CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Epopea napoletana del 1799 – La Repubblica Partenopea e la spedizione di Puglia – I Francesi abbandonano il Regno, Ruffo lo invade coi briganti, coi Turchi coi Russi cogli Inglesi – Ritrovo mio padre per vederlo morire e cader prigioniero di Mammone – Ma son liberato dalla Pisana, e mentre il sangue più nobile e generoso d’Italia scorre sul patibolo, noi due insieme con Lucilio salpiamo per Genova ultimo e scrollato baluardo della libertà.

Quel popolo di Napoli che armato in campo erasi sperperato dinanzi ad un pugno di Francesi per la complicatissima ignoranza del barone di Mack, quel popolo stesso abbandonato dal Re dalla Regina e da Acton, rovina del regno; venduto dal vice-re Pignatelli ad un armistizio vile e precipitoso, senz’armi e senz’ordine, in una città vastissima e aperta d’ogni lato, si difese due giorni contro la cresciuta baldanza dei vincitori. Si ritrasse nelle sue tane vinto ma non scoraggiato; e Championnet entrando trionfalmente il ventidue gennaio millesettecentonovantanove, sentì sotto i piedi il suolo vulcanico che rimbombava. Sorse una nuova Repubblica Partenopea; insigne per una singolare onestà fortezza e sapienza dei capi, compassionevole per l’anarchia per le passioni spietate e perverse che la dilaniarono, sventurata e mirabile per la tragica fine.

Non erasi ancora stabilito a dovere il nuovo governo che il cardinal Ruffo colle sue bande sbarcava di Sicilia nelle Calabrie e poneva in grave pericolo l’autorità repubblicana in quell’estremo lembo d’Italia. Alcune terre lo accoglievano come un liberatore, altre lo ributtavano come assassino, e fortunatamente si difendevano, o venivano prese, arse, smantellate. Masnade di briganti capitanate da Mammone, da Sciarpa, da Fra Diavolo secondavano le mosse del Cardinale. Sette emigrati còrsi spacciando l’uno di loro pel principe ereditario avevan bastato per levar a romore buona parte degli Abruzzi; ma i Francesi si opponevano gagliardamente, e ne impiccavano taluni con esempio solenne di giustizia. Non era quella una guerra tra uomini, ma uno sbranarsi tra fiere. Si attendeva in Napoli a rafforzare il governo, ad instillare nel popolo sentimenti repubblicani, a fargli insegnare un vangelo democratico tradotto in dialetto da un capuccino, a dargli ad intendere che San Gennaro era diventato democratico. Ma da lontano strepitavano armi russe di Suwarow e le austriache di Kray accennando all’Italia; la flotta di Nelson, vincitrice di Abouckir, le flotte russe e ottomane padrone delle isole Jonie, correvano l’Adriatico ed il Mediterraneo. Bonaparte, il Beniamino della vittoria, si divertiva a trinciarla da profeta coi beduini e coi mamalucchi; con lui la fortuna avea disertato le bandiere francesi, e il solo valore le difendeva ancora sulle terre straniere ov’egli, fulmineo vincitore, le aveva piantate. Dopo alcuni mesi si avverò quanto si temeva MacDonald succeduto a Championnet fu richiamato nell’alta Italia contro gli Austro-Russi che l’avevano invasa; lasciata qualche piccola guarnigione nel castello Sant’Elmo a Capua a Gaeta, egli dovette aprirsi il passo coll’armi alla mano, tanto la ribellione imbaldanziva oggimai anche sui confini dello Stato romano.

Io m’era abbattuto molte volte in Lucilio in Amilcare e in Giulio Del Ponte durante quella guerra disordinata; ma sempre per pochissimi istanti, giacché le nostre colonne giovavano assai in quelle fazioni per lo più d’imboscata e di montagna, e le adoperavano senza remissione a destra ed a sinistra, sull’Adriatico e sul Mediterraneo. Aveva collocato la Pisana presso la principessa di Santacroce, sorella d’un principe romano ch’era morto alcuni mesi prima ad Aversa difendendo la Repubblica contro l’invasione di Mack. Era tranquillo per lei; il Carafa mi trattava con molta amorevolezza e riponeva in me una speciale confidenza. Null’altra brama aveva, null’altra passione che di veder trionfare quella causa della libertà cui mi era corpo ed anima consacrato. La partenza dei Francesi fu pei repubblicani di Napoli un colpo terribile. S’eran dati attorno assai; ma non quanto sarebbe bisognato per sopperire alla mancanza d’un sì valido aiuto. Lucilio, Amilcare, e il Del Ponte non vollero partire ad ogni costo; e chiesero d’esser ammessi alla legione di volontarii che si formava allora sotto il comando Schipani: il povero Giulio dopo tante marcie, tante guerre, tante fatiche moveva veramente a pietà. In cento azzuffamenti in dieci battaglie egli era ito chiedendo l’elemosina d’una palla che non gli veniva concessa mai. Le forze gli venivano meno giorno per giorno, e raccapricciava all’idea di morire sul pagliericcio verminoso degli ospitali militari d’allora. I due amici lo confortavano; ma con qual cuore!... L’entusiasmo di Amilcare s’era convertito in un rabbioso furore, e la fede di Lucilio in una stoica rassegnazione. Se da cotali sentimenti possono esser ispirate parole di conforto, anche un disperato qualunque potrebbe dar lezioni di pazienza e di moderazione prima di appendersi al laccio.

