CAPITOLO DECIMOTTAVO
Il milleottocento – Sventura d’un gatto, e mia felicità amorosa durante l’assedio di Genova – L’amore mi abbandona e sono visitato dall’ambizione – Ma guarisco in breve dalla peste burocratica; e quando Napoleone si fa Imperatore e Re io pianto l’Intendenza di Bologna, e torno di buon grado miserabile.
Il nostro secolo (perdonate; dico nostro a nome di tutti voi; quanto a me ho qualche diritto anche sul passato, e quello d’adesso non lo tengo già più che colle punte delle dita), il nostro secolo o il vostro adunque che sia, è uscito nel mondo in una maniera molto bizzarra: volle farla tenere ai fratelli che lo aveano preceduto, e mostrare che per chi cerca novità ad ogni costo, la messe non manca mai. Infatti egli capovolse tutti i sistemi tutti i ragionamenti che affaticavano i cervelli da cinquant’anni prima; e cogli stessi uomini si è messo in capo di raggiungere scopi perfettamente contrarii. Abbondarono poi gli empirici che incamuffato di sillogismi il paradosso lo cambiarono in un perfetto accordo dialettico: ma io che non sono un giocoliero resterò sempre della mia opinione. Si fa, e si disfà; e disfacendo non si finisce per nulla ciò che s’era fatto: tuttaltro! Or dunque all’anno che finiva coi martirii repubblicani e colle vittorie dei confederati, ne successe un altro che distrusse a Marengo l’effetto di queste e di quelli, e recò in mano di Bonaparte reduce dall’Egitto le sorti d’Europa. Il Primo Console di trent’anni non era più il generale di ventisei che dava udienza radendosi la barba: egli andava già maturando fra sé e sé i paragrafi del cerimoniale di corte. Vi chieggo scusa di intromettervi in quest’ultima parte della mia storia col fastoso esordio delle ambizioni consolari che finiranno poi al solito nel meschino racconto di poche e comuni fanciullaggini. Ma la luce mi attira, e bisogna che la guardi dovessi perderne gli occhi.
Vi sarete anche accorti che aveva gran fretta di uscire da quel doloroso viluppo delle mie vicende napoletane. Tutte le volte che mi fermo a contemplare quelle tetre ma generose memorie l’anima mia spicca un tal volo che quasi le traversa tutte d’un balzo. Mi paiono racchiuse in un giorno, in un attimo solo, tanto sono diverse dalle altre che le precedettero e le seguirono. Non credo quasi possibile che chi ha sonnecchiato dieci anni della sua vita in una cucina, aspettandosi ogni tanto gridate e scappellotti e guardando grattare il formagio, abbia poi vissuto un anno pieno di tante e così sublimi e svariate sensazioni. Sarei disposto a figurarmi che quello fu il sogno d’un anno ristretto in un minuto. Ad ogni modo Napoli è rimasto per me un certo paese magico e misterioso dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano, non s’ingranano ma s’accavalcano, e dove il sole sfrutta in un giorno quello che nelle altre regioni tarda un mese a fiorire. A voler narrare senza date la storia della Repubblica Partenopea ognuno, credo, immaginerebbe che comprendesse il giro di molti anni; e furono pochi mesi! Gli uomini empiono il tempo, e le grandi opere lo allargano. Il secolo in cui nacque Dante è più lungo di tutti i quattrocento anni che corsero poi fino alla guerra della successione di Spagna. Certo fra tutte le repubblichette che pullularono in Italia al fecondo alito della Francese, Cispadana, Cisalpina, Ligure, Anconitana, Romana, Partenopea, quest’ultima fu la più splendida per virtù e fatti repubblicani. La Cisalpina portò maggiori effetti per la lunghezza della durata, la stabilità degli ordinamenti, e fors’anco la maggiore o più equabile coltura dei popoli; ma chi direbbe a leggerla che la storia della Cisalpina abbraccia spazio maggiore di tempo che quella della Partenopea? Sarà fors’anco che la virtù e la storia si compiacciono meglio delle grandi e fragorose catastrofi.
Intanto noi eravamo giunti a Genova; io e la Pisana assai maltrattati dal mal di mare, e guariti per sua bontà da ogn’altra preoccupazione, Lucilio sempre più cupo e meditabondo come chi comincia ma non vuol disperare. Le forze a lui gli crescevano secondo i bisogni; e proprio aveva un’anima romana, fatta per comandare anche dagli infimi posti, dono piuttosto comune e fatale agli Italiani che cagiona molte delle nostre sventure e qualcheduna delle glorie più luttuose. Le società secrete sono un rifugio all’attività sdegnosa e al talento imperativo di coloro che o sdegnano o non possono adoperarsi nell’angustissimo spazio concesso dai governi. Da un pezzo m’era accorto che Lucilio apparteneva, forse fin dagli anni d’Università, a qualche setta filosofica d’illuminati o di franchi muratori; ma poi mano a mano m’avvidi che le tendenze filosofiche piegavano al politico, e le combriccole della cessata Cisalpina, e le ultime vicende d’Ancona ne davano indizio. Lucilio teneva dietro con grandissima premura a cotali novelle, e alcune anche talvolta ne prediceva, con maravigliosa aggiustatezza. Fosse avvisato antecedentemente, o sincero profeta nol so: ma propendo a quest’ultima opinione, perché né egli usava discorrere di quanto gli veniva comunicato, né a que’ tempi nella nostra condizione era molto agevole ricever lettere scritte di fresco. A Genova poi non entravano né fresche né salate: e le ultime notizie di Venezia le ebbimo da un prigioniero tedesco ch’era stato d’alloggio un mese prima presso il marito della Pisana, forse nelle camere stesse del tenente Minato.
Questo signor tenente fu una delle più spiacevoli novità che trovai in Genova: la seconda fu la fame: perché il giorno dopo al nostro arrivo cominciò le flotta inglese lo strettissimo blocco, e in poche settimane ci ridusse alla caccia dei gatti. Aveva peraltro un gran conforto e questo era la protezione offertami in ogni incontro dall’amico Alessandro mugnaio, trovato pur esso a Genova e non più capitano, ma colonello. Chi viveva a quel tempo andava innanzi presto. Il colonello Giorgi non aveva ventisett’anni, sopravvanzava del capo tutti gli uomini del suo reggimento, e comandava a destra e a sinistra con un vero vocione da mugnaio. Non sapeva cosa volesse dire paura, e si scaldava nel furor della mischia senza mai dimenticarsi delle schiere che doveva condurre e governare: questi erano i suoi meriti. Scriveva passabilmente e con qualche intoppo d’ortografia, non conosceva che da un mese circa e soltanto di nome Vauban e Federico II; ecco i difetti. Pare che si desse maggior peso ai meriti, se in due anni e mezzo era diventato colonello; ma il merito maggiore fu la carneficina di tutto il suo battaglione che, come dissimo, lo lasciò capitano per necessità. Un giorno lo incontrai che già i magazzini cominciavano a impoverire, e chi aveva derrate a tenerle per sé. Aveva la Pisana piuttosto malata e non m’era ancor venuto fatto di trovarle una libbra di carne pel brodo.
– Ohe, Carlino, – mi disse – come la va?
– Vedi! – gli risposi – son vivo ancora, ma temo per domani o per dopodimani. La Pisana si sente male, e andiamo di male in peggio.
– Che? la Contessina è malata?... Corpo del diavolo!... Vuoi che ti procuri otto o nove medici di reggimento?... I reggimenti non ci sono più, ma sopravvivono i medici; segno del loro gran sapere.
– Grazie, grazie! ho il dottor Vianello che mi basta.
– Sicuro che deve bastare; ma diceva così per consulto per curiosità!
– No, no, il male è già conosciuto; dipende da difetto d’aria e di nutrimento.
– Non ha altro? Fidati di me! domani son di guardia alla Polcevera e là le farò respirare tanta aria in un’ora quanta a Fratta non se ne respira in un giorno.
– Sì, eh, alla Polcevera, con quei finocchietti che vi va regalando Melas!
– Ah! è vero, mi dimenticava che è una contessina e che le bombe la possono infastidire. Allora non c’è rimedio; menala a spasso sui tetti.
– Se ne avesse le forze e la volontà occorrente, farebbero anche i tetti, ma una malaticcia che si nutre di brodo di lattuga non può certo avere una gran vigoria.
– Pover’a lei! Peraltro io posso trarti d’impiccio!... Vedi ch’io mi conservo abbastanza grasso e tondo mi pare!
– Davvero sembri un cappellano del Duomo di Portogruaro.
– Eh! altro che cappellani! Di’ mo che a cantar in coro si guadagnano muscoli di questa sorte! (e tendeva e gonfiava un braccio che per poco non faceva scoppiare le cuciture). Io vedi mi son mantenuto così grazie alla mia previdenza. Ho ammazzati i miei due cavalli, li ho fatti salare e me li pappo a quattro libbre il giorno. Dopo sarà quel che sarà. Ma se vuoi entrar a parte della cuccagna...
– Figurati! per me volentieri, e mi rimorderebbe di privar te; ma per la Pisana il cavallo salato non le conviene.
– Allora un altro ripiego; la mia padrona di casa è tirata come una genovese e non mangia altro che erbe cotte, tagliate da un suo cortiletto che onora col nome di orto. Ma già credo che anche prima dell’assedio non mangiasse meglio, e la vita non è altro per lei che un lunghissimo blocco. T’immagineresti ch’essa tien sempre sui ginocchi un vecchio gatto d’Angora così grasso così morbido che parrebbe una golaggine a qualunque Milanese?
– Vada pel gatto d’Angora! – io sclamai. – Alla Pisana non piacciono molto i gatti vivi, ch’io mi sappia; ma le si faranno piacer morti. E tutto starà a darle ad intendere che è brodo di pollo e non di gatto. Mi procurerò una manata di piuma e guarderò di spanderla per la casa...
– Se posso io per la piuma...
– Grazie, Alessandro; mi sovviene che in camera ne ho pieni i cuscini del letto. Piuttosto come farai ad impadronirti del gatto d’in sui ginocchi della signora?...
Lì il bravo colonello tirò il mento nel collare e se lo sfregolava che pareva lui un gattone in ruzzo di farsi bello.
– Sì, perdiana, come farai, s’ella è tanto invaghita del suo gatto?
– Carlino, ho avuto la disgrazia di piacerle più del gatto; e mi perseguita sempre che è una disperazione.
– È dunque brutta se ti dà tanto noia.
– Brutta, caro; spaventevole! Come farebbe un’avara ad esser bella? Mi par di vedere la signora Sandracca con qualche dente di meno.
Io diedi un guizzo di raccapriccio.
– Ma sta pur cheto! non te la farò vedere: terrò tutto il gusto per me e in riguardo tuo e della Contessina rischierei anche di peggio. Ma spero di cavarmela collo spavento. Tutte le mattine ella usa bussare alla mia porta e domandarmi se ho dormito bene, girando il chiavistello come per entrare: ma io finsi non m’accorger mai di questa voglietta e alla sera ci metto di mezzo tanto di catenaccio. Piuttosto mi dimenticherei di cavarmi gli stivali che di prendere una tal misura di sicurezza. Domani invece me ne dimenticherò a bella posta: la signora entrerà, e nel frattempo la mia ordinanza farà la festa al gatto.
– Ben immaginato, perbacco: diventerai generale presto con queste maravigliose attitudini. Grazie adunque, e ricordati che aspetto dal tuo gatto la salute di mia cugina.
Il giorno dopo Alessandro venne a trovarmi nella mia stanza che sonava mezzogiorno: aveva la cera negra e il viso imbronciato.
– Che fu mai? – gli dissi io correndogli incontro.
– Arpia maledetta! – sclamò il colonello. – Te lo saresti immaginato tu, che venisse a picchiare al mio uscio col suo stupido gatto sotto il braccio?...
– E così?
