CAPITOLO DECIMOQUINTO
Il viaggio può esser buono benché fu cattiva la partenza – Arriviamo a Milano il giorno della Festa per la Federazione della Repubblica Cisalpina – Io comincio a veder chiaro ma forse anche a sperar troppo nelle cose di questo mondo – I soldati Cisalpini e la Legione Partenopea di Ettore Carafa – Di punto in bianco divento ufficiale di questa.
Perdonatemi la mala creanza d’avervi impiantati così sgarbatamente; ma non ce n’ho colpa. La vita d’un uomo raccontata così alla buona non porge motivo alcuno ond’essere spartita a disegno, e per questo io ho preso l’usanza di scrivere ogni giorno un capitolo terminandolo appunto quando il sonno mi fa cascare la penna. Ieri sera ne fui colto quando più mi facean d’uopo tutti i miei sentimenti chiari e svegliati per continuare il racconto, e così ho creduto di far bene sospendendolo fino ad oggi. Già non ne aveste altro incommodo che di dover voltare una pagina e leggere quattro righe di più.
La giovine greca nelle sue spoglie marinaresche era bella come una pittura del Giorgione. Aveva un certo miscuglio di robusto e di molle, d’arditezza e di modestia che un romito della Tebaide se ne sarebbe innamorato. Però io non mi lasciai vincere da questi pregi incantevoli; e con uno sforzo supremo m’apprestava a farla capace del suo strambo operare, a rammemorarla de’ suoi genitori, di suo fratello, de’ suoi doveri di morale e di religione, a persuaderla fors’anco che il suo non era amore ma momentanea frenesia che in due giorni si sarebbe sfreddata, a protestarle di più schiettamente, se n’era il bisogno, che il mio cuore era già preoccupato1 e che sarebbe stato inutile ogni sforzo per conquistarlo. A tanto giungeva il mio eroismo. Fortuna che non fu di mestieri; e che la sincerità della donzella mi sparagnò la ridicolaggine donchisciottesca d’una battaglia contro un mulino.
– Non condannatemi! – riprese ella dopo aver parlato come esposi in addietro, e imponendomi silenzio d’un gesto – prima dovete ascoltarmi... Emilio è il mio promesso sposo; egli non pensava certamente a mescolarsi in brighe di stato, in macchinazioni e in congiure quando lo conobbi; fui io a spingerlo per quella via, e a procurargli la proscrizione che nudo di tutto senza parenti senza amici e cagionevole di salute lo manda a soffrire, a morir forse in un paese lontano e straniero!... Giudicatemi ora; non era dover mio quello di tutto abbandonare di sacrificar tutto per menomare i cattivi effetti delle mie esortazioni?...Lo vedete bene: Spiro aveva torto nel volermi trattenere. Non è l’amore soltanto che mi fa fuggire la mia casa; è la pietà, la religione, il dovere!... Perisca tutto, ma che non mi resti nel cuore un sì atroce rimorso!
Io rimasi, come si dice, di princisbecco; ma feci dignitosamente l’indiano e benché la vergogna mi salisse alle guancie del granchio ch’era stato per prendere, pure trovai qualche parola che non dicesse nulla, e velasse momentaneamente il mio imbroglio. Sopratutto mi imbarazzava quel signor Emilio, nudo di tutto, malato, interessante che l’Aglaura diceva essere il suo promesso sposo e del quale io non avea mai sentito mover parola dai suoi. Probabilmente ella supponeva che Spiro me ne avesse parlato, infatti ella tirò innanzi a raccontare come se ne sapessi quanto lei.
– La settimana passata – diss’ella – era assalita continuamente dall’idea di ammazzarmi: ma quando prima vidi voi, e sentii che avevate intenzione d’andarne a Milano, un altro pensiero meno funesto per me e consolante per tutti mi balenò in capo. Perché non vi avrei io seguito? Emilio era a Milano anch’esso. Un lungo silenzio mi teneva allo scuro di tutto ciò che lo riguardava. Uccidendomi non ne avrei saputo più di prima, e neppure gli avrei recato alcun conforto; mentre invece raggiungendolo, mettendomigli al fianco, rimanendo sempre con lui, chi sa? avrei potuto attenuare le disgrazie che gli aveva tirato addosso colle mie smanie liberalesche. Decisi adunque che sarei partita con voi; perché in quanto al pormi in viaggio da sola, il pensarvi senz’altro mi spaventava. Figuratevi! Avvezza a metter così raramente il piede fuori di casa! Il coraggio no, ma mi sarebbe mancata la pratica e chi sa in quali impicci avrei potuto cascare! Invece colla scorta d’un amico onesto e fidato sarei ita sicura in capo al mondo. Presa questa deliberazione ne ventilai un’altra. Doveva io parteciparvi il mio disegno o seguirvi a vostra insaputa finché la nostra scambievole posizione vi obbligasse vostro malgrado a prendermi per compagna? – La mia franchezza propendeva al primo partito; ma il timor d’un rifiuto e la cura della segretezza mi sforzarono al secondo. Tuttavia il maggior ostacolo restava da superarsi, ed era mio fratello. Fra lui e me formiamo siffattamente un’anima sola che i pensieri si disegnano in lui mentre si coloriscono in me: siamo due liuti di cui l’uno ripete spontaneo e un po’ confusamente i suoni toccati sulle corde dell’altro. Egli infatti travide il mio disegno fin dalla prima volta che voi foste in nostra casa; non dico ch’egli indovinasse il pensiero ch’io avea formato di accompagnarmi a voi, ma mi lesse chiara negli occhi la volontà di fuggire a Milano. Tanto bastava per render impossibile o almeno molto difficile questa fuga, perché io conosco l’immenso affetto serbatomi da mio fratello e ch’egli piuttosto torrebbe di morire che di separarsi da me. Cosa volete? alle volte mi sembra che per un fratello questo amore sia troppo; ma egli è fatto così, e bisogna convenire che è un bel difetto. Non potreste immaginare le astuzie da me adoperate per cavargli di capo i suoi sospetti, le menzogne che sciorinai coll’aspetto più ingenuo del mondo, le carezze che gli feci maggiori d’ogni consueto, l’affetto e la cura che dimostrava a tutte le cose di famiglia! Solamente chi si crede chiamata da Dio e dalla propria coscienza alla riparazione delle proprie colpe può far altrettanto e confessarlo senza morire di crepacuore e di vergogna. I miei vecchi genitori, Spiro stesso rimase ingannato. Guardate, io ne piango anche adesso! ma Dio vuole così; sia fatta la sua volontà! Rimasero tutti ingannati come vi dico, e certo stamattina quando dissi le orazioni colla mamma e diedi il buon giorno al papà, nessuno avrebbe sospettato ch’io covava il disegno di abbandonarli dopo una mezz’ora, di mutarmi nell’arnese d’un marinaio, e di correre il mondo insieme a voi in penitenza de’ miei peccati!... Omai son risoluta; il gran passo è fatto. Se Dio mi fornì la forza di dissimulare per tanto tempo, e l’astuzia di ingannare guardiani così accorti ed amorosi è segno ch’egli approva e difende la mia condotta. Egli provveda a riparar i mali che la mia fuga può cagionare!... Quanto ai miei genitori non ne ho gran paura!... Sia il mio sesso, o lo scarso merito, o la loro grave età volgente all’egoismo, io non m’accorsi mai che il loro affetto per me oltrepassasse i limiti della discrezione. Mia madre sembra alle volte pentita di avermi trascurata a lungo e mi colma di carezze che vorrebbero essere materne ma sono un po’ troppo studiate; mio padre poi non si dà questa briga, egli si dimentica di me le intere giornate, e pare che mi tratti come gli fossi capitata in casa oggi e dovessi uscirne domani. Infatti noi femmine siamo pei padri un bene passeggiero, un trastullo per alcuni anni; ci considerano, credo, come roba d’altri, e certo mio padre non dimostrò mai ch’egli mi ritenesse per sua. Così vi dico, in quanto a loro non mi do grande affanno: saranno abbastanza tranquilli, se mi sapranno viva: ma è in riguardo a Spiro che non posso far a meno d’inquietarmi!... Io conosco la sua indole fiera e precipitosa, il suo cuore che non soffre né pazienza né misura! Chi sa quale scompiglio ne potrebbe nascere! Ma spero che l’amore e il rispetto ai nostri comuni genitori gli farà tenere qualche riserbo. D’altro canto gli scriverò, lo metterò in quiete, e pregherò sempre il cielo che mi conceda la grazia di riunirci.
Così parlando ella s’era già rimessa a camminare verso dove io era avviato prima che mi rivolgessi ad affrontarla, ed io pure spensatamente le procedeva del paro. Ma quando ella terminò il suo racconto io mi fermai sui due piedi, dicendo:
– Aglaura, dove n’andiamo ora?
– A Milano dove andavate voi – rispose ella.
Confesso che tanta sicurezza mi confuse e mi rimasero in tasca inoperosi tutti gli argomenti che mi prefiggeva adoperare per dissuaderla da quell’avventato disegno. Vidi che non c’era rimedio, e pensai involontariamente alle parole di mio padre quando mi diceva che nella figliuola degli Apostulos io avrei trovato una sorella e che come tale l’avrei amata. Ch’egli fosse stato profeta? Pareva di sì; ad ogni modo io deliberai di non abbandonare la ragazza, di sorreggerla coi miei consigli, di seguirla sempre, di prestarle insomma quei fraterni ufficii che le venivano di diritto per l’antica amicizia professata da mio padre al suo. Se non fratelli eravamo a questo modo un pochetto cugini; e così mi posi in quiete, deciso di regalarmi in seguito secondo le circostanze e di non trascurar mezzo alcuno che valesse a ricondurre l’Aglaura nel seno della propria famiglia. Intanto non cangiai per nulla il mio progetto che era di tirar innanzi a piedi fino a un paesello lì presso; di guadagnar di colà il pedemonte con una carrettella, e così poi di carrettella in carrettella di paese in paese sguisciando fra le città e la montagna giungere al lago di Garda e farmi buttare da un battello sulla riva bresciana. Peraltro prima di mettere ad effetto la prima parte di questo piano chiesi con solennità alla donzella se veramente quel signor Emilio era il suo promesso sposo, e se l’aveva certe novelle ch’egli si trovasse infermo a Milano.
