CAPITOLO VENTESIMOPRIMO

Come io cooperassi a risvegliare in Venezia qualche attività commerciale, principio se non altro di vita e come il maggiore de’ miei due figli partisse con lord Byron per la Grecia. – Un duello a cinquant’anni per l’onore dei morti. Viaggio di nozze a Napoli di Romania e funebre ritorno per Ancona nel Marzo del 1831 – La morte mi toglie il mio secondogenito e fa man bassa sopra amici e nemici – Essa trova un potente alleato nel cholera – Il collegiale di sessantacinque anni.

Si sanno le cagioni per cui è caduta Venezia: e quelle cagioni stesse fecero sì, che neppur potesse rialzarsi all’attività della vita materiale. Il destino vi ebbe la maggior colpa, perocché il torpore medesimo del governo e l’infiacchimento del popolo derivarono dalla chiusura di quelle vie per le quali si esercitava con massimo buon frutto l’attività sì dell’uno che dell’altro. Che colpa ci ebbero i Veneziani se Colombo e Magellano crearono nuovi commerci a profitto d’altre nazioni, e se Vasco di Gama aperse nuovi scali alle merci dell’Oriente? I Veneziani durarono audaci e meravigliosi mercanti finché fu loro possibile vendere le merci dei paesi lontani con benefizio maggiore degli altri concorrenti; serbarono abitudini e forze guerresche finché quel vasto e ardito commercio abbisognò d’una poderosa tutela. Cessato l’incentivo dell’utile, cessò il naturale richiamo alle antiche e gloriose tradizioni; cessarono le spedizioni omai troppo costose e poco proficue al Mar Nero ed alla Siria, dove si scambiavano le manofatture europee colle merci della Moscovia, dell’India e della China portate dalle carovane; cessò lo spirito militare che in essi come negli Inglesi altro non era che un difensore della prosperità commerciale.

Così fu tolta a Venezia ogni ragione d’esistenza ed ogni azione nella civiltà. Continuò a vivere per consuetudine, per accidente, come diceva il doge Renier; tuttavia tre secoli di decadenza lenta onorata e quasi felice diedero un’altra e solenne prova dell’antica potenza di Venezia e delle virtù immedesimate nel suo governo e nel suo popolo da tanto tempo di glorioso esercizio. Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e constantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de’ suoi commerci avrebbe trovato nell’allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora più da commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi di alimentare la propria ricchezza. Furono accorti politici e soldati non per assodare e dilatare oltre il Po ed il Mincio l’influenza del governo, e prepararsi un futuro italiano, sibbene per difendere le loro proprietà, come lo erano stati dapprima in Crimea e nell’Asia Minore per proteggere gli emporii mercantili. Da ciò, siccome per abitudine di rispetto, o per necessità di equilibrio, e per merito delle prudenti transazioni, gli altri governi li lasciarono godere in pace quei possedimenti commerciali, cessò poco a poco ogni necessità di tutela armata, e contenti di cancellare una partita sulla pagina del dare i Veneziani affidarono unicamente al proprio accorgimento e alla discrezione altrui la sicurezza del dominio.

Forse se al tramutarsi di mercatanti in proprietari e di marittimi in continentali, un’ardita fazione o un capo fortunato dell’aristocrazia avesse cercato anche di cambiare l’indole del governo di utilitaria in politica, la fortuna di Venezia avrebbe corso qualche maggior rischio, ma racquistato insieme un argomento ed un titolo di futura grandezza, ove le fosse venuto fatto di sormontare vittoriosamente quella nuova esperienza. Si sarebbe rimediato con un nuovo congegnarsi delle forze nazionali al vecchio difetto di scarsa partecipazione al movimento italiano. Mancò a ciò l’opportunità, o la forza, o la mente. Venezia, come ebbi campo a dire in addietro, rimase una città del Medio Evo colle apparenze d’uno Stato moderno. Ma le apparenze non durano a lungo; e poiché non aveva voluto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città. Così nell’economia politica come nella fisiologia medica. Bisogna deprimere e ridurre un corpo invaso da umori corrotti a quella parsimonia naturale, onde poi risorga ordinatamente alla piena salute.

Venezia in quei primi rivolgimenti che le tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucché mai le vie già insuete del mare, rimase a dir poco in fil di morte. Quando poi tornò la pace, e il mare le fu sbloccato dinanzi, le forze erano sì misere da non poter competere con quelle degli altri porti che s’erano anzi ringagliardite durante la sua indolenza. «Rive opposte, animi contrarii» dice un proverbio inglese. Trieste entrava in lizza arditamente, spalleggiata dal commercio viennese e cogli aiuti del governo che o disperava o non si curava di richiamare l’attività veneta al campo primitivo de’ suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a morire d’inedia per non tender la mano.

Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi come protettrice d’Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi e denaro per mandare quattro stambecchi1 a caricar fichi a Corfù, l’era un gran boccone amaro da ingoiare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il passato, o maturando un futuro. «Prima che la statistica aprisse i suoi registri», disse un ottimo pubblicista, «ciascun paese credeva d’essere quello che avrebbe voluto essere». I Veneziani anche nel millesettecento ottanta si riputavano i naturali rintuzzatori della prepotenza mussulmana, perché l’ammiraglio Emo con una dozzina di galee avea tentato gloriosamente qualche rappresaglia contro Tunisi. Era omai l’unica scusa di loro esistenza e si incaponivano a crederla vera. Quando poi la terribile riprova statistica d’una guerra generale mise in mostra i duecento vascelli d’Inghilterra e i quattordici eserciti di Francia; e la fine strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica di Venezia, e che l’Europa non abbisognava omai d’alcun freno contro i Turchi, e che se anco ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere ma quello che era veramente. Se questo primo esame di coscienza generò un frattempo di avvilimento fu indizio di senno civile e di salutare vergogna. Non insultiamo a coloro che morti solo da ieri già cominciarono a rivivere, mentre si onorano gli altri che con grandissimo scalpore non son giunti a vivere che per la calcolata tolleranza di tutti.

Intanto io tornava a Venezia che quel torpore d’inerzia e di vergogna era al suo colmo. Non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienze, non gloria, né attività di sorta alcuna; pareva morte, e certo era sospensione di vita. Dovendo immischiarmi negli affari commerciali di Spiro mio cognato, toccai con mano l’indolenza e l’infelicità di quelle funzioni sociali, da cui la storia della Repubblica rilevava le sue più splendide pagine. Mettermi a capo d’una riscossa, e ridestare una qualche operosità in quelle forze irruginite e stagnanti, fu mio primo pensiero. Poco si poteva tentare perché quasi nulla si aveva; ma chi ben comincia è alla metà dell’opera. Giudicai che Spiro non sarebbe stato alieno dal mio divisamento; né rifuggii dall’arrischiare nel magnanimo tentativo il credito e le residue sostanze della casa Apostulos. La guerra della Grecia l’avea spolpata del meglio, ma qualche cosa rimaneva, e la fiducia dei corrispondenti avrebbe moltiplicato il valore di quegli sparsi rimasugli. Ravvivare anzi creare lo spirito d’associazione sarebbe stato il primo passo; e mi vi incuorava lo spettacolo della potenza inglese di cui mi durava ancor fresca la maraviglia. Ma anche i giganti nascono bambini. M’accorsi alle prime che m’avventurava in un sogno; e mi ritrassi a tempo per non disperdere con un subito tracollo la buona volontà che già s’accumulava in un tacito fermento.

Nostro errore, nostra disgrazia è di misurare la vita d’un popolo da quella d’un individuo: lo dissi altre volte. Un uomo solo può precedere il progresso nazionale non rimurchiarlo; perché l’esempio suo sia utile conviene che sia facilmente imitabile e da molti, sicché s’allarghi e attecchisca nelle abitudini; allora il rimurchio vien da sé. Lo spirito d’associazione, indizio di ravvicinamento e strumento di più vasta concordia, va incorraggiato in ogni fatta d’intraprese; come educazione ad analogo esercizio in altre operazioni, come fattore di confidenza e di prosperità e d’altri mezzi generali di miglioria. Ma al suo perfetto sviluppo si giunge per gradi: alla società di mille è proemio la fortunata società di cento; e per insegnare a persuadere i cento, fa d’uopo che i venti i dieci o i cinque si uniscano, e coll’eloquenza dei fatti e delle cifre li convincano che minore sarebbe stato l’utile comune e il singolo se cadauno avesse adoperato per sé. Fermi in capo cotali principii, tornai al cimento, e li posi a regola de’ miei negozii, divisando di adoperarli alla vista di tutti non come argomenti di prosperità pubblica ma di privata fortuna.

Infatti una prima società da me instituita pel commercio di frutta secche, di vallonea2, di oglio, e d’altre materie prime cogli scali del Levante e della Grecia, ebbe ottimo successo. Aveva messo ogni mia cura nel non arrischiare e nell’allargarmi poco, perché l’effetto corrispondesse più certo per quanto piccolo. Dopo il primo passo si uscì se non altro da quella profonda sonnolenza. Altre società si formarono simili alla nostra, e la concorrenza accrescendo l’attività dilatò le sue intraprese e le arrischiò a maggiori pericoli colla lusinga di più grossi guadagni. Infatti l’esperienza diede ragione il più delle volte a chi si spingeva oltre; dalla concorrenza fra noi che cominciava a inceppare il proficuo sviluppo dei singoli commerci, nacque la fusione di alcune piccole società in altre più grandi. E queste rivaleggiarono coraggiosamente colle più forti e antiche d’altri porti del Mediterraneo. I proventi erano certo minori, e perciò Venezia non potea competere né con Marsiglia, né con Genova né con Trieste: ma onesti guadagni si ottenevano e la speranza succedeva all’avvilimento e l’operosità all’inerzia. Sasso lanciato non si sa ove possa giungere: e se gli stranieri non erano ancora adescati dalla prosperità di Venezia a stabilirvisi con proprii capitali, almeno si aveva quanto bastava per muovere e fecondare le forze paesane. Non era molto e sperava di più. Senza contare che cotali intraprese fruttavano alla vecchia ditta Apostulos inusitati guadagni; e Spiro non faceva altro che lodarmi pel grande aiuto che così recava a lui ed all’indipendenza della Grecia.