– E così dovetti sorbirmi mezz’oretta di conversazione, che ne ho ancora sconvolte tutte le interiora, e scommetto che son bianco di bile come quando stava nel mulino!... Oh la maniera di dividerla da quel gatto indiavolato, dimmela tu se la sai immaginare!
– Per esempio, se tu facessi per abbracciarla?
Il povero Alessandro fece un atto come se gli avessi dato a fiutare una carogna.
– Temo che sia l’unica; – egli rispose – ma se poi il gatto non se ne va, se tarda ad andarsene?...
– Oh diavolo! ad un capitano par tuo mancano mezzi da tirar in lungo una battaglia?
Alessandro assunse a queste mie parole una cera grave e dignitosa; non ne scerneva il perché, quando fui come rischiarato da un lampo.
– Scusa sai; – aggiunsi – ho adoperato il vocabolo capitano nella sua significazione etimologica di capo; come si chiamano capitani Giulio Cesare, Annibale, Alessandro, Federico II! Non mi dimentico mai il grado che occupi ora.
A questa dichiarazione e più al nome di Federico II la faccia del colonello si rischiarò.
– Benone; – riprese egli contentissimo, accarezzandosi le guancie. – Io farò così un qualche vezzo all’arpia... ma adesso che ci penso, cosa dirà la cameriera?
– Che c’entra in tuttociò la cameriera?
– C’entra, c’entra... oh bella! c’entra perché ci entro io.
– È giovine e bella la cameriera?
– Fresca, perdio, e salda come un pomino non ben maturo: con certe imbottiture intorno che ricordano le nostre paesane, e una bocchina che a Genova non se ne vedono di compagne.
– Allora capisco, perché c’entri tu, e perché c’entra lei. Son tutte conseguenze di conseguenze!... La cameriera potresti mandarla fuori a comperarti, che so io, della polvere di Tripoli per gli speroni.
– No, no, amico, mi tirerei addosso le gelosie della figliuola della portinaia!
– Ma caro il mio Alessandro, tu sei il cucco delle donne...? Bisogna proprio dire che pel sesso debole certi stimoli siano più urgenti di quelli della fame!
– Sarà un accidente, Carlo!... Ma del resto fra queste cere da assedio il mio colorito la mia corporatura devono far colpo per forza!... E poi tra Genovesi e Friulani per forza bisogna intendersi a motti; abbiamo due dialetti così incomprensibili che a dimandar pane si piglierebbero sassate.
– Buona la ragione! ma guai se non avessi il tuo cavallo salato! Peraltro alla cameriera potresti consegnar qualche cosa da stirare!...
– Sì, sì, vedo io, capisco io! lascia fare a me!... Domani avrai il tuo gatto, da far il brodo per quindici giorni.
– Ti raccomando, sai! Perché oggi ho potuto trovare un mezzo piccione e l’ho pagato un occhio della testa, ma domani siamo proprio sprovvisti affatto.
Il valoroso colonello mi lasciò con un gesto di promessa immanchevole; e pensò forse lungo la strada al modo di non esporsi troppo coi vezzi che avrebbe dovuto fare alla padrona di casa per isnidarle il gatto dal seno. Il giorno appresso non erano le dieci che l’ordinanza di Alessandro mi portò in casa la famosa fiera: infatti il peso non era minore della fama, e non mi ricordava mai d’aver veduto neppur nella cucina di Fratta un gatto così smisurato.
– E cosa n’è del tuo padrone? – chiesi con fare svagato all’ordinanza.
– L’ho lasciato nella sua stanza che strepitava con tutte le donne della casa – mi rispose il soldato. – Ma egli è avvezzo a tener testa ai Russi, né avrà paura di quattro gonelle.
Un quarto d’ora dopo io avea già consegnato la bestia alla cuoca che ne cavasse la maggior quantità possibile di brodo, intorbidandogli il sapore gattesco con sedani e cipolline, quando mi capitò dinanzi Alessandro tutto sconvolto ed arruffato che pareva Oreste perseguitato dalle Furie, e rappresentato da Salvini. Appena entrato in camera si buttò sopra una poltrona strepitando e bofonchiando, che piuttosto che dar la caccia a un altro gatto sarebbe uscito dai castelli per conquistar un bue contro i Tedeschi, i Russi e quanti altri ne volessero venire. Io aveva più voglia di ridere che di piangere; ma mi trattenni per non fargli dispiacere.
– Senti cosa mi capita! – diss’egli dopo aver buttato via il capèllo dispettosamente. – Io avea pensato di mandar la portinaia fuori di casa, e la cameriera in cerca della portinaia; sicché in quel frattempo la padrona saliva da me, io le faceva la burletta del gatto, e l’ordinanza aveva libero il campo per accomodarlo a suo modo; intanto portinaia o cameriera tornavano e mi toglievano d’impiccio. Invece, cosa succede?... La portinaia e la cameriera s’incontrano per la scala e cominciano a litigare fra loro; io, dopo aver buttato a terra il gatto, con una specie di abbracciamento alla signora padrona, non so più andare né innanzi né indietro: quel maledetto gatto mi si ostina fra i piedi e la vecchia al collo!... Pesta di qua pesta di là riesco finalmente a metter in fuga la bestia... Ma in quella appunto, cameriera e portinaia entrano accapigliandosi fra loro e veggono me alle prese colla signora. Urla una e strilla quell’altra, credo che diedero la sveglia a tutto il vicinato.
La signora era rossa più di stizza che di vergogna; io più pallido di spavento che di stizza: ma quella diversione mi rese i colori. Cominciai a gridare che non era nulla e che stava provando alla signora la tracolla della sciabola. La cameriera si buttò addirittura addosso alla padrona minacciandola che se non le pagava i salari le avrebbe cavato gli occhi, e che non era quella la maniera di mantenere le sue promesse che il servizio dell’ufficial francese sarebbesi lasciato tutto a lei. La portinaia si ribellò contro la cameriera per questa strana pretesa. Intanto si udivano da basso gli ultimi miagolamenti del povero gatto sgozzato dalla mia ordinanza colle forbici della padrona che furono poi trovate tutte insanguinate. Anzi bisognerà che gli tiri le orecchie a quello sciocco per questa castroneria! Figurati che parapiglia! La signora, che m’aveva lasciato, voleva tornarmi ad abbracciare, la cameriera mi teneva pel collo, e la portinaia per l’abito; ciascuna voleva la sua parte, ma avevano fatto i conti senza l’oste. Stufo delle loro moine io diedi una tal vociata che restarono tutte e tre quasi istupidite e mi lasciarono libero di movermi. Io infilai la porta, presi il cappello nell’anticamera, ed eccomi qui di volo: ma giuraddio, se avessi sostenuto in carré una carica di cosacchi non sbufferei di più!...
Io consolai il giovine colonello delle sue disgrazie; e lo menai poscia dalla Pisana a ricevere i ringraziamenti dovutogli; ma ebbimo cura di cambiar il gatto in un pollo d’India, e perciò non risaltarono tanto i pericoli corsi dal paladino per conquistarlo. Ad ogni modo, grazie alla furberia della cuoca piemontese il brodo ottenne l’aggradimento della padrona; lo si disse un po’ insipido per esser di pollo d’India, ma siccome anche i polli soffrivano per la carestia, non ci badò tanto pel sottile. Sono storielle un po’ insulse dopo la grande epopea delle mie imprese di Napoli; ma ad ogni stagione i suoi frutti; e quella reclusione di Genova accennava sul principio di volgere in buffo. Soltanto Lucilio non rimetteva nulla della sua consueta gravità; e succiava seriamente le sue radici di cicoria come le fossero polpette di selvaggina, o salsicciotti di pollo.
Un’altra volta il mugnaio colonello mi venne a trovare meno rosso e giovialone del solito. Io ne dava la colpa al cavallo salato che cominciava a mancare, ma mi rispose d’aver ben altro pel capo e che m’avrebbe condotto in tal luogo dove forse anch’io sarei partito con tutt’altra voglia che di berteggiare. Per verità io non trovava più alcun allettamento a simili improvvisate; ma per quanto ne stringessi Alessandro, egli nulla volle dirmi, e rispondeva sempre che avrei veduto all’indomane. Mi venne infatti a prendere il giorno appresso per condurmi allo Spedal militare. Là trovammo il povero Bruto Provedoni che cominciava ad alzarsi allora da una lunga malattia; ma si era alzato con una gamba di legno. Immaginatevi la brutta sorpresa! Anche Alessandro avea ignorato un pezzo la disgrazia dell’amico e non avendone novella da un secolo la credeva forse anco peggiore; quando cercando per gli spedali d’un suo soldato che non si trovava più, e lo dicevano infermo, avea dato il naso nell’amico. Tuttavia di noi tre lo stesso Bruto era il meno costernato. Egli rideva, cantava e si provava a camminare e a ballare sulla sua gamba di legno cogli attucci più grotteschi del mondo. Diceva soltanto che si pentiva di non aver tardato a perder la gamba fin nel tempo dell’assedio, che allora avrebbe potuto mangiarsela con molto piacere. Mi consolai d’averlo trovato, ché in qualche maniera poteva essergli utile. Infatti tutta la sua convalescenza egli la passò in casa nostra colla Pisana e con Lucilio, e schivò le noie e gli incommodi degli spedali militari.
A Genova rividi anche Ugo Foscolo, ufficiale della Legione lombarda, e fu l’ultima volta che stetti con lui sul piede dell’antica dimestichezza. Egli stava già sul tirato come un uomo di genio, si ritraeva dall’amicizia, massime degli uomini, per ottenerne meglio l’ammirazione; e scriveva odi alle sue amiche con tutto il classicismo d’Anacreonte e d’Orazio. Questo serva a provare che non si era sempre occupati a morire di fame, e che anche il vitto di cicoria né spegne l’estro poetico né attuta affatto il buon umore della gioventù.
A lungo andare peraltro l’estro poetico svaporava, e il buon umore andava appassendo. Una fava costò perfino tre soldi, e quattro franchi un’oncia di pane: a non voler mangiare che pane e fave c’era da rovinarsi in una settimana. Io non aveva in tutto me un ventimila lire tra denari sonanti e cedole austriache; ma di queste non era quello il luogo da ottenere il pagamento e così tutto l’aver mio si riduceva a un centinaio di doble. Volendo curare la salute vacillante della Pisana e alimentarla d’altro che di zucchero candito e di sorci ci andava comodamente una dobla al giorno. Da ultimo fui ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma dàlli e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e allora ci convenne far come tutti; vivere di pesce marcio, di fieno bollito quando si trovava gramigna, e di zuccherini, de’ quali era in Genova grande abbondanza, perché formavano un importantissimo ramo di commercio. S’aggiunsero febbri e petecchie per ultimo conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir la salute, quando si corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla Pisana; ella racquistò le belle rose delle guancie e il suo umorino strano e bisbetico, che durante la malattia s’era fatto così buono ed uguale da farmi temere qualche grosso guaio. Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v’avea di guasto, e che i visceri erano quelli di prima: anzi la consolazione andò tant’oltre che cominciai anche a spaventarmene. Alle volte saltava su per mordere come una vipera; e s’ingrugnava e aveva il coraggio di tener il broncio un’intera giornata. Voleva poi tutto a modo suo e dal silenzio ostinato passava in men ch’io nol dico ad una garrulità quasi favolosa. Così ella ebbe il vanto di cancellare dalla mia memoria tutti quegli anni vissuti frammezzo e di ricondurmi alle tempestose fanciullaggini di Fratta. Davvero che a chiuder gli occhi avrei creduto di essere non già a Genova quasi veterano d’una guerra lunga e accanita, ma in riva alle fosse delle nostre praterie a bucar chiocciole e a lustrar sassolini. Mi sentiva imbambolire come un bisnonno; e sì che non era ancora padre né aveva premura di diventarlo. Questo era per esempio un punto sempre controverso tra me e lei: ch’ella avrebbe voluto un bambino ad ogni costo, ed io per quanto mi scaldassi a dimostrarle che nella nostra posizione, in quel luogo in quei tempi un figliuolo sarebbe stato il peggiore degli imbrogli, doveva sempre metter le pive nel sacco. Altrimenti pel gran sussurro mi sarebbe crollato il soffitto sul capo. Cominciarono i soliti dissapori, gli alterchi, le gelosie: tutto per quel benedetto bambino; eppur vi giuro che se la Provvidenza non ce lo mandava, io non ce ne aveva né colpa né rimorso.