– Mi domanda se Emilio è il mio fidanzato? Non conosce Emilio Tornoni? – sclamò con gran sorpresa l’Aglaura. – Ma dunque Spiro non ve n’ha mai parlato?
– No, ch’io mi sappia – risposi io.
– È cosa molto strana – bisbigliò ella affatto fra i denti. – Poi senza rompersi altro il capo mi dichiarò in breve come già prima che Spiro tornasse dalla Grecia ove si era fermato quindici anni presso un suo zio, ella era stata chiesta in isposa da Emilio, un bel giovine a udirla lei, e delle migliori famiglie dell’istria, stabilito come ufficial d’arsenale a Venezia. Il ritorno del fratello e più alcuni dissesti di fortuna che lo avean reso necessario, ritardarono sulle prime le nozze; poi sopraggiunta la rivoluzione avea lasciato tutto sospeso, finché Emilio avea dovuto fuggire con tutti gli altri per la nefandità del trattato di Campoformio; ed ella continuava a protestarsi l’unica origine di questo guaio, come quella che avea riscaldato il capo ad Emilio e distoltolo dalle sue occupazioni marinaresche per mescolarlo nei baccanali di quell’effimera libertà. Io me le opposi dimostrandole che un uomo è sempre responsabile delle proprie azioni, e suo danno se si lascia menar pel naso dalle donne. Ma l’Aglaura non volle rimettersi a quest’opinione, e persisteva nel ritenersi obbligata a raggiungere il suo fidanzato per compensarlo in qualche maniera di ciò che gli faceva soffrire. Circa alla sua malattia, e al trovarsi egli in Milano non poteva dubitarne, perché nell’ultima lettera le avea fatto sapere ch’egli non si sarebbe mosso di colà, e che se non riceveva suoi scritti in seguito, la ritenesse pure ch’egli era o morto o gravemente infermo. Forse il povero esule scrivendo quelle parole sentiva già i primi sintomi di quella malattia che lo teneva allora inchiodato sul letto pestilente d’uno spedale. L’immaginazione dell’Aglaura era così vivace che le pareva quasi di vederlo abbandonato all’incuria piucché alle cure d’un infermiere mercenario, e disperato di dover morire senza un suo bacio almeno sulle labbra.
In questi discorsi giunsimo a un piccolo villaggio e là ci accomodammo d’un birroccio che ci trascinò fino a Cittadella. Narrarvi come l’Aglaura pigliasse filosoficamente gli incommodi e le fatiche di quel viaggiare alla soldatesca sarebbe cosa da ridere. La notte si dormiva in qualche bettolaccia di campagna, dove c’era le più volte una camera sola con un letto solo. Gli è vero che questo era pel solito tanto vasto da albergare un reggimento, ma la pudicizia, capite bene, non permetteva certi rischi. Appena entrati nella stanza si smorzava il lume; ella si spogliava e si metteva a giacere sul letto; io mi rannicchiava alla meglio sopra una tavola o in qualche seggiola di paglia. Guai se fossi stato avvezzo per tutta la mia vita alle mollezze dei materassi e dei piumini veneziani! In un paio di notti mi avrei logorato le ossa. Ma queste si ricordavano ancora per fortuna del covacciolo di Fratta e dei bernoccoli implacabili di quei pagliericci; perciò reggevano valorosamente al cimento e potevano sfidare al giorno seguente i trabalzi balzani d’una nuova carrettaccia. Così stentando, balzellando e convien dirlo anche ridendo, traversammo il Vicentino il Veronese e giunsimo sul quarto giorno a Bardolino in riva alle acque dell’azzurro Benaco. In onta alle mie sventure ai miei timori e alle distrazioni impostemi dalla compagna, mi ricordai di Virgilio, e salutai il gran lago che con fremito marino gonfia talvolta i suoi flutti e li innalza verso il cielo. Da lontano si protendeva nelle acque la vaga Sirmione, la pupilla del lago, la regina delle isole e delle penisole, come la chiama Catullo, il dolce amante di Lesbia. Vedeva il colore melanconico de’ suoi oliveti, e m’immaginava sotto le loro ombre vagante con soavi versi sulle labbra il poeta delle grazie latine. Rimuginava beatamente al lume della luna le mie memorie classiche; ringraziando in cuor mio il vecchio piovano di Teglio che m’avea dischiuso la sorgente di piaceri così puri, di conforti così potenti nella loro semplicità. Orfano si potea dire di genitori e di patria, sbalestrato non sapeva dove da un destino misterioso, tutore per forza d’una fanciulla che non m’era stretta da alcun legame né di parentela né d’amore, rivedeva tuttavia un barlume di felicità nelle poetiche immaginazioni di uomini vissuti diciotto secoli prima. O benedetta la poesia! eco armonioso e non fugace di quanto l’umanità sente di più grande ed immagina di più bello!... alba vergine e risplendente dell’umana ragione!... tramonto vaporoso e infocato della divinità nella mente inspirata del genio! Ella precede sui sentieri eterni ed invita a sé una per una le generazioni della terra: ed ogni passo che avanziamo per quella strada sublime ci dischiude un più largo orizzonte di virtù di felicità di bellezza! S’incurvino pure gli anatomici a esaminare a tagliuzzare il cadavere; il sentimento il pensiero sfuggono al loro coltello e avvolti nel mistico ed eterno rogo dell’intelligenza slanciano verso il cielo le loro lingue di fiamma.
Andavamo via per la costa della collina, mentre l’oste ci imbandiva la cena d’una piccola trota e di poche sardelle. Io pensava a Virgilio a Catullo alla poesia; e Venezia e la Pisana e Leopardo e Lucilio e Giulio Del Ponte ed Amilcare e tutti morti vivi moribondi gli affetti del cuore tremolavano soavemente nei miei vaghi pensieri. L’Aglaura mi veniva appresso ravvolta nel suo cappotto e grave anch’essa la fronte di melanconiche fantasie. La luna le batteva per mezzo al volto e disegnandone il dilicato profilo ne vezzeggiava a tre tanti la greca bellezza. Mi pareva la musa della tragedia, quando prima si rivelò pensosa e severa all’estro di Eschilo. Tutto ad un tratto dopo un’erta faticosa della via giunsimo dov’essa radeva il sommo d’una rupe che impendeva precipitosa sul lago. La frana cadeva giù nera e cavernosa, sbiancata mestamente dalla luna in qualche nodo più rilevato; di sotto l’acqua nereggiava profonda e silenziosa; il cielo vi si specchiava entro senza illuminarla, come succede sempre quando la luce non viene di traverso ma a piombo. Io mi fermai a contemplare quel tetro e solenne spettacolo che meriterebbe una descrizione finita da una penna più maestra o temeraria della mia. L’Aglaura si protese sulla repente caduta della roccia, e parve assorta per un istante in più tetre meditazioni. Ohimè! io pensava intanto ai tranquilli orizzonti, alle verdi praterie, alle tremolanti marine di Fratta; rivedeva col pensiero il bastione di Attila, e il suo vasto e maraviglioso panorama che primo m’avea incurvato la fronte dinanzi la deità ordinatrice dell’universo. Quanti fiori di mille disegni, di mille colori racchiude la natura nel suo grembo, per ispanderli poi sulla faccia multiforme dei mondi!... Mi riscossi da cotali memorie a un lungo e profondo sospiro della mia compagna: allora la vidi avventarsi in avanti e rovinar capovolta nell’abisso che le vaneggiava a’ piedi. Mi scoppiò dalla gola un grido così straziante che impaurì quasi me stesso; lo spavento mi drizzava i capelli sul capo e mi sentiva attirare anch’io dal vorticoso delirio del vuoto. Ma raccappricciava al pensiero di volgere un’occhiata a quella profondità e fermarla forse nelle spoglie inanimate e sanguinose della misera Aglaura. In quella mi parve udire sotto di me e non molto lontano un fioco lamento. Mi chinai sul ciglio della rupe intesi l’orecchio e raccolsi un gemito più distinto; era dessa, non v’avea dubbio: viveva ancora. Aguzzai gli occhi a tutto potere e scorsi finalmente fra un macchione di cespugli una cosa nera che somigliava un corpo e pareva esservi rimasta appesa. Impaziente di recarle soccorso e di sottrarla al pericolo imminente d’un ramo che si spezzasse o d’una radice che cedesse, mi calai giù risoluto per la parete quasi verticale della roccia. Strisciava lungh’essa rapidamente col viso coi ginocchi coi gomiti, ma lo strisciamento stesso e qualche cespo d’erba cui mi aggrappava nel passare rompevano il soverchio precipizio della discesa. Non so per qual miracolo arrivassi sano e salvo, cioè almeno colle gambe intiere e colle vertebre bene inanellate, alla macchia di cornioli che l’aveva trattenuta. Allora non avea tempo da maravigliarmi; la ritrassi dalla spinaia in cui era impigliata coi gheroni del cappotto e la addossai ancor semiviva al dirupo. Senz’acqua senza nessun aiuto in quel ginepraio che aveva figura d’un gran nido di aquilotti, io non poteva altro che aspettare ch’ella rinvenisse o guardarla morire. Aveva udito dire che anche il soffio giovasse a ridonare i sensi agli smarriti per qualche commozione violenta, e mi diedi a soffiarle negli occhi e sulle tempie spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. Ella dischiuse alfine le ciglia; io respirai come se mi si togliesse di sopra al petto un enorme macigno.
