robusto che avea sgomentito l’animetta galante di Ascanio Minato? Perché invece di domandarmi baci, carezze, piaceri non m’impose ella qualche grande sacrifizio qualche impresa disperata e sublime? – Sarei morto da eroe, mentre vissi da porco. – Pur troppo i sentimenti nostri ubbidiscono ad una legge che li guida sempre per quella strada ove sono incamminati da principio. Quella bizzarra passione per l’ufficiale d’Ajaccio, nata più che da amore da rabbia, e nudrita dai maschi pensieri che guardavano alla rovina della patria e al pericolo della libertà, fu in procinto di diventar grande pel santo ardore che la infiammava. L’amor mio, antico di molti anni, ricco di sentimenti e di memorie, ma sprovveduto affatto di pensiero era dannato a poltrire su quel letto di voluttà che l’avea veduto nascere. Io sentiva la vergogna di non poter ispirare alla Pisana quello che le aveva ispirato un vagheggino di dozzina: scoperto il peccato originale dell’amor nostro, m’era impossibile goderne così pienamente com’ella avrebbe voluto.

Tuttavia le giornate passavano, brevi, ignare deliranti: io non ci vedeva scampo da uscirne, e non ne sentiva né la volontà né il coraggio. Avrei bensì potuto tentare sulla Pisana il miracolo ch’ella avea tentato sul giovine còrso, e sollevar l’anima sua a quell’altezza dove l’amore diventa cagione di opere grandi e di nobili imprese. Ma non mi dava il cuore di pensar solamente ad una separazione; e quanto al farla compagna della mia vita del mio esiglio della mia povertà non credeva averne il diritto. Soprastava dunque ad ogni deliberazione aspettando consiglio dagli avvenimenti, e compensato abbastanza delle mie interne torture dalla felicità che risplendeva bella e raggiante sulle sembianze di lei. A vedere come il suo umore s’era cambiato, e ammorbidito in quei pochi giorni beati, io non potea ristare dalle grandi maraviglie; mai un rimpianto, mai uno sguardo bieco, mai un atto di stizza o un movimento di vanità. Pareva si fosse prefissa di ravvedermi dal tristo giudizio altre volte fatto di lei. Una fanciulla uscita allor allora di convento e affidata alle cure d’una madre amorosa non sarebbe stata più serena più allegra ed ingenua. Tutto ciò che era fuori dell’amor nostro o che in qualche modo non si rappicava ad esso non la occupava punto. I racconti che la mi faceva della sua vita passata ad altro non tendevano che a persuadermi dell’amor suo continuo e fervoroso benché vario e bizzarro per me. Mi narrava degli eccitamenti di sua madre a far bel viso a questo o a quello de’ suoi corteggiatori, per accallappiarne un buon partito.

– E cosa vuoi? – soggiungeva. – Più erano splendidi belli graziosi, più mi venivano in uggia; laonde se mai dava segno di qualche gentilezza o di aggradimento, l’era sempre verso i più brutti e sparuti, con gran maraviglia mia e di quelli che mi circondavano; e credevano quella stranezza un’arte squisita di civetteria. In verità io lusingava quelli che mi parevano troppo sgraziati per lusingarsi alla lor volta; e se quelle mie gentilezze erano insulti, Dio mel perdoni, ma non potea fare altrimenti!...

Mi scoperse poi certi segreti di casa che avrei amato meglio ignorare tanto mi stomacarono. La Contessa sua madre giocava disperatamente e non volea saperne di miseria, tantoché l’era sempre in sul chieder quattrini a questo ed a quello; quando si trovava proprio alle strette, macchinavano qualche gherminella tra lei e la Rosa, quella sua antica cameriera, per cavarne di tasca ai conoscenti e agli amici. Siccome poi costoro s’erano stancati d’un tale spillamento, la Rosa avea proposto di metter in ballo la Pisana, e d’impietosire col racconto delle sue strettezze quelli che sembravano più devoti adoratori della sua bellezza. Così senza saperlo ella viveva di turpi e spregevoli elemosine. Ma finalmente la se n’era accorta, e in onta alla silenziosa indifferenza della Contessa, ella sui due piedi avea cacciato la Rosa fuori di casa. Questo anche era stato un motivo che l’aveva indotta ad accettar la mano del Navagero, perché si vergognava di vedersi esposta dalla stessa sua madre a tali infamie. Io le chiesi allora perché non ricorresse piuttosto alla generosità dei Frumier; ma la mi rispose che anche i Frumier si trovavano in male acque, e che se qualche sacrifizio lo avrebbero potuto fare per salvarle dall’inedia, non intendevano poi rovinarsi affatto per pascere il vizio insaziabile della Contessa. Io allora mi maravigliava che questa passione del gioco fosse in lei andata tanto innanzi.

– Oh non me ne maraviglio io! – mi rispose la Pisana. – Ella è sempre tanto sicura di vincere, che le parrebbe di far un torto a non giocare; e quello poi che è più bello, ella pretende di averci sempre guadagnato e che fummo noi, io e mio fratello, a consumarle mano a mano tutti quegli immensi guadagni! Figurati! Per me non ebbi mai indosso che un vestitello di tela, e ho sempre lasciato nelle sue mani i frutti degli ottomila ducati. Mio fratello poi mangia e veste come un frate e per quattro soldi il giorno io torrei di mantenerlo. Ma la è tanto persuasa delle sue ragioni che non giova parlarne, ed io la compatisco, poveretta, perché l’era avvezza a mangiare la pappa fatta, e non tenendo conto di ciò che si riscuote e di ciò che si spende, è impossibile saperne una di schietta. Del resto la sua passione non è un caso strano, e tutte le dame di Venezia ne sono adesso invasate, tantoché le migliori casate si rovinano alle tavole di gioco. Non ci capisco nulla!... tutte si rovinano e nessuna si ristora!