Finallora io m’era sempre congratulato colla Pisana che non aveva mai sospettato di me, e queste congratulazioni, se volete, erano intinte un pochino d’ironia, perché la sua sicurezza mi pareva originata o da freddezza d’amore o da piena confidenza nei proprii meriti. Ma allora almeno non fui più in grado di lamentarmi. Non poteva arrischiare un’occhiata fuori della finestra ch’ella non mi allungasse tanto di grugno. Non me ne diceva la cagione, ma me la lasciava travedere. Rimpetto dimoravano due crestaie, una stiratrice, la moglie d’un arsenalotto e una mammana. Ella mi diceva invaghito di tutta questa marmaglia e non era il miglior elogio al mio buon gusto; massime quanto alla mammana ch’era più brutta d’un peccato non commesso. Indarno io teneva i miei occhi a casa come San Luigi; faceva per fintaggine, e me lo diceva con un sogghignetto più pestifero di qualunque impertinenza. Stufa, diceva ella, di farmi la buona moglie, cominciò ad uscire, a volerne star a zonzo le mezze giornate: e sì che la città non dava motivo ad allegre passeggiate. Dappertutto era un puzzo d’ospedale o di cataletto; e bare che si gettavano dalle finestre e ammalati che si trasportavano a braccia, e immondizie che si rimescolavano per litigare ai vermi qualche avanzo di carogna. Finalmente volle ad ogni costo che la menassi fin sui castelli per far visita a’ miei amici ch’erano in fazione. S’io non mi mostrava di buona voglia m’accagionava di paura e quasi di codardia: non contento di far nulla voleva anche frodare quelli che facevano, di quel po’ di conforto che sarebbe loro venuto dalla compagnia di qualche buon’anima. Conveniva adattarsi e menarla. Se avesse preteso che la conducessi nel campo trincierato di Otto o fra le turbe monferrine raccolte dall’Azzeretto a minacciar più che Genova gli scrigni dei Genovesi, scommetto che avrei accondisceso; tanto m’aveva ridotto grullo e marito.
Un giorno tornavamo da una visita fatta al colonello Alessandro nel forte di Quezza, ch’era uno dei più esposti. Le bombe piovevano sulle casematte mentre noi facevamo un brindisi col Malaga alla fortuna di Bonaparte e alla costanza di Massena. La Pisana baccheggiava come una vivandiera, e in quel momento le avrei dato uno schiaffo; ma si serbava sempre così bella così bella per quante pazzie e scioccaggini commettesse, che avrei temuto di guastarla. Uscendo dal forte, Alessandro ci gridava dietro che badassimo ai bei fuochi d’artifizio; infatti le bombe di Otto descrivevano per aria le più vezzose parabole, e se non ci fosse stato il tonfo della caduta e il fragore e la rovina dello scoppio, sarebbe stato un onestissimo divertimento. Io affrettava il passo; e ve lo assicuro, non tanto per me quanto per veder la Pisana fuori di quel gran pericolo; ma ella se ne aveva a male, e borbottava della mia dappocaggine, e mi faceva montar la stizza portando a cielo Alessandro, e le sue belle maniere soldatesche, e i suoi frizzi e le sue baiate che non erano poi d’un gusto molto raffinato. Ma la Pisana aveva la passione dei tipi; e certo le sarebbe spiaciuto un lazzerone senza cenci e senza maccheroni, come un colonello mugnaio senza pizzicotti e senza bestemmie. Io mi difendeva con un dignitoso silenzio; ma ella dava a divedere d’ascrivere questa ritenutezza ad invidia. Allora la mia bile sforzò il turacciolo, e diedi una gran vociata gridando che se fossi stato donna io avrei voluto lodarmi piuttosto di Monsignore suo zio che di quel zoticone di colonello. Lì appiccammo una lite, ché ella mi tacciava d’ingratitudine, ed io lei di soverchia indulgenza per le scurrili maniere di Alessandro. Terminammo a casa col sederci allo scuro io sopra una seggiola ed ella sopra un’altra col viso volto alla parete. Lucilio rientrando indi a poco ci trovò addormentati, segno evidentissimo che la tempesta aveva appena sfiorato i nostri umori biliosi; e sì che vento di parole non n’era mancato. La Pisana per farmi dispetto seguitò lunga pezza a lodare e magnificare i buoni portamenti e il valore stragrande del colonello Alessandro, dicendo che per farsi di mugnaio esperto soldato in così breve tempo si voleva un ingegno sperticato, e che ella già aveva sempre augurato bene di quel giovine distinguendolo dagli altri fin da piccino.
Io ingelosiva furiosamente di questi richiami ad un tempo, nel quale molte volte aveva dovuto soffrire la fortunata rivalità del piccolo Sandro; e vedendo compiacersi lei di cotali memorie ognuno si figurerà i sospetti che ne induceva. Così gelosi ambidue, stancheggiati dal digiuno, divisi dal resto del mondo, e con un futuro dinanzi che non dava nulla da sperare, noi cercavamo del nostro meglio ogni via per infastidirci scambievolmente. Ma appena poi il bell’Alessandro mostrava volersi ingalluzzire per le lusingherie della Pisana, ecco ch’ella se ne ritraeva quasi spaventata. E toccava a me farle veduto che certe schifiltosità non istanno bene, che bisogna compatire alle educazioni un po’ precipitate, e che la trivialità d’un bravo e dabben soldataccio non va guari confusa colle oscene allusioni d’un bellimbusto sboccato. Alessandro, in uggia a me mentre era careggiato1 dalla Pisana, e difeso invece quando ella lo aspreggiava, non sapeva più per qual manico prendere il coltello; e stava nella nostra conversazione come un ballerino sulla corda prima di essersi bilanciato. Peraltro quando Pisana si mostrava affatto ingiusta col povero colonello, io aveva ancora un mezzo di farle cadere la stizza; ed era il ricordarle quel buon brodo di pollo d’India procuratole da lui solo. Ella che ne aveva gran desiderio da un pezzo, perché i zuccherini cominciavano a impastarle la bocca, gli tornava allora dietro coi più dolci vezzi del mondo; e Alessandro s’incatorzoliva2 tutto per la contentezza. Ma quand’io gli accennava così in ombra la ragione di quelle carezze, s’imbrunava in faccia brontolando che la sua padrona non aveva altri gatti e che buon per lui, giacché al secondo rischio Dio sa cosa poteva avvenire.
Crescevano intanto le strettezze dei viveri, cresceva la pressura degli assedianti e non si combatteva più per alcuna speranza di libertà o d’indipendenza. Che voleva Massena? Far di Genova una nuova Pompei popolata di cadaveri invece che di scheletri, o più che coll’armi, colla paura della pestilenza allontanare i nemici dalle mura combattute? – Era un lamento, un furore universale. Egli solo, il generale, aveva le sue idee per ritardare ad ogni costo d’un mese d’un giorno la resa della piazza: Bonaparte in quel mezzo avrebbe raccolto gli ultimi ardori repubblicani di Francia per incendiarne una seconda volta l’Europa. A forza di disagi, di patimenti, di costanza e di crudeltà si giunse ai primi di giugno, quando già Bonaparte era precipitato come un fulmine a turbare le tranquillissime guerricciuole di Melas contro Suchet, e s’erano rialzate in Milano le speranze degli Italiani. La resa di Genova si chiamò convenzione e non capitolazione, gli ottomila uomini di Massena passarono opportuni ad ingrossare l’armata del Varo, e dai nuovi conquistatori della Liguria non si parlò allora di ristaurare l’antico governo come non se ne parlava punto in Piemonte. Ma era ben tempo quello da pensare a ristaurazioni! Melas a marcie forzate raccozzava i corpi sparsi dell’esercito sulle rive della Bormida, proprio rimpetto a quel punto dove Napoleone prima di partir da Parigi avea messo il dito sulla carta geografica dicendo: – Lo romperò qui! – E così questi s’affrettava a lasciar Milano, a passar il Po, a vincere col luogotenente Lannes a Montebello, a stringer il nemico intorno ad Alessandria. Stranissima posizione di due eserciti ciascuno de’ quali aveva la propria patria alle spalle dell’inimico!
In questo mezzo gli esulanti di Genova, secondo i patti della convenzione si trasportavano sopra navi inglesi ad Antibo. Io, la Pisana, Lucilio e Bruto Provedoni eravamo del numero. Bruttissimo viaggio e che mi privò delle mie ultime doble. A Marsiglia fui contentissimo di trovar un usuraio che mi scambiasse al trenta per cento le cedole austriache e siccome era già pervenuta la notizia della vittoria di Marengo, ripigliammo tutti insieme la strada d’Italia. Si sperava assai; si sperava più che non si riconquistò, e il riconquisto d’allora fu quasi miracolo. Ma nessuno avrebbe immaginato che Melas si disanimasse per una prima sconfitta; e la continuazione della guerra allargava il campo delle lusinghe fino a far travedere in lontananza la restituzione di Venezia in libertà o il suo aggiungimento alla Cisalpina. Invece incontrammo per istrada la nuova della capitolazione d’Alessandria per cui Melas si ritraeva dietro al Po ed al Mincio e i Francesi rioccupavano Piemonte Lombardia Liguria, i Ducati la Toscana le Legazioni. Il nuovo Papa eletto a Venezia e da poco rientrato in Roma fra le fastose accoglienze degli alleati napoletani credeva aver che fare a riconquistar il potere dalle mani troppo tenaci degli amici; invece dovette accettarlo dalla clemenza dei nemici firmando con Francia un concordato ai 15 luglio. Ma il Primo Console s’atteggiava allora a protettore dell’ordine della religione della pace; e Pio VII, il buon Chiaramonti, gli credeva senza ritegno.
Le nuove consulte provvisorie pullulavano ovunque, con questo nuovo sapore di pace di ordine di religione. Lucilio e tutti i vecchi democratici ne torcevano il grugno; ma Bonaparte blandiva ubbriacava il popolo, accarezzava i potenti, premiava largamente i soldati, e contro simili ragioni non v’ha stizza repubblicana che tenga. Io per me fedele agli antichi principii sperava nelle nuove cose, perché non sapea figurarmi che di tanto avessero cangiato gli uomini in così breve tempo. Per questo non mi andò a verso che Lucilio rifiutasse una carica cospicua offertagli dal nuovo governo; e per me accettai volentieri un posto d’auditore nel Tribunal militare. Indi siccome si abbisognava di amministratori galantuomini, mi traslocarono segretario di Finanza a Ferrara. Non mi spiaceva il guadagnarmi onoratamente un pane, perché tra le dodicimila lire lasciate alla vedova del Martelli sopra una casa bancaria di Napoli, le doble spese a Genova, e le cedole negoziate a Marsiglia tutto il peculio consegnatomi da mio padre prima di morire se n’era ito in fumo. Il colonello Giorgi mi veniva sempre dicendo, anche allora a Milano, che mi raccomandassi a lui e che m’avrebbe fatto creare maggiore del Genio o dell’Artiglieria; ma vivendo io colla Pisana, la carriera militare non mi quadrava, e mi si attagliavano meglio gli impieghi civili. Infatti a Ferrara ci accasammo molto onorevolmente. Bruto Provedoni che ci aveva accompagnato fin là diretto per Venezia e pel Friuli ci promise che avrebbe scritto amplissime informazioni sopra tutto ciò che ci premeva sapere; e noi contenti di esserci salvati con tanta fortuna da quel turbine che aveva inghiottito gente più grande ed accorta di noi, stettimo ad aspettare con pazienza che imprevisti avvenimenti finissero di mettere la nostra vita perfettamente in regola.