– Ahimè! sono ancor viva! – mormorò ella – Dunque è proprio segno che Dio lo vuole!...
– Aglaura, Aglaura! – le diss’io all’orecchio con voce supplichevole ed affettuosa – ma dunque non avete nessuna fede in me?... dunque la mia protezione la mia compagnia hanno finito di rendervi fastidiosa la vita!...
– Voi, voi? – soggiunse ella languidamente – voi siete il più fido diletto amico ch’io m’abbia: per voi io mi condannerei a vivere, se fosse di bisogno, il doppio del tempo destinatomi dalla sorte. Ma che valore ha mai la mia vita pel bene degli altri?...
– Ne ha uno di grandissimo, Aglaura! Prima di tutto pei vostri genitori, per vostro fratello che vi ama vi adora, e voi sola ne sapete il quanto! indi perché vi è un cuore al mondo che ha diritto d’amore e di padronanza sul vostro. Voi amate, Aglaura; voi avete perduto il diritto d’uccidervi, dato che persona possa mai avere questo diritto.
– Ah si è vero, io amo! – rispose la donzella con un certo suono di voce che non avvisai se provenisse da affanno di respiro o da amarezza d’ironia. – Io amo! – ripeté ella, e questa volta con tutta la sincerità dell’anima. – Deggio vivere per amare: avete ragione, amico!... Datemi braccio che torneremo a casa.
Io le feci osservare che di colà non si poteva né salire né scendere senza pericolo, e che ad ogni modo non sarebbe stata prudenza l’avventurarvisi dopo il suo lungo svenimento.
– Son più greca che veneziana – sclamò ella rizzandosi alteramente. – Svenni per oppressione di respiro, non per dolore né per paura; ve ne prevengo e credetemelo. Quanto al partire di qui, se salire non si può, scendere si potrà sempre. Non vedete quanto maestrevolmente vi siamo discesi noi!...
I miei ginocchi s’accorgevano della maestria, ed ella s’era calata a volo, ma non son prove da tentarsi due volte. Tuttavia non opposi obbiezioni temendo ch’ella mi giudicasse più veneziano che greco.
– Laggiù lungo il lago – riprese ella – è un renaio che seguita, mi pare, fino al porto di Bardolino. Messivi i piedi sopra saremo sicuri della strada.
– Il più bello sarà di metterveli i piedi – soggiunsi io.
– Badate – diss’ella – e seguitemi.
In queste parole abbrancandosi ad un ramo che sporgeva noderoso e flessibile si spenzolò dalla rupe: indi abbandonò il ramo e la vidi scendere strisciando come poco prima avea fatto io. Un minuto dopo ella poggiava le piante sulla sabbia molle e umida dove veniva a sussureggiare morendo l’onda del lago. Potete credere che non volli mostrarmi dammeno d’una donna; arrischiai anch’io il gran salto, e con un secondo screzio di botte e di scorticature la raggiunsi che non mi parve vero di averla pagata cara. Allora volsi al cielo un sospiro così pieno di ringraziamenti che l’aria dovette accorgersene al peso; la mia compagna invece camminava lesta e saltellante come uscisse dal ballo o dal teatro. E dire che un quarto d’ora prima s’era precipitata volontariamente da un altezza di due campanili! Donne, donne, donne!... quali sono i nomi dei centomila elementi, sempre nuovi, sempre varii, sempre discordi che vi compongono? – Io non aveva mai veduta l’Aglaura così lieta così briosa come allora dopo avermi giuocato quel mal tiro da disperata. Soltanto quand’io voleva ridurla a darmene ragione ella stornava il discorso con un poco di broncio; ma lo ravvivava indi a un istante con maggior brio e con doppia petulanza.
– Volete proprio saperlo?... Son pazza, e finiamola! – Così mi chiuse la bocca da ultimo, e non se ne parlò più infatti. Tanto fu allegra spensierata ciarliera nel resto della passeggiata che comunicò anche a me qualche parte del suo buon umore, e se i miei ginocchi ricordavano molto, la mente per quella mezz’ora si dimenticò di tutto.
– Quello che mi dispiace si è che mangieremo la trota fredda e le sardelle rinvenute! – disse scherzando l’Aglaura quando eravamo per toccare il lastrico del porto.
Dico il vero che per quanto mi fossi riavuto, non aveva ancora le idee così chiare da ripescarvi per entro le sardelle e la trota. Però risi a fior di labbra di questo rammarico dell’Aglaura, e le promisi una frittata se il pesce non conferiva.
– Ben venga la frittata e voglio voltarla io! – sclamò la fanciulla.
Saffo che dopo il salto di Leucade rivolta la frittata è un personaggio affatto nuovo nel gran dramma della vita umana. Or bene, io vi posso assicurare che quel personaggio non è una grottesca finzione poetica, ma ch’esso ha vissuto in carne ed ossa, come appunto viviamo io e voi. Infatti l’Aglaura, non trovando di suo grado la trota, si mise alla padella a sbattervi le ova; io credo che la povera trota fosse ignominiosamente calunniata pel ruzzo ch’era saltato alla donzella di cavarsi questo capriccio. Io ammirava a bocca aperta. China col ginocchio sul focolare, col manico della padella in una mano, e il coperchio nell’altra che le difendeva il viso dal fuoco, ella pareva il mozzo d’un bastimento levantino che si ammanisce la colazione. La frittata riuscì eccellente, e dopo di essa anche la trota si vendicò del sofferto dispregio facendosi mangiare. Le sardelle adoperarono del loro meglio per entrare anch’esse dov’era entrata la trota. Infine non rimasero sui piatti che le reste, e d’allora in poi io mi persuasi che nulla serve meglio ad aguzzar l’appetito quanto l’aver cercato di ammazzarsi un’oretta prima. L’Aglaura non ci pensava più affatto; io pure m’avvezzava a riguardare quel brutto accidente come un sogno ed una burla, e lo stomaco lavorava con sì buona voglia che mi pareva impossibile dopo l’affannoso batticuore di pochi momenti prima. Confesso che anche ora ci veggo della magia in quel furioso appetito; quando non fosse l’Aglaura che mi stregava. Ogni sardella che inghiottiva era un brutto pensiero che volava ed un gaio e ridente che capitava. Rosicchiando la coda dell’ultima giunsi a immaginare la felicità che avrei provato in un tempo di calma d’amore d’armonia goduto insieme alla Pisana su quelle piaggie incantevoli.
Chi sa!, pensai trangugiando il boccone. Ed era tutto dire tanta confidenza nella buona stella dopo il temporalone di quella sera! Tanto è vero che gli estremi si toccano, come dice il proverbio, e che Bertoldo aveva ragione di sperar maggiormente il sereno durante la piova.
Quella infine fu la serata più gioconda e piacevole che passassi coll’Aglaura durante quel viaggio; ma molto forse ci poteva la contentezza di vedersi salvi da un sì gran pericolo. Accompagnandola nella sua stanza (l’osteria di Bardolino aveva fino dal secolo scorso pretensione d’albergo) non mi potei trattenere dal dirle:
– Non me ne farete più, Aglaura, di cotali paure, n’è vero?
– No, certo e ve lo giuro – mi rispose ella stringendomi la mano.
Infatti il mattino appresso traversando il lago, e i giorni seguenti viaggiando pei neonati dipartimenti della Repubblica Cisalpina ella fu così serena e composta che me ne stupiva sempre. Ed io più volte m’arrischiai allora di toccarla sul tasto di quella stramba volata, ma ella sempre mi dava sulla voce, dicendo che già me lo avea confessato le cento volte che la era pazza, e che rimanessi pur tranquillo che almeno in quella pazzia non ci sarebbe incappata più. Così entrammo abbastanza felici in Milano dove l’eroe Buonaparte con una dozzina di piastricciatori lombardi si dava attorno per improvvisare un ritratto abbozzaticcio della Repubblica Francese una ed indivisibile.