– Gli è – soggiunsi io – per quell’antico proverbio, che farina del diavolo non dà buon pane. Chi arrischia al faraone la fortuna dei propri figliuoli, non diverrà certo così previdente domani da investire i guadagni al cinque per cento. Si consumano tutti in vani dispendii, e resta netto solo il guadagno delle perdite. Ma tua madre fu più inescusabile delle altre quando per accontentare i proprii capricci non si vergognò di metter a repentaglio la fama della figlia!...

– Oh cosa dici mai – sclamò la Pisana – io la compatisco anche di questo! Era quella ghiotta di Rosa che le ne dava ad intendere, e per me credo che si mangiasse ella la buona metà dei regali... Eppoi giacché l’avea prima chiesto a suo nome, la poteva pur chiedere anche al mio. Non l’è poi mia madre per niente!

– Sai, Pisana, che la tua bontà trascende in eccesso!... Non voglio che tu ti avvezzi a ragionare in questo modo, se no tutto si scusa tutto si perdona, e tra il male ed il bene scompariscono i confini. L’indulgenza è un’ottima cosa, ma sia verso sé che verso gli altri bisogna ch’ella vada innanzi cogli occhi in testa. Perdoniamo le colpe sì, quando sono perdonabili; ma chiamiamole colpe. Se le si mettono a mazzo coi meriti si perde affatto ogni regola!

La Pisana sorrise, dicendo ch’io era troppo severo, e scherzando soggiunse che se scusava tutto, gli era appunto perché altri scusasse lei dei suoi difettucci. Per allora non la ne aveva neppur uno, se non forse quello di farsi amar troppo, il quale era più difetto mio che suo; ed io le misi la mano sulla bocca sclamando:

– Taci, non vendicarti ora della mia ingiusta severità d’una volta!...

Dopo qualche settimana di vita tutta casa ed amore, pensai che fosse tempo di andare dagli Apostulos a prendervi notizie di mio padre. Mi rimordeva di averlo dimenticato anche troppo, e voleva compensare questa dimenticanza con una premura che, attesa la strettezza del tempo, doveva certo riuscir inutile. Ma quando vogliamo persuaderci di non aver fallato non si bada a ragionevolezza. Giacché usciva, la Pisana mi pregò di volerla condurre fino al monastero di Santa Teresa per visitarvi sua sorella. Io acconsentii, e andammo fuori a braccetto, io col capèllo sugli occhi, ella col velo fin sotto il mento, guardandoci attorno sospettosamente per ischivare, se era possibile, le fermate dei conoscenti. Infatti io vidi alla lontana Raimondo Venchieredo e il Partistagno, ma mi riuscì di scantonare a tempo, e lasciai la mia compagna alla porta del convento; indi mi volsi alla casa dei banchieri greci. Come ben potete immaginarvi, in così breve tempo mio padre non poteva esser giunto a Costantinopoli e aver mandato notizie di colà. Si maravigliarono tutti, massimamente Spiro, di vedermi ancora a Venezia; laonde io risposi arrossendo che non era partito per alcuni gravissimi negozii che mi trattenevano, e che del resto mi conveniva sfidare moltissimi rischi a rimanere, pei sospetti che si avevano di me. Non arrischiai nemmeno di aggiungere chi poteva avere questi cotali sospetti, perché ignorava quali fossero di certo i padroni di Venezia, e mi immaginava che i Francesi fossero partiti, ma non ne aveva prove sicure.

L’Aglaura mi domandò allora ove contassi rivolgermi quando fossero terminati quei miei negozi, ed io risposi balbettando che probabilmente a Milano. La giovinetta chinò gli occhi rabbrividendo, e suo fratello le mandò di traverso un’occhiata fulminante. Io avea ben altro pel capo che di badare al significato di questa pantomima, e presi congedo assicurandoli che ci saremmo veduti prima della partenza. Tornai indi in istrada, ma aveva più paura di prima di esser veduto; anzi ci aveva la vergogna per giunta alla paura. Mi importava moltissimo di non esser osservato, perché la perfetta libertà da ogni molestia nella quale eravamo rimasti fin’allora io e la Pisana mi persuadeva che i suoi parenti ignorassero la mia presenza in Venezia. Se fosse stato altrimenti, oh non era facile l’immaginarsi che ella si fosse rifuggita presso di me? Non mi figurava allora che la scena della Pisana col tenente Minato avesse fatto gran chiasso e che soltanto per timore di compromettersi il Navagero e la Contessa non ne chiedessero conto. Allo svoltar d’una calle mi trovai faccia a faccia con Agostino Frumier più fresco e rubicondo del solito. Ambidue per scambievole consenso finsimo di non ci riconoscere: ma egli si maravigliò di me più ch’io non mi maravigliassi di lui, e la vergogna fu maggiore dal mio canto.