La morte di Sua Eccellenza Navagero che non doveva esser lontana mi stava molto a cuore. Poveretto! Non gli augurava male; ma dopo aver vissuto abbastanza felice oltre ad una settantina d’anni poteva bene lasciar il posto a un pochetto di felicità per noi. Senza volerlo, credo che mi moderassi anch’io secondo le opinioni più discrete di quel secondo periodo repubblicano: quell’amore spensierato ubbriaco delirante che correva naturalmente fra le passioni ardenti e sfrenate della rivoluzione, sconcordava alquanto colle idee legali sobrie compassate che tornavano a galla. Infine il concordato colla Santa Sede mi piegava mio malgrado a pensieri di matrimonio. La Pisana non dava alcun sentore di quello che sperasse o disegnasse fare. Tornata alla vita solita era tornata alle solite disuguaglianze d’umore, alla solita taciturnità variata da improvvisi eccessi di ciarle e di riso, al solito amore condito di rabbia di gelosie e di spensieratezza. Ascanio Minato, ch’era divenuto capitano e avea lasciato a Milano la volubile contessa rubata ad Emilio, ottenne in quel torno d’essere di guarnigione a Ferrara. Anche a Genova egli ronzava intorno alla Pisana senza poterla avvicinare per la nessuna [cura] che costei si dava di lui nelle diversissime occupazioni di quel tempo. Ma a Ferrara non le parve vero di poter variare d’alcun poco la noia domestica, e s’adoperò tanto che dovetti consentire l’ingresso in mia casa al brillante ufficiale. Costui mi spiaceva per tutte le ragioni: per le sue gesta anteriori, pel mio amor proprio, per la memoria del povero Giulio, per la baldanza del portamento e del parlare, per l’affettazione francese, buffa e spregevole in un Corso. Ma mi guardava bene dal dargli carico di tutto ciò in presenza della Pisana; sapeva che alle volte nulla più nuoce d’un biasimo inopportuno, massime presso le indoli che amano l’assurdo e la contraddizione. Perciò stava composto e con bella creanza; come si conviene ad un magistrato ad un padrone di casa; ma teneva ben aperti gli occhi in testa, e il signor Minato aveva raramente il coraggio di incontrarli coi suoi.
L’Aglaura e Spiro scrivevano da Venezia notizie piuttosto varie che buone. Avevano avuto un secondo bambino, ma la loro madre era morta, e ne vivevano inconsolabili; il commercio loro prosperava, ma la cosa pubblica sembrava in balia più dei tristi che dei buoni. Il Venchieredo padre spadroneggiava senza pudore ostentando maniere linguaggio e alterigia forestiere. Spiro, che avea dovuto presentarglisi per implorar la liberazione d’un suo compatriota relegato a Cattaro coi repubblicani catturati in terraferma, avea dovuto convenire che i padroni stranieri valgono meglio dei fattori e castaldi nazionali. L’avvocato Ormenta era compagno al Venchieredo in quella trista opera, ma s’infamava meglio per occulte ladrerie che per aperte sopraffazioni. Operavano i consigli del padre Pendola; il quale ad onta della cacciata da Portogruaro e del discredito in cui era tenuto dalla Curia di Venezia avea saputo formarsi un certo partito nel clero meno educato; e da taluni era tenuto per un martire, da altri per un birbante. I vecchi Frumier erano morti ambidue a un mese di distanza l’un dall’altro; dei giovani, Alfonso avea rinunciato al matrimonio per ottenere una commenda dell’Ordine di Malta, e non si sapeva nemmeno ch’egli esistesse; ma si diceva ch’egli corteggiasse una certa dama Dolfin più vecchia di lui d’una quindicina d’anni, e stata già moglie d’un Correggitore a Portogruaro. – Io me ne sovvenni, la ricordai alla Pisana, e ne risimo assieme.
Agostino invece avea brigato un posto nel nuovo governo, perché altrimenti non sapeva come vivere, essendosi per la morte dei genitori perduto ogni loro patrimonio. Lo avevano fatto controllore di Dogana, ed egli n’era umiliato, il fervido repubblicano. Peraltro pensava di riguadagnar la partita con un buon matrimonio; e c’era qualche maneggio con quella donzella Contarini che mio padre avea voluto affibbiarmi col pretesto della dote e del futuro dogado. La contessa di Fratta, come zia, batteva l’acciarino3: ma più che l’affetto pel nipote la lusingava la speranza d’una ricca senseria, perché la sua passione pel giuoco continuava sempre e il patrimonio della famiglia calava sempre trovandosi omai ridotto ad un centinaio di campi intorno al castello di Fratta, sui quali erano ipotecati i crediti delle figlie. La reverenda Clara dopo la morte della madre Redenta era diventata la gran testa del convento e volevano farla badessa. Perciò meno che mai si angustiava per quello che avveniva di brutto o di bello nel secolo. Il conte Rinaldo sgobbava sempre alla Ragioneria e nelle biblioteche; Raimondo Venchieredo se gli aveva offerto di fargli ottenere un avanzamento negli ufficii amministrativi, ma aveva ostinatamente rifiutato; andava via unto e cencioso col suo ducato al giorno, pelatogli anche questo dalla madre; ma non voleva, a mio credere, curvar la schiena più che non fosse strettamente necessario. L’Aglaura in particolare mi dava notizie della Doretta che come sapete era stata altre volte in qualche relazione con lei e precisamente le avea recato per parte del Venchieredo qualche lettera d’Emilio dopo la partenza di costui per Milano. La sciagurata abbandonata da Raimondo aveva perduto ogni ritegno; e di amante in amante sempre più basso era caduta nei sitacci più fetidi e infami di Venezia.
– Vedi, a chi ti fidavi? – dissi io alla Pisana. Ella m’avea confessato che la Doretta era stata a narrarle il mio amore e la mia fuga coll’Aglaura; nella qual cosa la stupida bagascia serviva alle mire di Raimondo contro il suo proprio interesse.
– Che vuoi che ti risponda? – soggiunse la Pisana. – Già sai che quando si è stizziti con alcuno meglio ci entrano le parole cattive che le buone. E se ti confessassi ora che Raimondo stesso mi ti dipingeva come un imbroglione, rimasto a Venezia più tardi degli altri e partito poi per Milano alla sfuggita, solamente per pescar nel torbido, ma in un torbido molto puzzolente!?
– Ah birbante! – sclamai. – Questo ti diceva Raimondo?... L’avrà a fare con me!...
– Io però non ci credeva molto, – riprese la Pisana – o se ci credeva non gliene venne alcun utile, perché cercava forse di staccarmi da te e non fece altro che precipitare la mia venuta a Milano.
– Basta, basta! – diss’io che non udiva ricordare molto volentieri questa parte della nostra vita. – Vediamo ora cosa ne scrive da Cordovado Bruto Provedoni.
E lessimo la lettera tanto sospirata del povero invalido. Io potrei anche, come ho fatto finora, darvene il compendio; ma la modestia di scrittore non lo permette; qui bisogna cedere il campo ad uno migliore di me, e vedrete come un animo generoso sa sopportar la sciagura e guardar dall’alto le cose del mondo senza negar loro né cooperazione né pietà. La lettera l’ho ancora fra le mie cose più care; nel reliquiario della memoria che principia colla ciocca di capelli fattasi strappare dalla Pisana, e finisce colla spada di mio figlio che ieri mi giunse dall’America insieme con la tarda conferma della sua morte. Povero Giulio! Era nato per esser grande; e non poté esserlo che nella sventura. Ma torniamo al principio del secolo, e leggete intanto cosa mi scriveva a Ferrara Bruto Provedoni, tornato da poco tempo nel suo paesucolo con una gamba di meno, e molti affanni di più.
«Carlino amatissimo!
Ho volontà di scrivervi a lungo, perché molte sono le cose che vorrei dirvi e tante le dolorose impressioni che m’ebbi tornando, che mi pare non dovrei mai finire dal raccontarvele. Ma son poco avvezzo a tener la penna in mano, e spesso mi bisogna lasciar da una banda i pensieri e limitarmi a quelle cose materiali che posso alla meglio esprimere. Peraltro di voi non ho soggezione, e lascierò che l’animo parli a suo modo. Dov’egli non si esprimesse a dover voi lo capirete egualmente, e in ogni caso mi compatirete della ignoranza piena di buona volontà.
Se vedeste questi paesi, Carlino!... Non li conoscereste più!... Dove sono andate le sagre, le riunioni, le feste che allegravano di tanto in tanto la nostra giovinezza?... Come sono scomparse tante famiglie che erano il decoro del territorio, e serbavano incorrotte le antiche tradizioni dell’ospitalità, della pazienza cristiana, e della religione?... Per qual incanto s’è assopita ad un tratto quella vita di chiassi, di gare fra villaggio e villaggio, di contese e di risse per le occhiate d’una bella, per l’elezione d’un parroco, o per la preminenza d’un diritto? – In quattro anni sembra ne sian passati cinquanta. Non ci fu carestia, e si lagnano ogni dove della miseria; non ci furono leve di soldati né pestilenze come in Piemonte ed in Francia; e le campagne sono spopolate e le case deserte dei migliori lavoratori. Chi emigrò in Germania, chi nella Cisalpina; chi accorse per far fortuna a Venezia e chi sta zitto per paura nei poderi più nascosti e lontani. La differenza d’opinioni ha disfatto le famiglie; i dolori, i patimenti, le soperchierie della guerra hanno ucciso i vecchi e invecchiato gli adulti. Non si celebrano più matrimonii, e di rado assai il campanello suona pel battesimo. Se si ode la campana si può giurare ch’è per un’agonia o per un morto. La vigoria ch’era rimasta nei nostri compaesani e che s’esercitava o bene o male in piccoli negozii di casa o di comune, ora s’è sfiancata del tutto. Rimasti senza armi senza danari senza fiducia non pensano più che ciascuno a se stesso e pei bisogni dell’oggi; tutti lavorano dal canto loro ad assicurarsi un covacciolo contro le insidie del prossimo e le prepotenze dei superiori. L’incertezza delle sorti pubbliche e delle leggi fa sì che si schivino dal contrattare, e che si speculi sulla buona fede altrui piuttosto che affidarlesi.
Come sapete, furono tolte le antiche giurisdizioni gentilizie; e Venchieredo e Fratta non sono più altro che villaggi, soggetti anch’essi, come Teglio e Bagnara, alla Pretura di Portogruaro. Così si chiama un nuovo magistrato stabilito ad amministrar la giustizia, ma per quanto sia utile e corrispondente ai tempi una tal innovazione, i contadini non ci credono. Io sono troppo ignorante per avvisarne le cause; ma essi forse non si aspettano nulla di bene da coloro che colla guerra hanno fatto finora tanto male. Quello che è certo si è che coloro che in questo frattempo si sono ingrassati furono i tristi; i dabbene rimasero soverchiati, e impoveriti, per non aver coraggio di fare il loro pro’ delle sciagure pubbliche. I cattivi conoscono i buoni; sanno di potersene fidare e li pelano a man salva. Nei contratti con cui sottoscrivono alla propria rovina essi non si provvedono né appigli a future liti né scappatoie; danno nella rete ingenuamente, e sono infilzati senza misericordia. Alcuni fattori delle grandi famiglie, gli usurai, gli accapparratori di grano, i fornitori dei comuni per le requisizioni soldatesche, ecco la genia che sorse nell’abbattimento di tutti. Costoro, villani o servitori pur ieri, hanno più boria dei loro padroni d’una volta, e dal freno dell’educazione o dei costumi cavallereschi non sono neppur costretti a dare alla propria tristizia l’apparenza dell’onestà. Hanno perduto ogni scienza del bene e del male; vogliono esser rispettati, ubbiditi, serviti perché son ricchi. – Carlino! la rivoluzione per ora ci fa più male che bene. Ho gran paura che avremo di qui a qualche anno superbamente insediata un’aristocrazia del denaro, che farà desiderare quella della nascita. Ma ho detto per ora, e non mi ritratto; giacché se gli uomini hanno riconosciuto la vanità di diritti appoggiati unicamente ai meriti dei bisnonni e dei trisarcavoli, più presto conosceranno la mostruosità d’una potenza che non si appoggia ad alcun merito né presente né passato, ma solamente al diritto del denaro, che è tutt’uno con quello della forza. Che chi ha danaro se lo tenga e lo spenda e ne usi; va bene; ma che con esso si comperi quell’autorità che è dovuta solamente al sapere e alla virtù, questa non la potrò mai digerire. È un difettaccio barbaro ed immorale del quale deve purgarsi ad ogni costo l’umana natura.
