CAPITOLO DECIMOSESTO

Nel quale si svolge il più incredibile dramma famigliare che possa immaginarsi. – Digressione sulle vicende di Roma, sopra Foscolo e Parini ed altri personaggi della Repubblica Cisalpina. – Io guadagno una sorella, e dò a Spiro Apostulos una sposa. – Mantova, Firenze e Roma – Avvisaglie al confine napoletano – La ninfa Egeria di Ettore Carafa – Una scommessa mi fa riguadagnar la Pisana; ma alle prime non ne son molto lusingato.

Il dì quindici Febbraio 1798 cinque notai in Campo Vaccino avevano rogato l’atto di libertà del popolo romano. Assisteva liberatore quel Berthier che aveva assistito traditore al congresso di Bassano per la conservazione della Repubblica Veneta. Il Papa stava chiuso nel Vaticano fra Svizzeri e preti; e negando egli di svestirsi dell’autorità temporale fu levato di Roma militarmente e condotto in Toscana. Unico esempio di inflessibilità italiana in quel tempo di continui mutamenti, di subite paure; e fu in Pio Sesto. Per quanto poco cristiano mi fossi, ricordo che ammirai la costanza del gran vecchio, e comparandola alla tremula debolezza del doge Manin, faceva doloroso raffronto fra quei due più antichi governi d’Italia. Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani; l’uccisione del general Duphot, pretesto alla guerra, fu suffragata con esequie, con luminarie e colla spogliazione di tutte le chiese. Casse gravi di pietre preziose s’incamminavano per Francia, mentre l’esercito restava stremo di tutto e tumultuava contro Massena succeduto a Berthier. Le campagne insorgevano ed erano piene d’assassinii; cominciava insomma uno di quei drammi sociali rimasti solamente possibili nel mezzogiorno d’Italia e nella Spagna. In quel torno, compiuto l’ordinamento della legione del Carafa, non altro si aspettava che l’assenso del general in capo francese per partire a quella volta. Io mi trovava in un bell’imbroglio. L’Aglaura voleva partirsi con me giacché il viaggio di Roma s’accordava alle sue idee; io né voleva rifiutarmi né esporla ai pericoli d’una lunghissima marcia in stagione disastrosa come quella. Scriveva perciò a Venezia; non rispondevano. La Pisana stessa mi teneva allo scuro di sue novelle da un pezzo. Quella spedizione di Roma mi si presentava sotto auspicii tristissimi. Tuttavia sperava sempre dall’oggi in domani; e mentre il Carafa tempestava per quel benedetto assenso sempre ritardato, io me ne confortava come d’un maggior campo che ancora mi rimaneva a qualche vaga speranza. I miei tre amici con parte della Legione Lombarda, erano già calati verso Roma. Restava proprio solo, e non aveva altra compagnia che quella dello splendido capitano Alessandro.

ll peggio si era che venuta da Venezia o da Milano il fatto sta che la voce s’era sparsa della mia convivenza con una bella greca: ed erano continue le bajate1 sopra di ciò dei miei commilitoni. Immaginatevi qual consolazione col bel costrutto che ce ne cavava!

– Vi assicuro che avrei dato una mano, come Muzio Scevola, perché il signor Emilio si stancasse della contessa milanese e venisse a riprendersi l’Aglaura. Non ch’ella mi pesasse molto, ché anzi mi ci era avvezzato, e la mi faceva da governante con una pazienza mirabile, ma mi seccava di aver l’apparenza d’una felicità che in fatto apparteneva ad un altro. Mi fu svagamento a tali fastidi l’amicizia rappiccata col Foscolo reduce da qualche tempo a Milano. La sua focosa e convulsa eloquenza mi ammaliava; lo udii per più di due ore bestemmiare e sparlare di tutto, dei Veneziani, dei Francesi, dei Tedeschi, dei Re, dei democratici, dei Cisalpini, e gridava sempre alla tirannia alla licenza; vedeva fuori di sé gli eccessi della propria anima. Pure Milano di allora gli era degno teatro. Colà s’erano riuniti i più valenti e generosi uomini d’Italia; e l’antica donna, che sparsi non li aveva contati, gloriavasi allora a buon diritto di quell’improvviso ed illustre areopago. Aldini, Paradisi, Rasori, Gioia, Fontana, Gianni, i due Pindemonte, erano personaggi da riscaldare la potente loquela di Foscolo. Per mezzo suo conobbi anche i poeti Monti e Parini, l’armonioso adulatore, e il severo ed attico censore. La figura grave e serena ed affabile del Parini mi resterà sempre impressa nella memoria; i suoi piedi quasi storpii, lo conducevano a rilento; ma il fuoco dell’anima lampeggiava ancora dalle ciglia canute. La lettera in cui Jacopo Ortis racconta il suo dialogo con Parini è certo una viva e storica reminiscenza di quel tempo; potrei farne testimonianza. Io stesso vidi alcuna volta il cadente abate e il giovine impetuoso seder vicini sotto un albero nel sobborgo fuor di Porta Orientale. Li raggiungeva e piangevamo insieme le cose, ahi, tanto minori dei nomi!... Ben era quel Parini che richiesto di gridare Viva la Repubblica e muoiano i tiranni, rispose: – Viva la Repubblica e morte a nessuno! – Ben era quel Foscolo che diede l’ultima pennellata al suo ritratto dicendo: – Morte sol mi darà pace e riposo. – Io non era che un umile alfiere della Legione Partenopea; ma col cuore, lo dico a fronte alta, poteva reggere del paro con quei grandi, perciò li capiva, e mi si affaceva la loro compagnia.

Anche Foscolo s’era fatto ufficiale nell’esercito cisalpino. Si creavano a quel tempo gli ufficiali, come gli uomini dai denti di Cadmo. Medici, legali, letterati cingevano la spada; e la toga cedeva alle armi. I giovani delle migliori famiglie continuavano a darne il buon esempio; la costanza il fervore l’emulazione supplivano alla strettezza del tempo. In onta a passeggieri disordini, e a repubblicane insubordinazioni, il nucleo del futuro esercito italico s’era già formato. Carafa temeva che i generali francesi volessero stancheggiarlo menarlo per le lunghe acciocché s’afforzasse anche della sua legione la forza cisalpina. Napoletano anzi tutto, di spiriti ardenti e vendicativi, figuratevi se imbizzariva per questo sospetto! Credo che avrebbe intimato la guerra ai Francesi se nulla nulla lo molestavano. Finalmente arrivò l’assenso tanto sospirato. Ai primi di marzo doveva la legione moversi alla volta di Roma a raggiungervi l’esercito franco-cisalpino per le imprese future. Non s’avea più tempo da confidare nella fortuna. L’Aglaura mi restava sulle braccia, e dovea partire senza saper nulla della Pisana e di mio padre. Se il sentimento dell’onore, l’amore della patria e della libertà non fossero stati in me molto potenti, certo avrei fatto qualche grosso sproposito. Intanto romoreggiava fra le nuvole la gragnuola che doveva pestarmi il capo, ed io non m’accorgeva di nulla.

Disperato del lungo silenzio della Pisana e degli Apostulos, io aveva scritto ad Agostino Frumier, pregandolo per la nostra vecchia amicizia a volermi dar contezza di persone che mi stavano tanto a cuore. Di questa lettera io non avea fatto cenno ad alcuno perché sì Lucilio che gli altri Veneziani l’avevano molto col Frumier e lo consideravano come un disertore. Contuttociò la spedii poiché non sapeva cui meglio rivolgermi; e aspetta aspetta io aveva già perduto ogni speranza quando me ne capitò la risposta. Ma indovinate mo’ chi mi scriveva?... Sì, era Raimondo Venchieredo. Certo il Frumier, adombratosi di mantener corrispondenza con un esule con un proscritto, avea passato l’incarico a quell’altro: e Raimondo poi mi scriveva che tutti a Venezia si maravigliavano di sapermi ignaro della Pisana da tanto tempo, egli in primo luogo; che s’avevano ottime ragioni per crederla a Milano con mio assenso consenso e compartecipazione dei frutti; che avea tardato a scrivermi appunto per questo che lo giudicava superfluo per la mia quiete, non essendo le mie smanie altro che astuzie per darla ad intendere alla vecchia Contessa, al conte Rinaldo ed al Navagero. Costoro del resto se ne davano pace, e dicessi alla Pisana che in quanto a lui se l’avea pigliata, con pace del pari, ma che non sarebbe mancato tempo ad una buona rivincita. Così finiva ricisamente la lettera, onde ebbi il cervello occupato un’altra volta a fabbricar romanzi sulle allusioni degli altri. A che miravano quelle ire di Raimondo colla Pisana? E cosa mi augurava il disparimento di costei da Venezia?... Fosse proprio vero?... Dimorasse ella in Milano senza farmene motto? – Non mi sembrava possibile. – E poi con quali mezzi mettersi ad un viaggio e ad una vita dispendiosa sopra gli alberghi?... Gli è vero che aveva qualche diamante, e poteva anche aver ricorso agli Apostulos. Ma di costoro Raimondo non moveva neppur parola. Cosa ne fosse avvenuto?... Che Spiro languisse ancora in carcere?... Ma suo padre allora perché non iscriveva? – Insomma, le notizie ricevute da Venezia non aggiunsero che una spina di più a quelle che aveva già nel cuore, e mi disponeva di malissima voglia alla partenza. Anche il Carafa non sembrava più tanto impaziente; cioè, mi spiego, non guardava più con tanta stizza alla mia volontà mal dissimulata di tardare. Un giorno, mi ricordo, egli mi prese da un lato a quattr’occhi e mi fece sostenere uno stranissimo interrogatorio. Chi era quella bella greca che dimorava con me; perché vivevamo insieme (non lo sapeva neppur io), se aveva altre amanti, e dove, e chi fossero. Insomma, mi pareva il confessore d’un contino appena tornato dal prim’anno di università. Io risposi sinceramente, ma con qualche imbroglio, massime in punto all’Aglaura. Sfido io! Era materia tanto imbrogliata per sé che ci voleva assai meno della sorpresa di quella inquisizione per renderla addirittura inestricabile.

– Dunque voi amate una signorina di Venezia, e convivete cionnonostante a Milano con questa bellissima greca?

– Purtroppo la è così.

– Stento un po’ a crederla, tanto è singolare. Anzi non ve la credo, non ve la credo! Addio Carlino!

E andò via allegro allegro come se il non credermi quella freddura dovesse importare a lui qualche smisurata fortuna. Però m’era avvezzo ai ghiribizzi del signor Ettore, e conchiusi ch’egli era felice di poter sempre ridere. Per me dopo la partenza di Amilcare non sentiva più neppur il solletico; e se qualcheduno mi spianava un po’ la fronte si era l’Aglaura colla sua briosa testardaggine. La mi doveva questo piccolo compenso per tutte le rabbie e le inquietudini che m’avea fatto soffrire senza apparente motivo dopo il nostro incontro di Padova.

Una sera, eravamo in procinto di partire, io sedeva secolei nella nostra cameretta di Porta Romana, ove due bauletti e la nudità degli armadii e dei cassetti ci tenevano a mente il viaggio che dovevamo intraprendere, se anche non ce ne fossimo ricordati anche troppo pei timori che ne avevamo ambidue senza volerceli scambievolmente confessare. Da qualche giorno io teneva all’Aglaura un poco di broncio; quella sua ostinazione di volermi seguir a Roma, benché priva d’ogni notizia de’ suoi, mi metteva in sospetto sul suo buon cuore. Stava quasi per lanciare la bomba e per dichiararle la perfidia e l’infedeltà di colui al quale ella sembrava pronta a sacrificar tutto, perfino i sacrosanti doveri di figlia, quando, non so come, ad un suo sguardo pieno d’umiltà e di dolore mi sentii rammollir tutto. E di giudice ch’esser voleva, mi sentii cambiare a poco a poco in penitente. Le angoscie le incertezze che da tanto tempo mi laceravano erano cresciute tanto che richiedevano un qualche sfogo. Quell’occhiata dell’Aglaura m’invitava così pietosamente che non seppi resistere, e le narrai il sospetto in cui viveva della Pisana, il suo lungo e crudele silenzio, la sua partenza da Venezia, lasciatami ignorare.