Il commercio almeno per gli scambi locali aveva ripreso un andamento naturale; e ritrovato a poco a poco il suo sfogo ragionevole nella gran valle del Po. Ma io non voglio farmi merito di cotali successivi allargamenti: come il manovale che si gloriasse della bella architettura d’un palazzo per averne egli gettato la prima pietra. Si generano le grandi imprese come i grandi figliuoli, più per piacere proprio del momento che per diretta intenzione. Io peraltro qualche intenzione ce l’ebbi, e perciò mi do vanto di aver cooperato primo al qualunque siasi risorgimento del commercio veneziano. Sibbene tutte queste magnificenze avvennero in seguito, e mi tocca ora recedere ai primi mesi quando esse non mi vagolavano pel capo che come lontane e forse infondate lusinghe.

Donato, il mio secondo genito, si adattava facilmente ad aiutarmi nella nuova professione di commerciante; e benché ragazzo affatto, per una sua acutezza mirabile d’ingegno mi giovava assaissimo. Egli era un pazzerello così godibile, che quando mi si oscurava l’anima di melanconia non aveva che a rivolgermi a lui per esser rischiarato. Teneva ottima compagnia a sua madre; e frequentava molto con lei la casa del conte Rinaldo di Fratta, ove dopo la morte del Navagero si era ridotta anche la reverenda Clara. Il Conte era ancora registratore della Ragioneria del Governo a un ducato il giorno, e non viveva che nell’ufficio e nelle biblioteche; ma la Clara, avendo serbati i suoi vincoli d’amicizia colle sorelle smonacate di Santa Teresa, gli avea tirato in casa buon numero di visitatrici. A poco a poco intorno a quel primo nocciuolo s’erano appostati altri elementi di società: patrizii di vecchio o nuovo conio, per la maggior parte persone che rimpiangevano in fondo l’antico ordine di cose, e lodavano e facevano lor pro’ delle presenti per non esser costretti alle fatiche, e condannati all’inedia di nuove rivoluzioni.

Donato osservava quegli stampi originalissimi, e sapeva metterli in burla con qualche scontento di sua madre; io invece me ne consolava vedendo che soltanto a ragione di lei si piegava a trovarsi quasi tutti i giorni con quelle mummie, e che non ne avrebbe mai imparato le sucide massime e la meschina ipocrisia. L’Aquilina dal canto suo stringeva ogni giorno più le sue relazioni colla signora Clara, perché, diceva ella, non si sapeva mai dove potesse condurci qualche mia ragazzata. Sopra questa o simile parola nascevano per consueto i gran diverbi; ma io non vi badava più che tanto, e sapendo che l’adoperava a fin di bene, lasciavala fare a suo modo. Altronde le antecedenze giustificavano abbastanza questa nostra famigliarità coi conti di Fratta; e non istava a me distoglierla da un’osservanza che era imposta anche a me stesso dalla gratitudine. Maggiore argomento di discordia ci era la condotta di Luciano, il quale anziché imitare nell’arrendevolezza e nell’operosità il fratello minore, si buttava allo scapato, non voleva sentire né ammonizioni né consigli, e quando lo si rimproverava, massime sua madre, di non volersi occupare delle cose più utili alla vita, rispondeva che, poiché non ci era vita, non capiva in che potessero consistere quell’utile o quel disutile, e che egli vi trovava il suo conto o bene o male a dimenticarsi di tutto.

– Bada, Luciano, – lo ammoniva io – bada che dimenticando tutto sopraggiunge poi il giorno che ci ricorda di qualche cosa, e allora troppo tardi ci accorgiamo d’aver dimenticato di farci uomini.

– A questo penso io – ripigliava egli decisamente. E non ismetteva nulla delle sue scapataggini, de’ suoi stravizzi. Sicché io più volte e con alquanta amarezza ebbi a beffarmi di sua madre che avea preso una gran soggezione di quel suo ghiribizzo giovanile di andarsene in Grecia. Altro che Grecia! Mi pareva che la conversazione delle bionde veneziane, e il bicchierino di malvasia gli avessero cancellato dalla memoria quei generosi poemi. Ma secondo l’Aquilina era questa pure mia colpa, ché, lasciandolo padrone della fantasia, lo aveva avvezzato a non aver riguardo né di padre né d’amici, e a formarsi una felicità a suo modo.

– Ieri era la Grecia, – diceva ella – oggi sono le scapestrataggini, domani sarà Dio sa che cosa! E tutto per avergli detto bravo, per avergli lasciato le redini sul collo!

– Scusami, – soggiungeva io – ma quelle idee generose non bisognava soffocargliele come fossero vituperi. E tu stessa ve lo avevi mirabilmente preparato col formargli un temperamento animoso e robusto.

– Sì, sì, io m’era ingegnata di allevarlo con buoni principii, ma non già perché tu ne abusassi col lasciargliene tirare cotali conseguenze.

– Le conseguenze, ben mio, procedono dritte dritte dalle cause.

– Massime peraltro quando trovano aiuti che le indirizzino.

– Sai cosa ho a dire? che se dalle tue cause fossero venute quelle conseguenze che sperava io, ne avrei proprio picchiato le mani dal gran gusto!

– Segno che hai sperato male, e che malamente hai aiutato le tue speranze! Vedi a che belle conseguenze siamo venuti! Tu ti ammazzi allo scrittoio, il nostro figliuolo più tenerello ci sta anch’egli notte e giorno come un martire, il maggiore invece, l’eroe, batte i bordelli e le taverne!

– Eh diavolo! che ce ne ho colpa io? Al postutto mi ricordo esser stato giovine.

– Ed io se avessi speso così ladramente la mia gioventù mi vergognerei di ricordarmene.

– Io ti dico che è un riscaldo e che si ravvederà.

– Io ti torno a ripetere che è una malattia, che si farà cronica se non attendi a rimediarvi presto.

Così si altercava fra di noi. Luciano intanto stava fuori di casa le notti intere, e se lo si rimproverava faceva peggio, e tirava calci come un puledro che non vuol essere domato. In mezzo a cotali dissensioni una bella mattina quando non me lo sarei mai aspettato egli mi capitò in camera pallido stralunato, a dirmi netto e schietto che la settimana ventura sarebbe partito per la Grecia.

– A che farvi? – risposi io beffardamente, ché non ci credeva più a quelle passeggiere tentazioni.

– A difendere Missolungi contro Mustafà Bascià! – soggiunse egli.

– Ah ah! – ripresi coll’ugual tono di scherno. – Mi congratulo vedere come tu sappia che vi sia nel Pelopponeso un Mustafà Bascià.

– Non lo sapeva, – ripigliò coi denti stretti Luciano – ma me lo disse lord Byron il quale anche lui è deliberato di partir per la Grecia fra pochi giorni.

– E dove mai ti sei abbattuto in lord Byron?

– Ti basti sapere che l’ho conosciuto, ch’egli si è degnato parlarmi, e che mi prenderà per compagno della sua andata in Grecia.

– Scherzi, Luciano, o sono sogni codesti tuoi?...

– No, anzi, papà mio; parlo così seriamente che nella prima lettera che scriverete agli zii darete loro contezza di questo mio divisamento.

– Or bene, se dici da senno, ripeterò io adesso quello che tua madre diceva or sono alcuni mesi. Hai proprio una vera vocazione? Devi aver capito che in questo frattempo mi hai fornito molti argomenti per dubitarne.

– Padre mio, son tanto sicuro che questo mio proposito otterrà sanzione dalle opere di tutta la vita, che vi chieggo fin d’ora perdono della mala stima che vi ho lasciato concepire di me, e vi prego di esser generoso e confidente anticipandomi d’alcuni mesi la buona opinione che mi darò poi cura di meritare. Perciò mi rivolgo tanto a voi come a mia madre.

– Vi penseremo, Luciano. Intanto impara a maturar bene le tue idee, e a diffidare, massime quando ne hai non poche ragioni.

Egli non rispose verbo, mostrandomi col suo contegno che di tutto avrebbe diffidato fuorché della saldezza di quel suo divisamento. E infatti io ne maravigliai; ma per quanto lo tentassi in una maniera o nell’altra egli rispondeva queste sole parole: – Ho capito che a questo mondo si ha il dovere di vivere a vantaggio di qualcuno; adunque vi prego, lasciatemi vivere! – Sua madre strepitò di questo disegno sul quale pochi mesi prima sembrava affatto indifferente; ma ne ottenne nulla del pari. Luciano stette fermo nel voler partire; e non aspettava altro che un cenno di lord Byron per imbarcarsi con esso lui. Io conosceva il famoso poeta di nome e di fama; lo aveva anche veduto due a tre volte in qualche sua rara apparizione sotto le Procuratie, giacché da molto tempo egli pareva aver adottato per patria l’Italia ed in special modo Venezia. I poeti son come le rondini che volentieri fabbricano il loro nido fra le rovine. Quell’accostarsi di Luciano alla generosa disperazione del sublime misantropo non mi garbava gran fatto; temeva che ne nascesse qualche somiglianza di passioni, che cioè la grandezza e la nobiltà dell’impresa fosse il minor incentivo a tentarla, e che in lui potesse l’ambizione come il fastidio dei piaceri nel torbido lord. Luciano era assai giovinetto, facile perciò a rimaner abbagliato da quell’apparenze di sublimità mefistofelica che in fin dei conti non servono ad altro che a nascondere un’assoluta impotenza di comprendere la vita e di raggiungere lo scopo. Bensì era impossibile che così fanciullo agognasse sinceramente questa sterile filosofia del disprezzo, e se ne imitava il corifeo, non poteva essere che per vaghezza di rendersi singolare e di risplendere della luce altrui. Or dunque temeva e non a torto, che, messa alla prova, la sua risolutezza non sarebbe stata vigorosa l’un per cento di quello che sembrasse nelle parole. Luciano rideva de’ miei sospetti, soggiungendo che se io lo tacciava di romanticismo, era ben più degno e scusabile l’esser romantici nei fatti, che nei sospiri e nella capigliatura.