Era il ventuno novembre; una folla immensa e festosa traboccava di contrada in contrada sul corso di Porta Orientale e di là fuori nel campo del Lazzareto, battezzato novellamente pel campo della Federazione. Tuonavano le artigliere, migliaia di bandiere tricolori sventolavano; era uno scampanio a festa, un gridare, un lanciar di cappelli, un agitarsi di fazzoletti di teste di braccia in quella calca allegra tumultuosa e non pertanto calma e dignitosa. Né io né l’Aglaura ebbimo cuore di fermarci in una camera mentre alla luce del sole, alla libera aria del cielo doveva inaugurarsi poco stante il governo stabile ed italiano della Repubblica Cisalpina. Posto giù il mio fagotto e senza ch’ella volesse deporre il travestimento virile ci mescolammo alla gente, contentissimi di esser giunti in tempo di quel solenne e memorabile spettacolo. Giunti al luogo dove l’Arcivescovo benediceva le bandiere fra l’altare di Dio e quello della patria, in mezzo ad un popolo innumerevole e fremente, dinanzi all’autorità popolare del nuovo governo, e alla gloriosa tutela di Bonaparte che assisteva in un seggio speciale, confesso anch’io che tutti gli scrupoli m’uscirono di capo. Quella era proprio la vita d’un popolo, e fossero stati Francesi o Turchi a risvegliarla non ci trovava nulla a ridire. Quei volti quei petti quelle grida erano piene di entusiasmo e di fausti e grandi presagi: quella subita concordia di molte provincie divelte da varia soggezione straniera per comporre una sola indipendenza una sola libertà, era incentivo alle immaginazioni di maggiori speranze. Quando il Serbelloni, presidente del nuovo Direttorio, giurò per la memoria di Curzio di Catone e di Scevola che manterrebbe se fosse d’uopo colla vita il Direttorio la costituzione le leggi, quei grandi nomi romani s’intonavano perfettamente alla solennità del momento. Se ne ride ora che sappiamo il futuro di quel passato; ma allora la fiducia era immensa; le virtù repubblicane e la operosa libertà del Medio Evo pareva cosa da poco; si riappiccavano arditamente alla gran larva scongiurata da Cesare. Fra quel carnovale della libertà la mente mi corse talora a Venezia, e sentiva inumidirmisi gli occhi; ma l’imponenza presente scacciava la memoria lontana. I manifesti e le dicerie di quel giorno furono cose tanto pregne, che le lusinghe lasciate travedere dal Willetard ai Veneziani non parevano né bugiarde né fallaci. I Veneziani che assistevano alla festa piangevano piuttosto di commozione che di dolore, e d’altronde si stimava impossibile che la Francia dopo aver donato la libertà a provincie serve e dapprima indifferenti, volesse negarla a chi l’avea sempre posseduta, e mostrato fino all’estremo di averla carissima. Bonaparte tornava in cima nell’affetto e nell’ammirazione di tutti; al più si mormorava del Direttorio francese che gli tenea legate le mani, solita scusa di questi ladri e truffatori della pubblica gratitudine. Io pure mi diedi a credere che il trattato di Campoformio fosse una necessità del momento, una concessione temporanea per riprender poscia più di quanto si era dato; e a veder daccosto le opere di quei Francesi e la civiltà dei Cisalpini non mi sorprese più che Amilcare mi scrivesse, affatto guarito dai suoi delirii di Bruto, e che Giulio Del Ponte e Lucilio si fossero inscritti nella nuova Legione Lombarda, nocciolo di eserciti futuri.
Io cercava dello sguardo questi miei amici nelle schiere delle milizie disposte a rassegna nel campo del Lazzareto; e mi parve infatti discernerli benché per la distanza non mi potessi assicurare. Quello che raffigurai perfettamente fu a capo d’un drappello francese Sandro, il mio amico mugnaio, con grandi pennacchi in testa e ori e fiocchi sulle spalle ed al fianco. Mi pareva impossibile che l’avessero fregiato di tanti splendori in sì breve tempo, ma l’era proprio lui, e se fosse stato un altro, bisognava gettar via la testa, tanto ingannava la rassomiglianza. Chiesi anco all’Aglaura, se le venisse fatto di scernere il signor Emilio, ma la mi soggiunse asciutto asciutto che non lo vedeva. Ella sembrava occuparsi piucché altro della festa, e le sue grida e il suo picchiar di mani colpirono tanto i più vicini che le fu fatto bozzolo intorno.
– Aglaura, Aglaura! – le bisbigliava io. – Ricordati che sei donna!
– Sia donna o uomo che importa? – rispose ella ad altissima voce. – Gli adoratori della libertà non hanno differenza di sesso. Sono tutti eroi.
– Bravo! brava! Ben detto! È un uomo! È una donna! Viva la Repubblica! Viva Buonaparte!... Viva la donna forte!...
Dovetti trascinarla via perché non me la portassero in trionfo; ella si sarebbe accomodata, credo, molto volentieri di questa cerimonia, e le vedeva errare negli occhi un certo fuoco che ricordava il furore d’una Pizia. A gran fatica potei condurla in un altro canto dove si raccoglieva una gran turba femminile, la più molesta e ciarliera che avesse mai empito un mercato. Era una vera repubblica anzi un’anarchia di cervelli leggieri e svampati; per me non conosco essere che dica tante bestialità quanto una donna politica. Giudicatene da quanto ne udii allora!
– Ehi, – diceva una – non ti pare che avrebbero fatto meglio a vestirlo di rosso il nostro Direttorio?... Così tinti in verdone coi ricami d’argento mi sembrano i cerimonieri dell’ex-Governatore.
– Taci, là! sciocca, – rispondeva l’interrogata – la severità repubblicana porta i colori oscuri.
– Ah ci chiama severità lei? – s’intromise una terza. – Se sapesse cos’hanno fatto due tenentelli francesi alla figlia di mia sorella!...
– Eh calunnie! saranno nobili travestiti!... Morte ai nobili!... Viva l’eguaglianza!
– Viva, viva: ma intanto dicono che quei signori del Direttorio siano quasi tutti aristocratici.
– Sì, lo erano, figliuola mia; ma li hanno purificati.
– Diavolo! come si fa questa operazione?...
– Eh non lo sai, no?... Non hai mai visto in San Calimero il quadro della Purificazione?... Si portano in chiesa due tortore e due colombini.
– E dee proprio bastare?
– Il resto lo sapranno i preti; per me mi basta che siano purificati e non m’importa tanto del cerimoniale! Ehi! Lucrezia, Lucrezia! guarda là tuo fratello che bella figura ci fa col suo schioppo in ispalla e la coccarda sul cappello!
– Eh lo vedo io! Se non fossi sua sorella me ne innamorerei!... Sai ch’egli ha giurato di ammazzare tutti i re, tutti i principi e perfino il papa?...
– Sì?... Bravo lui, per diana! è capace di mantener la promessa. L’ho veduto io rompere il muso ad uno sbirro perché gli avea pestato sul piede all’osteria. Viva la Repubblica!...
Tutte quelle gole infaticabili si unirono allora a quel grido frenetico. Viva la Repubblica!... Viva Bonaparte!... Viva la Repubblica Cisalpina!...
– Ehi! – chiese timidamente alle compagne quella che voleva vestir di scarlatto il Direttorio. – Sapresti dirmi dov’è e che cos’è questa Repubblica?... Io non la vedo... È forse come Maria Teresa che stava sempre a Vienna e ci mandava qui un sotto-cuoco!
– Morte al Governatore! – gridò l’altra per purificarsi intanto le orecchie dalle memorie servili richiamatele dalla compagna. – Indi si mise a darle un’idea chiara di quel che fosse Repubblica, accertandola ch’essa era come una padrona che non si prende cura di nulla, che vive e lascia vivere, e non fa lavorare la povera gente a profitto dei ricchi.
– Vedi – soggiungeva essa. – La Repubblica c’è ma nessuno l’ha mai veduta; così non se ne prendono soggezione, e ciascuno può gridare fare girare strepitare a sua posta; come se non ci fosse nessuno.
– Eh cosa dite mai che non c’è nessuno? – S’intromise con una vociaccia arrocata dal gran gridare la Lucrezia. – Non vedete che ci sono i Francesi ed anco i Cisalpini!...
– Giust’appunto, – tornò a chiedere la prima – cosa vuol dire questa Cisalpina?
– Caspita! è un nome come Teresina, Giuseppina e tanti altri.
– No, no, ve lo dirò io cosa vuoi dire! – soggiunse la Lugrezia – costei non ne sa proprio nulla.
– Come non ne so nulla?... Tu eh, sei proprio la dottorona!
– Minchiona! non vuoi che me ne intenda? ho ballato intorno all’albero facendo la parte del Genio della libertà: e ho mio fratello nella Legione Repubblicana!...
Io aspettava con tanto d’orecchi questa definizione della Repubblica che stentava a venire, e non badava ai delegati di Mantova e delle Legazioni, non ancora unite alla Cisalpina, che oravano in quel frattempo dinanzi al Direttorio, con grande e nuova testimonianza d’italiana concordia.
– Dunque dunque, via, cos’è questa Repubblica Cisalpina? – chiese con mio gran conforto quella che mi pareva la più sciocca e pettegola.
– Cos’è? cosa vuoi dire? – gridò fieramente la Lucrezia. – Vuol dire che la Cisalpina c’è e che la Repubblica saprà mantenerla. L’ha detto e giurato anche il Serbelloni: e il general Buonaparte è d’accordo con lui.
– Per me non mi piace nulla quel general Bonaparte; è magro come un quattrino, e ha i capelli morbidi come chiodi.
– Oh non è nulla, figliuola mia! ne vedrai ben di più belle! È il continuo furore delle battaglie che gli ha ridotto le guancie e la capigliatura a quel modo. Vedrai mio fratello quando tornerà dalla guerra. Scommetto che non potrà più mettersi il cappello!
– Fai ingiuria a tua cognata, Lucrezia! non dire di queste cose!...
Lì successe un nuovo diverbio per l’improntitudine di questo scherzo in momenti tanto solenni. Le donne finirono coll’accapigliarsi, e le vicine a dar loro addosso perché si calmassero. Intervenne un caporale francese che col calcio del fucile mise ordine a tutto. Avea ben ragione quella che aveva affermato poco prima che anziché esserci nessuno c’erano i Cisalpini e per giunta anche i Francesi. Dei Francesi sopratutto non si potea dubitare che non ci fossero. A guardarci bene essi aveano ordinato il Governo, scelto il Direttorio, nominati i membri delle congregazioni, i segretarii, i ministri; e s’aveano riserbato il diritto di eleggere a suo tempo i membri del Consiglio grande e di quello dei Seniori. Ma il popolo nuovo a quel fervore di vita aveva anche troppo che fare nell’eseguire. Dall’ubbidire pecorilmente e male all’ubbidire attivamente e bene s’avea fatto un gran salto; il resto verrebbe dopo, Buonaparte mallevadore.