– Ohimè! – sclamai – pur troppo sarebbe pazzia il volermi illudere!... La è tornata quale fu sempre. La lontananza ha lasciato morire l’amor suo d’inedia. Si sarà appigliata ad un altro; a qualche ricco forse, a qualche scapestrato che la sazierà di piaceri un anno e due, e poi... Oh Aglaura! il disprezzare quell’unica persona che si ama più della propria vita è un tormento superiore ad ogni forza d’uomo!

L’Aglaura m’impugnò furiosamente la mano ch’io aveva alzata al cielo nel pronunciare queste parole. Aveva l’occhio fiammeggiante, le narici dilatate e due lagrime sforzate rabbiose riflettevano al chiarore della lucerna il fuoco sinistro de’ suoi sguardi.

– Sì! – gridò essa quasi fuori di sé. – Maledicete, maledicete anche a nome mio i vili e i traditori! Con quella mano che innalzaste a Dio come per affidargli le vostre vendette, rapite un fascio de’ suoi fulmini e scagliatelo loro sul capo!...

Compresi di aver toccato una piaga secreta e sanguinosa del suo cuore, e la simpatia del mio dolore col suo m’aperse l’animo piucchemai alla confidenza e alla compassione. Mi parve aver trovato in lei un’amica, anzi una vera sorella, e lasciai scorrere nel suo seno le lagrime che da tanto tempo mi si aggruppavano entro. Anche il suo sdegno nel punto istesso s’era mitigato per la commozione della pietà, e abbracciati come due fratelli piangevamo insieme, piangevamo dirottamente; conforto misero dei miseri.

In quella s’asperse violentemente la porta, e un uomo coperto da un mantello spruzzato di neve entrò nella stanza. Diede uno strido, gettò indietro il mantello, e ravvisammo ambidue le pallide sembianze di Spiro.

– Giungo forse troppo tardi? – domandò egli con tal suono di voce che non mi dimenticherò mai più.

Io fui il primo a slanciarmigli fra le braccia.

– Oh che tu sia benedetto! – balbettai coprendogli il volto di baci. – Da quanto tempo sperava la tua venuta!... Spiro, Spiro, fratel mio!

Egli mi respingeva colle braccia, si strappava con forza il collare come si sentisse soffocare, e non rispondeva ai miei baci che con un profondo ruggito.

– Spiro, per carità, cos’hai? – gli disse timidamente l’Aglaura, appendendoglisi al collo.

Al contatto di quella mano al suono di quella voce egli tremò tutto; sentii raffreddarsi di repente il sudore che gli inondava le guancie; mi volse uno sguardo tale che una tigre non ne lancerebbe uno più formidabile a chi le trucida i suoi figli; indi con una potente scrollata ci respinse ambidue fino contro al letto, e restò solo minaccioso nel mezzo della stanza. Pareva l’Angelo del Terrore che ha traversato l’inferno per precipitarsi a punire una colpa. Senza fiato, smarriti dall’angoscia e dallo spavento, noi restammo curvi e silenziosi dinanzi a lui in guisa di colpevoli. Quella nostra attitudine servì ad ingannarlo forse completamente e a persuadergli ciò che temeva e che punto non era.

– Ascoltatemi, Aglaura –; incominciò egli con voce che voleva esser calma e serbava tuttavia il moto scomposto e lo stridulo suono della tempesta. – Ascoltatemi, s’io v’ho amato!... Stava per correre dietro a voi, quando me lo vietò la prigione. In carcere ogni giorno ogni minuto fu uno studio continuo di fuggire per raggiungervi, per salvarvi dal precipizio ove siete caduta. Finalmente riuscii!... Una tartana mi condusse fino a Ravenna; di là avvisava di venire a Milano, perché il cuor mel diceva che eravate qui. Quando, giunto a Bologna, alcuni Veneziani rifugiatisi colà mi danno contezza di Emilio Tornoni che avea traversato quella città fuggendo da Milano con una Signora, e diretto per Roma... Capite bene che non potea perder tempo a raffrontare scrupolosamente i connotati e le date. Le mie conghietture così all’ingrosso ci stavano; mi volsi a precipizio verso Roma, e vi giunsi che la Repubblica era già proclamata!... Or bene, sappiatelo, Aglaura!... Il vostro Emilio era un vile traditore; ve l’ho sempre detto e non volevate ascoltarmi... Egli vi tradiva per una nobile baldracca di Milano!... Egli tradiva i Veneziani pei Francesi, tradiva questi e quelli per zecchini imperiali che il signor Venchieredo gli portava da Gorizia!... Egli non era corso a Roma che per tradire... Colle commendatizie d’un reverendo padre di Venezia s’era addentrato nelle grazie di qualche cardinale per espilare la buona fede del Papa, asserendosi amico influentissimo di Berthier. Ingannava intanto Berthier trafugando a proprio utile gran parte dello spoglio di Roma. Il popolo sdegnato lo arrestò mentre comandava il saccheggio d’una chiesa: Francesi e Romani ne godettero. Fu solennemente impiccato in Campidoglio!... La sua ganza avea fatto vela il giorno prima per Ancona col suo amicissimo Ascanio Minato...

L’Aglaura diventava di tutti i colori durante questa furibonda invettiva di Spiro. Quand’egli tacque s’era già ricomposta alla solita gravità.

– Or bene, – diss’ella guardando nel volto Spiro con occhio sicuro – or bene, la giustizia ha avuto effetto. Dio la serbò per sé, e non ha voluto ch’io me ne macchiassi le mani. Benedetta la clemenza di Dio!...

– Ah è proprio vero? – soggiunse Spiro amaramente, saettandomi delle sue occhiate sempre più truci e sinistre. – E avete anche la sfrontatezza di confessarmelo?... Non lo amavate più?... Temetemi, o Aglaura! Perché una mia sola parola può vendicarmi della vostra impudenza!...

– Temervi? – riprese sempre con calma l’Aglaura – due cose sole io temo, la mia coscienza e Dio... Fra poco non temerò più nessuno.

– Che pensereste di fare? – le domandò Spiro quasi minacciosamente.

– Uccidermi – rispose fredda e sdegnosa l’Aglaura.

– No, per tutti i Santi – le dissi io allora interponendomi. – Io ebbi un vostro giuramento; lo manterrete.

– Avete ragione, Carlino, – rispose ella – non mi ucciderò!... Ma infelice voi, infelice io: faremo causa comune. Ci sposeremo, e pensi Dio al resto.

Credetti che mi crollasse il soffitto sul capo, di tal forza fu l’urlo che scoppiò allora dalle viscere di Spiro. Si gettò innanzi cogli occhi chiusi e colle braccia protese. Credo che se ci avesse abbrancati saremmo rimasti stritolati. Io mi gettai davanti all’Aglaura e feci schermo del mio corpo a quel briaco furore. Allora egli si riebbe dall’improvviso delirio, gli si incalorò la fronte d’una rabbia quasi infernale, e aperse le labbra a parlare, ma gli morì nelle fauci la voce. Vidi che un grande castigo pendeva allora da quelle labbra, e per sopportarlo aveva ristretto ogni mia forza intorno al cuore: ma egli finì col mordersi le mani, volgendo sopra di noi un’occhiata insieme di compassione e di scherno...

– E se... – aveva egli cominciato a dire come rispondendo a un interno sospetto che non andò più innanzi, e subito le sue sembianze si ricomposero, il pallore gli si stese sul volto, le membra cessarono di tremare; tornò insomma uomo, fin’allora sembrava proprio una fiera. Tutti questi particolari mi rimasero fitti in capo tanto per ordine, dacché tutta la notte seguente altro non feci che volgerli rivolgerli e commentarli per indovinare da essi le tremende e misteriose passioni che agitavano l’animo di Spiro. Mi sembrava impossibile che lo sdegno d’un fratello dovesse scoppiare così bestiale e violento.

Dopo avere racquistata quella calma almeno apparente il giovane greco sedette in mezzo a noi; e ben accorgemmo lo sforzo da lui fatto per rimanere, ma non osammo rimproverarglielo. Egli ci spiava ambidue con occhio furtivo, e di volta in volta la compassione l’abbattimento e un ultimo resto di rabbia alternavano i loro colori sulle irrequiete sembianze. Ci narrò allora che la mancanza di lettere da parte di suo padre proveniva da questo ch’egli avea dovuto partire precipitosamente per l’Albania e per la Grecia donde non era tornato peranco.

– E così, – soggiunse egli – e così, Aglaura, voi non volete seguirmi a Venezia ove rimango solo, senza felicità e senza speranza?

– No, Spiro, non posso seguirvi – rispose la giovinetta chinando gli occhi sotto gli sguardi infiammati del giovine.

Spiro mi guardò ancora, ché se la sua occhiata non mi divorò fu proprio perché non la poteva: indi si volse ancora alla fanciulla.

– Che speranza mai vi mena ora pel mondo, Aglaura?... Per carità... ditelo!... finalmente ho diritto di saperlo!... Son vostro fratello!

Queste ultime parole gli stridevan tanto fra i denti che le intesi appena.

– Ditemi, se avete legami di affetto o di doveri – continuò egli. – Vi giuro che vi aiuterò a santificarli.

(Qui un nuovo stridore ma più tormentoso e diabolico di prima.)

– No, non ho nulla! – rispose con voce semispenta l’Aglaura.

– E dunque perché non mi segui? – le domandò Spiro, rizzandosi dinanzi a lei come il padrone dinanzi ad una schiava.

– Temo che voi lo sappiate!... – disse l’Aglaura lasciando cader una ad una queste parole sull’ira di Spiro già pronta a rinfiammarsi. E infatti ottennero l’effetto di calmarlo ancora.

Egli volse per la stanza uno sguardo lungo e indagatore; indi partì dicendone che il domani ci avrebbe veduti e che tutto in un modo o nell’altro sarebbe finito. Allora per quanto io supplicassi l’Aglaura perché mi chiarisse alcune parti del dialogo che non giungeva a comprendere, mi fu impossibile cavarne una sola parola. Piangeva, si stracciava i capelli, ma non voleva confessarsi d’una sillaba. Un poco sdegnato un po’ impietosito io mi ritirai nella mia stanza, ma non mi venne fatto di pormi a giacere, e una tormentosa fantasticaggine mi tenne alzato fin dopo mezzanotte. Allora sento picchiare alla mia camera e credendo che fossero ordini del mio capitano dissi stizzosamente che entrassero. La camera dava sulla scala e m’avea dimenticato di dare il chiavistello alla porta. Con mia somma meraviglia, invece d’un soldato rividi Spiro: ma così cambiato in un paio d’ore, che non sembrava più lui. Mi pregò umilmente di perdonargli le furibonde escandescenze di prima; e mi supplicò per quanto aveva di più sacro che mi adoperassi presso alla Aglaura per ottenergli del pari il perdono. Davvero ch’io ci perdeva la testa, ed egli finì di farmela perdere, gridando cogli occhi sbarrati che egli l’amava e che non poteva più trattenersi.

– L’amate? – gli risposi io – ma mi pare che siate perfettamente in regola! Non siete dello stesso sangue, figliuoli degli stessi genitori?... Amatevi dunque, che Dio vi benedica!

