CAPITOLO VENTESIMOSECONDO

Nel quale è dimostrato a conforto dei letterati come il conte Rinaldo scrivendo la sua famosa opera sul Commercio dei Veneti si consolasse pienamente della sua miseria – Tristissima piega di mio figlio Giulio e temperamento comico della piccola Pisana – I giovani d’adesso valgono assai meglio dei giovani d’una volta; e sbagliando s’impara quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si deve. Fuga di Giulio e visita dei vecchi amici – Feste e lutti pubblici e privati durante il 1848. – Ritorno in Friuli dove alcuni anni dopo ricevo la notizia della morte di mio figlio.

Vi sarete accorti che di tutte le professioni cui io mi dedicai a nessuna mi avea condotto il mio libero arbitrio; e che o la volontà degli altri o la necessità del momento, o un concorso straordinario di circostanze m’aveano dato in mano il partito bell’e fatto senza ch’io potessi pur ragionarci sopra. Nella negoziatura poi io m’era immischiato per puro riguardo a mio cognato; e se non me ne stolsi quando la ditta Apostulos ebbe finito di liquidare i conti, fu solamente perché il maneggio commerciale de’ miei piccoli capitali mi serviva a parar innanzi1 la famiglia. Intorno al quaranta peraltro essendo io divenuto vecchio e debole ancora negli occhi, e sommando già la mia sostanza a tanto che anche impiegata in fondi poteva darmi di che vivere, deliberai ritirarmi affatto dal commercio. A ciò fare m’ingegnava da qualche tempo, quando l’Internunziatura di Costantinopoli mi diede avviso che il governo ottomano avea finalmente riconosciuto in parte il credito di mio padre; e che se non la più grossa somma della quale si ritenevano debitori gli eredi del Gran Visir d’allora, almeno un rilevante capitale mi sarebbe pagato.

Lucilio tre quattr’anni prima m’avea già avvertito che l’Ambasceria inglese non avea trascurato quest’affare e che solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della Porta, ma io non avrei mai creduto che si dovesse giungere a qualche risultato; e perciò mi parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che mi furono contate, e quanto agli eredi del Visir li lasciai in pace perché mio figlio Luciano, incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch’erano tutta gente oscura e miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che mi fruttò la liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai un grande e bel podere intorno alla casa Provvedoni di Cordovado, nonché molti fondi del patrimonio Frumier, dei quali il dottor Domenico Fulgenzi cercava sbarazzarsi per adoperare più liberamente la propria sostanza nel circuire e incorporarsi quella degli altri.

Tuttavia l’educazione di Giulio consigliandoci la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di Venezia: pei due mesi d’autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta e là si godeva dell’aria libera e d’una compagnevole villeggiatura. A poco a poco m’era così avvezzato a Venezia, ch’era diventato anch’io come quel dabbenuomo che non potea vivere un giorno senza vedere il campanil di San Marco. E non vi dirò del campanile, ma certo la Chiesa le Procuratie il Palazzo Ducale li rivedeva sempre con un piacere misto di dolcissima melanconia quando il San Martino ci faceva dar le spalle alla campagna. Bruto invece che colla sua gamba di legno si trovava meglio d’assai in terraferma, ci serviva volonterosamente da fattore; e gran parte della buona stagione la passava in Friuli, dove anche la sua presenza era utile per uno sciame di nipoti d’ogni sesso ed età che avevano lasciato i suoi fratelli e ch’egli si studiava alla bell’e meglio di beneficare. Io per me aveva provveduto a tutti i figliuoli di Donato e della Bradamante. Due ragazze erano maritate assai decentemente una a Portogruaro l’altra a San Vito; e dei giovani l’uno guadagnava il bisogno nella sua professione di veterinario, l’altro attendeva alle cose sue e dall’affitto della spezieria e da uno dei miei poderi che gli aveva ceduto da amministrare ricavava abbastanza per ristorar la famiglia dalle sofferte sciagure.

Quelli invece che andavano di male in peggio erano i conti di Fratta. Sarà stata una sciocchezza ma a me doleva sempre e ne duol tuttavia di vedersi spegnere la famiglia della Pisana. Il dissesto poi d’ogni loro fortuna non era pareggiato che dalla stoica felicità colla quale lo sopportavano. Rinaldo con compere di libri, e con neglette esazioni; la Clara con improvvide beneficenze, ognuno dal canto suo aveva dato fondo ai rimasugli del proprio avere. Rimanevano ancora due o tre coloni con un’ala cadente del castello e due torri sfiancate, ma gli affitti si disperdevano a destra e a sinistra nelle mani rabbiose e litiganti dei creditori: non un quattrino ne giungeva a Venezia, quando mai si avrebbe potuto scrivere colà che ne mandassero. Ma bisogna rendere questa giustizia agli ultimi rappresentanti dell’illustre prosapia dei conti di Fratta, erano tanto restii a pagare come noncuranti di riscuotere. Il conte Rinaldo adunque e la reverenda Clara si trovavano ridotti all’entrata d’un ducato al giorno, più le tre lire venete che la signora riceveva dall’Erario pubblico come patrizia bisognosa. Ma lo vedete bene che non c’era da gozzovigliare; e infatti l’anno non era per loro che una lunga quaresima.