Finalmente giunsi al convento che le pietre mi scottavano sotto i piedi e mi pentiva ad ogni passo di non aver aspettato la notte per quella passeggiata. Ben mi prefiggeva fra me di aprir l’animo mio alla Pisana alla prima occasione e di dimostrarle come la felicità di cui ella m’inebbriava fosse tutta a carico dell’onor mio, e come il rispetto alla patria la fede agli amici l’osservanza dei giuramenti mi stringessero a partire. In cotali pensieri entrai nel parlatorio senza pensare che la reverenda poteva maravigliarsi di veder sua sorella in mia compagnia; ma non ci avea pensato la Pisana ed io pure non ci badai. Era la prima volta che vedeva la Clara dopo i suoi voti. La trovai pallida e consunta da far pietà, colla trasparenza di quei vasi d’alabastro nei quali si mette ad ardere un lumicino: un po’ anche incurvata quasi per lunga abitudine d’ubbidienza e d’orazione. Sulle sue labbra, all’indulgente sorriso d’una volta era succeduta la fredda rigidità monastica: oramai si vedeva che l’isolamento dalle cose terrene, tanto sospirato dalla madre Redenta, lo aveva anch’essa raggiunto; non solo disprezzava e dimenticava ma non comprendeva più il mondo. Infatti la non si maravigliò punto della mia dimestichezza colla Pisana, come io aveva temuto: diede a me ed a lei saggi consigli in buon dato; non nominò mai il passato se non per raccapricciarne, ed una sola volta vidi rammollirsi la piega ritta e sottile delle sue labbra quand’io le nominai la sua ottima nonna. Quanti pensieri in quel mezzo sorriso!... Ma se ne pentì tosto, e riprese la solita freddezza che era il vestimento forzato dell’anima sua, come la nera tonaca dovea vestirle invariabilmente le membra. Io credetti che in quel momento anche Lucilio le balenasse al pensiero; ma che fuggisse spaventata da quella memoria. Dov’era infatti allora Lucilio? Che faceva egli? – Questa terribile incertezza doveva entrarle talora nell’anima col succhiello invisibile ma profondo del rimorso. Ella durò infatti qualche fatica a tornar marmorea e severa come prima; le sue pupille non erano più tanto immobili, né la sua voce così tranquilla e monotona.

– Ohimè! – diss’ella ad un tratto – io promisi alla buon’anima di mia nonna di suffragarla con cento messe, e non fui ancora in grado di compiere il voto. Ecco l’unica spina che ho adesso nel cuore!...

La Pisana si affrettò a risponderle colla solita bontà spensierata che quello spino poteva cavarselo dal cuore a sua posta, e che l’avrebbe aiutata a ciò, e che avrebbe fatto celebrar quelle messe ella stessa secondo le intenzioni di lei.

– Oh grazie! grazie, sorella mia in Cristo! – sclamò la reverenda. – Portami la scheda del sacerdote che le avrà celebrate e tu avrai acquistato un diritto grandissimo alle mie orazioni ed un merito ancor maggiore presso Dio.

Io non mi trovava bene in cotali discorsi, e mi sorprendeva fra me della facilità con cui la Pisana intonava i proprii sentimenti sopra il tenore degli altrui. Ma buona come la era, e maestra finitissima di bugie doveva anzi maravigliarmi se l’avesse adoperato altrimenti. Intanto, salutata ch’ebbimo la Clara, e tornati in istrada mi riprese la paura che fossimo veduti assieme e proposi alla Pisana di andarcene a casa scompagnati, ognuno per una strada diversa. Infatti così fecimo, ed ebbi campo a rallegrarmene perché mossi cento passi mi scontrai ancora nel Venchieredo e nel Partistagno, che questa volta mi si misero alle calcagna e non m’abbandonarono più. I giri che feci loro fare per quegli inestricabili laberinti di Venezia non saprei ripeterli ora; ma io mi stancai prima di loro, perché mi doleva di lasciar sola tanto tempo la Pisana. Mi decisi dunque a volgermi verso casa, ma qual fu il mio stupore quando sulla porta mi scontrai nella Pisana, la quale doveva esser arrivata da un pezzo e pur si stava lì chiaccherando amichevolmente con quella tal Rosa, con quella cameriera che le faceva questuar l’elemosina dai suoi adoratori? Ella non parve turbata per nulla della mia presenza; salutò la Rosa di buonissimo garbo, invitandola a visitarla e si fece poi entro l’uscio insieme con me sgridandomi perché aveva tardato. Colla coda dell’occhio vidi Raimondo e il Partistagno che ci osservavano ancora da un canto vicino, onde chiusi con qualche impeto la porta e salii le scale un po’ musonato.