– Non mi comprendete, Carlo – soggiunse Spiro. – Or bene, mi comprenderete ora! Aglaura non è mia sorella; essa è figliuola di vostra madre; voi siete suo fratello!...

Allora un lampo subitaneo rischiarò il buio dei miei pensieri, ma stava appunto per domandar spiegazioni di questo straordinario viluppo quando l’Aglaura, avendo udito quelle parole pronunciate a voce alta da Spiro, si precipitò nella stanza e addirittura nelle mie braccia, piangendo di consolazione.

– Lo sentiva, – diceva ella – lo sentiva e non osava pensarlo!

Smarrito, confuso, non sapendo cosa credere, ma commosso fin nel profondo del cuore io stringeva sul mio seno la faccia lagrimosa dell’Aglaura. Avrei chiesto dopo schiarimenti e prove; intanto godeva il supremo conforto di trovare un’anima sorella in quel mondo dove io m’aggirava desolato come un orfano. Spiro ci contemplava con un muto raccoglimento che lo dimostrava insieme e compagno della nostra gioia e pentito delle sue furie. Come poi ci riebbimo da quel dolce e tenerissimo sfogo, egli ci narrò che mia madre avea mandato l’Aglaura al padre suo dall’ospedale ove l’avea partorita ed era morta pochi giorni dopo. Mio padre, avuta contezza di ciò, avea scritto da Costantinopoli all’Apostulos ch’egli s’incaricherebbe a suo tempo della bambina, come figliuola che la era di sua moglie; ma che la tenesse intanto per sua, onde ella non avesse a vergognare della sua nascita. – Chi avrebbe sospettato tanto amore tanta delicatezza in mio padre? – Io ne lo benedissi con tutta l’anima; e pensai che spesso fra i sassi più ruvidi e greggi s’asconde il diamante. Spiro raccontò poi le tronche parole di sua madre dalle quali avea indovinato il mistero della nascita d’Aglaura già prima di partire per la Grecia. Tornando coi sogni di quei quindici anni pel capo, vederla e innamorarsene era stato tutt’uno: ma se gli era opposto invincibile l’amore di quell’Emilio al quale senza conoscerlo aveva votato un odio immortale. L’odio si convertì in furore, e l’amore s’accrebbe di tutta la tenerezza della pietà quando avea saputo l’infame condotta, l’impostura e i tradimenti di quel giovane, di cui qualche barlume doveva essere trapelato anche all’Aglaura.

– Oh sì! certo; – saltò a dire l’Aglaura – per cos’altro credete ch’io mi movessi di Venezia se non per punirlo della sua perfidia verso la patria?

– Oh perché dunque mi proibivi sempre di biasimarlo? – soggiunse Spiro.

– Perché? – riprese l’Aglaura con un filettino di voce. – Aveva paura di te... di te, mio fratello!

– Ah! è vero! – gridò il povero giovane. – Era un infame!... Ma come comandar sempre ai proprii occhi?... Come crederti e trattarti come sorella quando sapeva che non lo eri, quando covava per te un amore antico di quindici anni e rafforzato da tutti gli stimoli della lontananza?... Perdona agli occhi miei, Aglaura!... S’essi peccarono talvolta, non ne ebbe colpa la volontà!...

– Oh vi perdono! Spiro – sclamò singhiozzando l’Aglaura. – Ma se mi fossi sentita veramente vostra sorella, avrei io diffidato di quelle occhiate; lasciatemi credere che la malizia non fosse né mia né vostra, o almeno divisa per metà!

Io chiesi allora a Spiro con bastevole ingenuità perché tre ore prima non ci avesse scoperto quel dolce segreto, e si fosse divertito invece a rappresentarci quella feroce scena da Oreste. Egli non sapeva come rispondere; pur finalmente si sforzò a farlo, dicendo che, dopo saputi i nuovi amori di Emilio e che la signora fuggita con essolui da Milano a Roma non era l’Aglaura, dei mostruosi sospetti gli aveano martoriato il cuore.

– Qui – soggiunse egli – qui stasera a prima giunta trovandovi abbracciati insieme quei sospetti finirono di travolgermi la ragione!... Mio Dio! quale sventura! Dico sventura, perché non ne avreste avuto colpa, e tuttavia sono fatalità che come i delitti più tremendi lasciano nell’anima eterni rimorsi... Mi capite ora, Carlo!... Io ero pazzo!...

Infatti io rabbrividii figurandomi quanto egli avrebbe dovuto soffrire.

– Pure non ci svelaste nulla! – io replicai.

– Oh fu un momento, fu un momento che tutto fui per isvelare! così credeva che mi sarei vendicato!

– E vi tratteneste?

– Per compassione, Carlo, per giustizia mi trattenni! – Se il male era già avvenuto perché punir voi innocenti? Meglio era ch’io partissi recando altrove la mia disperazione la mia gelosia, e lasciando a voi la felicità piuttostoché cambiarla in un rimorso irreparabile!

– Oh Spiro! quanto eravate generoso! – io sclamai. – Un’anima come la vostra più che l’amore e la gratitudine comanda l’ammirazione!...

L’Aglaura piangeva a cald’occhi stringendomi il braccio con una mano e guardando forse Spiro tra le dita dell’altra.

– Ditemi ora dove foste per tutte queste ore? – io richiesi volgendomi a Spiro.

– Prima di tutto fui all’aperto, all’aria libera a respirare, a chieder ispirazione da Dio; indi come il cuore mi consigliava tornai in questa casa, interrogai i padroni, i portinai... Oh ci volle poco, Carlo, ci volle poco perché mi ricredessi!... Quel vapore di disperazione s’era disciolto; già mi pareva impossibile che Dio permettesse colle sembianze dell’innocenza una tanta nefandità. Quando poi udii la vita che voi menavate qui, proprio come fratello e sorella, semplice modesta riservata! quando udii i dilicati riguardi da voi tenuti sempre verso l’Aglaura, allora la certezza della vostra innocenza mi slargò il cuore, allora compiansi maledii la mia stolta precipitazione e giurai che non vi avrei lasciato passare una notte senza togliervi dal cuore il coltello ch’io vi aveva confitto!... Deh per carità, Carlo!... Aglaura, se mai col mio grande affetto meritai nulla da voi, compatitemi, perdonatemi, serbatemi se non altro un cantuccio nella vostra memoria... e se la mia presenza vi richiama qualche crucciosa rimembranza... allora...

Io mi volsi tacitamente all’Aglaura, ché per me non mi sentiva da tanto di rimeritare la bella magnanimità di Spiro. Ella mi comprese o comprese forse il proprio cuore: onde prese la mano del giovine, e mettendola nella mia, così com’eravamo uniti tutti e tre in una sola stretta, soggiunse:

– Basta, Spiro! Ecco la nostra risposta! Formeremo una sola famiglia!...

Il resto della notte fu goduto in amichevoli e lieti conversari e nell’esaminare le carte recate da Spiro e lasciate dal padre suo a Venezia, dalle quali era comprovata evidentemente la nascita dell’Aglaura nell’ospitale di Venezia e dalla povera mia madre. Il nome del padre non appariva; e come ben potete figurarvi nessuno si sognò di notare questa spiacevolissima mancanza. Tirammo innanzi come se appunto il padre fosse una comparsa superflua nel mistero della generazione; io sapeva abbastanza i non pochi disordini della buon’anima di mia madre nell’ultimo stadio di sua vita, li compativa anche, ma né la pietà filiale né il rispetto di me medesimo e del nome paterno mi consigliavano di metterli in luce. Accettai dunque l’Aglaura per sorella di tutto cuore, ne ringraziai il cielo come d’un insperato e prezioso presente, e m’adoperai a tutt’uomo perché il presente fosse reso più gradito a mille tanti col cambiare in parentela l’amicizia che mi univa a Spiro. Fu un po’ malagevole per l’Aglaura questo passaggio dall’idee di morte di odio di vendetta a quelle di pace d’amore e di nozze; ma col mio aiuto e con quello di Spiro le superò. D’altronde ella vedeva che così tutto si accomodava e le donne per far tutti contenti sono anche capaci di maritarsi, quando peraltro con questi ripieghi accontentino prima di tutti se stesse. A quei tempi c’erano poche formalità per un matrimonio. Interpretando la tacita volontà di Spiro io m’ingegnai tanto e con sì felice esito che prima della partenza della legione, ebbi la consolazione di vederlo sposo dell’Aglaura. Partimmo poi da Milano di conserva perché il signor Ettore mi concesse di buona voglia il permesso di accompagnarli fino a Mantova; di colà io l’avrei raggiunto a Firenze per la via di Ferrara. Quella breve meteora di contentezza famigliare m’era necessaria per rompere il buio del mio orizzonte che cominciava a minacciar troppo. Benché anche di mio padre Spiro mi avea recato qualche notizia se non diretta certo credibilissima. Lo dicevano giunto felicemente a Costantinopoli e inteso piucchemai all’opera gravissima che lo preoccupava, nella quale peraltro improvvisi ostacoli lo avevano ritardato. Stava bene, e avrebbe mandato sue nuove o sarebbe tornato ad impresa fornita. La partenza per la Grecia del vecchio Apostulos poteva addentellarsi alle macchinazioni di mio padre in Turchia, ma capii che Spiro o non ne sapeva o non potea dirne di più, e cambiai discorso raccomandandogli soltanto di farmi giungere al più presto e ovunque mi trovassi qualunque novella di mio padre fosse per arrivare.

L’Aglaura, che avea preso il partito di aver comune con me il padre giacché aveva la madre, mi rispose in nome suo che sarebbe fatto, e che ella cercherebbe ogni modo d’averne contezza sovente, poiché anche a lei stava a cuore un sì buon papà. Ci separammo a Mantova proprio il giorno che quella città aveva ottenuto il permesso definitivo di aggregarsi alla Cisalpina; la mestizia dei commiati nostri andava perduta nella gioia nella speranza universale. Io aveva ritrovato una sorella, mi pareva di esser sulla buona via per trovare una patria; ben mi stava di vivere s’anco avessi perduto per sempre l’amore. Intanto ci diemmo la posta a Venezia, tutti repubblicani, liberi, contenti! Essi scomparvero in un calesse sulla via di Verona, io, ripresi a piedi la strada della città, fuor della quale li aveva accompagnati un buon miglio. Quell’ammasso di case di torri di cupole in mezzo all’acqua del Mincio mi fece pensare a Venezia: cosa volete? Invece di sorridere, sospirai; il passato poteva sopra di me assai più del futuro, o lo stesso futuro mi traspariva qual doveva essere, di gran lunga diverso dalla creatura prediletta dell’immaginazione. Cionullameno quella festa d’una città italiana, già signora di sé, con corte, con leggi, con privilegii proprii, la quale si metteva uguale colle altre per esser libera o serva, felice od infelice insieme alle altre, mi saldò nel cuore un bel germoglio di speranze. Sono di quelle speranze che son sicure di crescere, e che morti noi, crescono nel petto dei figliuoli e dei nipoti finché tutte le loro parti abbiano avuto effetto di realtà. Anche i Gonzaghi diventavano omai una vecchia memoria storica. Parce sepultis; purché non facciano la burla di Lazzaro; ma costoro non ce la faranno mai; ove trovar Marta che preghi per essi?... In fin dei conti hanno stipendiato Mantegna, hanno fatto dipingere a Giulio Romano la volta dei Giganti, hanno liberato il Tasso dallo spedale, hanno vinto o perduto nella persona del condottiero la battaglia di Fornuovo, vi par poco? Era tempo che si mettessero anch’essi a giacere a canto dei Visconti, degli Sforza, dei Torriani, dei Bentivoglio, dei Doria, dei Colonna, dei Varano e di tutti gli altri. Fortunatissimi che furono gli ultimi; ma temo che abbiano dormito un bel pezzo ritti come i fanciulli ostinati: e chi dovea vegliare dopo essi pestava inutilmente i piedi.