Oh se vedessi ora il castello di Fratta!... Le muraglie sono ancora ritte; la torre s’innalza ancora tra il fogliame dei pioppi e dei salici che circondano le fosse; ma nel resto qual desolazione! Non più gente che va e viene e cani che abbaiano e cavalli che nitriscono, e il vecchio Germano che lustra gli schioppi sul ponte, o il signor Cancelliere che esce col Conte, o i villani che si schierano facendo di cappello alle Contessine! Tutto è solitudine, silenzio, rovina. Il ponte levatoio è caduto fradicio; e hanno empiuto la fossa con carri di rottami e di calcinacci tolti via dalla casa dell’ortolano che è cascata. L’erba cresce pei cortili, le finestre non solo sono prive d’imposte, ma gli stipiti e i davanzali si sgretolano al gocciolar continuo della pioggia. Si dice che alcuni creditori, o ladri, o che so io, abbiano venduto perfino le travature del granaio; io non ne so nulla; veggo solamente che manca un gran pezzo di tetto e che ci piove e nevica entro, con quanto danno degli appartamenti ve lo potete immaginare!... Marchetto, che è a Teglio per sagrestano e s’è fatto grullo come un cappone, va ancora di tanto in tanto per vecchia abitudine al castello. Egli mi ha raccontato che la signora Veronica è morta, che monsignor Orlando e il Capitano non hanno più che la serva del Cappellano, la Giustina, che tenga conto delle robe loro, e prepari il pranzo e la cena. Monsignore sospira perché non può più ber vino: il Capitano si lamenta perché ha promesso in articulo mortis alla sua Veronica di non pigliare altra moglie, ed ora c’è a Fossalta la vedova dello speziale che è matta, e vorrebbe sposarlo, non so con qual’idea. D’inverno fanno notte alle cinque, e Monsignore si difende col gran dormire. Di tutte le sue antiche relazioni soltanto il Cappellano ha tenuto saldo, e sembra anzi stringerglisi di più ad ogni nuova disgrazia. Monsignore di Sant’Andrea e il piovano di Teglio sono morti anch’essi. Insomma ve lo diceva fin dapprincipio ch’io son partito da un paese e torna in un cimitero; ma ancora non sapete tutto.
Quanto alla maniera di camparla questi signori vivono sulle onoranze e quasi sulle elemosine di quei quattro coloni che son loro rimasti; perché l’entrata viva cola tutta a Venezia. Fattori castaldi ed agenti se la sono fatta, dopo essersi ben rimpannucciati a spese dei gonzi. Fulgenzio già aveva comperato la casa Frumier a Portogruaro, e la trinciava avaramente da signore quand’io sono partito; ora suo figlio Domenico è notaio ed ha avuto un posto a Venezia, l’altro ha detto ieri la prima messa e starà in Curia per cancelliere. È un bel pretino questo don Girolamo, e tutto sommato mi piace più di suo fratello e di suo padre, benché sia furbo come la volpe anche lui.
Ora, Carlino, veniamo a più gravi disgrazie; dico gravi, perché toccano me più davvicino e le ho tenute le ultime perché, se ne discorreva dapprincipio, non avrei potuto risolvermi a parlar d’altro. Mio padre ha tenuto dietro a mia madre, ch’era già morta da un mese quand’io mi sono assoldato con Sandro Giorgi. Egli è spirato, poveretto, fra le braccia dell’Aquilina, perché gli altri suoi figliuoli erano in rotta con lui, e non volevano credere ch’egli avesse a morire. La Bradamante giaceva in letto di parto e non ha potuto esser compagna alla sorella in quegli ultimi e pietosi uffici. Io non voglio dir male dei miei fratelli ma il primo per ignoranza, i più giovani per braveria hanno finito di metter a soqquadro tutta la casa. Porta via di qua, strascina di là, sciupa, vendi, impresta, trovai le camere vuote: cioè vuote; correggo. Leone che s’è trapiantato colla famiglia a San Vito a far il fattore ha creduto bene di affittar la casa, ad eccezione di tre stanze lasciate all’Aquilina e a Mastino: ché in quanto a Grifone era partito per l’Illirico col suo mestiero di capo-mastro. Tre mesi dopo venne offerto a Mastino un posto di scritturante ad Udine, e se la svignò lasciando sola soletta in quelle tre camere una ragazza di quattordici anni. Gli è vero ch’è assai bene sviluppata, e fui molto contento delle lodi che mi fece l’arciprete della di lei condotta: ma ad operare in quel modo bisognava proprio aver nelle calcagna la carità fraterna.
Di tutte queste disgrazie, Carlino, alcuna ne avea già saputa per lettera, altre ne temeva, ma ti dico la verità che a toccarle con mano mi fecero un effetto terribile e quale non mi sarei mai aspettato. Forse anco il vedermi così storpio e impotente a mettervi riparo, finì di amareggiare il mio dolore già per sé acerbissimo. Ma un altro colpo mi dovea toccare che appena giunto mi ha proprio buttato a terra. L’Aquilina fra le tante mi avea raccontato anche la morte del dottor Natalino avvenuta un paio di mesi prima. Una sera indovinereste chi mi capitò in casa?... Mia cognata, quella sciagurata della Doretta!... Aveva insieme uno scribacchiante, un mingherlino che si diceva figliuolo d’un avvocato Ormenta di Venezia, e veniva con lei a reclamare la sua dote e l’eredità del marito. Cosa ne dici eh!... Che cuori!... La dote che nessuno ci aveva mai pagata!... L’eredità d’un uomo ch’ella aveva si può dire ammazzato!... Ma siccome ell’aveva una confessione di debito scritta di pugno di Leopardo otto mesi dopo il loro matrimonio, e d’altronde si commiserava della propria posizione, e il mingherlino mi diceva sotto voce che senza il sussidio di quei danari l’onore di mia cognata avrebbe corso grave pericolo, così e per ritirarla se è possibile dalla mala via in cui si è messa e per rispetto al nostro nome e alla memoria di mio fratello, ho cercato a tutt’uomo i mezzi di pagarla. Ho venduto quanto restava di mio nel podere lasciato da mio padre; le ho consegnato i danari e se n’è andata con Dio; ma il giovinetto sembrava molto premuroso di liberarla dall’incommodo di portare il sacchetto. Ho poi saputo che quel peculio le servì come dote per entrare in un istituto di convertite novellamente aperto a Venezia per cura di alcuni sacerdoti oscuri di nome, ma di cuore cristiano e di onestissime intenzioni. Ella restò nel ritiro un mese, ma poi ne scappò, dicono, indemoniata; ed adesso ho grave timore che non la sia in peggiori condizioni di prima, perché già il dono della dote era irrevocabile, e d’altronde non l’era una tal somma da poterle assicurare una vita indipendente.
Ora voi sapete lo stato nostro e presso a poco anche del paese. Faccio da padre all’Aquilina, amministro quei dieci campi che le sono rimasti e per me mi guadagno il vitto dando qualche lezione di calligrafia in paese e in qualche buona famiglia che vuol forse palliare così una caritatevole elemosina. Le domeniche, Donato nostro cognato viene a prenderci colla carrettella e ci conduce a Fossalta a trovare la Bradamante che ha già tre ragazzini, il primo che sgambetta come una gru, e l’ultimo appeso ancora alla mammella. In onta alla mia gamba di legno io faccio grandi prodezze col primo, e insegno a camminare alla seconda, perché la è una bambina e abbastanza poltroncella per la sua età. Non so se questo sia uno stabilimento definitivo, o un ripiego per miglior fortuna, o una tregua per peggiori disgrazie. So che ho fatto il mio dovere, che lo farò sempre, che se ho preso qualche deliberazione precipitata si fu perché una voce mi chiamava, e infatti le opere mie non hanno mai fatto torto a quelle deliberazioni. Infine le cose potevano andare assai meglio; ma io non do la mia povertà e nemmeno la mia gamba di legno per tutte le ricchezze per tutti gli agi e per la sfacciata salute d’un birbone. Dico bene, Carlino? So che siete del mio parere e perciò vi parlo col cuore in mano. Del resto le mie speranze non si fermano tutte sotto i coppi della mia casa, alcuna ne ho che viene in cerca di voi; altre che rifanno il cammino da me percorso e non vogliono starsi chete alla triste esperienza delle guerre passate. Il nostro Primo Console ha vinto a Marengo, ma dei bei campi di battaglia potremo offrirgliene anche noi, ed egli li conosce da un pezzo e gli furono fausti. Oh se ci potessimo vedere allora! Come farei ballare di gusto la mia gamba di legno... Come bacierei di cuore voi, la Pisana, il dottor Lucilio... A proposito, è vero che il dottore si è fermato a Milano?... Sappiate intanto che Sandro Giorgi fu mandato col suo reggimento alla guerra di Germania. Se le guerre continuano farà certo fortuna, ed io gliela auguro perché in mezzo a’ suoi difettucci ha un cuore un cuore che si farebbe a fette per gli altri. Oh ma io non finirei più di chiaccherare con voi!... Amatemi dunque, scrivetemi, ricordatemi alla Pisana, e non dimenticatevi di far il possibile perché ci possiamo vedere».
Bell’anima d’amico! e si scusava di non saper scrivere! Dove si sente il cuore, chi bada alle parole? chi cerca lo stile quando l’anima ha toccato dolcemente l’anima nostra? – Non mi vergogno a dirvi ch’io piansi su quella lettera, non per le frasi in sé, che forse nessuno ci troverebbe da commoversi, ma appunto per quello studio gentile e pietoso di non commovere, per quella cura dilicata e faticosa di non iscoprire ai lontani tutte le nostre piaghe, acciocché il piacere di aver nuove dell’amico non sia troppo amareggiato dal dolore di saperlo infelice! La morte del padre, lo sperperamento della famiglia, il cattivo cuore dei fratelli; io m’immaginava che tutti questi colpi l’uno sopra l’altro avean dovuto ferire l’animo di Bruto più di quanto egli voleva mostrare. Me lo figurava vicino all’Aquilina, a quella cara e leggiadra ragazzetta così grave così amorosa e che nell’infanzia dimostrava il più soave e compassionevole cuore di donna che si potesse desiderare! Ella avrebbe lenito colla sua ingenuità coi suoi sorrisi celesti i dolori di Bruto, lo avrebbe compensato delle cure che si prendeva per lei; e n’era certo che quelle due creature riunite insieme dopo tante procelle avrebbero trovato nell’amicizia fraterna la felicità e la pace.