– Non frignerò romanze, né mi tingerò le guancie della preoccupazione del suicidio, come d’un cosmetico di moda – rispondeva egli. – Diventerò invece l’eroe di qualche ballata, e le donne d’Argo e d’Atene ricorderanno il mio nome insieme a quelli di Rigas e di Botzaris. Sarà un romanticismo utile a qualche cosa. S’aggiunga poi ch’io ho diciott’anni e che una volta o l’altra, lo sapete bene, converrebbe che me ne andassi. Colla mia indole non consentirò mai a farmi soldato né a comperare un altr’uomo che paghi il mio debito all’infelicità dei tempi. –

Che volete ch’io soggiungessi?... Lo lasciai dunque partire; e lo raccomandai caldamente a Spiro che si trovava allora a Missolungi, dichiarandogli anche il giudizio ch’io faceva del temperamento di Luciano e l’instabilità e gli altri pericoli che ne temeva. Mia moglie non pianse né si disperò punto; solamente mi rimbrottò per tre o quattro mesi della poca padronanza ch’io sapeva conservare sull’animo dei figli; ma intanto venivano dalla Grecia ottime notizie; essendosi rifiutata di comune consenso la divisione della Grecia in tre ospodariati3, proposta dallo czar Alessandro, la guerra era scoppiata più feroce ed accanita che mai. Il quarto esercito mussulmano si squaglia come neve al sole sul suolo ardente del Pelopponeso. Luciano coi suoi cugini Demetrio e Teodoro ha l’onore d’esser ricordato in un bollettino pel suo maraviglioso coraggio. Spiro me ne scrisse mirabilia, e Niceta, quello che fu cognominato il Mangia-Turchi, lo propose come modello alla sua legione nella quale ebbe il grado di capitano.

Tutta Europa applaudiva all’eroiche vittorie della Grecia: come gli spettatori del circo che sicuri dai loro scanni battevano le mani al bestiario4 che usciva vincitore dal contemporaneo assalto d’un leone e di due tigri. Pochi aiuti d’armi e di uomini, pochissimi di danaro davan mano a quegli sforzi sovrumani: i governi d’Europa cominciavano a sogguardarsi l’un l’altro e a tremare di non poter rimetter le catene turche ai ribelli cristiani. Intanto si seguitava a combattere; i Bascià non si mostravano più tanto ligii ai pronostici del sultano Mahmud, né ubbidienti ai suoi comandi, i Giannizzeri stessi rifiutavano d’avventurarsi sopra una terra che inghiottiva i nemici. Cresceva per la Grecia il favore e l’entusiasmo dei generosi. Byron offerse le sue fortune, negoziò un imprestito, ma in quel frattempo ammalò, e alla notizia della malattia tenne dietro ben presto quella della morte. La Grecia accorse ai suoi funerali, tutta l’Europa pianse sopra la tomba santificata dall’ultimo anno di sua vita, e s’impose il suo nome ad uno dei bastioni di Missolungi. Luciano mi partecipo’ con commoventissime parole una tale disgrazia: egli si diceva desolatissimo che il suo illustre amico e protettore non avesse potuto colle imprese dell’eroe oscurare la fama del poeta. «Il tempo è nemico dei grandi» soggiungeva egli. Ma si sbagliava, perché Byron non sarà mai tanto grande pel suo generoso sacrifizio, come quando alcuni secoli si saranno accumulati sulla sua memoria.

Intanto anche a me a Venezia, comportabilmente col sito, erano intervenute abbastanza gravi vicende. Raimondo Ven-chie-redo che s’avea sposato la figliuola maggiore di Ago-stino Frumier, e per le strettezze economiche nelle quali era, e il talento capriccioso della giovine moglie, la faceva assai magra, si divertiva a sparlare di me e della Pisana, narrando massime di costei cose affatto nefande ed incredibili. Mi fu detto che al caffè Suttil egli teneva crocchio, e che non mancava sera che non dicesse qualche ignominia a carico nostro, forse per l’invidia che gli dava il continuo prosperare de’ miei negozi commerciali. Per me forse avrei portato pazienza, non per la Pisana la quale io avrei difeso a costo anche della vita, beato di poterla in qualche modo ricompensare di tanti suoi sacrifizii. Perciò mi diedi io pure a frequentar quel caffè, e siccome pochissimi omai mi ravvisavano, me ne stava soletto in un cantuccio della camera posteriore, leggendo in apparenza la gazzetta, ma in sostanza porgendo l’orecchio alla conversazione della prima stanza nella quale si mesceva sempre Raimondo colla sua solita spavalderia.

La seconda o terza sera ch’io mi metteva in quell’agguato (e già gli avventori e i garzoni mi adocchiavano di traverso sospettandomi forse una spia), udii nel caffè un romore insolito di sciabola e di sproni, e un gran chiasso di saluti e di congratulazioni, e il rimbombo d’una vociaccia aspra e gutturale che mi parve di dover conoscere. Sì, perbacco; doveva proprio essere il Partistagno; infatti udii bisbigliare il suo nome da qualcheduno che rispondeva a chi gliene avea chiesto; e Raimondo poco dopo, gridando evviva al signor generale, congratulandosi della sua grassezza, e domandandogli se veniva ancora per tentare la reverenda badessa, non mi lasciò più alcun dubbio che non fosse lui.

– No, caro mio, non vengo più a tentare la badessa: – rispose il Partistagno – mia moglie mi ha favorito uno dopo l’altro sette maschiotti che mi danno da fare più d’un reggimento, e le monache mi sono uscite del capo. Peccato! perché suppongo non mi vedrebbe malvolentieri, benché l’età debba aver cooperato molto a finire di farla santa. Voi piuttosto, caro Raimondo, come ve la siete cavata colla sua sorellina che non avea, mi pare, la minima disposizione di farsi monaca? Se vi ricordate, l’ultima volta che fui a Venezia ne eravate ancora infervorato!... Giuggiole! credo che ci sian corsi sopra vent’anni!...

– Eh, eh! ci son corsi sopra altro che anni! – soggiunse Raimondo – ne avrò delle belle da raccontarvi giacché siete tanto in addietro. Prima di tutto saprete la conclusione: la bella Pisana è morta.

– Morta! – sclamò il Partistagno – non lo avrei mai creduto; le donne non muoiono così facilmente.

– Infatti la Pisana vi ha durato una grandissima fatica – continuò Raimondo. – Figuratevi che ha fatto la serva per due anni al suo amante; ve ne ricordate? a quel Carlino Altoviti...

– Sì, sì, me ne ricordo!... Quello che girava lo spiedo a Fratta e che poi è stato segretario della Municipalità.

– Per l’appunto. Or dunque la Pisana sembra che alla sua maniera gli volesse un gran bene a quel Carlino. Del novantanove furono insieme a Napoli e a Genova, sempre col consenso di quell’ottimo Navagero che l’aveva sposata: in seguito vissero fra loro come marito e moglie a varie riprese finché, non si sa come, essa incastrò nei fianchi all’amante una ragazza di campagna e gliela fece sposare. Sapete che fu una bella scena! Ognuno volle farvi sopra i suoi commenti, ma non si venne in chiaro di nulla! Voi, caro generale, che avete una sì fervida immaginazione, dovreste sciogliere il problema. Via, udiamo; cosa ne direste?...

– Eh!... secondo!... distinguo!... scommetto ch’ella era stufa di lui, e che per liberarsene per sempre gli ha cacciato alle coste una moglie!...

– Bravo generale! ma cosa rispondereste se io vi dicessi ch’ella tornò allora a Venezia, e che si diede corpo ed anima a curar le piaghe di suo marito e a biasciar Paternostri e Deprofundis colla vostra badessa?...

– Cosa direi... Giurabbacco!... Direi ch’ella voleva far pace con Domeneddio, e che per questo appunto si è liberata dell’amante.

– Benone! voi avete una fantasia feconda, caro generale, e un ingegno che accomoda tutto. Aveva un gran naso chi vi ha fatto generale!... Ma cosa direste se vi si raccontasse che nell’ultima rivoluzione di Napoli il bel Carlino, benché avesse i suoi quarantacinqu’anni sonati, spiccò il volo un’altra volta, e si lasciò mettere in gattabuia, e che andava a rischio di perdervi la testa, se la Pisana non piantava lì marito e genuflessorio per correre a intercedergli grazia, e a fargli tramutare la condanna in una relegazione?... Cosa direste se vi raccontassi che essendo rimasto cieco e al verde di quattrini l’amante, essa per due anni fu con lui in Inghilterra sostentandogli la vita colle peggiori fatiche?

– Eh via! Matta matta! – brontolò col suo accento oltramontano il Partistagno. – O matto io a credervi, e voi a contare simili fole!

– Sono santo vangelo! – ripigliò calorosamente Raimondo. – E già v’immaginerete qual era il mestiero da cui la Pisana ritraeva i suoi guadagni... Una donzella veneziana non ne sa molti, me lo consentirete. Or dunque bisogna fare di necessità virtù... Ad onta de’ suoi quarant’anni l’era così bella così fresca, che ve lo giuro io, molti anche non inglesi sarebbero rimasti accallappiati... L’amico Carlino poi sapeva tutto e pappava in pace... Eh, che ne dite? eh! che buon stomaco!... Peraltro, lo ripeto, bisogna fare di necessità virtù!...

Più anche delle indecenti menzogne di Raimondo mi scaldarono la bile i sogghigni e le risate della brigata che tennero dietro alle sue parole. Perdetti ogni ritegno e precipitandomi nella stanza ove sedeva quella combriccola, m’avventai addosso a Raimondo stampandogli in viso lo schiaffo più sonoro che abbia mai castigato l’impudenza d’un calunniatore.

– Anch’io faccio di necessità virtù! – gridai in mezzo alla confusione di tutti quei conigli che o fuggivano dal caffè o si riparavano tramortiti dietro i tavolini e le seggiole. – Questo ch’io ti diedi fu caparra di giustizia e se chiedi riparazione sai dove sto di casa. I calunniatori sono anche di solito vigliacchi.

Raimondo tremava e fremeva, ma non sapeva in qual modo difendersi. La sua vigoria naturale, sebbene affranta dalle molli abitudini di tanti anni, gli riscaldava ancora il sangue; ma né la voce gli ubbidiva, né, avvezzo com’era a vedersi passate buone le sue smargiassate, poteva riaversi dalla sorpresa di quel subito assalto. Era come il cane che dopo aver abbaiato un pezzo e inseguito accanitamente il ladro che fugge, si ritira ben tosto e ripara al pagliaio se quegli ha il coraggio di ripiombargli addosso. Io intanto, già uscito dalla bottega, me ne andai a casa, e non ne udii parlare per tre giorni. La mattina del quarto venne certo Marcolini che aveva voce del miglior schermidore di Venezia a parteciparmi che ritenendosi il signor Raimondo di Venchieredo offeso profondamente dalla maniera con cui l’aveva trattato al caffè Suttil, e chiedendo di ciò riparazione, lasciava a me, come ne aveva il diritto, la scelta delle armi: perciò scegliessi pure e mandassi i miei testimoni coi quali regolare le condizioni del duello. Io gli risposi che avendo avuto il diritto di sfidare il signor Raimondo fin dal primo momento che lo udii denigrare la fama d’una persona rispettabile e a me carissima, e non avendolo fatto solamente per alcune mie speciali opinioni sopra il duello, riteneva essere stato io il provocatore; facesse dunque lui per la scelta delle armi, e i testimoni li avrei mandati quello stesso giorno.