Comunque la sia io partii da Mantova di miglior umore che non mi sarei immaginato. La mia borsa affatto smilza (figuratevi se i mille ducati avean poco sofferto della lunga dimora mia e dell’Aglaura a Milano), la mia borsa, e insieme una certa modestia soldatesca non mi permisero che un biroccino fino Bologna; uno di quei veicoli che danno al paziente alcuna delle illusioni di chi siede in carrozza con tutti gli incommodi di chi trotta sopra un cavallo da mugnaio. Le carrettelle del Vicentino e dell’alto Vicentino non ci avevan nulla a che fare; somigliavano gondole a paraggio di questi frulloni2. Or dunque arrivai a Bologna coi nervi tutti offesi e accavalcati; fu per istirarmeli che mi accinsi pedestre al passaggio dell’Appennino. Oh qual viaggio incantevole! oh che scene da paradiso!... Credo che se fossi stato proprio felice di dentro, avrei detto anch’io al Signore come San Pietro: – Vi prego, piantiamo qui i nostri padiglioni! – Ho poi udito dire che ci domini troppo il vento in quegli ingroppamenti di montagne; ma allora, benché ridesse appena lievemente la primavera, era tuttavia una pace un tepore una ricchezza di colori e di forme in quel cantoncino di mondo, che ben ci si accorgeva di essere sulla strada di Firenze e di Roma. Giunto poi a Pratolino donde l’occhio divalla sulla sottoposta Toscana il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che se avessi conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato un cantico sul fare di quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le creste azzurine degli Appennini e le candidissime dell’Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e gloria, nelle eterne pagine della storia, nell’eloquente grandezza dei monumenti, nella viva gratitudine dei popoli, sempre apparisci sublime, sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che delle nazioni del mondo tu sola non moristi mai!

Allora infatti l’Italia era forse ai primordii della sua terza vita; primordi ignari e sconvolti come i primi passi d’un bambino. In Toscana come in Piemonte v’aveva la strana concordanza d’un principe che regnava e d’un general francese che imperava. Parevami proprio vedere i re della Bitinia, della Cappadocia o di Pergamo con Silla, Lucullo, e quegli altri dabbenuomini ai panni. Morivano essi lasciando erede il popolo romano; ma né Lucullo né Silla né i generali francesi di sessant’anni fa avevano scrupolo di prelevare qualche legato... A Firenze trovai il Carafa, ma non l’intera legione che s’era avviata verso Ancona per le rimostranze di neutralità fatte dal Granduca. Il signor Ettore pareva molto pensieroso; io credeva pensasse ai suoi soldati, ma egli si stizzì anzi ch’io glieli avessi recati a mente. Malediceva a denti stretti le donne, dicendo ch’è una vera sciocchezza la nostra il degnarsi di uscire alla luce da cotali demonii.

– Diavolo, capitano, e donde vorreste nascere? – gli chiesi.

– Dal Vesuvio, dall’Etna, dai gorghi tempestosi del mare! – egli mi rispose. – Non già da questi mostricciuoli armati di forza viperea che si vendicano di averci fatto nascere col toglierci oncia ad oncia la vita!...

– Capitano, siete proprio infelice e pessimista in amore?...

– Lo credo io!... Con un’amante che mi ama e non mi ama; cioè mi ha amato o si è lasciata amare come vorrei io una settimana, ed ora vuol amarmi alla sua maniera che è la più strana ed insopportabile della terra!

– Quale maniera, capitano?

– Quella dei datteri, che fanno all’amore l’uno in Sicilia e l’altro in Barberia.

Io ne risi un poco di questo paragone; ma in fondo in fondo quando si veniva sul discorso di guai amorosi ci aveva pochissima voglia di ridere. Siccome poi non reputava il signor Ettore maestro consumato in tali faccende, e del resto gli voleva bene assai, così mi presi la libertà di suggerirgli un consiglio.

– Offendetela nella superbia – gli dissi. – Improvvisatele una rivale.

– Vedrò: – soggiunse egli – intanto tu raggiungi i nostri ad Ancona. A Roma ti saprò dire della bontà o meno del tuo consiglio, che mi ha idea di esser molto vecchio e corrotto dal lungo uso.

– Sapienza vecchia dà frutto nuovo – io replicai. E corsi via per vedere così all’ingrosso Firenze prima di ripartire per le Marche. A Firenze tutto mi piacque meno l’Arno, che per avere così bel nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi che tutti i fiumi soffrono dal più al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro dalla fama. Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito di vederlo andar a ritroso ad un minimo buffo d’aria. Per un così immenso fiume l’è invero arrendevolezza schifosa! Ma quanti uomini grossi che somigliano al Tamigi! Quante donne che somigliano a Londra! cioè, scusatemi, s’appoggiano volentieri a un fiume che ha molta acqua molta vastità e dubbia corrente!... Vi fu un pacioloso3 Padovano che in una nota barcarola cantava alla sua bella:

Vieni somigli a Londra

Sei un basin d’amor!

Egli non avrebbe creduto che io sudassi tanto un giorno per giustificare la lezione un po’ arrischiata della sua strofa.

Dall’Arno all’Adriatico furono tre giorni; e da Ancona a Roma dieci, perché s’avanzava coll’intera legione e non essendo avvezzi a camminar molto, bisognava cominciare con precauzione. Allora ebbi agio a convincermi che i primi nemici che un esercito nuovo incontra nelle sue imprese sono i polli ed i preti. Non valevano né minaccie né rimproveri né castighi. Pollo voleva dir schiopettata, e prete burle e baldoria. Ammazzavano i polli per mangiarli in casa del prete e bere del suo vino; del resto tutto finiva lì, e se gli abati erano gente della legge, con un cicino4 di disinvoltura e una patina di politica finivamo col separarci ottimi amici. Uno di cotali arcipreti bastava per un giorno a far propendere in favore di Pio Sesto gli animi dell’intera legione; gli è vero che a quel tempo il cardinal Chiaramonti avea messo d’accordo Religione e Repubblica colla sua famosa Omelia, e si poteva propendere in favore di tutti. Per me, più vado innanzi e più m’avvedo che ogni religione ci guadagna assai a tenersi lontana dalla politica; gli è inutile; né l’oglio si mescolerà mai coll’aceto, né il sentimento alla ragione, senzaché nascano sostanze spurie e scipite.

Eccoci finalmente a Roma. Io ne avevo una voglia che non ne poteva più. Sentiva che Roma solamente avrebbe potuto farmi dimenticar la Pisana; e mentre pur mi confidava in una cotale dimenticanza, andava almanaccando che cosa ne poteva esser di lei, architettava conghietture, creava e ingigantiva paure, dava corpo e movimento alle ombre più mostruose che si potessero vedere. I suoi cugini di Cisterna, capitati da poco a Venezia, Agostino Frumier, quello slavato, Raimondo Venchieredo, lo schernitore, mi parevano ad ora ad ora altrettanti rivali; ma tutte quelle supposizioni svanirono quando lettere dell’Aglaura e di Spiro mi confermarono l’assenza della Pisana e che la sua famiglia nulla sapeva e poco curava sapere di lei. La Contessa pappava il frutto degli ottomila ducati e le bastava; il conte Rinaldo passava dall’ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola e al letto senza darsi pensiero che altri uomini vivessero al mondo: ambidue miserabili, miserabilissimi; ma non si curavano di affannarsi pegli altri. Convenite con me che se non eroismo fu certamente una bella costanza la mia di starmene a ordinar piuoli e a comandar movimenti sul monte Pincio, mentre avrei corso e frugato tutto il mondo per trovar la mia bella! La amava, sapete, proprio più che me stesso; e per me che non vendo ciurmerie di frasi ma faccio professione di narrare la verità, questo è tutto dire. Nonostante aveva il coraggio di metter innanzi la patria, e benché facessi allora uno sforzo a inchiudere anche Napoli in quest’idea, Roma mi aiutava a vincer la prova. Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d’improvviso tutte le storte e confuse immaginazioni degli Italiani. Volete sapere se un cotal ordinamento politico, se quella cospirazione di civiltà e di progresso può reggere e portar buon frutto alla nazione nostra?... Nominate Roma; è la pietra di paragone che scernerà l’ottone dall’oro. Roma è la lupa che ci nutre delle sue mamelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende. Né voglio negare che il mirar troppo a Roma abbia fatto trascurare talvolta scopi più vicini ed accessibili, dei quali avremmo potuto giovarci come di gradini a ulteriore salita; ma certo il mirar troppo non fu né tanto dannoso né così disonorevole come il mirar nulla; e nessun periodo di storia italiana fu confuso ed illogico al pari di quello che aggiunse mostruosamente all’Impero di Francia il Dipartimento del Tevere.

Intanto giunto che fui a Roma, successe del mio dolore quello che d’ogni piccola cosa al soverchiar d’una grande. Restò stupito, soffocato, dimenticato quasi. Che può essere infatti l’infelicità d’un uomo in cospetto dei lutti d’un’intera nazione?... Io ritrovava quasi una pace stanca, una mestizia senza amaritudine contemplando gli avanzi fulminati della gran caduta: sopra di essi mi parevano giuochi e freddure le pompe le minutaglie dei secoli cristiani. Solo nelle catacombe vagolava uno spirito di fede e di martirio che sublimava il cristianesimo sopra i grandiosi sepolcri pagani. Io mi curvava tremebondo sotto quelle sante memorie di sacrifizio e di sangue; e le torture e le flagellazioni e i vituperi e gli strazii e la morte lietamente sofferta per un’idea ch’io ammirava senza comprenderla, impiccolivano agli occhi miei quella soma d’affanni ch’io mi dava ad intendere di non poter trascinare. Nell’emulazione dei grandi sta la redenzione dei piccoli.

Peraltro se il vivere nella Roma antica dei consoli e dei martiri mi dava qualche conforto, la Roma d’allora invece mi empieva di rammarico e quasi di spavento. Il Papa se n’era andato senza schemi e senza plauso; perché avendo dovuto rimetter molto della pompa e della magnificenza colle quali era solito vivere, il popolo non si accorgeva più di lui. Dallo splendore della corte e delle cerimonie, più che dalla virtù e dalla santità della vita si misurava l’eccellenza del Principe del Cristianesimo. Una confusione di cose venerabili per religione e per età ladramente vituperate, di schifezze levate a cielo e splendidamente decorate, di stupidi superstiziosi e di vili rinnegati, di saccheggi e di carestie, di epuloni e di affamati, di frati cacciati dai conventi, di monache strappate ai loro ritiri, di cardinali inseguiti dai cavalleggieri, e di cavalleggieri scannati dai briganti; tutto andava a soqquadro, si rovesciava alla perdizione; giudice del bene o del male il talento annebbiato od illuso d’ognuno: un mescolarsi di resistenze pretesche, di arbitrii francesi, di licenze popolari e di assassinii privati; un mettersi avanti di grandi ed onesti nomi per coprire l’infamia dei piccoli; continui mutamenti senza fede senza sicurezza, cagionati dalla rapacità di chi amava pescare nel torbido. E Francesi che bestemmiavano ai traditori italiani e transteverini che insorgevano, gridando: – Viva Maria!... – Il sangue scorreva nei boschi, sulle maremme, nelle caverne; città e campagna s’armavano con egual furore; ma fin nei cunicoli del Culiseo, fin nei montani ricoveri in braccio alla moglie ai piedi dei vecchi genitori erano perseguitati i ribelli. Murat ammazzava fucilava impiccava; i superstiti andavano al remo, e chi li diceva martiri chi galeotti.