La Pisana si univa meco in queste semplici speranze. Cervellino poetico anzitutto ella cercava i robusti contrapposti e la fiera agitazione della tragedia ma comprendeva la rosea innocenza e la pace pastorale dell’idillio. Posando fra Bruto e l’Aquilina le nostre fantasie rivedevano i tranquilli orizzonti delle praterie fra Cordovado e Fratta, le belle acque correnti in mezzo a campagne smaltate di fiori, i cespugli odorosi di madresilva e di ginepro, i bei contorni della fontana di Venchieredo cogli ombrosi sentieruoli e i freschi marginetti di musco! Speravamo per essi, e godevamo per noi. Peccato che quella gamba di legno si attraversasse a tutti i bei romanzi che si potevano immaginare a benefizio di Bruto! Nei paesi un cotal difetto non si perdona, e un eroe zoppo vale assai meno d’un mascalzone ben piantato. Le donne di città son talora più indulgenti; benché anche in questa indulgenza c’entri forse per poco assai l’adorazione dell’eroismo. Ma pure se Bruto non avesse avuto quella gamba di legno sarebbe egli tornato a Cordovado? – Dov’era Amilcare, dov’erano Giulio Del Ponte, Lucilio, Alessandro Giorgio, e dov’era finalmente io, benché meno di essi trasportato da furore di indole a imprese arrischiate? Profughi, esuli, morti, vaganti qua e là, come servi cacciati a lavorare sopra campi non nostri, senza tetto certo, senza famiglia, senza patria sulla terra stessa della patria! – Poiché chi poteva assicurare che una patria concessa dal capriccio del conquistatore dal capriccio stesso non ci sarebbe ritolta?... Già in Francia si cominciava a bisbigliare d’un nuovo ordinamento di governo; e s’accorgevano che il Consolato non era una sedia curule, ma un gradino a soglio più eccelso. Bruto era omai escluso dall’agone ove noi andavamo giostrando alla cieca senza sapere qual sarebbe il premio di tanti tornei. Almeno avea ritrovato il focolare paterno, il nido della sua infanzia, una sorella da amare e da proteggere! Il suo destino gli stava scritto dinanzi agli occhi non glorioso forse né grande ma calmo, ricco di affetti e sicuro. Le sue speranze avrebbero sciolto il volo dietro alle nostre o sarebbero cadute con esse senza il rimorso di aver oziato per infingardaggine, senza lo sconforto di aver faticato indarno ad inseguire un fantasma.
Così io veniva invidiando la sorte d’un giovine soldato che tornava al suo paese, storpio d’una gamba, e invece delle braccia di suo padre in cui gettarsi non trovava che una fossa da irrigare di pianto. Pure io non era de’ più sfortunati. Moderato di voglie di speranze di passioni, quando i miei mezzi privati cominciavano a mancarmi, il soccorso pubblico mi era venuto incontro. Senza protezioni, senza brogli, in paese forestiero, ottenere a ventisei anni un posto di segretario in un ramo così importante e nuovo della pubblica amministrazione, com’erano allora le Finanze, non fu piccola né spregevole fortuna: e non me ne contentava. Tutti mi verranno addosso con baie e con rimbrotti. Ma io lo confesso senza vergognarmene: ebbi sempre gli istinti quieti della lumaca, ogniqualvolta il turbine non mi portò via con sé. Fare, lavorare sgobbare mi piaceva per prepararmi una famiglia una patria una felicità; quando poi questa meta della mia ambizione non mi sorrideva più né vicina né sicura, allora tornava naturalmente col desiderio al mio orticello, alla mia siepe, dove almeno il vento non tirava troppo impetuoso, e dove sarei vissuto preparando i miei figliuoli a tempi meglio operosi e fortunati. Io non aveva né la furia cieca e infrenabile d’Amilcare che slanciata una volta non poteva più indietreggiare, né l’instancabile pertinacia di Lucilio che respinto da una strada ne cercava un’altra, e attraversato in questa se ne apriva una di nuova sempre per tendere a uno scopo generoso sublime, ma alle volte dopo quattr’anni di sudori più incerto e lontano che non fosse dapprincipio. Per me vedeva quella gran via maestra del miglioramento morale, della concordia, e dell’educazione alla quale si doveva piegare ogniqualvolta le scorciatoie ci avessero fuorviato. Mi sarei dunque messo in quella molto volentieri per uscirne soltanto quando un bisogno urgente mi chiamasse. Invece la sorte mi faceva battere la campagna a destra ed a mancina. L’anno prima bocca inutile a Genova, allora segretario a Ferrara; i geroglifici del mio pronostico si disegnavano con caratteri tanto varii che a volerne comporre una parola bisognava stiracchiare affatto il buon senso.
Fortuna che la Pisana mi dava frequentissimi svagamenti da queste mie melensaggini. Le sue rappresaglie donnesche col capitano Minato, e le bizzarrie continue che davano a parlare per un mese alla già sordo-muta società di Ferrara mi tenevano occupato per quelle poche ore che mi restavano libere dal trebbiatoio dell’ufficio. Passare dalle somme, dalle sottrazioni e dalle operazioni scalari delle imposte agli accorgimenti strategici d’un amante geloso non era impresa da cavarsene come a sorbir un uovo. Anzi mi faceva mestieri tutta la ginnastica dello spirito, e tutta la prontezza acquistata in simili evoluzioni da quindici e più anni d’esercizio. Del resto v’aveano giorni che la Pisana s’occupava sempre di me, e di sorvegliarmi come un ragazzaccio che meditasse qualche scappata; allora, o fingeva di non m’accorgere di una cotal diffidenza, o ne metteva il broncio, ma davvero che ne aveva un gusto matto, perché poteva riposarmi delle fatiche passate e preparar lena pel futuro. Se mai vi fu amante o marito che si affannasse per ben governar la sua donna senza farle sentire il peso delle redini, fui certo io in quel tempo vissuto a Ferrara. I galanti papalini, i lindi ufficialetti francesi andavano dicendo: – Che buona pasta d’uomo! – ma mi avrebbero forse voluto un po’ più fuori dei piedi; e li pestassi anche e facessi il cattivo, non se l’avrebbono legata al dito. Ero, per dirla tutta, un buono incommodo; e qui stava il peggio, ché non potevano lagnarsene, né appormi la ridicolaggine d’un Otello finanziere.
A rompere questo armeggio di schermi e di difese cascò in mezzo a noi la notizia d’una malattia della contessa di Fratta. Era il conte Rinaldo che la partecipava alla Pisana senza aggiungere commenti: diceva soltanto che non potendo la reverenda Clara uscir di convento, sua madre rimaneva sola, affidata alle cure certo poco premurose d’una guattera: sapendo poi la Pisana a Ferrara, avea creduto dover suo trascendere ogni riguardo e farle nota questa grave disgrazia che li minacciava. La Pisana mi guardò in viso; io senza por tempo in mezzo dissi: – Bisogna che tu vada! – Ma vi assicuro che mi costò assai il dirlo; e fu un sacrifizio all’opinion pubblica, che altrimenti m’avrebbe tacciato di snaturare una figliuola ne’ suoi più doverosi riguardi verso la madre. La Pisana invece la tolse pel cattivo verso; e benché io credo che se avessi tacciuto io, ella avrebbe parlato come me, pure si diede a brontolare, che già ero stanco di lei, e che non cercavo nulla di meglio che un appiglio qualunque per levarmela d’attorno. Ne converrete che fu un’ingiustizia solenne. Io risposi, scrollando le spalle, che ella invece a mio credere andava a caccia tutto il giorno de’ più strani pretesti per rincrescermi, e che mi doveva anzi esser grata dell’esser stato il primo io a proporle un viaggio a me per ogni conto spiacevole ed incommodo. Infatti, lasciando andare la solitudine nella quale restava, a quel tempo si stentava anche non poco in punto a quattrini. A me piacque sempre il ben vivere, la Pisana non ha mai saputo far un conto in sua vita, e non s’è presa mai il benché menomo pensiero né della sua borsa né di quella degli altri: insomma si spendeva a tutto andare ed anche si piantava qua e là per le botteghe qualche piccolo chiodarello. Tuttavia la voleva bisticciare con me e ci riescì. Non ho mai capito questo talento di martoriarmi appunto allora ch’eravamo in procinto di dividerci, col gran bene che la mi voleva; perché vi assicuro io che si sarebbe fatta a pezzi per me. Io m’immagino che il dispiacere di doversene andare le guastasse l’umore, e che colla sua solita sventatezza se ne sfogasse addosso a me. Qualche volta le venivano rossi gli occhi, mi veniva dietro per casa come una ragazzina dietro la mamma; e s’io poi le volgeva uno sguardo amorevole una parola di conforto, s’oscurava in viso come l’ora di notte, e si volgeva da un altro canto facendo forza di non badare a me. Insomma le vi parranno le solite ragazzate; ma bisogna ch’io ve le racconti per dimostrare il continuo sospetto in che io vissi dell’animo della Pisana inverso di me, ed anche perché la sua indole fu così straordinaria che merita una storia apposita.
Adunque pochi giorni dopo, raggrannellati i denari occorrenti al viaggio, io la condussi in calesse fino a Pontelagoscuro, e di colà in barca si avviò per Venezia. Quello, cioè il Po, si era il confine fra le provincie venete occupate dai Tedeschi e la Repubblica Cisalpina; né io poteva accompagnarla oltre. Pertanto in capo ad una settimana ebbi notizia da lei che sua madre era affatto fuori di pericolo, ma che la convalescenza vorrebbe essere un po’ lunga e che perciò ci rassegnassimo a una separazione di qualche mese. Ciò mi diede noia non poco, ma in vista delle altre buone notizie che mi dava cercai consolarmene. L’Aglaura e Spiro vivevano in perfetta concordia con due bambinelli ch’era una delizia a vederli; i negozii loro prosperavano viemmeglio, e ci si profferivano a me ed a lei in ogni cosa che ne potesse occorrere. Il Conte suo fratello, in onta alla freddezza della lettera, l’avea poi trattata con ogni amorevolezza: e un’altra novità c’era che poteva convenire non poco ad ambidue. Sua Eccellenza Navagero colpito da una paralisi generale e da completa imbecillità giaceva in letto da un mese: ella mi comunicava le tristi condizioni del marito colle parole più compassionevoli del mondo, ma la cura presa di descriverle appunto tristissime e disperate dinotava una facile rassegnazione all’ultimo colpo che si aspettava di giorno in giorno. Perciò io mi adattai con minor uggia al mio isolamento; e mi cacciai intanto a tutt’uomo nelle cure d’ufficio per sentirne meno i fastidii.
In quella s’era adunata la Consulta di Lione pel riordinamento della Cisalpina, la quale ne uscì col battesimo d’Italiana, ma riordinata per bene, cioè secondo i nuovi disegni di Bonaparte, Primo Console, che ne fu eletto Presidente per dieci anni. Il Vicepresidente, che ebbe poi a governare in persona, fu Francesco Melzi, uomo invero liberale e di sentimenti grandi e patriottici, ma che per la sua magnificenza e per la nobiltà dell’origine non collimava coi gusti dei democratici più ardenti. Lucilio mi avvisò da Milano di cotali mutamenti e con una certa livida rabbia che mi diceva assai piucché non osasse scrivere: certo egli s’aspettava che io rinunziassi al mio posto e che rifiutassi di servire un governo dal quale erasi allontanato ogni vero repubblicano. Io in verità ne sentii qualche voglia; e non tanto per la repubblica in sé, quanto perché il fervore repubblicano era omai il solo incentivo di quelle mie ostinate speranze sopra Venezia per le quali soltanto m’induceva a durare negli ufficii della Cisalpina. Ma avvenne allora un caso che mi stornò da cotale idea. Ricevetti nientemeno che la nomina d’Intendente, vale a dire Prefetto delle Finanze, a Bologna.