Il Marcolini mi ringraziò di sì cavalleresca compitezza e andossene pei fatti suoi. Seppi in seguito che, dopo la mia partenza dal caffè, Raimondo aveva strepitato assai, e giurato e spergiurato che mi avrebbe stracciato il cuore coi denti, e simili altre cose degne in tutto della sua nota spavalderia; ma poi il sonno lo avea ricondotto a più miti consigli, e il giorno appresso si limitava a ripetere che tutti i suoi giuramenti egli avrebbe mantenuto e più assai, se non avesse avuto moglie e figliuoli. Quest’ultima clausola mosse le grandi risate e ne andò per Venezia un grandissimo scalpore. Tantoché Raimondo avendo infilato il suo braccio in quello del general Partistagno per far secolui un giretto sotto le Procuratie, questi colle belle e colle buone se n’era liberato soggiungendo beffardamente che sarebbe ito con lui quando non avesse avuto né moglie né figliuoli. Raimondo capì, fu spinto all’estremo, e dopo molte considerazioni venne nella deliberazione di sfidarmi per mezzo del Marcolini, come avete veduto. Il Partistagno, che era l’altro testimonio, o non volle impicciarsi di venire a casa mia, o Raimondo credette spaventarmi presentandomi quel cotale che aveva una sì gran fama di valente spadaccino. Io poi di ciò non mi curava punto: e come non avrei commesso mai la pazzia di sfidar alcuno, così non mi sarei rifiutato dall’accettare una sfida, anco se mi fosse venuta dal primo ammazzatore d’Europa.

Il duello avvenne la settimana seguente in un giardino vicino a Mestre. Io mi vi avviai come ad una passeggiata; avea l’occhio limpido, il polso sicuro, e perfino nell’anima m’era svampata ogni rabbia contro il Venchieredo; ne sentiva piuttosto compassione al vederlo pallido e tremante come una foglia. Egli mi cedette sempre terreno, benché spingessi assai debolmente l’assalto; finché si trovò col piede destro proprio sulla sponda d’un fosso che cadeva parecchie braccia. Mi fermai con troppa generosità avvertendolo che un passo di più in addietro e sarebbe precipitato; i suoi testimonii gli ripetevano questa ammonizione, quand’egli, approfittando della mia distrazione, mi avventò al petto una stoccata, che guai se non fossi balzato indietro d’un salto! Mi avrebbe passato da banda a banda. Tuttavia mi sfiorò una mammella e ne fece zampillare il sangue: né il ghigno che gli vidi sul volto in allora cooperò poco a rinfiammarmi di furore. Mi slanciai innanzi con due rapide finte e mentre egli sorpreso atterrito armeggiava a destra ed a sinistra, e pensava, credo, di gettar via la spada e di fuggire, gli cacciai mezza la lama in un fianco e lo mandai a rotolone nel fosso.

Non ebbi a soffrire verun fastidio per questo duello, benché il codice di quel tempo lo punisse assai severamente. Quanto a Raimondo guarì della ferita, ma nel cadere si era fratturato il femore, e ne rimase sconciamente sciancato. Credo che d’allora in poi egli si lodò sempre di me e della Pisana come de’ suoi migliori amici; o le sue mormorazioni furono così guardinghe e segrete che non mi obbligarono a nessun atto spiacevole. L’Aquilina venne a cognizione di quella mia scappata giovanile, e non vi dirò i rimbrotti e le lavate di capo che mi toccò subire. In onta peraltro alle continue dissensioni, la nascita d’un terzo figliuolo, cui tenne dietro due anni dopo quella d’una bambina, provarono abbastanza che in qualche momento andavamo anche troppo d’accordo. Dico troppo; perché dopo tanto tempo di tregua io non desiderava certamente questa crescenza di famiglia; ma poiché la natura aveva voluto operare per noi un mezzo miracolo, io ebbi il buonsenso di esserlene grato e di rassegnarmi. Il fanciullo ebbe nome Giulio e la bambina Pisana in memoria di due cari che ci avevano preceduto nel regno dell’eternità.

A quel tempo tutti i capitali della casa Apostulos erano passati in Grecia, ove Spiro molti ne aveva erogato a sussidio della nazione, e alcuni anche impiegatine nell’acquisto di fondi nelle vicinanze di Corinto. La guerra dell’indipendenza era scaduta a contesa diplomatica. Dopo la distruzione della flotta turca a Navarino, Ibrahim Bascià co’ suoi Egiziani teneva debolmente qualche posizione della Morea: la Turchia non aveva né armi né cannoni onde aiutarlo, e la guerra santa promulgata con tanta enfasi dava ai Greci pochissima paura, e minor fastidio. Il conte Capodistria stringeva nelle sue mani le sorti del paese, e benché avesse voce di essere un turcimanno della Russia, pure la necessità gli rendeva ubbidienti gli animi del popolo. Spiro lasciava travedere nelle sue lettere di sperarne ben poco; mi diceva anche che il suo figlio maggiore e il mio Luciano erano tra i prediletti del Conte con pochissimo suo aggradimento; ma che i giovani corrono dietro alla gloria ed al potere, e bisognava scusarli. Teodoro invece stava coi liberali, coi vecchi caporioni dell’insurrezione tenuti d’occhio allora peggio dei Turchi, e non era ben veduto dal conte presidente; bensì egli suo padre lo lodava assai di quella indipendenza veramente degna d’un Greco.

Merito delle circostanze, di Capodistria, dei Francesi, o dei Russi, il fatto sta che la Morea fu libera in breve da’ suoi oppressori, e che con qualche respiro di pace essa poté attendere dai congressi europei la decisione de’ suoi destini. Toccava all’esercito della Russia menar l’ultimo colpo. Il passaggio vittorioso dei Balkani, cui tenne dietro il trattato di Adrianopoli, sforzarono il Divano5 a consentire la redenzione della Grecia, e ben più avrebbe ottenuto fin d’allora lo czar Niccolò, se la gelosa diplomazia di Francia e d’Inghilterra non lo avesse arrestato. Spiro mi diede notizia di quel fausto avvenimento con parole veramente bibliche ed inspirate; molto egli avea rimesso della sua antipatia per la Russia e per Capodistria, e nell’annunziarmi il probabile matrimonio di mio figlio Luciano con una nipote del conte, aggiungeva: «Così la tua famiglia sarà congiunta col sangue ad una nobile prosapia che inscriverà il suo nome sull’atto d’indipendenza della Grecia moderna». Lessi dappoi alcune righe di mio figlio nelle quali mi domandava di consentire a quel matrimonio; e s’aggiungeva in fondo una affettuosa noterella dell’Aglaura, dove interpretando ella i più timidi desiderii del marito e di suo nipote mi pregava di voler assistere in persona allo sposalizio. «Se lo spettacolo d’un popolo libero pel proprio eroismo può aggiunger forza all’affetto di padre e di fratello», conchiudeva ella «io ti esorto a venire, e vedrai cosa unica al mondo, e che ti darà animo se non altro a vivere e a morire sperando».

Il commercio della mia ditta colla quale avea continuato le relazioni e gli affari della casa Apostulos mi metteva in grado di intraprendere questo viaggio senza disagio: tanto più che mio cognato Bruto e Donato erano piucché capaci di supplire alla mia mancanza. Avrei anche desiderato che l’Aquilina mi fosse compagna, ma lo impedirono i due piccoli. Così mi partii solo, sopra la nave d’una casa corrispondente, al principiare d’Agosto del milleottocentotrenta, quando appunto la rivoluzione di Francia metteva in subbuglio o per un verso o per l’altro tutte le teste d’Europa. Giunsi a Napoli di Romania tre settimane dopo; e come diceva l’Aglaura, fu veramente un graditissimo spettacolo quello di vedere la baldanza e la sicurezza di un popolo che si avea tolto dal collo un giogo di quattro secoli, e portava impressi ancora sulla fronte la gioia e l’orgoglio del trionfo. Solamente continuava qualche malcontento per l’ingratitudine che il governo dimostrava ai vecchi capitani della guerra. Erano sì cervelli un po’ caldi, più atti a infervorarsi sul campo di battaglia che ad assottigliare disquisizioni legali; ma non bisognava dimenticare i loro immensi servigi, e punirli di sì scusabili difetti colla prigione e coll’esiglio.

Io faceva eco ai lamenti che movevano Spiro e Teodoro di cotali ingiustizie, ma Luciano me ne rimproverava come d’una inescusabile debolezza. Ogni arte, secondo lui, doveva tendere a’ suoi fini senza piegare, senza patteggiare. Come durante la guerra si avea menato dei Turchi una strage inesorabile, né si badava alle delicature e ai mezzi termini dei Fanarioti; così, conquistata coll’indipendenza la pace, per assicurare al popolo quella vita calma ed ordinata che sola può render utile l’acquisto della libertà ed assicurarne per sempre l’esercizio, bisognava rintuzzare ogni causa d’inquietudine, e ridurre all’obbedienza quei poteri secondarii che avevano cooperato validamente al buon esito della guerra, ma che allora inceppavano con assai danno l’azione del governo. Avevano arrischiato la vita sul campo per la salute della patria? Per l’ugual ragione dovevano accontentarsi di perderla anche sul patibolo, se non si sentivano in grado di correggersi dalle loro turbolente abitudini. Logica più inesorabile di questa non si potrà trovare così facilmente; ma i ragionamenti senza pietà non possono vantarsi di esser perfetti secondo la logica umana, ed io li ascoltava con raccapriccio.