In quel tempo la colonna di Ettore Carafa fu spedita nella Puglia per opporsi alla ribellione che guadagnava terreno anche in quella provincia. Io partii dopo aver baciato gli amici e la Pisana, forse per l’ultima volta. La presenza di costei a Napoli era nota soltanto a Lucilio; Giulio la sospettava, ma non osava parlarne; Amilcare aveva ben altro a che pensare! Non vedeva che Ruffo, Sciarpa, Mammone, e non li vedeva coll’immaginazione senza strangolarli almeno col desiderio. Quanto alla Pisana, fu quello il primo bacio che ebbe e sofferse da me dopo l’incontro di Velletri; voleva serbarsi fredda e contegnosa, ma quando le nostre labbra si toccarono, né l’uno né l’altra potemmo raffrenare l’impeto del cuore, ed io mi raddrizzai che tremava tutto, ed ella col viso irrigato di lagrime.

– Ci rivedremo! – mi gridò ella da lunge con uno sguardo pieno di fede.

Io risposi con un gesto di rassegnazione e m’allontanai. La principessa di Santacroce, mandandomi pochi giorni dopo alcune lettere capitate per me a Napoli, mi scrisse d’un accesso di disperazione che avea menato la Pisana in fil di morte dopo la mia partenza. Ella si straziava furiosamente il petto e le guancie gridando che senza il mio perdono le era impossibile di vivere. La buona principessa non diceva di sapere a qual perdono alludesse la poveretta, e così circondava di delicatezza le sue cure pietose; ma io non volli essere meno generoso di lei, e scrissi direttamente alla Pisana ch’io le chiedeva scusa del contegno freddo e superbo tenuto secolei negli ultimi mesi; che ben sapeva che quell’affettazione di fraterna amicizia equivaleva ad un insulto, e che appunto per questo reputandomi colpevole le offriva per riparazione tutto l’amor mio, più affettuoso più veemente più devoto che mai. Così sperava ridonarle la pace dell’animo anche a prezzo del mio decoro; di più, fingendo ignorare quanto la principessa m’avea scritto, dava alle mie proteste tutto il colore della spontaneità. Seppi dappoi che quel mio atto generoso avea dato alla Pisana grandissimo conforto, e che si lodava sempre di me alla sua protettrice, dichiarandomi l’uomo più magnanimo e amabile che si potesse trovare al mondo. Se la principessa mi avesse raccontato tante belle cose per cooperare alla nostra piena riconciliazione, ancora io le sarei riconoscente di un grandissimo beneficio. Il soverchio sussiego nuoce verso le donne; e nel trattar con esse bisogna che le virtù stesse acquistino la morbidezza della loro indole. Si può essere fin troppo buoni senza sospetto di viltà o di paura.

Intanto io era giunto in Puglia abbastanza contento di me e delle cose mie. Da Venezia mi davano ottime novelle; l’Aglaura era incinta, il vecchio Apostulos tornato felicemente, mio padre in viaggio per ritornare; e quanto a quest’ultimo che pel momento mi premeva più di tutti, mi si lasciavano travedere delle grandi cose, delle grandi speranze! – Io ci almanaccava dietro da un pezzo; ma solamente da qualche mezza parola di Lucilio avea potuto ricavar qualche lume. Pareva come, che costituiti in repubblica da Milano a Napoli, volessero o fosse intendimento d’alcuni di dare il ben servito ai Francesi, e fare da sé. Perciò si voleva indurre la Porta Ottomana a collegarsi colla Russia e a dare addosso a Francia nel Mediterraneo; da potenze così lontane non temevasi una diretta preponderanza; si intendeva anzi di opporle all’influenza di governi più vicini ed opportuni a stabili signorie. Da ciò venni in sospetto che mio padre si fosse affaccendato in fin allora in quell’alleanza turco-russa che avea fatto maravigliare il mondo per la sua prestezza e mostruosità. Ma cosa volessero cavarne allora appunto che i Francesi sembravano disposti più a ritirarsi che a spadroneggiare, io non lo vedeva davvero. Pareva al mio debole giudizio che la nostra indipendenza appoggiata ai Turchi ed ai Russi avrebbe fatto pessima prova della propria solidità. Ma v’avea gente allora che portava più oltre assai le proprie illusioni e lo si comprenderà meglio dalla morte miserrima del generale Lahoz nelle vicinanze d’Ancona. Intanto fermiamoci in Puglia ad osservare i vascelli turco-russi che dai conquistati porti di Zante e di Corfù si volgono alle spiaggie tumultuanti della Puglia.