Fosse che il nuovo governo mi giudicasse proclive alle sue massime d’ordine e di moderazione, o che mi ricompensassero del lavoro assiduo e utilissimo di quegli ultimi mesi, il fatto sta che la nomina io la ebbi e con mia grande sorpresa. Forse anco si abbisognava per quel posto d’un uomo laborioso attento infaticabile, e a cotal uopo fu creduto atto più un giovane che un magistrato provetto. Io per me fui portato via da un tal delirio d’ambizione che per due o tre mesi non mi ricordai più né di Lucilio né quasi anche della Pisana. Mi pareva già che il Ministero delle Finanze mi sarebbe toccato alla prima occasione; e una volta là in alto, chi sa?... Il cambiar poltrona è impresa sì agevole quando si è tutti insieme in una stessa sala! Pensava alle antiche lusinghe di mio padre e non le trovava più né strane né irragionevoli; soltanto quella presidenza decennale di Bonaparte mi angustiava un poco, e per quanto fossi temerario non giunsi, lo confesso, nemmeno in sogno a spuntarla con lui. Mi pareva un pezzo troppo grosso da sollevare. Quanto agli altri avrei adoperato Prina come savio amministratore; e con Melzi ci saremmo intesi. Sapeva della sua crescente dissensione col Console per quel fare da sé e quello stare da sé che dipendeva dalla sua natura tutta italiana, e tendeva per opera sua a regolare gli andamenti del governo italiano appetto del francese. Di ciò mi sarei giovato con arte con furberia: fermo sempre che tutta la mia ambizione tutte le mie mire sarebbero volte ad allargare fino a Venezia la Repubblica Italiana. E questa fu la scusa della mia pazzia.
Impiantato a Bologna con questi grandi propositi pel capo fui un Intendente di Finanza molto facondo e munifico: voleva prepararmi la strada alle future grandezze: seppi al contrario in seguito che, per cotali gonfiamenti mi chiamavano nel loro gergo maligno bolognese l’Intendente Soffia. Dopo qualche mese di boriosa beatitudine e di ostinato lavoro nella sana disposizione dell’imposte, cosa insolita nella Legazione, cominciai a credere che non fossi ancora in Paradiso, ed a sperare che il ritorno della Pisana avrebbe supplito a quel tanto che sentiva mancarmi. Infatti non due non tre ma sei mesi erano trascorsi dalla sua partenza da Ferrara, e non solo non tornava, ma da ultimo anche dopo il mio passaggio a Bologna scarseggiavano le lettere. Fu gran ventura che avessi il capo nelle nuvole, altrimenti l’avrei dato nelle pareti. La Pisana aveva questo di singolare nel suo stile epistolare, che non rispondeva mai subito alle lettere che riceveva; ma le metteva da un canto e poi le riscontrava tre quattro otto giorni dopo, sicché non ricordandosi ella più di quanto aveva letto, la risposta entrava in materia affatto nuova, e si giocava alle bastonate alla guisa dei ciechi. Molte e molte volte io le aveva scritto ch’ero stufo di restar solo, che non sapeva che pensare di lei, che si decidesse a tornare, che mi scoprisse almeno la vera cagione di quella inconcepibile tardanza. Eh nulla! Era un battere al muro. Mi rispondeva di volermi bene piucchemai, che io badassi a non dimenticarmi di lei, che a Venezia si annoiava, che sua mamma stava proprio benino, e che sarebbe venuta appena le circostanze lo permetterebbero.
Io riscriveva a posta corrente domandando quali fossero queste circostanze, e se le abbisognavano denari; o se non poteva venire per qualche gran motivo, e che lo dicesse pure perché in questo caso avrei domandato un passaporto e sarei ito a tenerle compagnia per tutta la durata del mio permesso. Non mancava poi mai di chiederle informazione della preziosissima salute di S. E. Navagero, il quale, secondo me, doveva esser andato al diavolo da un pezzo: eppur la Pisana non mi rispondeva mai neppure in qual mondo egli fosse. La trascuranza di ciò ch’ella sapeva dovermi tanto premere finì di punzecchiare l’amor proprio del magnifico Intendente di Bologna. Per completare la mia grandezza, perché il carro del mio trionfo avesse tutte quattro le ruote mi bisognava una moglie; e questa non poteva aspettarla che dalla morte del Navagero. Mi stupiva quasi come questo inutile nobiluomo non si fosse affrettato a morire per far piacere ad un Intendente par mio. Se poi era la Pisana che me ne tardava a bella posta la novella, l’avrebbe a che fare con me!... Voleva che sospirasse almeno un anno la mano del futuro ministro delle Finanze... e poi?...oh, il mio cuore non sapeva resistere più a lungo, nemmeno in idea. L’avrei assunta al mio trono, come fece Assuero dell’umile Ester; e le avrei detto: – Mi amasti piccolo, grande te ne ricompenso! – Sarebbe stato un bel colpo; me ne congratulava con me stesso, passeggiando su e giù per la stanza, sfregolandomi il mento, e masticando fra i denti le paroline che avrei soggiunto ai ringraziamenti infocati della Pisana. I subalterni che entravano con fasci di carte da firmare, si fermavano sulla soglia e andavano poi fuori a raccontare che l’Intendente Soffia era tanto in sul soffiare che pareva matto.
Peraltro quei giorni meno che gli altri avevano a lagnarsi di me: e in generale, siccome lavorava molto io, ed era paziente e corrivo cogli altri, in onta al mio soffiare avean preso a volermi bene. Gli uomini bolognesi sono i più gentili mordaci e dabbene di tutta Italia; per cui anche avendoli amici, e amici a tutta prova, bisogna permetter loro di dir male e di prendersi beffa di voi almeno un paio di volte il mese. Senza questo sfogo creperebbero; voi ne perdereste degli amici servizievoli e devoti, ed il mondo degli spiritini allegri e frizzanti. Quanto alle donne, sono le più liete e disimpacciate che si possano desiderare: sicché il governo dei preti non va accagionato di renderle impalate e selvatiche. Se questo si osservò un tempo a Verona a Modena e in qualche altra città di costumi bigotti, vuol dire che ne avranno avuto colpa più le monache le madri i mariti che i preti. La religione cattolica non è né arcigna né selvatica né inesorabile; infatti se volete trovare l’obesità, la rigidezza e lo spleen bisogna andare fra i protestanti. Non so se compensino queste magagne con altre doti bellissime; io guardo, noto senza parzialità, e tiro innanzi. Anche un rabbino mi assicurò l’altro giorno che la sua religione è la più filosofica di tutte; ed io lo lasciai dire benché, sapendo che il rabbino è filosofo, avrei potuto rispondergli: Padron mio, tutti i filosofi maomettani, bramini, cristiani ed ebrei trovarono sempre la propria religione più filosofica delle altre. Così il cieco definisce il rosso il più sonante di tutti i colori. La religione si sente e si crede, la filosofia si forma e si esamina: non mescoliamo di grazia una cosa coll’altra!...
Per finir poi di parlarvi di Bologna, dirò che vi si viveva allora e vi si vive sempre allegramente, lautamente, con grandi agevolezze di buone amicizie, e di festive brigate. La città dà mano alla villa e la villa alla città: belle case, bei giardini, e grandi commodi senza le stiracchiature di quel lusso provinciale che dice: rispettatemi perché costo troppo e devo durare assai! – Sempre in attività, sempre in movimento tutte le funzioni vitali. Ciarlieri e vivaci per affrontare il brio e la ciarla altrui; lesti per piacere a quelle care donnine così leste e compagnevoli; agili e svelti per correre di qua e di là e non mancare al gentil desiderio di nessuno. Si mangia più a Bologna in un anno che a Venezia in due, a Roma in tre, a Torino in cinque e a Genova in venti. Benché a Venezia si mangia meno in colpa dello scilocco, e a Milano più in grazia dei cuochi... Quanto a Firenze a Napoli a Palermo, la prima è troppo smorfiosa per animare i suoi ospiti alle scorpacciate; e nelle altre due la vita contemplativa empie lo stomaco per mezzo dei pori senza affaticar le mascelle. Si vive coll’aria impregnata dell’olio volatile dei cedri e del fecondo polline dei fichi. Come ci sta poi col resto la question del mangiare? Ci sta a pennello perché la digestione lavora in ragione dell’operosità e del buon umore. Una pronta e svariata conversazione che scorra sopra tutti i sentimenti dell’animo vostro, come la mano sopra una tastiera, che vi eserciti la mente e la lingua a correre a balzare di qua e di là dove sono chiamate, che ecciti che sovrecciti la vostra vita intellettuale, vi prepara meglio al pranzo di tutti gli assenzii e di tutti i Vermutti della terra. Il Vermuth han fatto bene a inventarlo a Torino dove si parla e si ride poco, fuori che alle Camere: del resto quando l’hanno inventato non avevano lo Statuto. Ora dell’attività ce n’è, ma di quella che aiuta a fare, non di quella che stimola a mangiare. Fortuna per chi spera in bene e pei fabbricatori di Vermuth.
Ad onta di tutte queste chiacchere che infilzo adesso, la Pisana allora non faceva mostra per nulla di voler tornare; e Bologna perdeva a poco a poco il merito di stuzzicarmi l’appetito. Un amore lontano per un Intendente di ventott’anni non è disgrazia da metterla in burla. Passi per un mese o due; ma otto, nove, quasi un anno! Io non aveva fatto nessuno dei tre voti monastici e doveva i osservarne il più scabroso. Capperi! come vi veggo ora rider tutti della mia capocchieria!... Ma non voglio ritrattarmi d’un punto. La Pisana a quel tempo io l’amava tanto, che tutte le altre donne mi sembravano a dir poco uomini. Ometti bellini piacevoli eleganti, in rispetto alle bolognesi; ma sempre uomini; e non era né rusticità né chiettineria, ma tutto amore era. Così non mi vergogno a confessarvi d’aver fatto parecchie volte il Giuseppe Ebreo: mentre invece nella successiva separazione dalla Pisana andai soggetto a varie distrazioni. Vuol dire che non l’amava meno, ma in modo diverso; e, checché ne dicano i platonici, io sopportai la seconda lontananza con molto miglior animo che la prima.
Allora peraltro avendo una gran fretta e un furore indiavolato di riaver la Pisana, non potendo saperne una di chiara da lei, mi volsi all’Aglaura pregandola, se aveva viscere di carità fraterna, a volermi significare senza misteri senza palliativi quanto concerneva mia cugina. In fino allora mia sorella s’era schivata sempre di rispondere esplicitamente alle mie inchieste sopra tale proposito; e col credere o col non sapere se la cavava dai freschi4. Ma quella volta, conoscendo dal tenor della lettera che veramente io era sgomentatissimo e in procinto di fare qualche pazzia, mi rispose subito che aveva sempre taciuto pregata di ciò dalla Pisana stessa, che allora peraltro voleva accontentarmi perché vedeva l’agitazione della mia vita; che sapessi dunque esser già da sei mesi la Pisana in casa di suo marito, occupatissima a fargli d’infermiera, e che non pareva disposta ad abbandonarlo. Mi dessi pace che ella mi amava sempre, e che la sua vita a Venezia era proprio quella d’un’infermiera.
Oh se avessi allora avuto fra le unghie Sua Eccellenza Navagero!... Credo che non avrebbe abbisognato più a lungo di infermieri. Cosa gli saltava a quel putrido carcame di rubarmi la mia parte di vita?... C’era mo giustizia che una giovane come sua moglie... Mi fermai un poco su questa parola di moglie, perché mi balenò in capo che le promesse giurate appiè dell’altare potessero per avventura contar qualche cosa. Ma diedi di frego a questo scrupolo con somma premura. – Sì, sì, ripigliai; c’è giustizia che sua moglie resti appiccicata a lui, come un vivo a un cadavere?... Nemmeno per sogno!... Oh, per bacco, penserò io a distaccarli, a terminare questo mostruoso supplizio. Dopo tutto, anche non volendo dire che la carità principia da noi stessi, non è forse secondo le regole di natura ch’egli muoia piuttosto che me? Senza contare che io ne morrò davvero; ed egli sarà capace di tirar innanzi anni ed anni a questo modo, l’imbecille!...