Confesso che allora anch’io partecipai generosamente alle illusioni comuni, né per altro le chiamo illusioni se non pel tracollo che diedero poi. Del resto s’avevano grandissimi ed ottimi argomenti di sperare. Quel giorno infatti fu un gran giorno, e degno di essere onorato dai posteri italiani. Segnò il primo risorgimento della vita e del pensier nazionale: e Napoleone, in cui sperava allora e del quale mi sfidai2 poscia, avrà pur sempre qualche parte della mia gratitudine per averlo esso affrettato nei nostri annali. Venezia doveva cadere; egli ne accelerò e ne disonorò la caduta. Vergogna! Il gran sogno di Macchiavello dovea staccarsi quandocchesia dal mondo dei fantasmi per incombere attivamente sui fatti. Egli ne operò la metamorfosi. Fu vero merito, vera gloria. E se il caso gliela donò, s’egli cercolla allora per mire future d’ambizione, non resta men vero che il favore del caso e l’interesse della sua ambizione cospirarono un istante colla salute della nazione italiana, e le imposero il primo passo al risorgimento. Napoleone colla sua superbia coi suoi errori colla sua tirannia fu fatale alla vecchia Repubblica di Venezia, ma utile all’Italia. Mi strappo ora dal cuore le piccole ire, i piccoli odii, i piccoli affetti. Bugiardo ingiusto tiranno egli fu il benvenuto.
Se così infervorato era io, figuratevi poi l’Aglaura; la quale, senza ch’io vel’ dica, avrete già conosciuta che aveva una testa voltata affatto a quegli entusiasmi di repubblica e di libertà! A cotali sue preoccupazioni io ascrissi per quel giorno la poca cura ch’ella si avea dato del suo Emilio; ma la sera le ne mossi parola quando ci fummo allogati in due camerette d’un’umilissima locanda sul corso di Porta Romana.
– Siete voi – mi rispose ella – a immaginarvi ch’io non me ne prenda cura! Invece stamattina non ho fatto altro che cercarlo cogli occhi, e se non m’è riescito di scoprirlo, non è mia colpa... Ma non avete voi qui a Milano molti amici veneziani de’ quali vi proponete andar in traccia questa sera?... Or bene, uscite dunque e menateli; per mezzo loro saprò qualche cosa. Io mi aggiusterò intanto alla meglio queste vesti di donna che mi avete comperato. Grazie, sapete, amico mio! Vi giuro che ve ne sarò grata eternamente. Ma sopratutto se incontraste Spiro fate il gnorri sul conto mio. Non mi maraviglierei punto ch’egli ci avesse preceduto a Milano.
Io le promisi di fare com’ella domandava, ma la pregai dal canto mio di mantenere la sua promessa e di dar contezza di sé ai genitori. Ella me lo promise, ed io n’andai per primo passo alla posta a vedere se ci erano lettere per me e per lei. Ve n’aveano quattro, tre delle quali per me; e due di queste della Pisana. Questa mi dava notizia nell’una di quanto era accaduto dopo la mia fuga; l’altra non recava che lamenti sospiri lagrime per la mia assenza, e smanie di riabbracciarsi presto. Rimasi strabiliato di quanto mi narrava. Sua Eccellenza Navagero aveva mandato fuori di casa sua la cugina Contessa; e questa era tornata col figlio, che aveva racquistato il suo posto nella ragioneria. Il Venchieredo padre avea strepitato assai per la mia fuga; e gridato e tempestato che avrebbe posto il sequestro sopra tutti i miei beni; ma siccome null’altro avea trovato che una grama casuccia, così s’era calmato da quella febbre di zelo, ed anche la casa se l’erano dimenticata e la Pisana continuava ad abitarvi. Sembra peraltro che le intercessioni di Raimondo avessero potuto molto a imporre qualche misura a cotali rappresaglie; perché il destro giovinotto non s’aveva scordato affatto le civetterie della Pisana, e allora anzi pareva che vi ripensasse sul grave3. Almeno io ne sospettai qualche cosa per avermi dessa scritto che un giorno impensatamente aveva ricevuto una visita della Doretta. Certo era opera di Raimondo che per mezzo della ganza cercava introdursi; la Doretta lo serviva ciecamente, libero poi a lui buttar via lo strumento quando ne avesse ottenuto lo scopo. La dimestichezza di questa genia colla Pisana non mi garbava né punto né poco; e deliberai di scriverlene una paterna solenne perché badasse a tenersela lontana. Gli è vero ch’ella ci rideva e ci scherzava sopra, ma non si può preveder tutto; e con quel suo cervellino!... – Basta! – pensava – facciano presto i Francesi a raccendere la miccia, se no me la vedo proprio brutta. Quella pazzerella vuol esser amata molto e molto davvicino per continuar ad amare; e questo esperimento della lontananza non vorrei prolungarlo di troppo.
Altre due notizie molto mirabili erano il chiasso che menava ancora il Partistagno per la Clara, e l’insediamento del padre Pendola in un canonicato di San Marco. Il primo, fatto da poco capitano di cavalleria negli eserciti imperiali, credo mediante la protezione del famoso zio barone, sussurrava coi suoi sproni notte e giorno dinanzi il convento di Santa Teresa; tantoché la madre Redenta aveva chiesto una sentinella per rinforzare la difesa della portinaia. E la sentinella s’affaccendava notte e giorno a presentar l’arma al terribile Partistagno che passava e ripassava continuamente. Gli aveano proprio fatto credere che la Contessa avesse sforzato la Clara a monacarsi per invidia ed odio che nutriva contro la famiglia di lui. Perciò s’era riscaldato ancora a volersene vendicare: e fra le altre avea messo in opera anche il mezzo pericolosissimo di comperare molti crediti ipotecarii sui poderi di Fratta, e tempestare con petizioni e con precetti esecutivi sulle ultime reliquie di quello sfortunato patrimonio. Certo il Partistagno di per sé non era capace di astuzie così diaboliche; ma vi si travedeva sotto la zampa infernale del vecchio Venchieredo che dopo la sua condanna avea giurato un odio infinito alla famiglia del Conte di Fratta fino all’ultima generazione. Intanto fra le sue angherie, quelle del Partistagno, i rubamenti di Fulgenzio che lo secondavano, e l’incuria del conte Rinaldo che coronava l’opera, la sostanza di attiva s’era fatta passiva, e un fallimento poteva essere poco meno che una buona speculazione. Il castello abbandonato da tutti cadeva in rovina; e appena la camera di Monsignore aveva le imposte alle finestre ed agli usci. Nelle altre, fattori gastaldi e malandrini aveano fatto man bassa: chi vendeva i vetri, chi le serrature, chi i mattoni dei pavimenti, chi le travi del soffitto. Al povero Capitano aveano sconficcato la porta; per cui la signora Veronica soffriva peggio che mai di tossi e di raffreddori e a lui era cresciuta del cinquanta per uno la gravezza della croce maritale. Marchetto avea lasciato il castello, e di cavallante s’era mutato in sagrestano della parrocchia. Bizzarra mascherata!... Ma i buli non si usavano più e bisognava diventar santi. Quello che v’aveva di più terribile in tutto ciò si era che la Contessa, anziché ricavar danari dalle possessioni, non riceveva altro che cedole di crediti e minaccie esecutive. Non la sapeva più da qual banda voltarsi, e se non fossero stati quei pochi frutti della dote della Pisana le sarebbe mancato addirittura il pane. Tuttavia la giocava sempre, e le scarse mesate di Rinaldo passavano il più delle volte nelle tasche senza fondo di qualche baro matricolato.
Le notizie di Fratta la Pisana diceva averle avute dai suoi zii di Cisterna che coi loro figliuoli s’erano accasati a Venezia sperando di avviarli utilmente in qualche carriera pel favore che la loro famiglia godeva presso i Tedeschi. Sì da un partito che dall’altro era una gran ressa di mani intorno ai denari del povero pubblico. Chi volete che restasse in mezzo o lontano da ambidue, dove non c’era lusinga di beccar nulla al mondo? Confesso la verità che di cotali miracoli ne vidi pochissimi in mia vita; e nessuno quasi in uomini d’età matura. Il disprezzo degli onori e delle ricchezze si appartiene alla gioventù. Sappia ella tenersi cara questa sua dote santissima, la quale sola rende possibili i grandi intendimenti e facili le magnanime imprese.
L’altra lettera che mi capitava era del vecchio Apostulos. Avvisavami della fuga della figlia e delle misure prese per rintracciarla in ogni luogo fuori che a Milano. In questa città un tale incarico era affidato a me. Ne chiedessi conto, la cercassi; e trovatala o la rimandassi a Venezia o la trattenessi meco secondo il miglior grado di lei. Certo egli non vorrebbe usare i diritti della paternità sopra una figlia ribelle e fuggitiva. Facesse ella di suo capo; egli non la malediceva, ché i pazzi non lo meritano, ma la dimenticava. Peraltro in un poscritto aggiungeva che aveva disposto per le indagini più minute nelle altre città di terraferma, e che di colà i suoi corrispondenti avevano ordine di raccompagnargli tosto la colpevole. Solo transigeva in favor mio: e se vedeva che l’aberrazione della ragazza potesse guarirsi meglio a Milano che a Venezia, adoperassi secondo le circostanze. – Queste ultime parole erano sottosegnate, ma io non ne capii affatto il recondito significato. Pensai di chiederne lo schiarimento all’Aglaura, se con esse forse non si alludesse ad un matrimonio col signor Emilio; ma non intendeva allora la ragione di parlarne con tanto mistero. Era certo un curioso destino il mio di esser creduto da ciascuna parte il confidente dell’altra; e tutti mi parlavano a cenni a mezze parole, dalle quali non ci capiva più che sull’arabo. Del resto, di mio padre nessuna nuova ancora; ma non se ne speravano fino al Natale, e le notizie generali di Levante erano buone.