Ettore Carafa non era l’uomo delle mezze misure. Giunto dinanzi al suo feudo di Andria i cui abitanti parteggiavano per Ruffo, diede loro assai buone parole di moderazione e di pace. Non ascoltato sfoderò la spada, ordinò l’assalto; e un assalto del Carafa voleva dire una vittoria. Invulnerabile come Achille egli precedeva sempre la legione; valente soldato colla spada col moschetto sul cannone, si mescolava colle abitudini del soldato, e riprendeva a suo grado le maniere di capitano senza dar nell’occhio per soverchia burbanza. Ultimamente alla sua guerriera rozzezza erasi mescolata un’ombra di mestizia: i subalterni ne lo amavano piucchemai, io l’ammirava e lo compiangeva. Ma egli era di quegli uomini che nella propria religione politica trovano un conforto un usbergo contro qualunque sventura; tempre di fuoco e d’acciaio che confondono Dio colla patria la patria con Dio e non sanno pensare a se stessi quando il pubblico bene e la difesa della libertà cingono loro la spada degli eroi. Aveva nella sua grandezza qualche parte di barbaro; non credeva per esempio di onorare la valentia dei nemici perdonando e salvando; giudicava gli altri da sé, e passava a fil di spada i vinti in quei casi stessi nei quali egli avrebbe voluto essere ucciso piuttosto [che] serbato in vita a ornamento del trionfo. Questo splendore antico di feroce virtù e il nome suo potente e famoso in quei paesi gli fecero soggetta in breve tutta la provincia. Egli aveva podestà dittatoria; e se il governo di Napoli avesse avuto altri cinque condottieri simili a lui né Ruffo né Mammone avrebbero rotto a Marigliano sulle porte di Napoli le ultime reliquie dei repubblicani partenopei. Invece il governo si ingelosì stoltamente di Carafa. Era ben quello tempo da gelosie! – Come se Roma avesse temuto della dittatura di Fabio, quando solo ei restava a difenderla contro il vincitore cartaginese! – Si disse che la Puglia era pacificata, che si voleva adoperare efficacemente la sua attività, che nell’Abruzzo, ove lo si mandava, avrebbe avuto campo di rendere servigi importantissimi. Ettore aveva l’ingenuità e la docilità d’un vero repubblicano; non vide che gatta ci covava sotto queste melate parole e s’avviò per gli Abruzzi. Soltanto, siccome gli sembrava che la provincia senza di lui non fosse per rimanere tanto fedele e sicura quanto si figuravano, così di suo capo dispose che io e Francesco Martelli, altro ufficiale della legione, ci stessimo nelle Puglie alla testa d’una piccola guerricciola di bosco che poteva giovar molto contro le insorgenze parziali che avrebbero ripullulato. Egli fidava grandemente in me; e non senza lagrime di riconoscenza e d’orgoglio io noto la fiducia riposta in me da un tant’uomo. Che l’anima sua generosa e benedetta abbia in altro luogo quel premio che quaggiù non ottenne benché lo avesse valorosamente meritato!

Martelli era un giovine napoletano che aveva abbandonato moglie figliuoli ed affari per brandir la spada a difesa della libertà. Ambidue usciti nei campi dal foro, ambidue d’indole mite ma risoluta ci eravamo stretti di fervidissima amicizia fin dalla fazione di Velletri. Egli era stato uno di quei miei compagni che avean scommesso contro di me per la visita del convento; tantoché, siccome quella scommessa era stata d’una cena e d’una festa di ballo per tutti gli ufficiali della legione, e nessuno avea pensato a pagarla, egli si tolse il ghiribizzo di saldare il debito di tutti in Puglia quando a tutt’altro si pensava che a cene ed a feste di ballo. Tornando coi nostri cinquanta uomini dallo aver inseguito alcuni briganti che sotto colore di realisti eran venuti a saccheggiare una cascina poco lontana, trovai una sera il castello d’Andria illuminato, e la gran sala disposta pel ballo e dentrovi buona copia di forosette e di donzelle dei paesi vicini le quali per darsi spasso una sera vollero ben dimenticarsi che noi eravamo repubblicani scomunicati. Martelli m’additò la festa con gesto principesco, dicendo: – Eccoti pagato del debito di Velletri, e avrai anche la cena!... Non si sa cosa possa succedere; domani potremmo esser morti, e ho voluto mettermi in regola. – Morti o non morti il domani, quella sera si ballò di lena, sicché molte volte mi tornò in mente il mio buon Friuli, e quelle famose sagre di San Paolo, di Cordovado, di Rivignano ove si balla, si balla tanto da perderne i sentimenti e le scarpe. Anche i Napoletani e i Pugliesi saltano peraltro la loro parte; e dal sommo all’imo di questa povera Italia non siamo per tanto diversi gli uni dagli altri come vorrebbero darci a credere. Anzi delle somiglianze ve n’hanno di così strambe che non si riscontrano in veruna altra nazione. Per esempio un contadino del Friuli ha tutta l’avarizia tutta la cocciutaggine d’un mercante genovese, e un gondolier veneziano tutto l’atticismo d’un bellimbusto fiorentino, e un sensale veronese e un barone di Napoli si somigliano nelle spacconate, come un birro modenese e un prete romano nella furberia. Ufficiali piemontesi e letterati di Milano hanno l’eguale sussiego, l’ugual fare di padronanza: acquaioli di Caserta e dottori bolognesi gareggiano nell’eloquenza, briganti calabresi e bersaglieri d’Aosta nel valore, lazzaroni napoletani e pescatori chiozzotti1 nella pazienza e nella superstizione. Le donne poi, oh le donne si somigliano tutte dall’Alpi al Lilibeo! Sono tagliate sul vero stampo della donna donna, non della donna automa, della donna aritmetica, e della donna uomo che si usano in Francia in Inghilterra in Germania. Checché ne dicano i signori stranieri, dove vengono i loro poeti a cercare ad accattare un sorsellino d’amore?... Qui da noi: proprio da noi, perché solamente in Italia vivono donne che sanno inspirarlo e mantenerlo. E se cianciano dei nostri bordelli, e noi rispondiamo loro... No, non rispondiamo nulla; perché le grandi prostituzioni non iscusano le piccole.