Del resto Luciano era così affettuoso così compito con me, che quelle sue ciarle le attribuiva a vaghezza di contraddizione. Un giovine di ventiquattr’anni non poteva aver fitta in capo la logica di Cromwell e di Richelieu. Quanto al conte Capodistria mi parve un uomo contento discretamente di sé e più furbo che cattivo: non credo, come dice il suo manifesto, che soltanto per la maggior gloria di Dio e pel vantaggio dei Greci egli avesse fatto violenza a se stesso per accettare la presidenza del governo, ma non credo del pari ch’egli aspirasse a farsi tiranno come Pisistrato. Serviva forse gli interessi della Russia, perché la Russia piucché ogn’altra potenza aveva mire grandiose riguardo alla Grecia, e dalla comunanza di religione e di odio era portata a favorirla. Se egli avversò l’assunzione al trono di Leopoldo di Coburgo, candidato dell’Inghilterra, io non vi veggo delitto di sorta. Se tra l’Inghilterra e la Russia prediligeva quest’ultima, poteva avere cento ragioni più buone che cattive; e in ogni occasione io son disposto a diffidare dell’Inghilterra e ad approvare chi ne diffida, benché degli Inglesi uno per uno non possa dire che bene. La sposa di mio figlio, la quale dimorava allora presso il Conte con pompa quasi principesca, non poteva certo pretendere a gran vanto di bellezza. Io che ebbi sempre e l’ho ancora malgrado lo scirocco della vecchiaia, una maledetta propensione per le belle donne, non ne fui alle prime gran fatto contento. Ma poi guardandola meglio, intravvidi quel calmo trasparire nel sorriso e negli occhi della bontà dell’anima che tien luogo perfin di bellezza. Non sarebbe stata una donna greca, ma una buona moglie; e così mi rappacificai con mio figlio perché s’avesse scelto per isposa la parente d’un mezzo principe. Ma bisogna convenire che l’Argenide era più impicciata che superba dal fasto che la circondava; e anche da questo rilevai un buon pronostico per la sua indole e per la felicità di Luciano.

Le nozze furono celebrate con gran pompa; e siccome Luciano aveva buon nome fra i soldati, il conte Capodistria ne racquistò qualche popolarità. Credo anzi che nel concederla egli avesse in mente questo buon fine politico; ma Luciano aveva anche lui in mente i suoi fini, e non guardò pel sottile se ai proprii meriti o ad altre considerazioni del Presidente dovesse ascrivere quella fortuna. Io rimasi qualche tempo in Grecia visitando il paese e ammirando del pari e gli avanzi dell’antica grandezza, e i segni delle ultime devastazioni, monumenti di genere diverso ma che onoravano del pari quel poetico paese. Luciano non avrebbe voluto che partissi mai più, l’Argenide mi dimostrava una vera tenerezza figliale, il conte Capodistria accennava a voler far di me qualche cosa di grosso, un ministro delle Finanze o che so io. Ricordai allora sorridendo i sogni dorati dell’intendente Soffia, ma non beccai all’amo, e le lettere dell’Aquilina erano troppo pressanti perch’io non pensassi di tornare al più presto.

Un crudele avvenimento fu che mi tolse di accondiscendere quando avrei voluto a questo mio desiderio. La salute dell’Aglaura, che anche in Grecia non si era mai raffermata, peggiorò in qualche settimana di sorte che si disperò della guarigione. La disperazione di Spiro, l’accoramento dei suoi figliuoli potevano essere intesi solamente da me, che perdeva in lei un’unica sorella, e la sola creatura che mi ricordasse la mia povera madre. Né cure né medicine né tridui valsero nulla. Ella spirò l’anima fra le mie braccia, mentre tre soldati tre eroi che avevano perigliato cento volte la vita contro le scimitarre degli Ottomani si scioglievano in lagrime intorno al suo letto. Non era ancora assodata la terra che copriva il feretro di mia sorella, quando mi venne da Venezia un altro colpo terribile. Mio cognato scriveva che Donato era scomparso improvvisamente senza lasciar detto nulla, e senza che si sospettasse alcun motivo a quell’improvvisa partenza, sicché con ragione si temevano le peggiori disgrazie. L’Aquilina sembrava impazzita pel dolore e la mia presenza a Venezia era necessaria in quei terribili frangenti. Senza potersene far ragione egli conghietturava che Donato potesse esser involto nei torbidi che agitavano allora la Romagna, ma raccomandava di darmi fretta che forse prima del mio arrivo avrebbero saputo qualche cosa. Gli altri miei figliuoletti godevano ottima salute, e s’impazientivano di non veder più il loro papà, e di aver malata la mamma. Vi figurerete che non misi più tempo in mezzo. Accennai confusamente tanto a Luciano che agli altri ad un affare che mi chiamava tosto a Venezia, e m’imbarcai quel giorno stesso sopra un piroscafo francese che salpava per Ancona.

Ma se fu angoscioso il viaggio pei tristi presentimenti che mi agitavano, fu ben peggiore l’arrivo. Giunsi ad Ancona proprio il ventisette Marzo quando il general Armandi abbassava dinanzi agli Imperiali vinto ma non macchiato il vessillo della rivoluzione romagnuola. Dietro i vaghi sospetti di Bruto mi affrettai a chiedere a qualche ufficiale, se conoscessero un certo Donato Altoviti, e se egli avesse preso parte a quei rivolgimenti. Alcuni dicevano di non conoscerlo, altri di sì; ma non potevano guarentire del nome: finalmente al Quartier generale fui accertato che un giovine veneziano di quel nome erasi inscritto nella Legione imolese, che aveva combattuto come un leone nello scontro di Rimini, e che colà era rimasto ferito due giorni prima. Corsi alla posta, e non v’erano cavalli perché tutti requisiti in servizio dell’esercito austriaco; uscii allora a piedi dalla porta, e fuori quattro miglia trovata la carretta d’un ortolano feci suo quanto danaro aveva indosso purché mi conducesse a Rimini in quel giorno stesso.

Infatti vi giunsi che per tutto il viaggio avea tirato la carretta col fiato, e non ne poteva più. Cercai dell’Ospitale ma Donato non v’era e non ne avevano mai udito parlare; con quello struggimento d’anima che potete immaginarvi mi rimisi in traccia di lui per quella brutta città che dallo spavento della guerra e dall’imbrunire della notte era fatta più scura e deserta che mai. Domandare d’un volontario ferito era lo stesso che farsi chiudere la porta in faccia: alla fine tornai allo Spedale divisando chiederne conto ai medici, uno dei quali doveva pur essere chiamato a curarlo in qualunque luogo egli si trovasse, se pur non lo lasciavano morire come un cane. Benché mi sconfidasse il pensiero che non tutti i medici di Rimini frequentavano certo l’Ospitale, pure non trovando di meglio m’appigliai a questo partito, ed ebbi a lodarmene perché un giovine chirurgo intenerito alle mie preghiere mi tirò prudentemente da un lato, e, dettomi che lo aspettassi in istrada, soggiunse che avrei trovato di lì ad una mezz’ora quello di cui cercava.

– Oh per carità, in che stato si trova egli! – sclamai. – Per carità, mi dica il vero, signor dottore; e non voglia ingannare un misero padre!

– State quieto, – soggiunse egli – la ferita è profonda ma non dispero di guarirlo. Egli è in buone mani e miglior assistenza non avrebbe se avesse al capezzale una sorella e una madre. Di meno egli non meritava: intanto, vi prego, aspettatemi, e in pochi minuti sono con voi. Prudenza soprattutto, perché son cose delicate, e viviamo in tempi difficili.

Io non fiatai; scesi pian piano le scale, e quando fui in istrada ne andai su e giù, finché vidi uscire il dottore. Allora egli mi condusse in una casa di modesta apparenza, ove poiché ebbe preparato l’animo di mio figlio, mi introdusse nella camera ov’egli giaceva. Vi dica chi può la dolcezza di quei primi abbracciamenti! certo chi non fu padre non potrà nemmeno immaginarsela. Allora mi toccò confermare quello che sempre aveva creduto, cioè che, se le donne non fossero al mondo per generarci, Dio le avrebbe dovute regalare agli uomini per infermiere. Una zitella piuttosto attempata, maestra di cucire che appena arrivava a tempo di campare la vita, aveva raccolto d’in sulla via il mio Donato, e prestatogli tali cure che non mentiva il dottore dicendo che migliori né più affettuose non le avrebbero prestate una sorella, o una madre.

Io ringraziai più a lagrime che a parole la buona giovine, e Donato si univa con me nel manifestarle la sua riconoscenza; ma ella si schermiva rispondendo che non aveva fatto più di quanto era debito di cristiana carità, e raccomandava al ferito di pensare a sé e di non agitarsi, perché gliene poteva derivare qualche grave nocumento. Il dottore esaminò la piaga, e trovatala in via di miglioramento si partì raccomandando anch’esso che non tenessimo troppo occupato l’infermo in parole; ma lo si lasciasse riposare che aveva buonissime speranze. Non tardai a partecipare queste buone novelle all’Aquilina e pochi giorni dopo ne ebbi in risposta che avevano bastato per guarirla affatto e che ci aspettavano a braccia aperte non appena Donato fosse in grado d’imprendere il viaggio. Intanto io aveva saputo da lui il motivo principale della sua repentina deliberazione. Ed erano state le esageratissime calunnie da lui udite in casa Fratta a danno dei repubblicani delle Romagne.

– Tante parolaccie – soggiunse egli – mi rivoltarono lo stomaco, e perché non mi avea dato il cuore di rintuzzarle, mi decisi di far meglio e di mostrare col fatto in qual conto le tenessi!...

– Oh, figliuolo mio! – sclamai – che tu sia benedetto.

L’uomo vecchio risorgeva completamente in me. I giorni precedenti assistendo alla penosa malattia di mio figlio, di gran cuore maladiceva fra me e me tutte le rivoluzioni: e solamente mi pentiva di queste maledizioni pensando che mia moglie avrebbe gridato anco lei per lo stesso verso; e siccome io l’aveva tacciata alcune volte di dappocaggine, non voleva darmi della zappa sui piedi. Ad ogni modo toccava al malato rianimare il sano; e così infatti m’intervenne. La guarigione andò per le lunghe più di quanto il medico si immaginava: e solamente in Maggio potemmo metterci in viaggio a piccole giornate verso Bologna. La buona maestra ebbe una ricompensa, non adeguata al suo merito ma alle nostre condizioni, ed essendovi un giovine che l’amava e che l’avrebbe sposata senza la loro estrema povertà, io mi confido averle procurato maggior bene che per solito non si ottenga col danaro.

A Bologna si fece sosta parecchi giorni, e vi rappiccai amicizia con molte vecchie conoscenze; trovai molti morti, molti padri di famiglia che al tempo della mia intendenza pendevano dalla mammella, e molte belle mammine che io avea fatto saltare sulle ginocchia. Ahimè! le belle che avea corteggiato durai fatica a riconoscerle; e per molti giorni non fui capace di guardarmi nello specchio. Bologna non era a quei giorni né affollata né allegra, ma trovai gli stessi cuori, l’ugual gentilezza, e cresciute a mille tanti la sodezza e la concordia. Non si viveva più nella confusione e nell’ansietà d’un tempo; tutto era chiaro e lampante e solamente aveano mancato le forze; ma la speranza perdurava. E non dico se a torto o a ragione, ma mi pregio di raccontare questa prova di costanza ch’ebbi sotto gli occhi.