Con tutto questo viluppo di pensieri, di novità, di imbrogli, di misteri pel capo, mi fermai ad un caffè a chiedere ove fosse la caserma della Legione Cisalpina. Mi risposero a San Vicenzino, due passi dalla Piazza d’Armi. Io ne sapeva con ciò meno di prima; ma a forza di domandare di voltare di ridomandare e di camminar ancora, giunsi ove desiderava. La disciplina non era molto esemplare in quella caserma; si entrava e si usciva come in un portofranco. La confusione il rumore e il disordine non potevano esser maggiori. I capi attendevano a pavoneggiarsi nelle loro nuove assise e a farsene argomento di conquista sul cuor delle belle prima di recarle in campo, spavento dei nemici. I subalterni e i minimi litigavano sempre fra loro, perché ai primi sembrava dover esser primi per ragion di grado; e i secondi del pari per la prammatica repubblicana che tendeva a rialzar gli ultimi. S’avrà un bel che fare ma questo viluppo dell’uguaglianza e della dipendenza stenteremo ad accomodarlo; massime tra noi dove non c’è capo d’oca che non si approprii il famoso Tu regere imperio populos di Virgilio. – «... Ed un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene!» ebbe a dire anche Dante. Sarà forse un pregio dell’indole italiana tralignato in difetto per le condizioni mutate dei tempi. Com’è certo che la superbia si affà molto al leone nel deserto ma gli sconviene affatto in gabbia. Peraltro, direte voi, quello che fu potrebbe essere, e col battere e ribattere, coll’educazione coll’abitudine molto si ottiene. Io pure vi dirò che ci spero non poco, massime se non ci aduleremo a vicenda; e del resto mi appiglio più volentieri alla boria permalosa dell’Italiano, che alla genuflessa obbedienza dello Slavo ubbriaco. Qui ci sarebbe posto ad una gran dissertazione sopra l’opinione di coloro che si aspettano dagli Slavi l’ultima verniciatura di civiltà; come fanno merito alla Germania del maggior lavoro; e a noi, poveretti bastarducci di Roma, non lasciano altro vanto che quello d’un primo disegno, un po’ ideale un po’ falso se volete, ma pure un po’ nostro a quanto pare. Contro cotali detrattori delle razze latine sarebbe tempo perduto lo scrivere dei volumi; basterà additare ed aprire quelli già stampati. L’Italia il passato, la Francia ha in mano, checché ne dicano, il presente del mondo. E il futuro? lasciamolo agli Slavi, ai Calmucchi anche, se ne accontentano. Io per me credo che quel futuro sarà sempre futuro.
Tuttociò peraltro non iscusava per nulla della sua trasandatezza della sua insubordinazione la Legione Cisalpina. Lasciamo da un canto la questione del valore; ma vi assicuro che in quanto a disciplina e a bell’assetto le famose Cernide di Ravignano ci avrebbero fatto un’onesta figura. Cosa ne avrebbe detto il teorico teoricissimo capitano Sandracca il quale affermava che in un reggimento ben ordinato un soldato dovea somigliare all’altro più che fratello a fratello, tanto aveva ad essere l’influenza assimilatrice della disciplina?... Io scommetto invece che, a chi avesse trovato fra i legionarii lombardi due che portassero l’ugual taglio di barba, si avrebbe potuto regalare il costo del Duomo di Milano. La storia della moda ci aveva in questo particolare i suoi esemplari da Adamo fino ai Babilonesi agli Ostrogoti e ai granatieri di Federico II. Chiesi conto del dottor Lucilio Vianello, di Amilcare Dossi, e di Giulio Del Ponte ad un soldatuccio sucido ed ingrognato che per la mercede d’un mezzo boccale lustrava rabbiosamente le scarpe d’un suo collega.
– Sono della prima schiera: voltate a sinistra – mi rispose quell’ilota dell’eguaglianza.
Io voltai a sinistra e ripetei la mia inchiesta ad un altro milite ancor più sporco del primo che strofinava con oglio e stoppacci la canna d’un fucile.
– Canchero, che Dio li maledica, li conosco tutti e tre! – rispose costui. – Vianello è appunto il medico della compagnia, quello che ci scanna tutti per ordine dei Francesi che sono stanchi di noi... Sapete, cittadino, che hanno chiuso la Sala dell’Istruzione pubblica?...
– Non ne so nulla, – diss’io – ma dove potrei...
– Aspettate; come vi diceva, Vianello è il medico, Dossi è l’alfiere della mia compagnia, e Del Ponte è il caporale, una figura di morte briaca che non può regger in piedi, e mi butta sulle spalle tutti gli incommodi del servizio... Guardate, questo è il suo schioppo che mi tocca sfregolare!... Colla bella festa di stamattina!... Farci star dieci ore ritti ritti come pali a odorar il vento che sapeva d’inverno più del bisogno!... Canchero, ci siamo inscritti per far la guerra, per distruggere la stirpe dei re e degli aristocratici, noi! non per far la corte al Direttorio e portargli la candela in processione!... Per cotal mestiere mandino a chiamare gli staffieri dell’Arciduca Governatore... È una vera ignominia... Non ho bevuto in tutt’oggi che un terzino di Canneto... E sì che per niente non si dovrebbe essere repubblicani!... Cittadino, mi onorereste d’un piccolo prestito per comperarne una pinta?... Giacomo Dalla Porta, capofila nella prima schiera della Legione Cisalpina ai vostri comandi.
Io gli sporsi, s’intende a titolo di prestito, una lira di Milano, col patto che mi conducesse senz’altre chiacchere da alcuno di quei tre che gli aveva nominato. Buttò via lo schioppo, l’olio, gli stoppacci; fece quattro salti proprio alla meneghina con quella liretta fra il pollice e l’indice, e squadrandomi l’altra mano ben aperta sul naso, corse giù per la scala in cerca dell’oste.
Fidatevi della probità repubblicana! pensai brontolando come un vecchio. – M’era uscito di capo che, con una carta stampata, e una festa nel campo della Federazione si può bensì avviare ma non compiere il rinnovamento dei costumi, e che d’altronde della gente cui va più a sangue il vino che far piacere al prossimo ne rimarrà sempre in tutte le repubbliche della terra.
Finalmente trovai per un corritoio un altro soldatino azzimato, ben composto quasi elegante che corrispose al mio saluto con un inchino quasi cortigianesco, e mi diede del cittadino come quattro mesi prima mi avrebbe dato del Conte e dell’Eccellenza. Tanto era il bel garbo e la tornitezza della voce. Doveva essere qualche marchese, invasato dall’amore della libertà, che avea pensato farsi frate di cotal nuova religione ascrivendosi ai legionarii cisalpini. Martiri eleganti e spensierati che abbondano in tutte le rivoluzioni, e dei quali chi dice male merita la scomunica, perché finiscono con un poco di pazienza a diventar eroi. E ne abbiamo parecchi e di fresca data nel nostro calendario; per esempio il Manara, milanese anche lui come l’anonimo marchesino che mi fece parlare. Costui insomma, per sbrigarmi, mi condusse con molta compitezza fino alla stanza del dottor Lucilio: e là tornammo a riverirci scambievolmente che sembravamo due primi ministri dopo una conferenza.
Entrai. Non vi posso dire la sorpresa le congratulazioni gli abbracciamenti del dottore, e di Giulio che era con lui. Certo credo che per un fratello non avrebbero fatto maggiori feste e da ciò conobbi che mi volevano un bricciolo di bene. Io sentii come un rimorso di stringermi Giulio sul cuore e di baciarlo. Si può dire ch’io aveva tuttora calde le labbra di quelle della Pisana, di colei ch’egli pure aveva amato e che forse colla sua spensieratezza colla sua civetteria gli aveva instillato nelle vene il fuoco febbrile che lo consumava. Ma d’altronde egli ci avea rinunciato per un amore più degno e fortunato; lo ritrovava pallido e scarno bensì ma non certo a peggior partito di quello che fosse a Venezia, ad onta della vita disagiata e soldatesca della caserma. Lucilio mi rassicurò sul suo conto assicurandomi che la malattia non avea fatto progressi; e che il buon umore la occupazione moderata e continua il cibo parco e regolare, avrebbero forse indotto alla lunga qualche miglioramento. Giulio sorrideva come chi crede forse ma non estima prezzo dell’opera lo sperare; s’era fatto soldato per morire non per guarire, e s’era tanto accostumato a quell’idea, che la menava innanzi allegramente, e come Anacreonte s’incoronava di rose coll’un piede nel sepolcro. Li domandai delle loro speranze, delle occupazioni, della vita. Tutto andava pel meglio. Speranze impazienti e grandissime per la rivoluzione che fremeva a Roma, a Genova, in Piemonte, a Napoli, pel movimento unitario che incominciava dalla prossima aggregazione di Bologna di Modena e perfino di Pesaro e di Rimini alla Cisalpina.
– Toccheremo a Massa il Mediterraneo – diceva Lucilio – come c’impediranno che si tocchi a Venezia l’Adriatico?...
– E i Francesi? – gli domandai.
– I Francesi ci aiutano bene, perché noi non saremmo in grado di aiutarci da noi. Sicuro che bisogna stare cogli occhi aperti, e non sorbire le frottole come da quello sciocco di Willetard: e sopratutto tener salde colle unghie e coi denti le nostre franchigie e non lasciarcele torre per oro al mondo.
Erano presso a poco le mie idee; ma dal calore della voce, dalla vivacità del gesto capii di leggieri che la grandiosa solennità del mattino aveva riscaldato anche la guardinga immaginazione di Lucilio, e ch’egli non era in quella sera il medico spassionato di due mesi prima. Così mi piaceva di più; ma era meno infallibile e per quanto i suoi pronostici concordassero coi miei, non volli ancora fidarmene alla cieca. Gli mossi adunque un qualche dubbio sull’ignoranza e sull’inesperienza del popolo che mi pareva non atto alla sapiente civiltà degli ordinamenti repubblicani, e sull’insubordinazione che aveva osservato io stesso nelle milizie recentemente formate.