Nessuna semente maggiore di discordia e di ribellioni future che questa opinione dei popoli che cambia in altare il patibolo. Quattro commissarii del Direttorio francese eran venuti a risuscitare le vecchie parole di consolato, senato, tribunato e questura; togliendo loro autorità coll’adoperarle a coprire cose affatto nuove e piuttosto che repubblicane, servili, pel precipizio con cui erano imposte. I cinque consoli si cambiavano ad ogni cambiar d’umore del generale francese; tuttavia la confederazione della Repubblica Romana (grave nome a portarsi) fu celebrata coll’egual solennità della Cisalpina. E fu coniata una medaglia che portava sulla doppia faccia le due scritte: Berthier restitutor urbis, e Gallia salus generis humani. Alla prima seppimo quanto credere: la seconda, Dio la voglia.

In un cotanto disordine anzi smembramento e tracollo della cosa pubblica quali potessero essere argomenti da rendere ai Romani assetto di nazione civilmente e secondo i proprii bisogni ordinata, io certo non lo so. Per questo non mi dà il cuore di biasimare davvantaggio quegli uomini che vi accudirono allora, e con effetto impari certo ai disegni. V’hanno certi dissesti morali ed economici nella vita d’un popolo, originati da lunghi secoli di corruzione di ozio e di servitù, per riparar ai quali non basta l’accorgimento e la tolleranza del paziente stesso, come per guarire non basta all’infermo sapersi malato e desiderar la salute. Medici arditi e sapienti si vogliono che operino coraggiosamente e impongano al malato la quiete la fiducia la pazienza. Per sanare i guasti d’un dispotismo canceroso e immorale, nulla di meglio che una dittatura vigorosa e leale. S’anche taluni torcessero il naso a questa opinione, la storia risponde loro trionfalmente coi suoi argomenti veramente filosofici e invitti, che si chiamano necessità. Odiar le dittature si può, ma bisogna sopportarle; bisogna, come castigo ed espiazione. I legislatori del secolo passato che dopo il trafugamento di Pio VI si tolsero di dare una costituzione alle Romagne, ebbero sulle spalle a mio credere il peso più imponente che dorso politico abbia mai tentato di sollevare. S’accasciarono sotto; ma chi sarebbe stato ritto?... Cesare forse con trenta legioni, senz’altri amminicoli legali.

Dopo il sollevamento generale del contado, l’esercito quasi tutto raccolto in Roma fu sperperato a pattuglie a guarnigioni a rinforzi nelle varie cittaduzze e altri luoghi murati delle Romagne. Fummo assieme pochi giorni con Lucilio con Amilcare con Giulio; e con essi visitai le belle cose di Roma e dei dintorni; ma quando avvenne il frastagliamento dell’occupazione militare, Giulio ed Amilcare furono mandati a Spoleto, io e Lucilio restammo nel Castel Sant’Angelo. La mia legione aspettava sempre il suo capitano che tardava a giungere da Firenze; ma forse non si dava fretta perché la pochezza delle forze francesi e le grandi fortificazioni interne di re Ferdinando non lasciavano lusinga per allora d’una guerra napoletana. Per poltrire in un seggiolone, com’è il destino del soldato in tempo di pace, tanto valeva un caffè di Firenze come quelli tutti di Roma. Almeno io spiegava così la tardanza del Carafa. Intanto continuava con Lucilio a godermi le belle antichità di Roma e a studiarne la storia coll’aiuto dei monumenti. Era l’unico svagamento che mi restasse contro lo sconforto che mi aggravava sempre più per le mancanti notizie di Venezia. Mia sorella e il cognato scrivevano; perfino mio padre scrissemi per mezzo loro da Costantinopoli che attendessi a sperare e a prepararmi; erano scarsi aiuti, nessuno sapeva darmi contezza della Pisana neppur per sospetto o per conghiettura. Udiva anzi che a Venezia si trattava di ventilare la sua eredità, segno che la credevano o la speravano morta; e questa faccenda nella quale ravvisai la crudele avidità della Contessa non vi so dire in qual furore mi mise. A questo s’aggiungevano i disinganni politici che cominciavano a tempestare. Le mutazioni imposte agli Statuti cisalpini da Trouvé ambasciatore di Francia coll’aiuto delle baionette francesi, davano a divedere di qual lega fosse la libertà concessa alle repubbliche italiane. Securi contro l’Austria per la pace già stabilita, vollero stringer il freno, per aver più pronta la direzione delle cose. Si tornava a mutare per cambiar poi di nuovo, soldatescamente tirannicamente sempre. Tantoché le menti più forti ed illuminate si separarono da quel governo servile d’un altro governo pazzo e capriccioso, e fra i diversi combattenti, fra i varii partiti stranieri, cominciarono non a fare ma a sperare da sé. Nell’esercito cisalpino furon molti di cotali uomini indipendenti; principali Lahoz, Pino e Teulliet. Noi subalterni e gregarii secondavamo, come è solito, le opinioni dei capi; e un odio sordo una profonda diffidenza contro i Francesi preparava sventuratamente il terreno alla nuova invasione austro-russa.

Quando Dio volle arrivò il Carafa da Firenze, ma irto ringhioso severo quanto mai. Egli si fregava sempre colla mano quella cicatrice che aveva sul sopracciglio ed era pessimo segno. Il peggio poi si fu che volendo egli, se non poteva assaltar Napoli, accostarsi almeno al confine napoletano, tolse la sua legione e me con essa da Castel Sant’Angelo e ci mandò a stanziare a Velletri, una cittaduzza campagnuola, quali se ne vedono tante nella campagna di Roma, pittoresca di fuori, orribile sozza puzzolente di dentro: piena il giorno d’aratri, di carri, e di mandre di buoi e di cavalli che vengono e vanno; la notte ricreata dal muggir delle vacche, dal canto dei galli, e dalle campanelle dei conventi. Un vero sito da ficcarvisi un poveruomo per guarirlo dalla malattia dei bei paesi e dei larghi orizzonti. Il Carafa alloggiava fuori di città in un convento saccheggiato dai repubblicani francesi, dov’egli avea mandato innanzi da Roma quanto bisognava per renderlo, se non splendido, almeno commodo ed abitabile. Poche guardie lo difendevano; e un paio di cannoncelli da campagna tirati da muli. Nelle intime stanze nessuno poteva penetrare fuori del suo cameriere, che nella legione aveva voce di mago. Del resto le pastorelle che giravano pei dintorni, e quelle che recavano il latte al convento, dicevano di aver veduto alla finestra una gran bella signora: e doveva essere l’amante del signor Ettore. Gli altri soldati più antichi di me al suo servizio che l’aveano sempre veduto continente come uno che non ha tempo di pensare a simili freddure, non credevano a tali baie; e novellavano piuttosto che quella fosse una maga, o una qualche principessa napoletana ch’egli voleva mettere al posto della regina Carolina.

I luoghi possono molto sull’immaginazioni della gente: e i dintorni di Velletri inspirerebbero ad ogni sano intelletto stregonerie e fiabe, come i pascoli e le cascine del Lodigiano inspirano gli elogii del cacio e della pannera5. Io solo forse mi serbava alieno da tali gotiche credenze, sapendo benissimo che si può durare un bel pezzo nella continenza, e sfrenarsi poi a farne una per colore con tutta la ghiottornia di chi fu digiuno per un pezzo. Ad esempio vi recherò Amilcare, il quale raccontava di non aver assaggiato vino infino ai vent’anni; dai vent’anni in su nessuno ne beveva tanto quanto lui. Lo stesso caso poteva esser succeduto al Carafa. Or dunque io credeva più ad un genuino e fiero innamoramento che a qualunque stregheria, e sopra ciò fra me ed i compagni correvano frequenti alterchi e perfino scommesse. Dopo la mia separazione da Lucilio mi era fatto così burbanzoso e intrattabile che poco ci voleva a farmi saltare la mosca al naso: diedi dei capi guasti e dei credenzoni a chi vedeva dappertutto meraviglie e magie. Fui rimbrottato come uomo migliore a parole che a fatti; ed eccomi nella necessità di dimostrar loro che non era vero. D’altra parte il martello continuo che mi pestava di dentro e la noia di quella vitaccia poltra e bestiale mi rendevano incresciosa la quiete e mi congratulai d’aver trovato un appiglio a muovermi, a fare non foss’altro delle corbellerie. Il capitano aveva proibito, pena la vita, che ufficiali o soldati, fuor quelli di fazione, s’avvicinassero al convento, ove avea fermato il quartier generale. Quel luogo era vicinissimo al confine; il nuovo esercito napoletano, per formar il quale s’eran tassati perfino i preti e le monache, s’addensava ogni giorno più nei finitimi confini dell’Abruzzo; qualche avvisaglia poteva nascere anzi era già nata più per impazienza dei gregarii, che per deliberato volere dei capi; non voleva il Carafa che col disperdersi la legione da quella parte s’incontrasse qualche spiacevolezza affatto fuori di tempo. Ma questi dettami di prudenza sconcordavano assai dalla solita temerità, e il vero si era ch’egli non voleva occhi importuni intorno al convento. Io giurai ai miei compagni che sarei andato, che avrei veduto, nascesse quel che poteva nascere, e una sera di domenica fu scelta pel gran cimento.

Il mio disegno era questo: di dar una voce d’allarme alla guarnigione del convento, e di girar le mura e penetrare nell’orto per la cinta ruinosa del medesimo mentre tutti avrebbero badato al luogo donde si aspettava il nemico. Quella sera per esser festa il grosso della truppa era sparpagliato per le bettole di Velletri; e grandi scompigli non potevano nascere. L’inganno si sarebbe scoperto, ed io avrei fornito il fatto mio prima che gli ufficiali avessero raccozzato le loro schiere. ll Carafa, uscito certamente per dar gli ordini, non poteva vedermi, le altre persone del convento, qualunque si fossero, certo non conoscevano me; e l’unico pericolo, abbastanza grande per verità, si era ch’io fossi scoperto nello scappar fuori del convento; ma la scusa non mancava di esser penetrato per salvarmi da una scorreria di cavalli napoletani. Credessero o no, non me ne importava; e dovessi anche pagare quel capriccio a prezzo di sangue, aveva promesso e voleva mantenere.