L’incarico affidato a me ed al Martelli non era dei più agevoli. Avevamo a che fare con popolazioni ignoranti e selvatiche; con baroni duri e ringhiosi peggio che robespierrini se repubblicani, e armati della più maledetta ipocrisia se partitanti di Ruffo; con curati incolti e credenzoni che mi ricordavano con qualche aggiunta peggiorativa il cappellano di Fratta; con nemici astuti e per nulla schifiltosi sulla scelta dei mezzi da nuocere. Tuttavia l’autorità del Carafa nel cui nome si comandava, l’esempio di Trani saccheggiata ed incesa per la sua pervicacia nella ribellione, imponevano qualche riguardo alla gente, e il governo della Repubblica era tacitamente tollerato sopra tutta la costiera dell’Adriatico. Nei paesi meno barbari e dove qualche coltura era disseminata nel ceto mezzano si aveva paura delle bande del Cardinale, e piucché le intemperanze dei Francesi, gli eccidii di Gravina e d’Altamura comandati da Ruffo tenevano gli animi in sospetto. A quei giorni mi potei convincere di quello strano fenomeno morale che nel Regno di Napoli concentra una massima civiltà e una squisita educazione in pochissimi uomini per lo più di nobili o egregi casati, e lascia poltrire le plebi nell’abbiezione dell’ignoranza e delle superstizioni. Difetto di governo assoluto geloso e quasi dispotico all’orientale, che tenendo lontane da sé le menti meglio illuminate le avventa senza freno alle più strambe teorie, e per riparo poi deve appoggiarsi allo zelo fanatico e accarezzato d’un volgo vizioso. Canonici liberali come monsignor di Sant’Andrea e patrizii filosofi come il Frumier se ne contavano a centinaia nelle cittadelle delle Puglie, e di costoro s’afforzava massimamente il partito repubblicano. Ma allora era tempo di menar le mani, e i briganti la spuntavano sui dotti.

Capita un giorno la notizia che le flotte alleate di Russia e Turchia sono in vista della Puglia. Non avevamo precise istruzioni intorno a questo caso, ma il Carafa ci aveva prevenuti di non sgomentirci, perché di poche forze poteva operarsi lo sbarco. Infatti, anziché intimorirci, noi accorsimo a Bisceglie dove pareva tendessero a concentrarsi gli sparsi bastimenti, e là giovandoci del grande spirito degli abitanti e d’alcuni cannoni trovati nel castello si guardò alla meglio d’armare la spiaggia. Avevamo sparso la voce che quelle flotte erano cariche di masnade albanesi e saracine pronte a vomitarsi sul Regno per metterlo tutto a ferro e a fuoco. Siccome l’odio contro la nazione turchesca è tradizionale in quelle regioni, la gente ci spalleggiava a tutto potere. Così s’era tutto disposto a ribattere validamente un primo attacco a Bisceglie quando capitò a spron battuto un messo da Molfetta, sette miglia lontano, che recava d’uno sbarco che si tentava colà, e della grande opera che il popolo faceva per impedirlo. Vedendo le cose di Bisceglie bene accomodate giudicammo opportuno io e Martelli di volger colà dove nessuna provvidenza s’avea presa contro il nemico. Disperavamo di difenderci a lungo, ma volevamo perdere piuttosto la vita che la certezza di aver fatto quanto da noi si poteva per la salute della Repubblica. Lasciammo buona parte della nostra gente a Bisceglie; e noi insellati quanti cavalli si poterono trovare corsimo a briglia sciolta sulla strada. Non so cosa m’avessi quel giorno, ma mi sentia venir meno la costanza e le forze: forse era certezza che la nostra causa era perduta e che non si combatteva omai per altro che per l’onore. Ai presentimenti si vuol credere molto a rilento. Martelli più disperato ma più forte di me veniami riconfortando a non disanimarmi, a non ismetter nulla di quella sicurezza miracolosa che finallora ci avea servito meglio d’un esercito a serbar in fede il contado della Puglia. Rispondeva che si desse pace, che avrei combattuto fino all’estremo, ma che una stanchezza invincibile mi rammolliva di dentro mio malgrado. Circa un miglio fuori da Molfetta cominciammo a veder il fumo ed ad udir lo scoppio delle archibugiate. Si vedeva anche in mare qualche legno che cercava avvicinarsi al porto ma le onde un po’ grosse lo impedivano. Entrati in paese trovammo la scompiglio al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con qualche scialuppa s’eran messi a saccheggiare a massacrare con tanta crudeltà che pareva essere tornati ai tempi di Bajazette.

Io imprecai furiosamente alla barbarie di coloro che davano una sì bella parte d’Italia in preda a quei mostri, e mi avventai con Martelli e coi compagni a una tremenda vendetta. Quanti ne incontrammo tanti furono tagliati a pezzi dalle nostre spade, calpestati dai cavalli, e fatti a brani dalla folla disperata che ci si ingrossava alle spalle. Sulla piazza ove si era già ritratto il maggior numero per riguadagnare le lancie e buttarsi in mare, la carneficina fu più lunga e più terribile. Fu quella l’unica volta ch’io godetti barbaramente di veder il sangue dei miei simili spillar dalle vene, e i loro corpi sanguinosi ammucchiarsi boccheggianti e ferirsi l’un l’altro nelle convulsioni dell’agonia. La folla urlava frenetica e si saziava di sangue; già taluni più arditi s’erano impadroniti delle lancie; ogni scampo era intercetto; l’ultimo di quegli sciagurati venne ad infilzarsi da sé nella mia baionetta; e subito cento mani rabbiose mi contesero lo schifoso trofeo. Molfetta era salva. I nipoti di Solimano avevano imparato a loro spese che non si può senza danno andar nella storia a ritroso: e che Maometto II (ne chieggo scusa alla cronologia) è da essi tanto remoto quanto Traiano da noi. Intanto le strade e la piazza riboccavano di gente che correva alla chiesa per ringraziar la Madonna di quella vittoria. Unitamente alla Beata Vergine del Presidio i nomi dei capitani Altoviti e Martelli per migliaia di bocche erano levati a cielo.