Giunti a Venezia, lascio pensare a voi la consolazione dell’Aquilina, e la gioia di Donato! Ma la salute di questo, che si sperava dovesse ristabilirsi affatto nell’aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita diede prima sentore di volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei medici chi opinava che fosse leso l’osso e chi d’una scheggia di mitraglia rimasta in qualche cavità. Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il solo malato allegro sereno ci confortava tutti ridendo assaissimo della burla da lui accoccata ai frequentatori di casa Fratta, e godendo di udir narrare da Bruto le grandi boccaccie ch’essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione sentenziando: tale il padre tale il figlio. Io per me era più disposto a insuperbire che ad offendermi d’un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista di cotali parole che forse egli credette ingiuriose all’ultimo segno. D’altra parte pur troppo era occupato da più gravi dolori. Donato andò peggiorando sempre e alla fine si morì sullo scorcio dell’autunno. Fra tutte le sciagure ch’ebbi a sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana, fu la più atroce ed inconsolabile.

Tuttavia il mio dolore fu un nulla appetto alla disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò più la morte di Donato come se appunto io ne fossi stato il carnefice. E sì che ella piuttosto ne era stata la causa innocente, esponendolo a dover tollerare una contraddizione, alla quale contraddisse egli poi generosamente versando il suo sangue alla battaglia di Rimini. Invece ella continuò a praticare in casa Fratta e a menarvi gli altri due nostri figliuoletti; e quando io ne la biasimava ricordandole sommessamente il caso di Donato, ella mi rimbeccava stizzosamente che quel tristo caso non avrebbe amareggiato tutta la sua vita, se io colle mie tirate liberalesche non avessi guastato il buon frutto che il giovine traeva dalla conversazione di casa Fratta. Come vedete, o per influenza dell’età, o delle amicizie, o per tenerezza materna, si faceva codina ogni giorno più quella buona donna. Ma io confidava nel proverbio che sangue non è acqua, e che i miei figli non avrebbero partecipato di quella curiosa malattia. Bensì non era d’una tal’indole da oppormi a mano armata ai suoi desiderii, e lasciavala fare a suo modo; rampognandola con molta soavità solamente allora quando la piccola Pisana era colta in flagranti di bugia, o il Giulietto imbizzariva di essere corretto, e piuttosto che confessare un mancamento si sarebbe lasciato pestar nel mortaio. Io le chiedeva se l’impostura la superbia e l’ostinazione fossero per caso i frutti di quel suo nuovo metodo di educazione. Ella mi rispondeva che si accontentava meglio d’aver figliuoli orgogliosi e bugiardi, che di assassinarli colle sue proprie mani, e che badassi a me, e che pensassi al male ch’io le aveva già fatto, senza avvelenarle la vita coi miei rimproveri. Io la compativa pel tanto che aveva sofferto, e cercava di tacere, benché forse pensassi che meglio era la morte d’una vita disonorata dall’impostura, e gonfia di vanagloria. Peraltro non guardava quei difettucci coll’occhio del bue, e sperava che i miei figliuoletti se ne sarebbero corretti a tempo.

Tuttavia un giorno che non so a qual proposito ella mi citava il dottor Ormenta come il vero esemplare del cristiano e dell’onesto cittadino, io non potea ristare dall’opporle come mai quel perfetto cristiano e quell’onesto cittadino lasciasse morire suo padre si poteva dire d’inedia.

– È una nefanda falsità! – si mise a gridar l’Aquilina – il vecchio Ormenta ha dal governo una grassa pensione e potrebbe camparsela molto agiatamente senza i viziacci che lo dissanguano.

– E se io vi dicessi – soggiunsi – che gli interessi dei debiti contratti per assecondare l’ambizione del figlio gli divorano d’anno in anno buona parte del suo soldo, e che il dottore

se l’sa e non si dà il benché minimo pensiero di soccorrerlo?...

– Oh fosse anche – sclamò l’Aquilina – e non gli darei torto! Suo padre fu un tal birbaccione che merita una punizione esemplare, e tal sia di tutti i tristi, come di lui.

– Brava! – ripresi io. – Tu sei scrupolosa cristiana e deferisci agli uomini quel supremo ministero di giustizia che Dio ha riserbato a se stesso!... I figliuoli poi non so da qual legge di carità sieno messi in grado di giudicare e punire le colpe dei padri!

– Non dico questo, – mormorò l’Aquilina – ma Dio può ben permettere che il dottor Ormenta ignori le strettezze di suo padre, perché questi sia castigato anche durante il pellegrinaggio terreno delle sue ribalderie...

– Benissimo! – ripigliai – ma io certo non vorrei avere sulla coscienza quest’ignoranza! – Infatti il vecchio Ormenta morì pochi giorni dopo accompagnato dalla generale esecrazione; ma se vi fu sentimento che vincesse in veemenza e in universalità quell’odio postumo contro di lui, esso fu certamente quello che sorse nel cuore di tutti contro l’ingratitudine e l’empietà di suo figlio che contrattò egli stesso le spese del funerale, adì l’eredità col benefizio dell’inventario, e rifiutò la mercede al medico perché il passivo fu trovato maggiore dell’attivo.

Nonostante, i diverbi fra me e mia moglie su questo od altri argomenti consimili si ripetevano sempre più spessi e finirono col guastare d’assai la nostra pace. Se io non m’avessi ridotto a mente le ultime raccomandazioni della Pisana, forse saremmo venuti a qualche grosso guaio; ma tirava innanzi con pazienza e forse con maggior indulgenza che non convenisse alla mia qualità di padre, perché della soverchia balia lasciata in allora all’Aquilina sopra i figliuoli, dovetti pentirmi in appresso e indurarne rimorsi tanto più acuti quanto più vani e tardivi. La piccola Pisana pigliava su quelle maniere solite dei torcicolli6 che rendono sospette e spiacevoli perfino le virtù, e Giulio accarezzato e vezzeggiato dai maestri cresceva sempre in superbia, ed era oggimai tanto presuntuoso da non si sapere come persuaderlo ch’egli avesse fallato.

Io capiva benissimo dove lo potevano condurre quei difettacci; ché adulandolo e lusingandolo un pochino ognuno lo avrebbe piegato a qualunque porcheria, ed egli avrebbe sempre creduto di essere dalla banda della ragione. Ma quanto al correggere queste male pieghe io la mandava dall’oggi in domane; anche perché non voleva angustiare la loro madre, e sperava che da un giorno all’altro ella avrebbe aperto gli occhi sul loro conto. Per esempio a me non sapeva bene che ogni loro moralità si appoggiasse ciecamente all’autorità, dicendo che a quel modo dovevano fare perché così era comandato. Avrei voluto aggiungere che così era comandato, perché appunto la ragione l’ordine sociale e la coscienza inducevano la necessità di quei comandamenti; desiderava insomma che la volontà di Dio fosse loro dimostrata, oltreché nelle parole della rivelazione, anche nelle leggi e nelle necessità morali che regolano la coscienza degli individui e la pubblica giustizia.

Così, se anche una contraria educazione li privava dei sostegni della fede, essi restavano sempre uomini soggetti ad una legge ragionevole ed umana; mentre una volta che fossero alieni dalla religione, così com’erano sudditi a’ suoi precetti unicamente per paura, la loro coscienza rimaneva senza alcun lume, e nullo affatto il valor morale dell’animo. L’Aquilina non voleva sentire da quest’orecchio. Secondo lei era un sacrilegio solo il supporre che i suoi figliuoli potessero apostatar col pensiero dalla religione in cui li educava; e se erano tanto tristi e sfortunati da cadere nell’abisso dell’incredulità, non valeva la pena di arrestarli a metà strada. Perdute le loro anime, non le importava nulla che la società avesse dalle loro azioni giovamento o danno. Era egoista non solamente in sé, ma anche a nome loro.

A mio credere invece, anche nel giusto giudizio dei credenti questo era un cattivo sistema e alieno affatto dai divini precetti. Prima di tutto la natura, interprete di Dio, ci pose nell’animo di preferire il minor male al più grande, e poi l’istinto della compassione ci obbliga ad ogni accorgimento perché la felicità dei nostri simili sia tutelata piucché è possibile contro le soperchierie dei malvagi. Ora il nuocere insieme all’anima propria colla miscredenza, e alla sorte altrui colle azioni è certo cosa assai peggiore e dannosa all’ordine sociale che non il mantenersi ligi colle opere alle leggi morali e solamente peccare in difetto d’opinioni religiose. Preparar dunque gli animi dei fanciulli in modo che, anche sprovvisti di queste credenze, debbano ubbidire per intimo sentimento alla regola universale di giustizia che illumina le coscienze, sarà non solamente opera di prudente educatore sociale, ma anche cura lodevole e consentanea alla natura pietosa di Dio! Quanto al poter supporre questo pervertimento nelle opinioni di coloro che si istituiscono, gli uomini son sempre uomini, perciò mutabili sempre, né ci veggo né ci vedrò mai sacrilegio di sorta. Bensì è un tradimento del proprio ministero la trascuranza di quei maestri che pur vedendo rinnovarsi tutto giorno migliaia di questi casi in cui esseri umani forniti di qualità pregevolissime cessando di esser devoti diventano bestie, tuttavia si ostinano ad appoggiare soltanto al precetto religioso la moralità dei discepoli mettendo così a grave repentaglio l’economia morale della società. Non dite che viviamo in secoli di tiepidezza religiosa e di miscredenza? Adunque adoperatevi per difendere almeno la felicità dei terzi e l’ordine sociale con miglior riparo che non sia l’adempimento dei doveri appoggiato unicamente a quella fede di cui lamentate l’insufficienza. Non dico che cessiate dall’inculcare e dal predicar questa, se lo portano le vostre convinzioni; dico soltanto che aggiungiate un’altra caparra, perché la società possa fidarsi della vostra educazione, che così come la intendete voi e nei secoli di sùbite conversioni e di scarsi sacrifizii in cui viviamo, è affatto manchevole di sicurezza.