Afferrai la mia magnifica penna d’Intendente e scrissi un tal letterone che avrebbe fatto onore ad un re in collera colla regina. Il succo era che se ella non veniva più che presto a rimettermi un po’ di fiato in corpo, io, la mia gloria la mia fortuna saremmo andati sotterra. Questa mia lettera rimase senza risposta un paio di settimane, in capo alle quali quand’appunto io pensava seriamente ad andarmene, non dirò sotterra, ma a Venezia, capitò inaspettata la Pisana. Aveva il broncio della donna che ha dovuto fare a modo altrui, e prima di ricevere né un bacio né un saluto, volle ch’io le promettessi di lasciarla ripartire a suo grado. Poi vedendo che questo discorso mi toglieva metà del piacere di sua venuta, mi saltò colle braccia al collo, e addio signor Intendente! – Io era impazientissimo di farle osservare tutti gli agi annessi alla mia nuova dignità; un sontuoso appartamento, portieri a bizzeffe, olio, legna, tabacco a spese dello Stato. Fumava come il povero mio padre per non lasciar indietro nessun privilegio, e mangiava d’olio tre giorni per settimana come un certosino; ma avea messo da un canto una bella sommetta per far figurar degnamente la Pisana nella società bolognese; era pel mio temperamento una tal prova d’amore che la doveva cadermi sbasita dinanzi. Invece non ci badò quasi; perché per intendere il merito di cotali sforzi bisogna esserne capaci, ed ella, benedetta, avea più buchi nelle tasche e nelle mani che non ne abbia nella giubba un accattone romagnuolo. Soltanto fece due occhioni tondi tondi sentendo nominare quattrocento scudi; pareva che da un pezzo ella avesse perduto l’abitudine di udir perfino nominare sì grossa somma di danaro. Al fatto peraltro non fu tanto grossa come si credeva. Abiti, cappellini, smanigli, gite, rinfreschi mi misero perfettamente in corrente colla paga e gli scudi non mi si invecchiavano più di quindici giorni nel taschino.
Svagata di qua di là la Pisana mi scoperse in breve un altro lato nuovissimo del suo temperamento. Diventò la più allegra e ciarliera donnetta di Bologna; ne teneva a bada quattro, sei, otto; non si musonava né si stancava mai; non si sprofondava né in un’osservazione né in un pensiero né in una sbadataggine a segno di dimenticarsi degli altri; anzi sapeva così bene distribuir parolette e sorrisi, che n’era un poco per tutti e troppo per nessuno. Poteva fidarmi di lei, ed erano finite le tormentose fatiche di Ferrara. Tutti intanto parlavano chi della cugina chi della moglie chi dell’amante del signor Intendente; v’aveva chi volea sposarla, e chi pretendeva sedurla o rapirmela. Ella s’accorgeva di tutto, ne rideva garbatamente e se il brio lo dispensava ognidove, l’amore poi lo serbava per me. Donne così fatte piacciono in breve anche alle donne, perché gli uomini si stancano di cascar morti per nulla e finiscono col corteggiarle per vezzo, tenendo poi saldi i loro amori in qualche altro luogo. Così dopo un mese la mia Pisana, adorata dagli uomini, festeggiata dalle donne, passava per le vie di Bologna come in trionfo, e perfino i biricchini le correvano dietro gridando: – È la bella veneziana! è la sposa del signor Intendente! – Non voglio dire se ella ne invanisse di queste grandi fortune, ma certo sapeva farsene merito presso di me col miglior garbo della terra. E a me s’intende toccava amare, com’era giusto, in proporzione dei desiderii che le formicolavano intorno.
Così menando questa vita di continui piaceri, e di domestica felicità, non si parlava più di ripartire. Quando giungevano lettere da Venezia appena era se vi metteva sopra gli occhi; ma se la scrittura voltava pagina, ella non la voltava di sicuro, e piantavala a mezzo. Io poi me le leggeva da capo a fondo, ma aveva cura di nasconderle tutta la premura che di tanto in tanto sua madre od il marito le facevano di tornare. Questi pareva non fosse più né tanto geloso né così prossimo a morire; parlava di me con vera effusione d’amicizia, come d’uno stretto e carissimo parente, e degli anni futuri come d’una cuccagna che non doveva finir mai.
– Mostro d’un moribondo! – borbottava io. – Pur troppo è risuscitato! – E quasi quasi mi sentiva in grado io di far il geloso per tutto quel tempo che la Pisana avea dimorato presso di lui. Ma ella sbellicava dalle risa per queste ubbie: ed io ci rideva anch’io: però trafugava le lettere, e, buttate ch’ella le avesse da un canto, mi prendeva ogni briga perché non le capitassero più in mano. La sua smemorataggine mi serviva in ciò a capello. Quanto alla sua lunga dimora a Venezia, ecco come stava la cosa; o meglio com’essa me l’ebbe a raccontare a pezzi a bocconi secondoché l’estro lo permetteva. Sua madre convalescente l’avea pregata almeno per convenienza di far una visita al marito moribondo, la quale, diceva lei, sarebbe riescita graditissima. Infatti la Pisana si era adattata; e poi lo stato del poveruomo, le sue strettezze finanziarie (a tanto ei si diceva scaduto dalla pristina opulenza), l’abbandono nel quale viveva le aveano toccato il cuore e persuasala a rimanere presso di lui, com’egli ne mostrava desiderio. Era stata tutta bontà: ed io pur lamentandone i brutti effetti per me, non potei a meno di lodarnela in fondo al cuore, e di innamorarmene vieppiù.
Peraltro potete credere che io andava molto cauto nello strapparle di bocca tali confidenze; e non vi insisteva mai che un attimo un lampo, perché col batterla troppo aveva una paura smisurata di ravvivarle in mente tutte quelle cagioni di pietà, e di metterla in voglia di partire. Io era abbastanza giusto per lodare, abbastanza egoista per impedire questi atti di eroica virtù; e per avventura, essendo la Pisana una creatura molto buona e pietosa ma ancor più sbadata a tre tanti, mi venne fatto di trattenerla in feste in canti in risa per quasi sei mesi. Tuttavia io vedeva crescere con ispavento il numero e l’eccitamento delle lettere; ma vedendo che non ne veniva alcun guaio, mi ci abituai e credetti che questa beatitudine non dovesse finir più. Di Ministro delle Finanze, e Vice-presidente e Presidente della Repubblica, m’era ridotto ancora modestamente tranquillamente al mio posto; e se gli altri facevano le belle cose che frullavano in capo a me, avrei giudicato comodissimo di non mi muovere.
Poveri mortali, come son caduche le nostre felicità!... L’istituzione d’una diligenza tra Padova e Bologna fu che mi rovinò. Il conte Rinaldo che non avrebbe sofferto per la sua debolezza di stomaco un viaggio per acqua fino a Ferrara o a Ravenna, approfittò con assai piacere della diligenza, mi venne tra i piedi a Bologna, eppur nessuno l’aveva chiamato; si fece condurre alla Madonna di Monte, alla Montagnola, a San Petronio, e per mercede di tutto ciò mi condusse via la Pisana sul terzo giorno. Alla vista del fratello tutta la sua compassione s’era raccesa, tutti i suoi scrupoli la punzecchiavano; e non ch’ella accondiscendesse ad un suo invito, ma fu anzi la prima a proporglisi per compagna nel ritorno. Quell’assassino non disse nulla; non rispose nemmeno ch’egli era venuto espressamente per ciò. Volle lasciarmi nella credula illusione ch’egli avesse trottato da Venezia a Bologna per la curiosità di veder San Petronio. Ma io gli aveva letto negli occhi fin dal primo sguardo; e mi arrabbiai di vederlo riescire nel suo intento senza pur l’incommodo di una parola. Che dovesse esser più destro e potente in politica donnesca un topo di libreria sucido unto e cisposo, che un amante bellino giovine ed Intendente? – In certi casi sembra di sì: io rimasi a soffiare ed a mordermene le dita.
Mi rimisi dunque al fatto mio di schiena; per isvagarmi se non altro dalla noia che mi tormentava. E lavorando molto, e dimenticando il più che poteva, diventai a poco a poco un altr’uomo; sta a voi decidere se migliore o peggiore. M’andarono svaporando dal capo i fumi della poesia; cominciai a sentir il peso dei trent’anni che già stavano per piombarmi addosso, ed a fermarmi volentieri a tavola ed a dividere l’amore che sta nell’anima da quello che solletica il corpo. Scusate; mi pare di avervi detto che mi faceva altr’uomo; ma la mia opinione si è che mi veniva facendo bestia. Per me chi perde la gioventù della mente non può che scadere dallo stato umano a qualche altra più bassa condizione animalesca. La parte di ragione che ci differenzia dai bruti non è quella che calcola il proprio utile e procaccia i commodi e fugge la fatica, ma l’altra che appoggia i proprii giudizi alle belle fantasie e alle grandi speranze dell’anima. Anche il cane sa scegliere il miglior boccone, e scavarsi il letto nella paglia prima di accovacciarvisi; se questa è ragione, date dunque ai cani la patente di uomini di proposito. Peraltro vi dirò che quella vita così miope e bracciante aveva allora una scusa; c’era una grande intelligenza che pensava per noi, e la cui volontà soperchiava tanto la volontà di tutti che con poca spesa d’idee si vedevano le gran belle opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono né bianche né nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia; e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s’allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali. Bastava ubbidire, perché una attività miracolosa si svolgesse ordinatamente dalle vecchie compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se si fosse continuato così una ventina d’anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita intellettuale si sarebbe destata dalla materiale, come nei malati che guariscono. A vedere il fervore di vita che animava allora mezzo il mondo c’era da perder la testa. La giustizia s’era impersonata una ed eguale per tutti; tutti concorrevano omai secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma si faceva. S’avea voluto un esercito e un esercito in pochi anni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell’ozio e viziate dal disordine si coscrivevano legioni di soldati sobrii ubbidienti valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll’ordine colla disciplina. La prima volta ch’io vidi schierati in piazza i coscritti del mio Dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che così si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici quelle plebi cittadine che s’armavano infino allora soltanto per batter la campagna e svaligiare i passeggieri.
Da questi principii m’aspettava miracoli e persuaso d’essere in buone mani non cercai più dove si correva per ammirare il modo. Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni. Il Pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scriveva che s’andava di male in peggio; che abdicando dall’intelligenza un popolo perdeva ogni libertà ed ogni forza propria, che si sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell’ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della mia Intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell’assenza della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. – Viva il signor Ludro! – Così vissi quei non pochi mesi tutto impiegato tutto lavoro tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori dal quadro che mi si poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell’anima; si cessa di esser uomini per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di ungerle al primo del mese.
Fu sventura o fortuna? – Non so: ma la proclamazione dell’Impero Francese mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e conobbi che non era più padrone di me; che l’opera mia giovava ingranata in quelle altre opere che si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di là, guai; era un rimaner zero. Se tutti erano nel mio caso, come avea ragione di dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal vero. Cominciai un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come la presente le corrispondeva. Trovai una diversità, una contraddizione che mi spaventava. Non erano più le stesse massime le stesse lusinghe che dirigevano le mie azioni; prima era un operaio povero affaticato ma intelligente e libero, allora era un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi curvassi metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo più giù in quella scala di servilità.
Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d’Italia, presi le poche robe, i pochi scudi che aveva, andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione. Trovai altri quattro o cinque colleghi venuti per l’egual bisogna e ognuno credeva trovarne un centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero in grugno, e notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona raccomandazione pel futuro. Napoleone capitò a Milano e si pose in capo la Corona Ferrea dicendo: – Dio me l’ha data, guai a chi la tocca! – Io mi assettai povero privato nelle antiche cameruccie di Porta Romana dicendo a mia volta: – Dio mi ha dato una coscienza, nessuno la comprerà! – Ora i nemici di Napoleone trovarono ardimento e forza bastante a toccare e togliergli dal capo quella fatale corona; ma né la California né l’Australia scavarono finora oro bastante per pagare la mia coscienza. – In quella circostanza io fui il più vero e il più forte.