Avendo noi lasciato ordine a Bisceglie che ci si desse premuroso annunzio d’ogni novità, e non vedendosi alcuno e volendo d’altra parte concedere qualche riposo alla nostra gente che oltremodo ne bisognava, ci ritrassimo ad un’osteria per ivi posare fino all’alba. Anche si temeva che acchetandosi il mare nuovi sbarchi di Turchi o di Russi venissero a trar vendetta delle lancie perdute; gli è vero che soffiava uno scilocco2 indiavolato e che da questo lato le precauzioni erano piucché altro soverchie. Cionostante, i nostri accolsero con molto giubilo la proposta di questa brevissima tregua, e i tripudii coi marinai e colle donne del paese ebbero ben presto cancellato dalla loro memoria le fatiche e i pericoli della giornata. Martelli era uscito sul molo con qualche persona autorevole del luogo a speculare il tempo e a disporre le scolte; soletto melanconico io me ne stava nell’androne dell’osteria, coi gomiti sulla tavola, e gli occhi fissi nella lucernetta d’una Madonna di Loreto addossata al muro dirimpetto, o svagati a guardar nel cortile le tarantelle improvvisate sotto il fogliame d’una vite dai nostri soldati. L’allegra vita meridionale riprendeva come niente fosse le sue gioconde abitudini a venti passi da quel piazzale ove il sangue correva ancora, e venti o trenta cadaveri aspettavano la sepoltura. Le mie idee non erano certamente né animose né liete ad onta di quell’effimero trionfo; maladiceva fra me a quel perverso istinto che ci fa vivere più che nelle contentezze di oggi nelle paure dell’indomani, e invidiava la sprovvedutezza di coloro che ballavano e trincavano senza darsi un pensiero al mondo di quello ch’era e di ciò che sarebbe stato.

Così passava da melanconia a melanconia quando un vecchio prete curvo e quasi cencioso mi si avvicinò timidamente, domandando se io fossi il capitano Altoviti. Risposi un po’ ruvidamente di sì, perché una discreta esperienza non mi faceva molto tenero del clero napoletano, ed anco quelli erano tempi che il collare non era presso i repubblicani una gran raccomandazione. Il vecchio non si scompose per nulla alle mie aspre parole, e facendomisi più vicino mi disse d’aver cose importantissime a comunicarmi, e che persona legata a me con vincoli sacri di parentela desiderava vedermi prima di morire. Io balzai in piedi perché la mente mi corse subito a qualche stranezza della Pisana, ed era tanto disposto a veder ogni dove disgrazie che ricorreva subito alle più funeste ed irreparabili. Temeva che avendomi saputo solo nelle Puglie le fosse saltato il ticchio di raggiungermi e che avvolta in quel massacro di Molfetta ne fosse rimasta vittima. Afferrai adunque il braccio del prete e lo trascinai quasi fuori dell’osteria avvertendolo con ciò che se avesse voluto corbellarmi non era io l’uomo disposto a sopportarlo. Quando fummo nel buio d’una contrada solitaria:

– Signor capitano, – mi bisbigliò sommessamente nell’orecchio il prete. – È suo padre...

Non lo lasciai proseguire.

– Mio padre! – sclamai. – Che cosa dice ella di mio padre?...

– L’ho salvato oggi di mezzo a quei furibondi che ci hanno assaltato oggi – soggiunse il prete. – È un vecchio piccolo e sparuto che udendo proclamare il nome del signor capitano ha cominciato a dibattersi sul letto ov’io l’aveva fatto adagiare, e mi ha chiesto conto di lei, e dice e sacramenta ch’egli è suo padre, e che non morrà contento se non giunge prima a vederlo.

– Mio padre! – seguitava io a balbettare quasi fuori di me; correndo più che non potessero tenermi dietro le gambe del vecchio abate. Potete immaginarvi se in quel momento poteva metter ordine ai pensieri che mi stravolgevano la mente! Dopo alcuni minuti di quella corsa precipitosa giunsimo ad una porta fra due colonne che pareva d’un monastero; e il vecchio prete apertala e impugnato un lampioncino che ardeva nel vestibolo, mi guidò fino ad una stanza dove usciva un lamento come di moribondo. Io entrai convulso dalla meraviglia e dal dolore e caddi con uno strido sul letto dove mio padre mortalmente ferito alla gola combatteva ostinatamente colla morte.

– Padre mio! padre mio! – io mormorava. Non aveva né fiato né mente a pronunciare altra parola. Quel colpo era così imprevisto così terribile che mi toglieva affatto quell’ultimo fiato di coraggio rimastomi.

Egli tentò allora sollevarsi sul gomito e vi riuscì infatti per cercarsi colla mano non so che cosa intorno alla cintura. Coll’aiuto del prete si cavò di sotto alle larghe brache albanesi una lunga borsa di pelle, dicendomi con molta fatica che quello era quanto poteva darmi d’ogni sua sostanza e che del resto chiedessi ragione al Gran Visir... Era per soggiungere un nome quando gli uscì dalla gola un largo flotto di sangue e ricadde sui guanciali respirando affannosamente.

– Oh per pietà, padre mio! – gli veniva dicendo. – Pensate a vivere! non vogliate morire!... abbandonarmi ora che tutti mi hanno abbandonato!

– Carlo, – soggiunse mio padre, e questa volta con voce fioca ma chiara perché quell’ultimo sbocco di sangue pareva lo avesse sollevato di molto – Carlo, nessuno è abbandonato quaggiù finché vivono persone che non si devono abbandonare. Tu perdi tuo padre, ma hai una sorella, ignota finora a te...