Di sopra che fui non sapeva da qual banda principiare per far accorta la Pisana della sconvenienza del suo procedere; ma decisi alla fine di affrontarla direttamente, tanto più che mi vi incitava anche un certo umore turbolento di stizza. Le dissi adunque che mi era stupito assai di vederla in istretto colloquio con una svergognata di quella natura, dalla quale avea ricevuto offese imperdonabili; e che non ci vedeva il perché la si fosse fermata a cinguettare sull’uscio di casa con tutto l’interesse che avevamo a non farci osservare. Ella mi rispose che si era fermata senza pensarci e che in quanto alla Rosa le avea fatto compassione il vederla coperta di cenci e intristita in viso per la miseria. Anzi l’avea pregata di venirla a trovare appunto per questo, che sperava in qualche modo di sollevarla, e del resto se l’era pentita de’ suoi torti, ell’era obbligata a perdonarle; e le perdonava in fatti, anche perché dessa le avea protestato di non aver mai inteso di ingiuriarla, e che avea sempre adoperato a fin di bene e dietro istigazione della signora Contessa. La Pisana pareva tanto persuasa di quest’ultimo argomento, che le rimordeva quasi d’aver cacciato la Rosa, e pigliava sulla propria coscienza tutte le incommodità che costei diceva aver sofferto per la sua sdegnosa severità. Indarno io me le contrapposi dimostrandole che certi torti non si possono mai scusare, e che l’onore è forse la sola cosa che si abbia diritto e dovere di difendere anche a costo della vita propria e dell’altrui. La Pisana soggiunse che non la pensava così, che in cotali materie bisogna badare al sentimento, e che il sentimento suo le consigliava di riparare i mali involontariamente cagionati a quella poveretta. Pertanto mi pregò di darle mano in questa buona opera, concedendo per primo punto alla Rosa una camera della casa per abitarvi. Sopra questa domanda io mi diedi a gridare, ed essa a gridare ed a piangere. Si finì con questo accordo, che io avrei pagato la pigione della Rosa ove la dimorava allora, e soltanto dopo questa promessa la Pisana fu contenta di non tirarmela in casa. Fu quella la prima volta che si dimenticò l’amore, e tornarono i nostri temperamenti a trovarsi un pò ruvidi assieme. Mi coricai con molti cattivi presentimenti, ed anche quelle occhiate beffarde e curiose di Raimondo mi rimasero tutta notte traverso alla gola. Il mattino altra scaramuccia. La Pisana mi pregò che volessi uscire per disporre la celebrazione delle cento messe per conto di sua sorella. Figuratevi quanto mi andava a sangue questo bel grillo colla carestia di denari che cominciava a stringermi!... Per uno scrupolo evidente di delicatezza io avea tralasciato di significarle come mio padre era partito con ogni sua ricchezza non altro lasciandomi che un moderatissimo peculio. Tra le spese occorrenti alla casa, il salario della serva, e qualche compera fatta dalla Pisana che si era ricoverata presso di me poco meno che in camicia, m’era già scivolato d’infra le dita buona parte di quello che dovea bastarmi per tutto l’anno. Tuttavia io stentava a discoprirle questa mia miseria, e studiavami d’impedire con altre cento ragioni quella generosità delle messe. La Pisana non mi voleva ascoltare ad alcun patto. Essa aveva promesso, ci andava della quiete di sua sorella, e se le voleva bene nulla nulla, doveva soddisfarla. Allora le dichiarai netta e tonda la cosa come stava.

– Non c’è altra difficoltà? – rispos’ella colla miglior cera del mondo. – È facile accomodarsi. Prima di tutto adempiremo agli obblighi assunti, e poi si digiunerà se non ne resta per noi.

– Hai un bel dire col tuo digiunare! – soggiunsi io. – Vorrei un po’ vederti al fatto come te la caveresti per reggerti in piedi!

– Cascherò se non potrò reggermi; ma non sarà mai detto che io m’ingrassi con quello che può servire al bene degli altri.

– Pensa che dopo le cento messe poche lire mi resteranno!

– Ah si! è vero, Carlino! non è giusto ch’io sacrifichi te per un capriccio. È meglio ch’io me ne vada... andrò a stare colla Rosa... lavorerò di cucito e di ricamo...

– Cosa ti salta ora? – gridai tutto sdegnato. – Piuttosto mi caverei anche la pelle che lasciarti così a mal partito!...

– Allora, Carlino, siamo intesi. Fammi contenta di tutto quello che ti domando, e dopo pensi la Provvidenza, che tocca a lei.

– Sai, Pisana, che mi fai proprio stupire! Io non ti vidi mai così rassegnata e fiduciosa nella Provvidenza come ora che la Provvidenza non sembra darsi il benché minimo pensiero di te.

– Che sia vero? ne godrei molto che questa virtù mi crescesse a seconda del bisogno. Tuttavia ti dirò che se comincio ad aver fede nella Provvidenza gli è che me ne sento il coraggio e la forza. In fondo al cuore di noi altre donne un po’ di devozione ci resta sempre: or bene! io mi abbandono nelle braccia di Dio! Ti assicuro che se rimanessimo nudi di tutto, non troveresti due braccia che lavorassero più valorosamente delle mie a guadagnar la vita per tutti e due.

Io scrollai il capo, ché non ebbi molta fede in quel coraggio lontano ancora dalla prova; ma per quanto ci credessi poco, dovetti pagare le cento messe e la pigione della Rosa, e finalmente la vidi contenta quando non ci restavano che venti ducati all’incirca per scongiurare il futuro.

Ma c’era poco lontano gente che si prendeva cura dei fatti e lavorava sott’acqua per cavarmi d’impiccio: volevano precipitarmi dalla padella nelle bragie e ci riescirono. Il dover mio era di farmi abbrustolire già da un mese prima, e io potrei anche ringraziarli del gran merito ch’essi acquistarono presso la mia coscienza. La scena della Pisana coll’ufficiale còrso avea fatto chiasso, come dissi, per tutta Venezia; la sua disparizione dalla casa del marito aggiungeva mistero all’avventura, e se ne contavano di così strane, di così grosse che a ripeterle sembrerebbero fole. Chi la vedeva vagare vestita di bianco sotto le Procuratie nella profondità della notte; chi affermava di averla incontrata in qualche calle deserta con un pugnale in mano e una face resinosa nell’altra, come la statua della discordia; i barcaiuoli narravano ch’ella errava tutta notte per le lagune, soletta sopra una gondola che avanzava senza remi e lasciava dietro a sé per le acque silenziose un solco fosforescente. Alcuni tonfi si udivano di tanto in tanto intorno alla misteriosa apparizione; erano i nemici di Venezia da lei strappati magicamente alla quiete del sonno e precipitati nei gorghi del canale. Queste chiacchere immaginose, cui la credulità popolare aggiungeva ogni giorno alcun fiore poetico, garbavano poco o nulla al nuovo governo provvisorio stabilito dagli Imperiali dopo la partenza di Serrurier. Erano sintomi di poca simpatia, e conveniva guarire la gente di questo ticchio poetico. Perciò si davano attorno per iscoprire la dimora della Pisana; ma le indagini rimanevano senza effetto, e nessuno certo si sarebbe immaginato ch’ella abitasse con me, mentre io stesso ero creduto a quei giorni ben lontano dalle lagune. La nostra zingara era stata incoruttibile; a qualche sbirro travestito che era venuto a chieder conto dei padroni di casa, ell’avea risposto che da gran tempo mancavano da Venezia, e così non ci avevano seccato più. Sapendo che mio padre s’era imbarcato pel Levante, mi giudicavano partito con lui, o con gli altri disgraziati che aveano cercato una patria o nelle tranquille città della Toscana o nelle tumultuanti provincie della Cisalpina.