– Sono due obiezioni cui si risponde con un solo ragionamento – soggiunse Lucilio. – Che si vuole ad educare dei soldati disciplinati?... La disciplina. – Che si vuole a formare dei veri virtuosi integri repubblicani?... La repubblica. – Né soldati né repubblicani nascono spontaneamente: tutti nasciamo uomini, cioè esseri da educare o bene o male, futuri servi futuri Catoni secondoché capitiamo in mani scellerate od oneste. Mi consentirai del resto che se la repubblica non varrà a formare i perfetti repubblicani, di poco sarà più destra o volonterosa la tirannia a prepararli!...
– Chi sa! – io sclamai. – La Roma di Bruto sorse dalla Roma di Tarquinio!
– Eh! statti pur in pace, Carlino, su questo punto; ché dei Tarquinii non ne mancarono a noi in quattro o cinque secoli di pazzie e di servitù!... Dovremmo essere educati abbastanza. Dimmi piuttosto qualche cosa di te. Oh perché ti sei attardato fino ad ora a Venezia? Come t’ingegnavi a poter vivere colà?
Io recai ancora innanzi per iscusa la morte di Leopardo, i negozii lasciati sospesi da mio padre. Finalmente mi diedi coraggio, mandai un’occhiata di soppiatto a Giulio, e nominai la Pisana. Allora ambidue mi chiesero a gara com’era stato quel tramestio con un ufficiale francese di cui qualche cosa s’avea buccinato fino a Milano. Io esposi la cosa per filo; e come gli incommodi e i pericoli che n’erano derivati alla Pisana avessero costretto me a trattenermi colà per difenderla e consigliarla in qualche maniera. Mi diffusi sopratutto nella descrizione della mia fuga per far risaltare ai loro occhi il rischio ch’io sfidava rimanendo a Venezia, e che certo non avrei voluto espormivi se una grave necessità non mi sforzava. In poche parole mi confessava colpevole entro me di quell’indolente tardanza, ma non voleva che altri potesse raccoglier argomenti da formulare un’accusa. Per non fermarmi poi troppo sopra questo punto che mi scottava in mano, discorsi delle condizioni provvisorie di Venezia, degli ultimi spogli del Serrurier, del nuovo governo stabilitosi nel quale il Venchieredo mi pareva avere qualche influenza.
– Caspita! non lo sai? – soggiunse Lucilio. – L’era il corriere fra gli Imperiali di Gorizia e il Direttorio di Parigi!...
– O piuttosto il Bonaparte di Milano – corresse Giulio.
– Sia anche: già è lo stesso. Buonaparte non potea disfare quello che il Direttorio aveva già ordito. Il fatto sta che il Venchieredo fu pagato bene, ma temo o spero che gli andrà alla peggio, perché serve sempre male ed ha il danno e le beffe chi serve troppo.
– A proposito, – chiesi io – e di Sandro di Fratta che ne dite?... L’ho veduto stamattina alla festa con tante costellazioni intorno che pareva il zodiaco!
– Adesso si chiama il capitano Alessandro Giorgi dei Cacciatori a piedi – mi rispose Lucilio. – Si è fatto grande onore nel reprimere i moti sediziosi del contadiname del Genovesato. Ora si va innanzi. L’han fatto tenente e poi capitano in un mese; ma della sua compagnia, tra le schioppetate, gli assassinamenti, e le grandi fatiche credo ne siano rimasti quattro soli di vivi. Uno per forza doveva diventar capitano: gli altri erano due ciabattini e un mandriano. Fu scelto, com’era di dovere, il mugnaio!... Lo troverai; e vedrai come gonfia! È un bravo e buon figliuolo che offre la sua protezione a quanti incontra e non si starà dall’offrirla anche a te.
– Grazie; – risposi io – l’accetterò al bisogno.
– Non per ora; – replicò Lucilio – ché il tuo posto è con noi e con Amilcare.
Mi dissero allora di quest’ultimo com’era più fiero e sgangherato che mai, e si manteneva l’anima della loro brigata coi ripieghi che sapeva trovare ai peggiori frangenti. Ridotti a vivere della paga, si può immaginare che sovente erano al verde; toccava allora ad Amilcare trovar ispedienti per far denaro, e avuto questo, ingegnarsi di sparagnarlo fino al toccar delle nuove paghe. Amilcare mi fece tornar in mente anche Bruto Provedoni che dicevano partito insieme col Giorgi e non ne avea più saputo novella. Egli era tuttavia alle guerricciuole liguri e piemontesi dove ad onta che il Re fosse buon amico e miglior servitore del Direttorio, questi s’adoperava sempre a mantener viva la resistenza per averne appiglio quandocchesia a qualche bel colpo. Aveva intanto stuzzicato la rintonacata Repubblica Ligure a movergli guerra, e vietato a lui di difendersi; il povero Re non sapeva da qual banda volgersi; dappertutto precipizii. Fortuna che l’armigero e fedele Piemonte non somigliava per nulla la sonacchiosa Venezia; ché altrimenti si sarebbe veduta qualche simile ignominia. Ignominia ci fu, ma tutta dal lato dei Francesi. – Mi venne allora comodissimo di chiedere anche d’Emilio Tornoni, fingendo conoscerlo e desiderarne qualche contezza. Lucilio sporse il labbro, e nulla rispose. Giulio mi disse ghignando ch’era partito per Roma con una bella contessa milanese a farci probabilmente la rivoluzione. I loro atti dispregiativi mi diedero qualche sospetto ma non potei cavarne di più. Indi a poco rientrò quel capo svasato di Amilcare; nuovi baci, nuova maraviglia. L’era diventato negro come un arabo, con una certa voce che pareva accordata allo strepito della moschetteria; ma mi spiegarono poi che se l’aveva guastata a quel modo insegnando camminare alle reclute. Infatti il mover un passo, che è per sé cosa facilissima, i tattici di guerra l’hanno ridotta l’arte più malagevole del mondo e bisogna dire che prima di Federico II si combattessero le battaglie o senza camminare o camminando assai male; e non è incredibile che di qui a cent’anni s’insegni ai soldati batter le terzine e marciare a passo di polka. Quella sera non volea terminare più tante cose avevamo da raccontarci; ma eravamo usciti sui bastioni, e al sonar dei tamburi Lucilio fece motto agli altri due ch’era tempo di ritirarsi.
– Eh sì! – disse Amilcare stringendosi nelle spalle. – Un ufficiale par mio ubbidirà al tamburo!
– Ed io sono malato; e fo conto d’essere allo spedale – soggiunse Giulio.
Io mi fidava che Lucilio li avrebbe chiamati al dovere, perché mi tardava l’ora di abboccarmi coll’Aglaura e portarle la lettera e le notizie d’Emilio; ma i due coscritti non badavano punto alle parole del dottore e mi convenne godere la loro compagnia fin’oltre le nove. Allora vollero accompagnarmi al mio alloggio, e siccome non li invitai a salire e videro il lume alle finestre e un’ombra come di donna disegnarsi sulla cortina, cominciarono a darmi la baia, e a far mille conghietture, e a consolarsi con me della mia fortuna. Insomma, sussurrava tanto quel disperatello di Amilcare che io temeva ogni poco di veder l’Aglaura al balcone. Quando Dio volle Lucilio li persuase d’andarsene, e potei salire dalla giovinetta a confortarla della sua penosa solitudine. Le porsi la lettera e la vidi sospirare e quasi piangere nel leggerla, ma faceva forza a non lasciarsi vedere.
– Se è lecito, chi vi scrive? – le chiesi.
Mi rispose ch’era Spiro suo fratello. Ma schivò frettolosamente tutte le altre domande che le indirizzai, e solamente mi comunicò ch’egli s’era apposto benissimo e che la credeva a Milano in mia compagnia. Com’era dunque che non veniva a raggiungerla con quel grande affetto che le aveva? – Ecco quello che non seppe chiarire; ma lo chiarii in seguito quando seppi che Spiro era stato sostenuto4 in carcere come manutengolo della mia fuga. Appunto quella lettera usciva della prigione e perciò l’Aglaura se n’era intenerita. Mi chiese ella poi se io pure avessi ricevuto lettere da Venezia, e rispostole che sì, me ne domandò notizia. Io senz’altro le porsi la lettera di suo padre, e quella ove la Pisana raccontava i rimescolamenti di Venezia. Lesse tutto senza batter ciglio; solamente quando giunse al punto ove erano nominati Raimondo Venchieredo e la Doretta ella diè un piccolo guizzo di sorpresa, e ripeté fra sé come per accertarsene quel nome di Doretta.
– Che è? – diss’io.
– Eh nulla! gli è che io pure conosco questa signora così di riverbero; e mi maravigliai di trovarne il nome in una lettera indirizzata a voi. Se avessi pensato che il Venchieredo è delle vostre parti non mi sarei stupita tanto.
– E come conoscete i Venchieredo voi?
– Li conosco, oh bella, perché li conosco!... Anzi no, voglio dirvelo. Erano dessi in qualche corrispondenza, d’interessi suppongo, con Emilio.
– A proposito, deggio darvi una triste notizia.
– Quale?
– Il signor Emilio Tornoni è partito per Roma. – (Tacqui, per prudenza, della contessa).
– Lo sapeva; ma tornerà – rispose l’Aglaura con piglio quasi di sfida. – Vi pregherò intanto di informarvi domani se fosse qui il signor Ascanio Minato, aiutante del generale Baraguay d’Hilliers, e il signor d’Hauteville segretario del general Berthier. Sono persone che mi premono per le notizie di Emilio che posso averne all’uopo.
– Sarete servita.
– E ditemi, avete saputo null’altro di lui?
– Null’altro!