– Oh no, padre! io la conosco, io la amo da un pezzo. È l’Aglaura!...

– Ah la conosci e la ami? Meglio così! Muoio più contento di quello che avrei creduto... Senti, figlio mio, un ultimo ricordo voglio lasciarti come preziosa eredità... Mai, mai, mai, per cambiar d’uomini o di tempi non appoggiare la speranza d’una causa nobile generosa imperitura all’interesse all’avarizia altrui. Io, vedi, in questa idea falsa inetta triviale consumai le mie ricchezze l’ingegno la vita e ne ebbi... ne ebbi la certezza di aver fallato e di non poter rimediare... Oh, i Turchi, i Turchi!... Ma non biasimarmi, figliuol mio, perché io avessi riposto le mie speranze nei Turchi. Per noi son tutti gli stessi... Credilo!... Io aveva creduto di adoperar i Turchi a cacciar i Francesi, e così dopo saremmo rimasti noi... Sciocco che era!... Sciocco!... Oggi, oggi vidi cosa cercavano i Turchi!...

Ciò dicendo egli pareva in preda d’un violento delirio; invano io m’ingegnava di calmarlo, e di sostenerlo in tal modo che meno dolorasse della sua ferita; egli seguitava a smaniare, a gridare che tutti erano Turchi. Il prete mi avvisava che appunto nell’opporsi alle violenze che gli Ottomani commettevano appena sbarcati sui miseri abitanti, mio padre avea toccato quella tremenda ferita di scimitarra alla gola, e che rimasto sul lastrico quelli del paese lo avrebbero certamente fatto a brani se egli non lo trafugava pietosamente dopo essere stato testimonio di tutta la scena da un finestrello del campanile. Io ringraziai con uno sguardo il vecchio prete di tanta cristiana pietà, e gli dissi anche sottovoce se non ci fossero nel paese medici o chirurghi da ricorrere all’opera loro per qualche tentativo. Il moribondo si scosse a queste parole e accennò col capo di no...

– No, no, – soggiunse indi a poco tirando a stento un filo di voce. – Ricordati dei Turchi!... Cosa servono i medici?... Ricordati di Venezia... e se puoi rivederla grande, signora di sé e del mare... cinta da una selva di navi, e da un’aureola di gloria... Figlio mio, che il cielo ti benedica!...

E spirò... – Una tal morte non era di quelle che rendono attoniti e quasi codardi nel riprender la vita: essa era un esempio un conforto un invito. Chiusi con reverenza gli occhi ancora animati di mio padre; lo spirito suo forte ed operoso lasciava quasi un’impronta di attività su quelle spoglie già morte. Lo baciai in fronte; e non so se pregassi, ma le mie labbra mormorarono qualche parola che non ho poscia ripetuto mai più. Sarei restato lunga pezza in compagnia dell’estinto e dei suoi ultimi pensieri che formicolavano in me, se la sua stessa immagine non mi avesse richiamato a quei sublimi doveri dei quali egli era stato il martire ignoto inconsapevole, errante qualche volta, ferma e incrollabile sempre.

«Padre mio, pensai, tu mi saprai grado che io mi privi del mesto conforto di accompagnarti alla tua ultima dimora per attendere alla salute omai disperata della Repubblica nostra!...»

Parve perfino che sulle sue labbra ariegiasse un sorriso di assentimento. Io mi precipitai fuori della stanza col cuore che mi andava a pezzi. A fatica feci accettare alcune doble al vecchio prete pei funerali e per suffragar l’anima del defunto: indi tornai all’osteria che già il Martelli avea disposto la piccola schiera per la partenza; ed erano molto inquieti di non vedermi comparire. L’alba scherzava sul mare spargendo dalle bianche sue dita tutti i colori dell’iride; ma il scilocco della sera prima aveva lasciato le onde piuttosto sconvolte, e all’orizzonte non si vedeva più né un albero solo di nave. La campana della chiesa chiamava i pescatori alla prima messa, le femminette cianciavano sulla porta dei sofferti spaventi: e qualche mozzo mattiniero inalberando la vela cantava il ritornello della sua barcarola. Nulla, nulla in quella terra in quel cielo in quella vita s’accordava compassionevolmente al lutto d’un figlio che avea chiuso gli occhi al cadavere di suo padre!...

– Dove sei stato?... cos’hai? – mi chiese Martelli piegandosi sulla criniera del suo cavallo.

Io balzai d’un salto sul mio, e cacciandogli gli sproni nel ventre rovinai fuori a galoppo senza rispondergli: per un pezzo ci seguirono gli evviva degli abitanti usciti a salutare la nostra partenza. Si galoppò a quel modo un buon paio di miglia quando il rimbombo vicino del cannone ci fermò di botto in ascolto. Ognuno voleva dire la sua; in quel mentre uno dei nostri che ci veniva incontro a precipizio senz’armi e senza capèllo sopra un cavallo sfiancato dal gran correre, ci tolse la sospensione. Una barca parlamentaria era entrata nel porto di Bisceglie. Gli abitanti vedendo che non erano Turchi, ma sibbene Russi capitanati dal cavalier Micheroux, generale di S. M. Ferdinando, che chiedevano sbarcare solamente per cacciar dal Regno i Francesi rimasti a Capua ed a Gaeta, s’erano messi a gridar Evviva, e a gettar i fucili e a sventolar i fazzoletti. Millequattrocento Russi erano sbarcati e s’avviavano alla volta di Foggia per cogliervi la gente all’epoca della fiera e spaventare ad un punto solo tutta la provincia. Io e Martelli ci consultammo con uno sguardo. Prevenire i Russi a Foggia, e metter la città in istato di difesa, era il piano più ovvio. Volgemmo dunque sulla destra per Ruvo ed Andria; ma all’entrata di quest’ultimo castello fummo circondati da una folla armata e tumultuante. Era una masnada di Ruffo mandata a ricongiungersi coi Russi di Micheroux. Avvistici troppo tardi di esser caduti in quel vespaio ebbimo un bel menar le mani per cavarcela. Il Martelli con diecisette altri giunsero a fuggire; dieci rimasero morti; otto, fra i quali io, tutti più o meno feriti fummo salvati per adornamento alle forche in qualche giorno festivo. Così diceva al paragrafo dei prigionieri il codice militare di Ruffo.