La scoperta fatta da Raimondo Venchieredo mise la sbirraglia sulle mie traccie. Egli ne parlò a suo padre come d’una curiosità; il vecchio volpone ne tenne conto come d’un grasso guadagno, e così, dopo consultatosi col reverendo padre Pendola, decise di farsi un merito presso il Governo col dipingermi per un pericoloso macchinatore appiattato a Venezia e disposto a Dio sa qual colpo disperato. La mia convivenza con quella furiosa eroina, che avea fatto parlar tanto il volgo e gli sfaccendati, aggiungeva nerbo all’accusa. Infatti una bella mattina che sorseggiava tranquillamente il caffè pensando alla maniera di prolungar piucché fosse possibile l’utilissimo servizio di sette od otto ducati che mi rimanevano, sentii un furioso scampanellare alla porta, e poi una confusione di voci che gridavano rispondevano s’incrociavano dalla finestra alla calle, e dalla calle alla finestra. Mentre porgeva l’orecchio a quel fracasso, udii un grande strepito, come d’una porta sgangherata a forza, e poi successe un secondo colpo più forte del primo, e un gridare e un tempestare che non finiva più. Stavamo appunto io e la Pisana per uscire ad osservare cosa succedeva, quando la nostra zingara si precipitò nella stanza col naso insanguinato, la veste tutta a brandelli, e un’enorme paletta da fuoco tra mano. Era quella che mio padre adoperava per far i profumi secondo l’usanza di Costantinopoli.

– Signor padrone, – gridava ella, sfiatata pel gran correre – ne ho fatto prigioniero uno che è di là chiuso in cucina colla faccia spiattita come una torta... ma fuori... ne sono altri dodici... Si salvi chi può... Vengono per arrestarlo... Dicono che l’è un reo di Stato...

La Pisana non la lasciò continuare; corse a chiudere la porta, e adocchiando la finestra che dava sul canale, cominciò a dirmi che badassi a me, a scappare, a salvarmi, che questo urgeva più di tutto. Io non sapeva che fare, e un salto dalla finestra mi parve la maniera più commoda di cavarmela. Pensare e fare fu ad un punto; mi buttai fuori senza guardar prima né dove né come cadessi, persuasissimo che acqua o terra qualche cosa avrei incontrato. Incontrai invece una gondola dentro la quale travidi durante il volo la faccia di Raimondo Venchieredo che spiava le nostre finestre. Il colpo che diedi sopra il fondo della barca mi sconciò quasi una spalla, ma le capriuole della mia infanzia e la ginnastica di Marchetto mi avevano usato le ossa a simili scompigli. Mi rizzai come un gatto più svelto di prima, corsi verso la prora per balzare sull’altra riva, ma mi si oppose involontariamente Raimondo che stava allora per uscire di sotto al felze3 e si fermò spaventato da quel corpo che nel cadere gli avea fatto dondolare sotto i piedi la gondola.

– Ah sei tu! sciagurato? – gli dissi io rabbiosamente. – Prenditi la mercede del tuo spionaggio!

E gli menai un tal manrovescio che lo mandò a rotolare sulla forcola4 ove per poco non si ebbe a cavar gli occhi. Intanto io avea guadagnato la riva e salutato d’un gesto la Pisana che mi guardava dal balcone e mi esortava a far presto e a fuggire. La zingara mia salvatrice stava ancora colla sua paletta dinanzi alla porta sgangherata spaventando colla sua attitudine guerresca i dodici sbirri, nessuno dei quali si sentiva volontà di seguire il caporione nella casa per incontrarvi quella brutta sorte che forse egli vi aveva incontrato. Badando meglio essi lo avrebbero udito strillare; chiuso nella cucina e col muso pestato dalla tremenda paletta egli si lamentava sulla nota più alta della sua scala di basso, come un vero porcellino condotto al mercato. Io avea veduto tuttociò in un lampo e prima che Raimondo si riavesse o i birri mi scoprissero era scomparso per una calletta che tagliava giù lì presso. In quella confusione di fatti e di idee fu una vera provvidenza che mi saltasse in capo di rifugiarmi presso gli Apostulos. Come anche feci e arrivai a salvamento senza nessun maggior fastidio che quell’arrischiatissimo salto dalla finestra. I miei amici furono contentissimi di vedermi salvo da sì grave pericolo; ma pur troppo non si poteva ancora cantar vittoria, e finché non fossi fuori delle lagune anzi dalle provincie di qua dall’Adige la mia libertà correva grandissimo rischio.

– Dunque dove fareste conto di andare? – mi chiese il vecchio banchiere.