Io, vedete, se avessi rilevato ogni mia regola morale dalla Dottrina, sarei rimasto un gran birbaccione; e se cito me non è né per ammenda né per orgoglio; è per recare in mezzo un fatto del quale non possiate dubitare. Letta poi che abbiate questa vita, e qualunque sieno le vostre opinioni, dovete confessare che se non ho fatto molto bene, poteva certo operare molto maggior male. Ora del male che non operai, tutto il merito ne viene a quel freno invincibile della coscienza che mi trattenne anche dopoché cessai di credermi obbligato a certe formule. Il fatto era che non credeva più ma sentiva sempre di dover fare a quel modo; e poco cristiano alle parole, lo era poi scrupolosamente nei fatti in tutte quelle infinite circostanze nelle quali la moralità cristiana concorda colla naturale. Se voi mi proverete che diventando usuraio, spergiurio, venale, assassino, io sarei stato più utile alla società, consentirò allora con voi che sia perfettamente inutile dare un appoggio filosofico ed assoluto anche ai precetti morali della religione. Senzaché colla lettera del testo si può schermeggiare e stabilire contr’esso la battaglia ordinata della casuistica; ma coi sentimenti, eh, maestri miei, non v’ha scherma o casuistica che tenga! Se si opera a ritroso ne siam tosto puniti dai rimorsi che son forse meno formidabili ma più presenti dell’inferno.

Io non credo d’aver mai avuto il coraggio di schiccherare all’Aquilina una così lunga predica, ché allora non dubito che l’avrei persuasa; anzi colgo l’occasione di dichiararvi che per quanto parolaio e quaresimalista possa sembrarvi nel racconto della mia vita, all’atto pratico poi sono sempre stato assai parco di parole, e tre persone che avessi dinanzi più del solito bastavano per impegolarmi lo scilinguagnolo. Pure qualche volta bel bello venni con mia moglie su quel discorso; e battuto da una parte ci tornai dall’altra, sempre coll’ugual risultato di buscarmi nelle orecchie una solenne gridata. La lasciai dunque in balia di disporre ogni cosa a suo modo, anche perché tra padre e madre in verità era imbrogliato a decidere quale avesse maggiori diritti dell’altro. A far pesare la bilancia dal suo lato contribuì anche non poco la circostanza del cholera, il quale, penetrato allora per la prima volta in Italia collo spavento che accompagna le malattie contagiose ed insolite, mise tutta Venezia in grandissima costernazione.

Il nostro Giulio fu colpito da quel morbo terribile, e la costanza e il coraggio col quale sua madre lo assisté le diedero quasi un’altra volta i diritti di madre. Io dovetti metter le pive nel sacco coi miei; e se serbai qualche pretesa fu sulla Pisana, la quale più del fanciullo abbisognava d’un indirizzo certo e morale per essere a tre doppii di lui accorta e maligna. Sembrava che col nome ella avesse ereditato qualche cosa del temperamento della mia Pisana, e quando prima di improvvisare una filastrocca di bugie con un leggiadro movimento del capo si liberava la fronte dalle diffuse anella dei bei capelli castani che la inondavano, la mia mente correva tosto alla piccola maga di Fratta; e così io mi lasciava corbellare colla massima dabbenaggine. Senonché la mia figliuolina non aveva la spensieratezza e la petulanza della Pisana; anzi sapeva calcolar molto bene i fatti suoi, e piegarsi e torcer il collo oggi per drizzar il capo e impennarsi meglio domani. Io la teneva d’occhio e vedeva crescere in lei ogni giorno quello studio di piacere che è la fortuna e la rovina delle donne.

Cercava con bella maniera di indirizzarla convenevolmente, di renderle pregevole il suffragio dei buoni e di farle avere in poco conto l’ammirazione dei tristi, dimostrandole come bontà e tristizia non si conoscano dalle apparenze più o meno splendide ma dalle qualità delle azioni; ma mi accorgeva di far poco frutto. Le avevano troppo inculcato che chi comanda ha ragione di comandare, e non può desiderare altro che il meglio di chi ubbidisce, perch’ella credesse e potesse amare la virtù povera dispregiata ed oppressa; per lei merito, virtù, onori, ricchezza, potenza erano una sola cosa, e la sua capricciosa testolina s’empieva di fantasmi e di corbellerie. Correva dietro al lume come la farfalla. Ma le ali, poverina, le ali?... Come farai, leggiera farfalletta a spiccare il volo quando il fuoco della candela t’avrà incenerito le ali?...

Quest’era la mia paura; che qualche triste disinganno le togliesse ogni poesia dall’anima, e che restasse come quei sciagurati che si credono esseri spregiudicati, positivi perfetti, e non sono altro che mostruosi bastardumi dell’umana progenie, corpi senza spirito destinati a corrompere per alcuni anni una certa quantità d’aria pura e a popolare di vermi la cavità d’un sepolcro. Io lottava pertinacemente, come le mie occupazioni me lo consentivano, contro i dubbiosi istinti di quell’indole femminile; ma non altro faceva che arrestar il male senza poterlo togliere, anche perché le parole dell’Aquilina contrastavano alle mie, e le compagnie ch’essa le faceva frequentare le offrivano esempi totalmente opposti a quelli che si affacevano per confermare le mie belle teorie.

Il cholera se non altro fu benemerito di spazzare il mondo da molte persone che non si sapeva il perché ci fossero capitate. Uno dei primi ad andarsene fu Agostino Frumier che lasciò numerosa figliuolanza, e fu accoratissimo di scender sotterra senza la chiave di ciambellano così lungamente ambita. Suo fratello ci perdette nella moria la vecchia Correggitrice che morì credo più di paura che di vero male; ed egli allora tornò così nuovo al mondo che credo si maravigliasse di non trovarsi in capo la perrucca e di non veder il Doge e le cappe magne degli Eccelentissimi Procuratori. Dicevano per Venezia: – Ecco il cavalier Alfonso Frumier che è uscito or ora di collegio. – Aveva all’incirca sessantacinque anni, e la signora Correggitrice passava i settanta quando s’era decisa a morire. Per trovare una costanza simile a questa bisognerebbe risalire ai primordi del genere umano quando non c’era che un uomo ed una donna sola. In quel contagio credo che morisse anche la Doretta che dopo una vita piena di vitupero e di pellegrinaggi era tornata in Venezia ad infamare la propria vecchiaia. Certo seppi dalla signora Clara ch’ella mancò nell’estate di quell’anno nell’Ospitale.

Io l’avea incontrata parecchie volte, ma finto di non conoscerla perché la sua sozza figura mi moveva proprio ribrezzo; e mi sapeva di sacrilegio l’unire la memoria di Leopardo a quella svergognata creatura. Peraltro anche la sua fine contribuì a persuadermi che una suprema giustizia domina le vicende di questo mondo; e che vi sono sì molte e dolorose eccezioni, ma in generale ne resta confermata la regola che il male raccoglie male. Durante la giovinezza, quando l’animo bollente ed impetuoso non ha tempo di considerare le pienezze delle cose, ma s’arresta più facilmente ai particolari, è possibile il prender abbaglio. Di mano in mano poi che il giudizio si raffredda e che la memoria fa maggior tesoro di fatti e di osservazioni, cresce la confidenza nella ragione collettiva che regola l’umanità, e s’intravvede la sua salita verso migliori stazioni. Così non accorgiamo il pendio d’un torrente nello spazio di pochi piedi ma bensì a specularlo da un’altura in buona parte del suo corso.

Ci eravamo appena riavuti dallo sgomento di quella pestilenza, quando una sera, mi pare a mezzo novembre, mi fu annunciata la visita del dottor Vianello. Io era sempre stato in qualche corrispondenza con Lucilio, ma dopo il trent’uno quand’egli pure era venuto in Italia per ripartirne tantosto, le nostre lettere s’erano fatte sempre più rare. Allora poi non ne aveva notizia da più d’un anno. Lo trovai curvo, pallido e bianco affatto di quei pochi capelli rimastigli; ma negli occhi era sempre lui; l’anima forte e integerrima scaldava ancora le sue parole, quando alzava un gesto s’indovinava la vigoria dello spirito che covava in quel corpicciuolo asciutto e sparuto.

– T’ho detto che verrò a morire fra voi! – mi disse egli. – Or bene, vengo a mantenere la mia parola. Ho settantadue anni, ma sarebbero nulla senza un noioso mal di petto regalatomi dal clima di Londra. Abbiamo un bel difenderci noi, figliuoli del sole; le nebbie ci rovinano.

– Spero bene che scherzi – gli risposi io – e che come hai guarito me nella vista, così guarirai te nel petto.

– Ti ripeto che vengo a mantenere la mia parola. Del resto noi ci conosciamo, e non ci abbisognano né scambievoli cerimonie, né bugie. Sappiamo cosa si può sperare dalla vita, e qual bene o qual male è la morte. Se io ti recitassi ora la commedia con questa mia indifferenza avresti ragione di piagnucolare; ma sai che parlo come penso e che se dico di morire in pace, in pace anche morrò. Soltanto ti confesso che mi duole all’anima di non vedere la fine; ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della mia e non giova lamentarsene. Le mie azioni, le mie idee, il mio spirito che con grande studio e con qualche fatica ho educato ad amare ed a volere il bene, soffocando anche le passioni che lo dominavano, tutto io credo seguiterà a servire quella meravigliosa provvidenza che va perfezionando l’ordine morale. Ti ricordi dei mondi concentrici di Goethe? Non saranno una verità; ma una profonda e filosofica allegoria. I nostri sospiri le nostre parole si ripercotono lontano lontano affievoliti sempre annullati mai, come quei cerchi che s’allargano intorno a quel punto del lago che fu percosso da un sasso. La vita nasce da contrazione, la morte da espansione; ma la vitalità universale assorbe in sé questi varii movimenti che sono per lei quasi funzioni di visceri diversi.

Io ascoltava devotamente le parole di Lucilio, perché rarissimi sono coloro che sanno volgere a vero conforto le alte speculazioni della filosofia, e questo è privilegio concesso ai pochissimi che ebbero da natura o si procacciarono coll’educazione e colla forza della volontà la concordia intima dei sentimenti coi pensieri. Certo io non era in grado di batter l’ali dietro a quell’aquila, ma ne ammirava da terra il volo luminoso, consolandomi di vedere che altri saliva col ragionamento ov’io di sbalzo m’era stabilito colla coscienza.

– Lucilio, – gli risposi abbracciandolo nuovamente – parlando con voi mi sento proprio rinvigorire; questo è segno che le vostre sono idee vere e salutari. Ma per questo appunto non mi proibirete di sperare che la vostra compagnia ci durerà più a lungo di quello che volete darci ad intendere?...