Infatti verso il cader del sole, pigliando argomento da un gran polverio che si vedeva sorgere rimpetto al convento dalla parte della montagna (ed erano forse mandre che scendevano), io e alcuni de’ miei compagni interessati nella scommessa, fingendoci sorpresi in una bettola vicina, corsimo fino alla prima scolta gridando che si avanzavano i Napoletani, e che dessero il segno mentre noi salivamo di gran fretta a Velletri ad ordinare il resto. In pochi momenti la piccola guarnigione fu pronta, perché il Carafa prevedendo simili casi aveva immaginato un’imboscata sul lato sinistro della strada, e non lasciò così che una sentinella o due intorno al monastero, divisando che l’era sempre a tempo a ritirarvisi, e che il grosso della legione scendendo intanto da Velletri avrebbe preso il nemico fra due fuochi. Mentr’egli disponeva la sua piccola schiera in catena sopra certe colline coronate di cipressi e di lauri che fiancheggiavano la strada, e in mezzo ad essi attendeva a collocare i due cannoncelli colla solita antiveggenza ed operosità che non si riscontravano in altri che in lui, io e i miei compagni ridendo allegramente di quel parapiglia con un breve giro per la campagna ci ridussimo alla parte posteriore del convento dove l’orto combaciava quasi colla maremma. Essi stettero osservando; io scavalcai lievemente il muro; e via per mezzo all’orto dove i cavoli in semenza e il verziere abbruciato dal sole attestavano la non finita quaresima dei proscritti cappucini. Quando fui giunto al fabbricato del convento, spiai le finestre e la porta per trovare un buco da entrarvi; ma era faccenda più disagevole di quanto m’avea figurato. Le finestre erano munite d’inferriate solidissime, e le porte d’imposte di acero che avrebbero resistito ad una catapulta. Mi trovava, come si dice, a Roma, e non potea veder il Papa. In quella vidi lì presso fra alcuni alberi una scala a piuoli che avea dovuto servire all’ortolano dei frati per dispiccar le pesche, e pensai che gli aditi del piano superiore non erano forse così gelosamente guardati come quelli del terreno. Adattai la scala e mi misi alla prova. Le imposte infatti della prima finestra che tentai, erano solamente accostate senza alcuna sicurtà di chiavacci o di sbarre. Le apersi pian piano. Vidi ch’era una specie di guardaroba cambiata dal signor Ettore in armeria, e buttai dentro una gamba. Ma mentre stava per passar coll’altra, un romore uno scalpito un gridio udito poco lontano mi fece restar sospeso, così com’era, a cavalcione del davanzale. Sullo stesso muro da me scavalcato vidi sorgere un cappello a tre punte, indi un altro e un altro ancora. Era gente che aveva gran fretta di entrare, e pareva più disposta a fracassarsi il capo precipitando dalla muraglia nell’orto, che a restare dall’altra parte. Uno di essi giunto al sommo s’apprestava a discendere, quando tuonò come un’archibugiata; egli stese le braccia, e giù come un vero morto. Intanto quelli ch’eran già passati la davano a gambe traverso i cavoli; li ravvisai pei miei compagni, e non li ebbi conosciuti appena, che sul solito muro cominciarono a sorgere altri capèlli, e dietro i capèlli altre teste e braccia e gambe che non finivano più. Ne calava uno e ne sorgevan dieci; una vera invasione, la vera piaga delle locuste che oscuravano l’aria.

– I Napoletani! i Napoletani! – gridavano i miei compagni arrivati sotto al muro e arrampicandosi frettolosamente su per la scala in capo alla quale io sedeva.

– Piano, adagio! – rispondeva io. – Se no vi ammazzerete tutti senza aspettare che vi ammazzino essi.

Infatti la scala con un uomo per ogni piuolo scricchiolava come un pero troppo carico di frutta. Io prudentemente mi era ritirato con ambedue le gambe nella stanza, e credeva fare più che non fossi obbligato col tenerli forniti di buoni consigli.

– Uno alla volta!... Non intralciatevi le gambe gli uni cogli altri!... Non isquassate tanto la scala!

Tutto in un momento un fischio di qua un fischio di là, uno scoppio per l’aria come di quattro o cinque saette che s’azzuffassero, e vicino a me uno scotimento tale che mandò in pezzi i cristalli. Sette dei miei colleghi balzarono nella stanza, uno rimase fuori morto, fortuna che fu proprio morto e non ferito; aggiungendosi l’altro ucciso mentre scavalcava il muro si aveva il conto giusto, che eravamo proprio in dieci. Corbezzoli! non v’avea proprio dubbio; le erano state schiopettate e ferme al loro indirizzo!... Sentiva allora per la prima volta l’odor della polvere. A me la fece l’effetto d’una convulsione di riso, come di chi l’ha scappolata bella. Peraltro non vorrei giurare che non avessi nulla, proprio nulla di paura: almeno mi si lasci il vanto della sincerità. Tuttavia se ebbi paura, non ne ebbi tanta che mi vietasse di tornar alla finestra e far un certo gesto molto espressivo a quei scuriscioni6 napoletani, che guardavano in alto senza poter seguirci per aver noi ritirato con molta bravura la scala. Quel gesto fu il tocco magico che mise l’entusiasmo in petto ai miei compagni; ma anche i nemici non burlavano, e cominciarono una certa musica coi loro schioppi che non dava gran voglia di affacciarsi al balcone per guardar il tempo. Noi ci eravamo serviti di fucili di coltelli e di pistole in quell’armeria così opportunamente disposta; rendevamo i saluti con tutta compitezza; e mentre essi a noi sforacchiavano i capèlli, noi a loro spalancavamo il cranio e la pancia. Non so se fossero contenti del cambio. Peraltro la continuazione di quella commedia ci dava da pensare. Da dove fossero sbucati quei maledetti Napoletani?... Che il capitano non ne sospettasse nulla? Che essi fossero già in cammino da senno dalla parte della maremma mentre noi gridavamo il falso allarme verso la montagna? Così era successo infatti; e una semplice bizzarria potea costarmi salata a me, a tutta la legione, e dar anche ad uno scherzo ad una bravata l’apparenza del tradimento. Intanto si continuava a schioppettare dall’alto in basso con maggior fortuna che dal basso in alto, quando credemmo accorgersi che i nemici rallentassero non poco della loro vivacità. Qualcuno di noi s’apparecchiava a cantar vittoria e fors’anche a dare addosso a quei pochi ostinati che non volevano ritirarsi e scorazzavano dietro le piante del verziere, quando s’udì sotto i nostri piedi un fragore come d’uno scoppio sotterraneo, e poco stante un correre uno scalpitare nelle stanze terrene susseguito da grida da urli da bestemmie e da giaculatorie secondo il pio costume dei Napoletani quando vanno in guerra. Ciascuno di noi fu soprappreso da terrore; mentre i bersaglieri ci tenevano a bada, il grosso degli assalitori avea sfondato una porta con una piccola mina; il convento era invaso; uno contro dieci sarebbe stato vano il pensiero di resistere. Io allora, che mi sentiva nella coscienza tutto il rimorso di quella malaugurata fazione, mi slanciai coraggiosamente alla testa dei compagni. Poche parole, un pronto e buon esempio, e capii che mi avrebbero secondato a dovere.

– Amici, vadano le nostre vite, ma non cediamo il piano superiore!... Pensate all’onor vostro, all’onore della legione!... – Così dicendo m’era gettato fuori della guardaroba, e giunto sulla scala m’era ingegnato a barricarne la porta con armadi con tavole ed altri mobili che potemmo raccozzare. I Napoletani salivano sicuri, ma trovarono tra le fessure alcune bocche di moschetto ben appostate che li fecero dar indietro gli uni sugli altri.

– Coraggio, amici! – soggiunsi – un soccorso non può tardare!... – Infatti mi pareva impossibile che al romore delle archibugiate il signor Ettore non ispicasse taluno a vedere di che si trattava. Non mi sarei mai figurato che quel giorno appunto fosse destinato alla prima mossa dell’esercito napoletano, e che egli fosse da parte sua molto affaccendato a tenerne lontani gli scorridori, perché la legione avesse campo di uscir da Velletri. Ad ogni modo ci adoperammo tanto bene dietro il buon riparo d’una doppia porta di quercia che i nemici dimisero affatto il pensiero di salire per la scala. Ci avvidimo peraltro ch’essi lo avevano dimesso per entrare in un altro più pericoloso ancora; pareva che avessero appiccato il fuoco sotto i nostri piedi; il fumo pei fessi del solaio penetrava nell’andito ove eravamo e ci toglieva il respiro; poco dopo cominciarono a crepitare le travi, e le fiamme a farsi strada tra i mattoni arroventati. – Fuggimmo a precipizio nelle stanze vicine, e un minuto dopo quel pavimento crollava con fracasso spaventevole. Ma anche nelle altre stanze la sicurezza non era maggiore; l’incendio s’era dilatato in un attimo, perché c’erano sotto appunto i magazzini della paglia; bisognava uscire o rassegnarsi a morire abbrustoliti. I miei compagni con pistole fra mano e la spada fra i denti si precipitarono dalle finestre, e sgominando per la sorpresa i pochi nemici distratti dalla vista dell’incendio, si ritrassero a salvamento sulla collina. Uno solo, inciampato nel cadere, si slogò e si ruppe una gamba, benché il salto da quella parte fosse discretissimo; e subito quei sicarii gli furono addosso come lupi ad un agnello, e a dirvi le torture e gli strazii che gli fecero soffrire, sarei tacciato senza fallo di bugiardo, perché sembrerebbe impossibile che tanto si infierisse contro una creatura umana in un attimo di tempo. Io mi ritrassi raccapricciando; pure una forza sovrumana mi comandava di non fuggire; mi relegava fra quelle muraglie già invase dalle fiamme. Altre creature vi erano chiuse, non sapeva chi; ma bastava perché io, cagione innocente di quell’eccidio, mi sacrificassi ad una lontana lusinga di poterle salvare. Correva come un pazzo pei lunghi corritoi, passava da porta a porta per le innumerevoli celle e pei profondi appartamenti del chiostro; l’aria si riscaldava sempre più come d’un forno in cui si rattizzi mano a mano la fiamma. Dappertutto era solitudine e silenzio; solo gli urli di fuori e un lontano strepito d’archibugiate aggiungeva terrore a quegli angosciosi momenti. Deliberato a tentare la fuga se prima non era ben certo che anima umana non restasse in quell’inferno, mi avventurai a un disperato passaggio sopra quell’andito il cui pavimento ci era quasi crollato sotto ai piedi. Restavano alcuni travi fumiganti e da un lato della muraglia una specie di volta che copriva una scala sottoposta. Passai correndo sopra questa, e mi diedi a vagare dissennato per quell’altra parte dell’edifizio. Giunsi ad una porta chiusa che non avrebbe resistito certamente all’urto di due braccia animate come le mie dalla disperazione. Tuttavia gridai prima angosciosamente: – Aprite, aprite! – Mi rispose uno strido che mi parve di donna, e in pari tempo una palla di pistola, uscita da un traforo dell’uscio, mi passò rasente le tempie e andò a conficcarsi nel muro dirimpetto.

– Amici! amici! – io gridai. Ma nuove strida soffocarono la mia voce, e un nuovo colpo di pistola partì dalla porta che mi sfiorò un braccio e me ne fece zampillare il sangue.

Io diedi entro disperatamente coll’una spalla in quella porta, deciso a salvarli anche loro malgrado se erano amici, a farmi uccidere se nemici. L’uscio cadde in pezzi, e affumicato sanguinoso colle vesti arse e stracciate io mi precipitai in quella stanza che parvi certamente un dannato. Rovesciai nel mio impeto una donna che correva qua e là per la stanza colle palme levate al cielo o accapigliate nelle treccie come ossessa dalla paura. Un’altra donna mi fuggiva dinanzi, e parve disposta a volersi salvare precipitandosi dalla finestra; ma io fui più presto a raggiungerla, e la cinsi delle mie braccia mentre appunto il suo corpo spenzolava dal davanzale. Le vampe che uscivano dal piano sopposto le incenerirono i capelli, due o tre arcobugiate salutarono la nostra apparizione alla finestra, io la sollevai per ritrarla da quella posizione così pericolosa dicendole che era amico, accorso per salvarla, che non temesse o eravamo perduti... Il suo volto, bello d’una sublime disperazione si volse precipitosamente... Io fui per cadere come colto da una palla nel petto... Era la Pisana! – La Pisana... Mio Dio! Chi potrebbe esprimere la tempesta che mi si sollevò allora nel cuore?... chi può dar un nome a ciascuna di quelle passioni che me lo sconvolgevano? – L’amore, l’amore fu la prima, la più forte, la sola che raddoppiò la virtù del mio petto, e diede all’animo mio un’audacia invincibile!