– Ma... a Milano! – risposi io, non sapendo neppure cosa mi dicessi.

– Proprio persistete nell’idea d’andar a Milano? – mi domandò a sua volta l’Aglaura.

– Pare il miglior partito; – io soggiunsi – e laggiù ci ho infatti i miei migliori amici, e mi aspettano da un pezzo.

Spiro era corso da basso a licenziare la gente dello studio mentre si facevano cotali discorsi, e l’Aglaura pareva disposta a movermi qualche altra inchiesta quand’egli tornò. Allora ella mutò viso e stette ad ascoltare come si prendesse cura di nulla; ma ella mi spiava premurosamente ogniqualvolta suo fratello voltava via l’occhio, e la udii sospirare quando suo padre mi disse che con un travestimento greco e il passaporto d’un loro commesso io avrei potuto partire l’indomani mattina.

– Non prima, – soggiunse egli – perché tutte le Pulizie sono molto occhiute e guardinghe sui primi momenti e cadreste facilmente nelle loro unghie. Domani invece non guarderanno tanto pel sottile perché vi crederanno già uscito di città, ed essendo festa i doganieri saranno occupatissimi a riveder le tasche dei campagnuoli che entrano.

La vecchia, che era accorsa anco lei a congratularsi del mio salvamento, approvò del capo. Spiro soggiunse che sbarcato a Padova farei benissimo a spogliarmi del mio travestimento, e a prendere qualche strada di traverso per toccar il confine; il vestir alla greca avrebbe dato troppo nell’occhio. Io risposi a tutti di sì, e ad un altro argomento, a quello dei danari. Coi sette ducati che aveva in tasca non potea già sognarmi di giungere a Milano; mi occorreva proprio una sommetta; e siccome anche i frutti anticipati d’un anno non mi bastavano, e d’altra parte qualche mezzo di sussistenza voleva lasciarlo alla Pisana, così proposi al greco che mi pagasse mille ducati, e del restante capitale contasse d’anno in anno gli interessi nelle mani della nobile contessina Pisana di Fratta, dama Navagero. Il greco ne fu contentissimo: stesi la ricevuta e la procura in regola e avvisai la Pisana con una lettera di queste mie provvidenze, includendole anche una carta colla quale la investiva dell’usufrutto della mia casa. Non si sapeva mai quanto potessi restarmene assente, e il meglio si era provvedere per un pezzo; né io temeva che la Pisana si sarebbe tenuta offesa di queste mie prestazioni, perché il nostro amore non era di quelli che si credono avviliti per simili minuzzoli. Chi ne ha ne dia; è la regola generale per tutto il prossimo; figuratevi poi tra due amanti che più che prossimi devono esser tra loro una cosa sola! Or dunque dato che ebbimo ordine a questi negozii, si pensò a metter in grado il mio stomaco di sostener le fatiche del primo giorno d’esiglio. Era già sera, io non avea preso da ventiquattr’ore null’altro che un caffè, pure non avea più fame che se mi fossi alzato allor allora da un banchetto di nozze. Cosa volete? Sulla mensa vi avevano a destra ed a sinistra de’ gran bottiglioni di Cipro, io mi fidai a quelli, e mentre gli altri mangiavano e m’incoraggiavano a mangiare, mi diedi invece a bere per la disperazione.

Bevetti tanto che non intesi più nulla dei gran discorsi che mi tennero dopo cena; soltanto mi parve che rimasto un momento solo colle donne l’Aglaura mi sussurasse qualche parola all’orecchio, e che seguitasse poi a premermi il ginocchio e ad urtarmi il piede sotto la tavola quando Spiro e suo padre furono tornati. Per garbo d’ospitalità essi l’avevano collocata nel posto vicino al mio. Io non ci capiva nulla di quella manovra; mi trascinai bene o male fino al letto che mi fu assegnato e dormii tanto porcellescamente che mi sentiva russare. Ma alla mattina quando mi svegliarono fu un altro paio di maniche! Alla tempesta era succeduta la calma, allo sbalordimento il dolore. Fino allora avea prolungato ostinatamente le mie speranze, come il tisico; ma alla fine dava di cozzo nella brutta necessità, né ritrarsi né sperare valeva più. Non potrei nemmen dire ch’ebbi la forza di uscire dal letto, di vestire i miei nuovi arnesi alla greca, e di congedarmi dai miei ospiti. In questi movimenti il mio corpo non si prestava che colla sciocca ubbidienza d’un automa, e quanto all’anima io potea credere d’averla lasciata nel vino di Cipro. Spiro mi accompagnò alla Riva del Carbone donde partiva allora la corriera di Padova; mi promise che le notizie di mio padre mi sarebbero puntualmente comunicate e mi lasciò con una stretta di mano. Io stetti lì sul ponte a guardare Venezia, a contemplare mestamente le cupe acque del Canal Grande dove i palazzi degli ammiragli e dei dogi sembravano specchiarsi quasi desiderosi dell’abisso. Sentiva di dentro un laceramento come dei visceri che mi fossero strappati; indi rimasi immobile smarrito privo affatto di vita come chi si trova di fronte ad una sventura che finirà solo colla morte. Non mi accorsi della partenza della barca; eravamo già al largo sulla laguna che io vedeva ancora il palazzo Foscari e il ponte di Rialto. Ma quando si giunse alla dogana, e ci fu data la voce di fermarsi con un accento che non era certo veneziano, allora uscii a un tratto da quelle angoscie fantastiche per rientrare nella stretta d’un vero e profondo dolore! Allora tutte le sventure della mia patria mi si schierarono dinanzi mescolate alle mie, e tutte una per una mi ficcarono dentro nel cuore il loro coltello!