La masnada di cui fui prigioniero era capitanata dal celebre Mammone, l’uomo più brutto e bestiale ch’io mi abbia mai conosciuto, il quale portava molte medagliette sul cappello come la buon’anima di Luigi XI. Trascinato in coda ad essa a piedi nudi, ed esposto a continui vituperii, vagai a lungo per quella Puglia stessa dove aveva regnato cinque o sei giorni prima poco men che padrone. Vi confesso che quella vita mi garbava pochissimo, e che siccome i ferri alle mani ed ai piedi m’impedivano di fuggire, null’altra speranza coltivava che quella di esser alla bell’e prima impiccato. Una sera peraltro mentre giungevamo al feudo di Andria, sede della mia passata grandezza, un pastore mi si avvicinò come per farmi insulto ad usanza degli altri, e dopo avermi detto a voce alta le più sfacciate indegnità che fantasia napoletana possa immaginare, aggiunse tanto sommessamente che appena lo intesi: – Coraggio, padroncino! in castello si pensa a voi! – Mi parve allora ravvisare in esso uno dei più fidati coloni del Carafa; e poi levando gli occhi al castello mi stupii infatti di vederne le finestre illuminate, sendoché pochi giorni prima io l’avea lasciato chiuso e deserto e il suo padrone si trovava ancora negli Abruzzi, anzi lo dicevano assediato dagli insorti nella cittadella di Pescara. Tuttavia non avendo che fare di meglio, per quella sera mi diedi a sperare. Quando fummo verso la mezzanotte uno di quei briganti venne a togliermi dal pagliaio ove m’aveano confitto, e fatto vedere alle guardie un ordine del capitano, mi sciolse i ferri dalle mani e dai piedi e mi disse di seguirlo lungo la via. Giunti ad una casipola lontana da Andria un trar di mano, mi consegnò ad un uomo piuttosto e piccolo e misteriosamente intabarrato che gli rispose asciutto asciutto un – Va bene! – e il brigante tornò per dov’era venuto, ed io rimasi con quel nuovo padrone. Era così in bilico se di rimanere in fatti o di darmela a gambe, quando un’altra persona che mi parve tosto una donna sbucò di dietro a quello del tabarro, e mi si precipitò addosso coi più caldi abbracciamenti del mondo. Non conobbi ma sentii la Pisana. Ma quello del tabarro non fu contento di questa scena e ci tenne a mente che non v’avea tempo da perdere. Io conobbi anche la voce di questo, e mormorai ancor più commosso che stupito: – Lucilio!

– Zitto! – soggiunse egli, menandoci ad un canto oscuro dietro la casa, ove tre generosi corridori mordevano il freno. Ci fece montar in sella, e benché da dodici ore non avessi toccato cibo né bevanda non mi accorsi di aver varcato otto leghe in due ore. Le strade erano orribili, la notte scura quanto mai, la Pisana stretta col suo cavallo in mezzo ai nostri pendeva ora a destra ora a sinistra impedita di cadere solo dalle nostre spalle che se la rimandavano a vicenda. Era la prima volta che montava a cavallo; e di tratto in tratto aveva coraggio di ridere!...

– Mi direte poi con quale stregheria giungeste ad ottener tanto dal signor Mammone! – le chiese Lucilio che a quanto pare in certa parte di quel mistero ne sapeva quanto me.

– Capperi! – rispose la Pisana parlando come lo permetteva lo strabalzar continuo del cavallo. – Egli mi disse che son molto bella; io gli promisi tutto quello che mi domandò; anzi giurai per tutte le medaglie che porta sul capèllo. Alle due dopo mezzanotte doveva andarsene ad Andria a ricever il prezzo della sua generosità! Ah! Ah! – (Rideva la sfacciata del suo generoso spergiuro).

– Ah per questo vi stava tanto a cuore di partire prima delle due! Ora capisco!

Allora toccò a me chiedere schiarimenti su tutto il resto: e seppi come avviati a raggiungermi la Pisana e Lucilio con potenti commendatizie del Carafa avessero incontrato qualche fuggiasco della banda del Martelli che li avvertì della mia prigionia. Udendo che Mammone dovea giungere l’indomane ad Andria, ve lo aveano preceduto; e là la Pisana avea copiato in parte dalla storia di Giuditta l’astuzia che mi avea salvo dalla forca. Non so tra Mammone ed Oloferne chi fu peggiormente canzonato. Sul far del giorno giunsimo alle prime vedette del campo repubblicano di Schipani, ove Giulio ed Amilcare furono sorpresi e contenti di udire i pericoli da me corsi e fortunatamente superati. Le feste i baci, le gioie, le congratulazioni furono infinite: ma in mezzo a tutto ciò essi recavano in fronte una profonda mestizia, per la prossima e inevitabile rovina della Repubblica: io celava un altro benché diverso lutto nel cuore per la tragica morte di mio padre. Il primo col quale m’apersi fu Lucilio. Egli m’ascoltò più addolorato che sorpreso, e – Pur troppo – soggiunse – dovea finire così! Anch’io fui partecipe di cotali errori!... anch’io piango ora tanto tempo, tanti ingegni, tante vite così inutilmente sprecate!... Attendi al mio presagio!... Presto un simile caso funesterà le vicinanze d’Ancona!...