La sollevai sulle spalle, e via con essa tra le fiamme, tra i solai scricchiolanti, le mura rovinose, e il rimbombo delle volte crollanti!... Scesi sul dinanzi dove le vampe lasciavano ancora un passaggio; ma da destra e da sinistra sentiva da un’aria infocata affogarmi alla gola. Un ultimo sforzo! Chi dirà mai ch’io cada con un tal peso sulle braccia?... Chi dirà mai ch’io abbandoni alle fiamme queste belle membra ch’io ammirai tante volte come l’opera più perfetta della natura, e questo volto incantevole dove la generosa anima sua trapela lampeggiante, come la folgore tra le nubi!... Io avrei traversato un vulcano senza paura di allentar d’un capello la stretta con cui cingeva quel corpo prezioso e quasi esanime. Foss’ella morta, e io sarei morto io pure per poter pensare nell’istante supremo: Son caduto per lei e con lei!... Timori, sospetti, gelosie, vendette che mi avevano gonfiato il cuore un istante s’erano dileguati; l’amore era rimasto solo, colla sua fede che rinasce dalle ceneri come la fenice, colla sua forza che vince la stessa morte perché la disprezza e l’obblia.

Colla Pisana in collo, colla disperazione nel cuore, la minaccia più spaventosa negli occhi, rotando forsennata una spada sgominai una fila di nemici che si scaldava spensierata all’incendio del convento. Mi ricordo aver traveduto fra essi un frate che pregava il cielo e arringava devotamente i soldati. Era il Priore del convento che avea guidato i soldati della Santa Fede a quella tremenda vendetta; egli diceva che i nemici della religione erano rimasti arrostiti nel proprio unto. Ma l’ultimo di questi invece, non nemico della religione ma dei fanatici che le mettono l’armi alla mano, sfuggiva miracolosamente al loro furore. Se Dio guardava in quel momento sopra Velletri, certo che i suoi favori furono per la Pisana e per me. Sempre correndo giunsi alle colline dov’era disposta l’imboscata del Carafa, ma là le sorti del combattimento erano state ben diverse. Incontrammo i più indiavolati dei legionarii che dopo aver ributtato i Napoletani fin nelle gole della montagna, tornavano per voltarsi contro gli incendiatari del convento. Ettore stesso, che solo in quel momento avea ricevuto l’annunzio di quanto avveniva alle sue spalle, si precipitava colà alla testa de’ suoi, incerto se sarebbe giunto in tempo, certo che la difesa o la vendetta sarebbero state tremende e irresistibili al pari. Io mi nascosi fra i lauri di quella costiera finché fu passato; ma poi ne ebbi pietà, e fermato un caporale che gli teneva dietro con un nuovo drappello raccozzato a Velletri, lo incaricai di dirgli che colei ch’egli sapeva era già in salvo nella città. Infatti, mossi ancora alcuni passi e imbattutomi in due de’ miei soldati, consegnai loro la Pisana perché la portassero; quanto a me era proprio sfinito e durai fatica a tener dietro fino sul monte che porta sulla cima Velletri. Colà arrivato, la acconciai nel mio letto, le feci aprir la vena da un barbiere lì presso, e finch’ella rinveniva, per toglierle la commozione della sorpresa, uscii sopra un loggiato che prospettava la campagna. Si vedeva il convento simile in tutto ad un gran rogo, le fiamme rossastre e fumose si disegnavano sempre meglio sopra il cielo che s’imbruniva, e al loro tetro bagliore si vedevano luccicare le baionette dei legionarii che premevano alle reni i fuggiaschi napoletani. La battaglia era vinta e tristi presagii circondavano il primo ingresso dei liberatori nei confini della Repubblica Romana.

Quando rientrai, la Pisana s’era già posta a sedere sul letto e mi accolse con minor confusione di quanto mi sarei aspettato. Fu anzi ella la prima a parlare, il che mi sorprese assai per l’economia di fiato ch’ella usava fare anche in momenti d’assai meno scabroso discorso.

– Carlo, – mi diss’ella – perché non mi hai lasciato dov’era?... Sarei morta da eroina e a Roma mi avrebbero messa nel nuovo Panteon.

Io la guardai esterrefatto, giacché quelle parole mi sapevano di pazzia; ma ella mostrava ragionare col suo miglior senno, e dovetti rispondere a tono.

– Lasciando te avrei dovuto restare anch’io! – soggiunsi con voce tanto commossa che stentava a tirar innanzi. – Ti giuro, Pisana, che sul primo momento che ti ravvisai ebbi una gran voglia di ucciderti e di morire!

– Oh perché non lo hai fatto? – gridò ella con tale accento del quale mi fu forza riconoscere la sincerità e la disperazione.

– Non l’ho fatto... non l’ho fatto, perché ti amo! – le risposi colla fronte china come chi confessasse una propria vergogna.

Ella non fu per nulla umiliata da quel mio cipiglio; anzi levando fieramente le ciglia, come una vergine offesa:

– Ah mi ami, mi ami!? – sclamò. – Empio, traditore, spergiuro! Che il cielo ascolti le tue menzogne e te le faccia colare in gola mutate in piombo rovente!... Tu mi hai calpestato come una schiava, mi hai ingannato come una scimunita; e al mio fianco, fra le mie braccia stesse, meditavi il tradimento che hai consumato!... Oh felice te! felice, che un uomo s’interpose fra te e me!... ch’egli tolse di mano a me la vendetta, e me ne porse un’altra che forma la mia vergogna, il mio tormento d’ogni giorno, d’ogni minuto! Altrimenti sul seno stesso della tua druda t’avrei piantato un pugnale nel cuore; e aveva tanta forza in questo mio braccio che d’un colpo solo v’avrei annientati ambidue!... Va’ ora, va’!... godi della mia umiliazione, e del tuo trionfo!... Mi hai salvato la vita!... Il generoso sei tu... Alla prossima decade avrai una corona civica intorno alle tempia; ma io, io sarò tanto imperterrita da rifiutare la feccia di quel calice disonorevole che mi si vuol imporre! Avrò il coraggio di sfidare quell’amor furibondo cui mi sono rabbiosamente venduta!... Sono sei mesi ch’io lo schernisco, ora lo sbeffeggierò!... Vendetta per vendetta!... Una pugnalata di sua mano recherà a me la morte, ed al tuo cuore pusillanime un rimorso senza fine!...

Udirmi maledire in tal modo da colei che m’aveva tradito così orrendamente, alla quale io avea serbato una fede candida un amore costante, e pur allora l’aveva provato coll’esporre la mia vita nel salvare la sua, per quanto il modo ed il luogo dove la trovava dovessero inviperire la mia rabbia, e convertir l’affetto in furore, vederla furibonda e sdegnosa contro di me, mentre l’aspettava umile e tremante, fu un cotal colpo che mi lacerò le viscere. L’ira mia si sollevò fino contro Dio, il quale permetteva che l’innocenza fosse maltrattata così indegnamente, e che il vizio armato di fulmini si godesse di atterrirla dall’alto del suo trono di vergogne.

– Pisana, – gridai con voce soffocata e travolta da singhiozzi – Pisana, basta! non voglio, non posso più ascoltarti!... Le parole che ora pronunciasti sono più vili più oscene dei tuoi tradimenti!... Oh non istà a te, non istà a te l’accusarmi!... Mentre mi confessi il delitto più mostruoso che l’amante possa commettere contro l’amante, hai ancora la crudeltà e la baldanza di pascerti delle lagrime, di godere de’miei tormenti, e di fingerti offesa e vituperata per minacciarmi una vendetta più sanguinosa, ma pur sempre meno indegna di quella che hai già consumato contro di me!... Taci, Pisana; non una sola parola di più: o io rinnego quanto v’è ancora di giusto di santo al mondo; io mi strappo dal petto l’onore e lo butto ai cani come un abbominio!... Sì, rinnego anche quell’onore bugiardo che soffre quaggiù la vergogna dovuta agli spergiuri senza rispondere con uno scoppio di vulcano a sì sfrontate calunnie!

La Pisana si strinse la fronte colle mani e si mise a piangere; indi improvvisamente balzò dal letto, ove l’avevano adagiata vestita com’era, e fece motto di voler uscire dalla stanza; io la trattenni.

– Dove vuoi andare ora?

– Voglio andare dal signor Ettore Carafa: conducimi tosto dal signor Ettore.

– Il signor capitano sarà ora occupatissimo nel dare la caccia ai Napoletani, e non ci sarebbe tanto facile trovarlo; d’altronde egli fu avvertito del tuo salvamento e non può fare che non ti raggiunga appena lo potrà.

Queste ultime parole io le condii d’un discreto sapore d’ironia, ond’ella inalberandomisi dinanzi:

– Guai a lui, o guai a te! – sclamò con atto profetico.

– Guai a nessuno, – io le risposi con fronte sicura – guai a nessuno; pur troppo!... Io sarei ben fortunato di poter uccidere taluno!...

– Perché non uccidi me? – uscì ella a dire con molta ingenuità.

– Perché... perché... perché... sei troppo bella... perché mi ricordo che fosti anche buona!

– Taci, Carlo, taci!... Credi che verrà presto il signor Ettore?

– Non te lo dissi?... Appena potrà!...

Ella tacque allora per lunga pezza, e al dubbio chiarore della luna che entrava dalla loggia vicina, vidi che molti e varii pensieri le traversavano la fronte. Ora fosca, ora raggiante, ora tempestosa come un cielo carico di nuvole, ora calma e serena come il mare d’estate; si componeva talvolta all’attitudine della preghiera, poco dopo stringeva il pugno, come avesse in mano uno stilo e ne ferisse a più riprese un petto abborrito. Colle vesti discinte, brutte di sangue e di polvere, coi capelli semiarsi e scarmigliati, colle sembianze scomposte dalle vicende terribili di quella mezza giornata, ella poggiava il gomito sulla tavola, e la fronte sulla mano affumicata e sanguinosa pur essa. Sembrava qualche negra pitonessa uscita dall’Erebo allora e meditante gli spaventevoli misteri della visione infernale. Io non osava rompere quel tetro silenzio, aveva anch’io bisogno di raccogliermi e di pensare, prima di provocare le rivelazioni della tetra Sibilla. La storia del cuor suo e quella della sua vita dopo la mia partenza si illuminavano a sprazzi nella mia atterrita fantasia; ma aveva ribrezzo di guardare, sentiva che pel momento era uno sforzo superiore alle mie forze. Se taluno mi avesse detto: a prezzo di farti stupido io prometto convincerti della innocenza della Pisana, certo io avrei accettato il contratto.

Indi a un’ora circa il signor Ettore Carafa solo, accigliato, entrò nella stanza. Non aveva capèllo, ché l’aveva perduto nella mischia, cingeva il fodero senza spada perché l’aveva spezzata nel cranio d’un dragone dopo avergli segato l’elmo per mezzo alla cresta; la sua cicatrice s’imbiancava d’un pallore quasi incandescente. Salutò, si mise tra me e la Pisana, e aspettò che alcuno di noi parlasse. Ma la Pisana non lo lasciò aspettare a lungo, ché con fare superbo e stizzosa gli domandò che ripetesse la storia de’ miei amori colla bella greca; e narrasse la cosa ingenuamente come l’aveva narrata a lei. Il Carafa infatti, chiestone a me licenza, narrò senza scomporsi quello che aveva saputo di tali amori nei crocchi di Milano, e della bellezza della giovane, e della gelosia con cui la teneva nascosta agli occhi di tutti.

– Ecco, Pisana, cosa vi narrai – conchiuse egli – quando appena giunta a Milano veniste da me a chiedermi se nulla sapeva di Carlo Altoviti mio ufficiale e degli amori suoi che facevano tanto chiasso appunto pel loro mistero. Narrando ciò, non facea che ripetere la voce di tutti, e ne andava certamente illeso l’onore di colui ch’era l’eroe di quei tali amori. Ho fallato?... non mi pare!... di null’altro debbo render conto a nessuno!

La Pisana parve soddisfatta abbastanza di questa temperatissima aringa7 del Carafa, e si volse a me, come il giudice al reo dopo la deposizione d’un testimonio irrefragabile.