Ci eravamo spiccati appena dall’approdo della dogana, quando fummo sopraggiunti da un veloce caiccio5 che ci gridava di aspettare. Il pilota fermò infatti e fui maravigliatissimo un minuto dopo di rivedere il giovine Apostulos sulla tolda della corriera. Mi accostò con qualche turbamento adocchiando a diritta ed a sinistra, e disse un po’ confuso che si avea dato fretta di raggiungermi per dirmi il nome d’alcuni suoi amici che potevano a Milano giovarmi oltremodo. Io mi stupii d’una tale premura, giacché si usa in tali circostanze munire il viaggiatore di commendatizie: ciononostante lo ringraziai, ed egli allora si partì cercando del padrone della barca al quale diceva di volermi raccomandare. Con tale pretesto scese nel casotto e lo vidi infatti bisbigliare qualche parola all’orecchio del padrone: questi si affaccendava a rispondergli di no, e gli faceva cenno come di accomodarsi pure e di guardare dove voleva. Spiro andò innanzi fino in fondo al casotto, vide alcuni barcaiuoli che dormivano ravvolti nel loro cappotto, e tornò indietro con un viso che voleva parere indifferente.

– Capperi! che corriera di lusso ci avete! – sclamò egli spiandola tutta da prora a poppa coi suoi occhi di falco; e ficcò il naso in tutti i bugigattoli con qualche stizza del piloto a cui tardava di dar la volta al timone.

– Posso partire? – chiese costui al capitano per dar fretta di andarsene a quell’importuno visitatore.

– Aspettate prima che me ne vada io! – soggiunse Spiro saltando dalla corriera nel caiccio, e salutandomi astrattamente con un gesto. Io capiva che pel solo motivo dettomi egli non avea raggiunto la barca e visitatala con tanta diligenza: ma era troppo sconvolto e addolorato per dilettarmi di castelli in aria, e così in breve egli mi uscì di mente, e tornai a guardare Venezia che si allontanava sempre più in mezzo alla nebbia azzurognola delle sue lagune. La pareva oggimai un sipario da teatro scolorato dalla polvere e dal fumo della ribalta.

O Venezia, o madre antica di sapienza e di libertà! ben lo spirito tuo era allora più sparuto e più nebbioso dell’aspetto! Egli svaniva oggimai in quella cieca oscurità del passato che distrugge perfino le orme della vita; restano le memorie, ma altro non sono che fantasmi; resta la speranza, il lungo sogno dei dormenti. T’aveva io amato moribonda e decrepita?... Non so, non voglio dirlo. – Ma quando ti vidi ravvolta nel sudario del sepolcro, quando ti ammirai bella e maestosa fra le braccia della morte, quando sentii freddo il tuo cuore e spento sulle labbra l’ultimo alito, allora una tempesta di dolore di disperazione di rimorso mi sollevò le profonde passioni dell’anima!... Allora provai la rabbia del proscritto, la desolazione dell’orfano, il tormento del parricida!... Parricidio, parricidio! gridano ancora gli echi luttuosi del palazzo Ducale. Potevate lasciarsi addormentare in pace la vostra madre che moriva, sulle bandiere di Lepanto e della Morea: invece la strappaste con nefanda audacia da quel letto venerabile, la metteste a giacere sul lastrico, le danzaste intorno ubbriachi e codardi, e porgeste ai suoi nemici il laccio per soffocarla!... V’hanno certi momenti supremi nella vita dei popoli che gli inetti son traditori, quando si arrogano i diritti del valore e della sapienza. Eravate impotenti a salvarla? Perché non lo avete confessato alla faccia del mondo? Perché vi siete mescolati coi suoi carnefici? Perché alcuni tra voi dopo aver inorridito del nefando mercato stesero la mano alle elemosine dei compratori? – Pesaro fu solo nella virtù; ma primo e più vile di tutti nell’umiliarsi, ebbe molti ebbe troppi imitatori. Ora io non accuso ma vendico; non insulto ma confesso. Confesso quello che avrei dovuto fare e non feci; quello che poteva e non volli vedere; quello che commisi per avventatezza, e deplorerò sempre come un vile delitto. Il Direttorio e Buonaparte ci tradirono, è vero; ma a quel modo si lasciano tradire solamente i codardi. Buonaparte usò con Venezia come coll’amica che intende l’amore per servitù e bacia la mano di chi la percote. La trascurò in principio, la oltraggiò poi, godette in seguito d’ingannarla, di sbeffeggiarla, da ultimo se la pose sotto i piedi, la calpestò come una baldracca, e le disse schernendola: – Vatti, cerca un altro padrone!...

Nessuno potrà forse comprendere senza averlo provato il profondo abbattimento che mi veniva nell’anima da tali pensieri. Quando poi lo raffrontava all’allegra e spensierata felicità che me lo aveva ritardato d’alcuni giorni, crescevano, se era possibile, lo sconforto e l’ambascia. Era proprio vero. Io avea toccato l’apice dei miei desiderii; aveva stretto fra le mie braccia bella contenta amorosa la prima la sola donna che avessi mai amato; quella che io aveva figurato fin dai primi anni essere la consolazione della mia vita, e il rimedio d’ogni dolore, mi aveva colmato inebbriato di quante voluttà può mai capire in seno mortale!... E cosa stringeva in pugno di tutto ciò?... Un rimorso!... Ebbro ma non satollo vergognoso ma non pentito io lasciava le vie dell’amore per quelle dell’esiglio, e se gli sbirri non si fossero presi la briga di avvertirmene io sarei rimasto a profanare ll funebre lutto di Venezia colla sfacciataggine de’ miei piaceri. Così perfino il nutrimento dell’anima mi si volgeva in veleno, ed era costretto a disprezzar quello che ancora desiderava possedere più ardentemente che mai.