– Ti prometto che ci faremo buona e allegra compagnia; nulla di più. Potrei anche dirti il tempo, ma non voglio farmi scornare come medico. Insomma son contento di me e tanto deve bastare.

– Desiderereste riveder la Clara? – gli chiesi io. – O ve ne è passata affatto la voglia?

– No, no! – egli mi rispose. – Anzi intendo vederla per contemplare ancora una volta il fine diverso di un’istessa passione in due temperamenti diversi, e diversamente educati. Imparare più che si può, dev’essere la legge suprema delle anime. Questa sete inestinguibile che abbiamo di sapere e che ci tormenta fino all’istante supremo non dipende da motivo alcuno apparente alla ragione individuale. Essa può benissimo rilevare dalla necessità d’un ordine più vasto che si dilata oltre la morte. Impariamo dunque, impariamo!... La natura sembra disperdere la pioggia a capriccio; ma ogni goccia per quanto minuta per quanto infinitesima è bevuta dalla terra, e trascorre poi per meati invisibili dove la richiama la soverchia aridità. L’ozio è un trovato dell’imbecillità umana; nella natura non v’è ozio, né cosa che sia inutile.

– Dunque guarderete la Clara come il notomista che indaga un cadavere?

– No, Carlo, ma guarderò lei, come guardo me: per convincermi sempre più, anche nelle obiezioni apparenti dei fatti, che una ragione sola sommove spinge ed acqueta quest’umanità varia ed immensa; per provare ancora una volta colla costanza de’ miei affetti, che essi tendono ad un’esistenza più vasta, ad un contentamento più libero e pieno che non si possa ottenere in questa fase umana dell’esser nostro. Perché se così non fosse, Carlo, io sarei ben pazzo ad amare chi mi affligge e mi disprezza; ma un’intima coscienza mi assicura che non son pazzo per nulla, e che il mio giudizio è tanto retto tanto imparziale come può esserlo quello d’altr’uomo al mondo.

– Ascoltatemi, com’è che non vi udii mai né stupirvi né sdegnarvi per l’incredibile cambiamento della Clara a vostro riguardo? Gli è già un pezzo che voleva chiedervene: ma mi sembra caso anche più maraviglioso della stessa pertinacia dell’amor vostro.

– Com’è che non me ne stupii, e non ne ebbi sdegno? È piano il chiarirtelo. La Clara aveva l’anima disposta alle sublimi illusioni; e non poteva maravigliare di vedermela sfuggire per quella via; massime che io svagato da diversi pensieri mi era abbandonato ad una stupida sicurezza. Le donne ci possono fuggire per di sotto; allora è facile racquistarle ed è la disgrazia più comune, e il pericolo generalmente temuto. Io che mi sentiva certo da quella parte, non pensai all’altra. Guai guai quand’elle ci sfuggono per di sopra!... L’inseguirle è inutile, richiamarle è vano; nessun piacere è più grande della voluttà dei sacrifizii, nessun ragionamento vince la fede, nessuna pietà le distoglie dalla considerazione assoluta delle cose eterne!... E le donne, vedete, hanno maggior facilità di noi a vivere, direi quasi, oltre la vita. Come medico io ebbi occasione di convincermi che nessun uomo per quanto forte e sventurato uguaglia una misera donnicciuola nell’indifferenza della morte. Sembra ch’esse abbiano più chiaro di noi il presentimento d’una vita futura. Quanto poi al non aver preso in ira la Clara, prima di tutto, scusami, ma l’ira è sentimento da ragazzi; io poi non l’ebbi contro di lei perché la sua non fu ingiustizia ma allucinazione: ella credeva di amarmi meglio a quel modo, e di procurarmi non un piacer mondano e passeggiero, ma una contentezza celeste ed eterna. Figurati! Doveva anzi esserlene grato.

Io ammirai la facilità colla quale Lucilio subordinava alla ragione i più fuggevoli e involontarii movimenti dell’animo. A forza di costanza e di esercizio egli governava se stesso come un orologio; e passioni affetti pensieri si aggiravano in quel modo ch’egli avea loro prefisso. Bensì non si poteva dire che egli sentisse fiaccamente; anzi a conoscerlo bene bisognava confessare che soltanto con una pressura quasi sovrannaturale di volontà egli potea giungere a tener regolate e compresse le passioni che lo agitavano.

Lucilio e la Clara si videro quasi tutte le sere durante quell’inverno, e la conversazione di casa Fratta ebbe più volte a scandolezzarsi delle violente scappate del vecchio dottore. Augusto Cisterna andava dicendo che si dovea perdonargli per la vecchiaia, ma la Clara portava più oltre la tolleranza, affermando che era sempre stato pazzo a quel modo e che Dio lo avrebbe scusato pei suoi buoni motivi. Ella aveva gran cura di non porre gli occhi addosso al dottore, forse perché così s’era votata di fare uscendo di convento; ma del resto tanta era la semplicità della sua fede e la ingenuità delle maniere che Lucilio ne sorrideva più di ammirazione che di scherno. Quello che si era mostrato contentissimo di rivedere il dottor Vianello, fu, non ve lo immaginereste mai, il conte Rinaldo. Ma ve ne spiego ora il motivo. Dalle sue diuturne incubazioni sui libri delle biblioteche era in procinto di nascere qualche cosa; un operone colossale sul commercio dei Veneti da Attila a Carlo Quinto, nel quale l’arditezza delle ipotesi, la copia dei documenti e l’acume della critica si sussidiavano a vicenda mirabilmente, come a quel tempo diceva Lucilio. Questi poi riuscì molto comodo all’autore per l’esame di certi punti parziali sui quali lo sapeva profondamente erudito; e infatti corressero insieme qualche proposta, ne ammendarono qualche altra. Lucilio faceva le grandi maraviglie di scoprire tanto tesoro di sapienza e tanto fervore d’amor patrio in quell’omiciattolo sucido e brontolone del conte Rinaldo; ma insieme anche indovinava le cause del fenomeno.

– Ecco – diceva egli – ecco come si sfruttano, in tempi di errori e di ozii nazionali le menti che vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di poltrire!... I loro affetti la loro attività si sprecano a rianimare le mummie; non potendo migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi, macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino quasi comune dei nostri letterati!

Ma Lucilio diceva troppo. Perché con Alfieri con Foscolo con Manzoni con Pellico era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sì le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr’esse: e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbì di quella ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della ginestra e di Bruto sapeva meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar l’anima a quella sublimità di scienza che comprende d’uno sguardo tutto il mondo metafisico e non s’arresta ai gemiti fanciulleschi d’un uomo che si spaura del buio.

Giulio, il mio figliuoletto, si sarebbe assai vantaggiato della compagnia e della conversazione di Lucilio se questi fosse rimasto più a lungo con noi. Ma pur troppo il suo male si aggravò all’aprirsi della primavera, e giusta le sue previsioni lo condusse ben presto a morire. Egli spirò guardandomi fieramente in volto quasi mi vietasse di compiangerlo; la Clara era nell’altra camera che pregava per lui, e l’ultima parola del moribondo fu questa: – Ringraziala! – Infatti io la ringraziai, ma non sapeva bene di cosa. Per quanto l’avessi pregata non avea consentito a consolare il morente della sua presenza; ma siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, così mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse anche quel sacrifizio per maggior bene dell’anima di lui. Io rimasi più meditabondo che addolorato dopo la perdita di Lucilio; ma mi diede molta stizza il piacere che ne dimostrò mia moglie senza alcun riguardo. Secondo lei la frequenza del dottore in casa nostra metteva a pericolo la moralità de’ suoi figliuoli, e Dio le avea fatto una grazia segnalata mandandolo all’ultima dimora che gli avea destinata.

Quel giorno appiccai coll’Aquilina una furiosa battaglia, che non passò senza lagrime e senza strepiti; ma pazientava anche troppo, e una tale ingiustizia mescolata a tutto potere di riconoscenza, meritava le scopate. Confesso che io né ebbi né avrò mai la serena pacatezza di Lucilio. Del resto la morte di questo come già quella della Pisana mi persuase sempre più che ad esser forti e generosi c’è sempre da guadagnare. Non foss’altro si muore allegramente: e questa, oltrecché ventura desiderabilissima, è anche la pietra del paragone su cui si differenziano i galantuomini dai tristi. Durante la vita c’è di mezzo l’ipocrisia; ma sul gran punto!!... Eh credetelo, amici miei, non si ha né tempo né voglia di far la commedia. E il castigo più grande e più certo dei birbanti è quello di morire tremando.

Nel riandare la mia storia io penso sempre alla margheritina, a quel modesto fiorellino dal botton d’oro e dai raggi bianchi, sul quale le zitelle traggono il pronostico d’amore. Una per una le cavano tutte le foglie, finché resta solo l’ultima, e così siamo noi che dei compagni coi quali venimmo camminando lungo i sentieri della vita, uno cade oggi l’altro domani e si troviamo poi soli, melanconici nel deserto della vecchiaia. Alla morte di Lucilio tenne dietro quella di mio cognato Spiro, la quale ci fu annunciata da Luciano e raddoppiò il lutto del mio cuore. Quanto a lui, egli non pensava più di abbandonare la Grecia ed io l’avea preveduto che l’ambizione dovea soperchiare in quel giovane qualunque altro sentimento. S’era un po’ scoraggiato dopo l’assassinamento del conte Capodistria, ma poi all’assunzione al trono del re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e di colà agognava i posti più alti coll’avida pazienza del cane che mette il muso sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di noi, di Venezia, dell’Italia egli non parlava più che come di altrettante curiosità: più affettuosamente forse mi scriveva sua moglie, benché dai figliuoli di Spiro sapessi che non la trattava molto bene. E già s’intende che della trascuranza di Luciano mia moglie seguitava ad accagionar me come della morte di Donato.

Peraltro nei due o tre anni che seguirono, disgrazie che colpirono più direttamente lei me la resero un po’ più indulgente; e di ciò ebbi ed avrò sempre rimorso pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava più che Bruto il quale sopportava assai lietamente il crescer degli anni, e solamente si lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli spessissimi ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Così noi andavamo pian piano scadendo verso la vecchiaia, mentre il paese racquistava la sua gioventù, e quello che seguì poi prova abbastanza che tutti quegli anni non furono né perduti né dormiti come cianciano i pessimisti. Dal nulla nasce nulla: è assioma senza risposta.