– Nulla, nulla?... proprio nulla?
– Nulla, vi dico. – Era quasi per prender soggezione della giovinetta udendola parlare con tanta indifferenza d’aiutanti e di generali; ma non volli significarle il tacito disprezzo da me notato negli atti di Lucilio e di Del Ponte quando ebbi loro a nominare il Tornoni. Sapeva quanto piacere si dà alle innamorate sparlando dei loro belli.
– Aglaura, – ripresi dopo un istante di silenzio per ravvivare la conversazione – voi siete abbastanza misteriosa, e converrete che la mia bontà e la mia discrezione...
– Sono senza pari – aggiunse ella.
– No, non voleva dir questo, avrei soggiunto invece che meritano un granino di confidenza da parte vostra.
– È vero, amico mio. Chiedete e risponderò.
– Se vi pianterete così seria e pettoruta come una regina mi morranno le parole in bocca. Via, siate ilare e modesta come la prima sera che vi ho veduta... Così, così per l’appunto mi piacete!... Ditemi dunque ora come avete tanto domestici tutti questi nomi e cognomi dello Stato Maggiore francese... Mi sembravate poco fa un generale in capo che disponesse le schiere per una battaglia!
– Altro non volete sapere?
– Nient’altro: la mia curiosità per ora è tutta qui.
– Or bene: quei signori erano amicissimi d’Emilio; ecco perché li conosco.
– Anche il signor Minato?
– Quello anzi più degli altri; ma gli è anche il più galantuomo, vale a dire il meno birbante di tutti questi ladroni.
– Parlate piano, Aglaura!... Non siete più quella di questa mane!... Come mai svillaneggiate ora quegli stessi che levaste a cielo poche ore fa?...
– Io?... Io ho levato a cielo la Repubblica, non chi l’ha fabbricata. Anche l’asino talora può andar carico di pietre preziose... Del resto ladri in camera possono essere eroi all’aperto; ma eroi macellai, non...
– E ditemi un poco, Spiro vi scrive di venirvi a prendere, o che n’andiate a Venezia?
– Perché questa domanda?... Siete stufo d’avermi?
– Felice notte, Aglaura: parleremo domani. Oggi siete maldisposta.
Infatti mi ritrassi nella mia stanzuccia dietro della sua, e mi coricai pensando alla Pisana, alle strettezze che dovevano angustiarla, ai pericoli della sua solitudine. Sopratutto quel rappacciamento colla Rosa e le visite della Doretta mi davano ombra: Raimondo veniva poi; giacché capiva che egli era il grosso caprone che sarebbe passato pei buchi fatti dalle pecore. Aggiustai fin d’allora di mio capo un certo letterone da scriverle il giorno dopo, e dal pensiero della Pisana passai a quello dell’Aglaura che se stringeva meno s’oscurava anche di più. Chi potea vedere un barlume di chiaro in quel turbine di testolina? – Io no per certo. – Da Padova a Milano ella m’avea menato sempre di sorpresa in sorpresa; pareva non già una fanciulla occupata a vivere, ma un romanziero francese inteso a comporre un’epopea. Le sue azioni le sue parole s’avvicendavano si ritiravano si scavalcavano a fatti a contrapposti a sorprese come le strofe d’un’ode di Pindaro mal raffazzonate dagli scoliasti. Ci sognai dietro tutta notte, la osservai buona parte del mattino, e uscii colla lettera per la Pisana in tasca senza essermi avvantaggiato di nulla. Dentro ne inclusi una per l’Apostulos ove gli significava tutta la condotta dell’Aglaura, mettendomi ai suoi comandi in quanto poteva concernerla; lo pregava anche di prestarsi in quanto abbisognasse alla Pisana come per un altro me stesso. S’intende ch’io misi il tutto alla posta senza nulla dire alla giovine, perché lì era in ballo la mia coscienza e non si volean cerimonie. Far da papà sì, ma non da birbone per amor suo.
Sul mezzogiorno mi abboccai con Lucilio al caffè del Duomo che a que’ tempi era il convegno di moda, e dove ci avevamo dato l’appostamento. Egli si mostrò spiacentissimo di non avermi potuto inscrivere nella Legione cisalpina dove non c’era proprio più nessun posto vacante; ma piuttosto che lasciar ozioso un par mio, diceva egli, avrebbe cercato inspirazione dal diavolo, e poteva esser contento che gliene era saltata una di ottima.
– Ora ti menerò dal tuo generale; – diss’egli – generale, comandante, capitano, commilitone, tutto quello che vorrai! È uno di quegli uomini che sono troppo superiori agli altri per darsi la briga di accorgersene e di mostrarlo: non si può credere ad alcun patto che in lui sia un’anima sola, e sembra che la sua immensa attività dovrebbe stancarne una dozzina al giorno. Contuttociò ammira i tranquilli e compatisce perfino agli indolenti. Sul campo io scommetto che da solo basterebbe a vincere una battaglia, purché non gli ferissero gli occhi nei quali risiede la sua potenza più straordinaria. È napoletano, e a Napoli direbbero che ha la jettatura, ovvero come dicono nei nostri paesi, il mal’occhio; da non confondersi peraltro coll’occhio cattivo, anzi pessimo del fu cancelliere di Fratta.
– E chi è questa Fenice? – gli chiesi.
– Lo vedrai, e se non ti va a sangue mi faccio sbattezzare.
In queste parole mi tirò fuori del caffè, e giù a passo sforzato oltre al Naviglio di Porta Nuova verso i Bastioni. Entrammo in una vasta casa dove il cortile era pieno affollato di cavalli di stallieri di scozzoni5 di selle di bardature come in una caserma di cavalleria. Per la scala era un su e giù di soldati di sergenti d’ordinanze come al palazzo del Quartier generale. Nell’anticamera altri soldati, altre armi disposte a trofeo o gettate a fasci nei cantoni: v’avea anche ammassato in un canto un piccolo magazzino di tuniche di tracolle e di scarponi soldateschi.
– Che è? pensava io – forseché è l’Arsenale?...
Lucilio tirava diritto senza scomporsi, come persona di casa. Infatti senza neppur farsi annunziare nell’ultima anticamera da una specie d’aiutante che stava là contando i travi, schiuse la porta ed entrò tenendomi per mano dinanzi allo strano padrone di quel ginnasio militare.
Era un giovine alto, di trent’anni all’incirca, un vero tipo di venturiero, il ritratto animato d’uno di quegli Orsini di quei Colonna di quei Medici la cui vita fu una serie continua di battaglie, di saccheggi, di duelli, di prigionie. Si chiamava invece Ettore Carafa; nobilissimo nome fatto più illustre dall’indipendenza di chi lo portava, dal suo amore per la libertà e per la patria. Per le sue trame repubblicane aveva egli sofferto lunga carcerazione nel famoso Castel Sant’Elmo; indi fuggitone s’era ricoverato a Roma, e di là a Milano a formarvi a proprie spese una legione per liberar Napoli. Aveva uno di quegli animi che uniti o soli vogliono fare ad ogni costo; e questa magnanimità gli respirava dignitosamente nella grand’aria del viso. Soltanto tramezzo un ciglio gli calava giù una piccola cicatrice contornata da un’aureola di pallore; sembrava il segno d’una trista fatalità fra le speranze d’un valoroso. – Egli s’alzò dal lettuccio sul quale stava disteso, tese la mano a Lucilio e si congratulò secolui del bell’ufficiale che gli accompagnava.
– Ufficiale di poco conto – gli risposi io. – La vera arte militare non la conosco che di nome.
– Avete cuore di farvi ammazzare per difendere la patria e l’onor vostro? – riprese il Carafa.
– Non una ma cento vite – soggiunsi – darei per sì nobili ragioni.
– Ecco amico mio; vi permetta di potervi credere fin d’ora perfetto soldato.
– Soldato sì, – s’intromise Lucilio – ma ufficiale!?...
– A questo lasciate che ci pensi io!... Sapete nulla montar a cavallo, caricare uno schioppo, e maneggiar la spada?
– So qualche cosa di tuttociò. – (Era merito di Marchetto e ne lo ringraziai allora, come poco tempo prima avea ringraziato il Piovano della sua classica istruzione).
– Allora, eccovi anche ufficiale. In una legione come la mia che farà la guerra alla spicciolata, l’occhio e la buona volontà faranno più del sapere. Stasera tornate da me all’ora della ritirata. Vi consegnerò la vostra schiera, e state di buon animo che di qui a tre mesi avremo conquistato il Regno di Napoli.
Mi pareva di udir parlare Roberto Guiscardo o qualche paladino dell’Ariosto, ma parlava sul serio e me ne accorsi poi alla prova. Stentava a dimandargli se avrei potuto dormire fuori di caserma, ma gliene chiesi alfine e mi disse sorridendo che era diritto degli ufficiali.
– Capisco; – soggiunse – avete le notti impegnate con un altro colonnello.
Io m’imbrogliai e non dissi di no; Lucilio sorrise anch’esso; il fatto poi stava che non poteva lasciar sola l’Aglaura, ma qual piacere ritraessi io dal farle la guardia lo sapeva il cielo. Io fui soddisfattissimo allora del signor Ettore Carafa, e meglio due tanti in seguito. Ricorderò sempre con piacere quella vita frugale operosa e soldatesca. Alla mattina gli esercizii coi miei soldati, poi il pranzo e qualche gran seduta di chiacchere con Amilcare con Giulio con Lucilio; il dopopranzo e la sera conversazione coll’Aglaura che aspettava sempre Emilio e non voleva saperne di tornar a Venezia. Frammezzo qualche lettera agrodolce della Pisana. Ecco come giunsimo al tempo della rivoluzione di Roma, la quale doveva dar piede alle operazioni militari del Carafa nel Regno.