Pallido stravolto agitato, senza toccar cibo né bevanda, senza né guardar in viso né rispondere alle domande de’ miei compagni di viaggio, lasciandomi sobbalzare qua e là dai gomiti poco guardinghi dei barcaiuoli, giunsi finalmente a Padova. Scesi a terra non ricordandomi quasi più dove mi fossi, e non conoscendo quell’argine del canale ove tante volte avea passeggiato con Amilcare. Domandai pertanto d’un’osteria, e me ne fu additata una alla destra di Porta Codalunga, ove appunto pochi anni or sono fu costruito il gazometro. Mi vi avviai col mio fardello sotto il braccio seguitato da alcuni biricchini che ammiravano il mio vestimento orientale: entratovi chiesi una stanza, e qualche cosa da ristorarmi. Là mi cangiai di abito, presi un po’ di cibo, non volli saperne di vino, e pagato il piccolo scotto, uscii dalla bettola dicendo a voce alta che vestito a quel modo sperava di non dar nell’occhio ai monelli della città. Infatti feci le viste di avviarmivi; ma giunto alla porta tirai oltre e la diedi giù per un viottolo che a memoria doveva riuscire sulla strada di Vicenza. Uscendo dall’osteria avea sbirciato un tale che aveva muso di tenermi dietro avvisatamente, e voleva chiarirmi della verità. Infatti guardando di traverso io vedeva sempre quest’ombra che seguitava la mia, che allentava sollecitava e fermava il passo con me. Svoltato giù per quel viottolo udiva del pari un passo leggiero e prudente che mi accompagnava; sicché non v’aveva più dubbio, quel cotale era lì proprio per me. Pensai subito al Venchieredo, al padre Pendola, all’avvocato Ormenta e ai loro spioni: allora non sapeva che il degno avvocato sedeva al governo per la accorta protezione del reverendo. Tuttavia mi parve che la franchezza fosse il miglior partito e quando ebbi tirato il mio cagnotto da ferma nell’aperta campagna mi volsi precipitosamente, e mi slanciai sopra di lui per ghermirlo, se si poteva, e pagarlo con doppia moneta della non chiesta compagnia. Con mia gran sorpresa colui né si mosse né diede segno di spavento; anzi aveva intorno un cappotto da marinaio e ne abbassò il cappuccio per discoprirsi meglio. Io allora deposi anch’io la parte più pericolosa della mia rabbia, e mi accontentai di tenergli ricordato che non era lecito starsi a quel modo sulle calcagna d’un galantuomo. Mentre io gli parlava ed egli mi guardava con un cipiglio piuttosto indeciso che turbato, mi parve travedere nelle sue sembianze la memoria d’una persona a me notissima. Passai rapidamente in rassegna tutti i miei amici di Padova; ma nessuno gli somigliava per nulla, invece un certo presentimento si ostinava a presentarmi quella figura come veduta poco tempo prima, e viva ancora, vivissima nelle mie rimembranze.

– Dunque non vuol proprio conoscermi? – mi disse colui mettendosi la palma della mano sul volto, e con una tal voce che mi rischiarò subito il discernimento.

– Aglaura, Aglaura! – io sclamai. – Vedo o stravedo?

– Si, sono l’Aglaura, son io che vi seguo fino da Venezia, che stetti con voi nella medesima barca, che mi refocillai alla stessa osteria, e che non avrei avuto il coraggio di scoprirmi a voi se i vostri sospetti non vi facevano rivolgere a me.

– Adunque, – io soggiunsi fuori di me per la sorpresa – adunque Spiro cercava di voi questa mattina?...

– Sì, egli cercava di me. Rientrando a casa e non trovandomi più io era venuta intanto alla corriera dopo avermi cangiati gli abiti presso la nostra lavandaia, egli si sarà insospettito di quanto già temeva da lungo tempo. È vero ch’era uscita colla cameriera; ma costei sarà tornata narrando com’io l’avea pregata di lasciarmi sola in chiesa e i sospetti gli saranno cresciuti. Fortuna che per la fretta non ebbe tempo di chiarirsi se quella fosse la verità od una scusa; e così quando domandò al padrone se non aveva donne a bordo e colui gli rispose di no, credette davvero ch’io fossi rimasta a pregare, e cercassi forse nella preghiera la forza di resistere alle tentazioni che da tanto tempo mi assediavano. Povero Spiro!... Egli mi vuol bene, ma non m’intende, non mi compatisce!... Anziché intercedere per me egli sarà quello che si farà esecutore delle maledizioni di mio padre!

Da queste parole dal suono della voce dal tenor degli sguardi io mi persuasi che la povera Aglaura era innamorata di me, e che il dolore di perdermi l’avea menata a quel consiglio disperato di seguirmi. Io mi sentiva pieno di riconoscenza di compassione per lei. Se la Pisana fosse rimasta con Sua Eccellenza Navagero, o fosse scappata col tenente Minato, credo che avrei amato di colpo l’Aglaura non foss’altro per riconoscenza. Ma sono stanco di scrivere, e voglio chiudere il capitolo lasciandovi nell’incertezza di quello che ne avvenne poi.