– Pisana, perché mi guardate a quel modo? – soggiunsi.

– Perché? – diss’ella – perché vi odio, perché vi disprezzo, perché vorrei potervi fare più onta che non vi feci col buttarmi nelle braccia d’un altro...

Io inorridii di tanto cinismo; ella se n’avvide e si contorse tutta come uno scorpione toccato da una bragia. Si pentiva d’essersi mostrata qual era, veramente diabolica ed insensata in quel momento di rabbia.

– Sì, – riprese ella – guardami pure!... io posso amare un uomo ogni giorno, quando tu giuravi di amar me, e macchinavi già di rapire l’Aglaura!...

– Insensata! – gridai. Corsi al mio baule, ne trassi alcune lettere di mia sorella, e le buttai sulla tavola dinanzi a lei. – Un lume! – ordinai poi sulla porta; ed avutolo lo posi vicino alla Pisana, e le dissi: – Leggete!... La fortuna mi aiutava col lasciarle ignorare ch’io non conosceva la mia parentela colla Aglaura quand’eravamo fuggiti da Venezia; avvisai utile il lasciarlelo ignorare anch’io, per non inviluppare piucchemai i mille particolari di quella scena dolorosa e malagevole. Ella lesse due o tre di quelle lettere, le passò ad Ettore dicendo: – Leggete anche voi! – e mentr’egli le scorreva in fretta dando segno di maraviglia e di dispiacere, ella andava dicendo fra i denti: – Mi hanno tradita!... È stata una congiura!... Maledetti, maledetti!... Li divorerò tutti!...

– No, Pisana, nessuno ti ha tradito; – le dissi io – tu fosti a tradir me!... Sì, tu!... non difenderti!... non invelenirti contro me!... Ma se m’avessi amato davvero, oh io poteva essere spergiuro infame scellerato che mi ameresti ancora!... Lo sai, Pisana, lo sai perché te lo dico?... Gli è perché lo sento. Gli è perché tal quale or sei, mi vergogno il dirlo, io t’amo, io t’adoro ancora!... No, non sgomentirti! Ti fuggirò, non mi vedrai mai più!... Ma lasciami prendere di te questa sola vendetta, che tu sappia di aver fatta l’eterna sventura di quell’uomo al quale potevi essere gioia, conforto, felicità per tutta la vita!..

Carafa aveva scorso intanto alcune delle lettere e me le rese dicendo:

– Perdonate; m’ingannò la voce pubblica, ma non ebbi intenzione d’ingannare.

Una cotal scusa in bocca d’un tal uomo mi commosse a segno che a stento frenava le lagrime; infatti io vedeva il grande sforzo indurato dal signor Ettore per poter ottener tanto dal proprio animo. L’alterigia piegava sbuffando sotto la forza inesorabile della volontà. La Pisana piangeva e una doppia vergogna le impediva di rivolgersi al pari al signor Ettore e a me. Questi ebbe compassione, non so bene se di me o di lei, e mi chiamò per qualche momento, diss’egli, fuori della stanza. Mi narrò com’era stato il suo primo abboccamento colla Pisana, com’ella sapendomi ufficiale al suo servizio si rivolgesse a lui per più certa contezza, e che ella era già delirante di gelosia ed egli invaghito di lei al primo sguardo. Insomma mi confessò che, credendomi innamorato morto della mia greca, non aveva creduto illecito il giovarsi di quella fortuna che gli capitava in mano; tanto più soave e desiderata, quanto pochissime volte l’amore era penetrato nel suo duro petto di soldato. Si era perciò ingegnato di volgere a suo pro’ il furore della Pisana, e vi era infatti riescito in quei primi giorni.

– Ma poi – soggiunse egli – non ci fu più verso ch’ella volesse ricordarsi di quei primi giorni d’ebbrezza. A Milano, a Firenze, a Roma mi seguì sempre muta, altera, insensibile; godendo delle mie smanie, rispondendo alle mie preghiere alle minaccie con questa acerba parola: Mi son vendicata anche troppo! – Oh quanto soffersi, Carlo! quanto soffersi! Ve lo giuro che foste vendicato anche voi! Pregava, supplicava, piangeva, faceva voti a Dio ed ai Santi, non mi riconosceva proprio più!... Perfino alla corruzione ricorsi, e tentai coll’oro la sua cameriera, una certa veneziana dalla quale non volle mai separarsi...

– Chi? – sclamai io – come si chiamava?

– L’era una certa Rosa; una disgraziata che avrebbe venduto una sorella per dieci carlini. Ma oggi fu punita spaventosamente di ogni suo trascorso; e l’ho veduta fatta carbone fra le rovine del convento!... Or bene, neppure per l’infame intercessione di colei ottenni nulla; mi era avvilito abbastanza, mi sembra. La tolsi di Roma per menarla qui in questa solitudine, ove avea deliberato di ricorrere anche alla forza per ricondurla a’ miei desiderii!... Vani pensieri, o Carlo!... La forza cade in ginocchio dinanzi ad un suo sguardo!... Io capiva che qualche suprema deliberazione, qualche passione invincibile me l’avea tolta per sempre dopo le concessioni quasi involontarie d’un momento di sorpresa!... Io vi scopersi tutta intera la verità benché non debba esserne gran fatto vanitoso; traetene voi il vostro giudizio, e regolatevi a vostra posta. Il mio quartier generale sarà domani sera a Frascati, perché il general in capo Championnet ha ordinato una ritirata completa sopra tutta la linea. Consultatevi colla Pisana. La mia casa le sarà sempre aperta, perché io non dimentico mai né i favori altrui, né le mie proprie promesse.

Ciò dicendo il Carafa mi strinse la mano senza molta effusione e si ritirò ripigliando il suo fiero cipiglio guerresco; mi parve che nel rilevare il petto e nello scuotere leggermente i capelli, egli gettasse le spoglie del gineceo per rivestire la pelle leonina d’Alcide.

Io rientrai dalla Pisana senza far parola, e aspettava ch’ella m’interrogasse.

– Dov’è andato il signor Carafa? – chies’ella infatti con molta premura.

– Ad ordinare la ritirata sopra Frascati – risposi.

– E pianta qua me?... e non mi dice nemmeno dove va?

– Egli ha detto a me che lo significassi a voi. Vedete ch’egli non manca ad alcuno de’ suoi doveri di cavalleria, e che non si rifiuta dall’osservare gli obblighi contratti con voi!

– Obblighi con me?... lui?... Me ne maraviglio!... Egli non avrebbe altr’obbligo che di rendermi quello che m’ha rubato; ma son cose che non si restituiscono. Infine poi non sarò la prima donna che si sia fatta rispettare senza avere al fianco la spada ignuda d’un paladino!... Favorite chiamare la mia cameriera!

– Vi dimenticate dove l’abbiamo lasciata?... Ella restò vittima dell’incendio!

– Chi?... La Rosa?... La Rosa è morta?... Oh poveretta me, oh disgraziata me! Son io, son io che l’ho lasciata perire a quel modo!... Me ne sono dimenticata quando appunto dovea prenderne maggior cura!... Maledizione a me che avrò sempre sulla coscienza il sangue d’una innocente!

Io mi sforzai a darle ad intendere che essendo ella svenuta in quel parapiglia e bisognevole del mio soccorso per fuggire, non la potea già darsi pensiero né della Rosa né di nessuno. Ella seguitò a lamentarsi, a sospirare a parlare con una volubilità incredibile, senza peraltro far parola più di seguire il Carafa o di volersi partire da sola. Per me avea tanta compassione di lei che l’amor mio non avrebbe sdegnato di tornar umile e carezzevole come una volta, purché l’avesse fatto le viste di desiderarlo.

– Carlino, – mi diss’ella ad un tratto – quando partiste da Venezia voi non sapevate che l’Aglaura fosse vostra sorella, perché altrimenti me l’avreste detto.

– No, non lo sapeva – risposi non vedendo ragione di mentir oltre.

– E tuttavia viveste insieme proprio come fratello e sorella.

– Era impossibile altrimenti.

– E quanto tempo durò questa vostra vita innocente e comune?

– Certo parecchi mesi.

La Pisana ci meditò sopra un pochino, indi soggiunse:

– Se io dormissi qui sopra questa seggiola, Carlo, ve ne avreste a male?

Le risposi ch’ella poteva anche adagiarsi nel letto a sua posta, che io aveva da basso un altro giaciglio ove avrei cercato di pigliar sonno. Infatti si mostrò molto lieta di questa licenza, ma aspettò per approfittarne ch’io fossi disceso dalla scala. E allora, siccome per curiosità mi era fermato ad origliare, la udii dare il chiavaccio alla porta con molta cura di non far romore. L’anno prima a Venezia non avrebbe fatto così, ma dalle precauzioni usate a non farsi intendere capii che tutto era effetto di vergogna.

Il giorno dopo non si parlò più del giorno prima; cosa facilissima per la Pisana che si dimenticava di tutto e difficilissima per me che non costumo nutrir d’altro il mio presente che delle memorie passate. Mi chiese in che modo saremmo partiti, così come se da qualche anno fossimo avvezzi a viaggiar insieme; acconciati alla meglio in un curricolo8, la sua festività naturale mi fece parer brevissima la gita fino a Frascati. L’amore non venne più in ballo, ma un’amicizia come di fratelli, piena di compassione e d’obblio, gli era succeduta. Notate che io parlo dei discorsi e delle maniere; quanto a ciò che bolliva sotto, non vorrei far sicurtà, e alle volte io credetti sorprendermi in qualche movimento di stizza per la dabbenaggine con cui aveva accettato quel tacito e freddo compromesso. La Pisana sembrava beata di esser non dirò amata, ma sofferta da me; così ingenua, così ubbidiente, così amorevole si serbava, che una figliuola non avrebbe potuto esser di meglio. Era, credo, una muta maniera di domandar perdono; ma non l’aveva ella ottenuto? Pur troppo io ebbi sovente quella facilità censurata tante volte in lei di perdonare e dimenticare torti affatto imperdonabili! Tuttavia non ismetteva nulla del mio dignitoso contegno: e a Spoleto a Nepi ad Acquapendente a Perugia in tutti i luoghi dove Championnet condusse l’esercito per raccozzarne le membra sparse ed apparecchiarle meglio alla riscossa, noi menammo la vita di due fratelli d’armi, che hanno goduto la loro gioventù, e danno giù, come si dice, ogni giorno peggio nel brentone del positivo.

Intanto re Ferdinando di Napoli e Mack suo generale entravano trionfalmente in Roma. I Francesi s’erano ritirati per prudenza, e l’esimio generale ne dava invece il merito a suoi complicatissimi piani strategici. La Repubblica Romana era ita a soqquadro come un edificio di carte da giuoco: si stabiliva sotto il patrocinio del Re un governo provvisorio. Ma intanto il barone Mack non istava colle mani alla cintola e complicava sempre più i proprii piani per cacciar Championnet dallo Stato romano e forse forse da tutta Italia. Naselli era sbarcato a Livorno, Ruggiero di Damas ad Orbetello; egli, spartito l’esercito in cinque corpi, s’avanzava sulle due sponde del Tevere. Championnet senza tante complicazioni tempestò ruppe sbaragliò da tergo, sulla fronte, a destra ed a sinistra. Mack imbrogliato nei proprii fili si vide costretto a fuggire. Il suo Re lo precedette sulla via di Caserta e di Napoli; e dopo diciasette giorni di catalessia risorgeva la Repubblica Romana alla sua misera vita. Championnet premeva vittorioso i confini del Regno: Rusca coi Cisalpini, Carafa colla Legione Partenopea scaramucciavano sulla prima fila. Già la rivoluzione mugolava minacciosa alle porte di Napoli.