Non capii a che volesse alludere ma feci tesoro di quelle parole e mi ricordai alcun mese dopo quando Lahoz, generale cisalpino, disertore dai Francesi per la fede rotta da essi alla libertà della sua patria, si volgeva ai sollevati Romagnuoli e agli Austriaci per scrollare l’ultimo baluardo che rimanesse alla Repubblica in quella parte d’Italia, la fortezza d’Ancona. Ammazzato dai suoi fratelli stessi che militavano fedeli sotto il francese Monnier, pronunciava prima di morire grandi parole di devozione all’Italia; ma moriva in campo non italiano, fra braccia non italiane. E così cadeva miseramente l’anima di quella società secreta che diramandosi da Bologna per tutta Italia si proponeva di tutelare l’indipendenza fra l’antagonismo delle varie potenze che se la disputavano. Vollero appoggiarsi a questi per debellar quelli; bisognava appoggiarsi a nessuno e saper morire.

Giunsimo a Napoli colla colonna di Schipani ributtata sulla capitale dalle turbe sempre crescenti di Ruffo. La confusione il tumulto la paura erano agli estremi. Tuttavia si disposero presidii nelle torri nei castelli, e se non vi fu guerra vi furono morti da eroi. Francesco Martelli fu posto a difesa della Torre di Vigliena. Deliberato a morire piuttosto che cedere, mi scrisse una lettera raccomandandomi la moglie ed i figli. Giulio Del Ponte piucchemai languente del suo male e quasi sfinito affatto chiese per grazia di avere comune col Martelli quel posto pericoloso e l’ottenne. Quando partì da Napoli per quella trista destinazione la Pisana gli posò un bacio sulle labbra, il bacio dell’ultimo commiato. Giulio sorrise mestamente e volse a me un lungo e rassegnato sguardo d’invidia. Due giorni dopo i comandanti della Torre di Vigliena stretti da Ruffo, da reali, e da briganti, e impotenti omai a resistere appiccavano il fuoco alla mina, e saltavano in aria con un buon centinaio di nemici. I loro cadaveri ricadevano in brandelli in frantumi sul suolo fumigante che l’eco della montagna ripeteva ancora il loro ultimo grido: – Viva la libertà! Viva l’Italia!

Nell’anarchia di quegli ultimi giorni perdemmo di vista Amilcare, e solo qualche mese dopo seppi ch’egli avea finito a vivere da vero brigante nelle montagne del Sannio. Sorte non insolita delle indoli forti e impetuose in tempi e in governi contrarii!

Entravano pochi giorni dopo in Napoli, per viltà schifosa di Megeant, comandante francese di Sant’Elmo, Russi, Inglesi, e malandrini di Ruffo. Nelson d’un tratto annullava la capitolazione dicendo che un re non capitola coi sudditi ribelli: allora cominciarono gli assassinii, i martirii. Fu un vero ciclo eroico; una tragedia che non ha altro paragone nella storia che l’eccidio della scuola pitagorica nell’istessa regione della Magna Grecia. Mario Pagano, Vincenzo Russo, Cirillo! tre luminari delle scienze italiane; semplici grandi come gli antichi. Morirono da forti sul patibolo. Eleonora Fonseca! una donna. Bevette il caffè prima d’ascender la scala della forca e recitò il verso Forsan haec olim meminisse juvabit. Federici maresciallo, Caracciolo ammiraglio! il fiore della nobiltà napoletana, il decoro delle lettere delle arti delle scienze in quella nobile parte d’Italia, erano condannati a perire per mano del boia... E gli Inglesi e Nelson tiravano i piedi!

Restava Ettore Carafa. – Avea difeso fino all’ultimo la fortezza di Pescara. Consegnato dallo stesso governo repubblicano di Napoli ai reali, sotto sicurtà della capitolazione fu condotto a Napoli. Lo condannarono a morte. Il giorno ch’egli salì sul patibolo, io, Lucilio e la Pisana uscimmo furtivi da un bastimento portoghese sul quale ci eravamo rifugiati, ed ebbimo la fortuna di poterlo salutare. Egli guardò la Pisana, poi me e Lucilio, poi le Pisana ancora: e sorrise!... Oh benedetta questa debole umanità che con un solo di quei sorrisi può redimersi da un secolo di abiezione! Io e la Pisana chinammo gli occhi piangendo; Lucilio lo guardò morire. Egli volle esser decapitato supino per guardar il filo della mannaia, e forse il cielo, e forse quell’unica donna ch’egli aveva amato infelicemente come la patria. Nulla omai più ci tratteneva a Napoli. Raccomandata la vedova e i figliuoli del Martelli alla principessa Santacroce, e fornitili d’una piccola pensione sul peculio lasciatomi da mio padre, salpammo per Genova, unica rocca oggimai dell’italiana libertà.

Per la gloriosa caduta di Napoli, per la capitolazione di Ancona, per le vittorie di Suwarow e di Kray in Lombardia, tutto il resto d’Italia al principio del 1800 stava in poter dei confederati.