Fortuna che la signora per le sue estasi serafiche ed il Conte per le continue distrazioni della scienza non aveano tempo di badare allo stomaco. S’assottigliavano ogni giorno più, ma senza accorgersene; e credo che si sarebbero avvezzati a viver d’aria come l’asino d’Arlecchino. Certo mi ricordo che un giorno avendo io domandato alla contessa Clara perché pigliasse tanti caffè minacciata com’era da una paralisi, mi rispose che il caffè a Venezia costava poco e ne beveva assai per far senza brodo. Tra il caffè e l’aria, in punto a nutrizione credo ci sia pochissima differenza. Notate che qualunque donnicciuola si fosse presentata alla loro porta piagnucolando e paternostrando era certa di non partire che dopo aver ricevuto un soldo o un tozzo di pane. Son certo che la Clara al suo peggior nemico, se lo avesse avuto, avrebbe fatto parte dell’ultimo caffè, e datoglielo anche tutto, se si fosse imbronciato del poco.

Il conte Rinaldo intanto cercava per mare e per terra un editore della sua opera; ma pur troppo non lo trovava. Le ricchezze s’erano accresciute notevolmente in quella lunga pace, non tanto forse quanto si voleva, ma certo cresciute erano; il senno pubblico e l’educazione aveano migliorato assai benché a rilento e quasi a ritroso delle circostanze; ma non si guardava tanto lontano e la carità patria cercava bisogni presenti da soddisfare, piaghe da sanare, desiderii da adempiere, non glorie remote da ravvivare, o vecchie eredità passive da raccogliere. Un inno manzoniano in onore della strada ferrata che si progettava allora per congiungere Milano a Venezia avrebbe trovato editori compratori e lodatori; ma un’opera voluminosa sul commercio degli antichi Veneti non stuzzicava la curiosità del pubblico, e non dava speranza ai librai di guadagnarci gran fatto. Perciò facevano tanto di capèllo al signor Conte, e dopo aver pesato colla mano il suo manoscritto glielo restituivano garbatamente senza pur volerlo leggere. Indarno egli si sfiatava a persuaderli di esaminare l’opera sua per conoscerne il valore e l’estensione; essi rispondevano che la reputavano un capolavoro, ma che i lettori non erano preparati a cose tanto sublimi e profonde, e che se lo scrittore secondava le proprie idee, agli stampatori invece si conveniva di soddisfare ai desiderii della gente. Il conte Rinaldo aveva la modestia del vero merito, ma insieme anche la dignità naturale di chi è sinceramente modesto.

Perciò non s’abbassava, come dice il volgo, a leccar le scarpe di ness’uno, e tornava nella sua solitudine a vendicarsi nobilmente e consolarsi dei sofferti rifiuti col limare correggere ed emendare il proprio lavoro. Trent’anni di studio di ricerche di meditazioni non gli sembravano sufficienti; ed ogni giorno gli saltava agli occhi qualche passo dove una più larga critica avrebbe rischiarato le idee, o avviato meglio il lettore a comprendere lo spirito dell’autore. Per poco non era grato agli editori che gli aveano lasciato il tempo di lumeggiar meglio qualche parte del quadro e ritoccarne il disegno. Ma poi quando tornava a credere di aver finito, e si rimetteva in giro per le botteghe dei librai col suo manoscritto sotto il tabarro, gli toccavano sempre le uguali repulse condite da ultimo anche da qualche motteggio e dalle sgrugnate dei meno cortesi. Consigliato a rivolgersi agli editori più noti delle altre città, cominciò un ostinato carteggio con Firenze con Milano con Torino con Napoli. I più neanche rispondevano; qualcheduno che serbava rispetto al Galateo lo invitava a mandar saggi della sua opera. Ed eccotelo il dabbenuomo, a scegliere a ripulire a trascrivere ancora: ma in fin dei conti capitava una lettera che trovava o lo stile troppo astruso o l’argomento troppo alieno dagli studii presenti; lo si invitava a scrivere di statistica e d’economia, che sarebbe decentemente retribuito, ma in quanto a quei lavori monumentali d’erudizione storica non s’affacevano al nostro secolo.

Il povero Conte metteva anche quelle ultime lusinghe nella cantera delle illusioni svanite; ma ne aveva una tal provvista da frustar ancora, che corsero parecchi anni prima che si persuadesse dell’assoluta impossibilità di trovare un editore per la Storia Critica del Commercio Veneto. Gli capitò in mente che farsi raccomandare da qualche uomo già noto nella letteratura e nelle scienze poteva giovargli assai; ma siccome non conosceva alcuno si consultò intorno a questo partito col cavalier Frumier. Figuratevi che bazza! Il Cavaliere dopo la morte della dama Dolfin non aveva più racquistato l’uso dei sensi, e a parlare a lui di letterati e di scienziati, era lo stesso come farsi narrare la storia letteraria del secolo scorso. Egli non veniva più in qua dell’abate Cesarotti e del conte Gaspare Gozzi; sicché diede assai scarso conforto al cugino. Il conte Rinaldo allora deliberò di fare da sé, e cominciò a vendere tutto quello che aveva ancora di vendibile per cominciare se non altro la stampa; dopo dati alla luce i primi fascicoli confidava nel favore del pubblico che non poteva mancare ad un’opera di decoro patrio e di alta importanza storica. La signora Clara bevette d’allora in poi un più moderato numero di caffè, egli si tolse perfino il pane di bocca per raggranellare più presto quelle cinquecento lire che abbisognavano alla stampa dei quattro primi capitoli. Come poi le ebbe in tasca, andò dal tipografo, e senza pur contrattare, le depose sul banco dicendo trionfalmente:

– Stampatemi più che potete del mio manoscritto.

– In qual sesto lo comanda, quante copie ne desidera, vuol distribuire schede d’associazione o farne senza? – chiese lo stampatore.

Tutte cose delle quali Rinaldo non s’intendeva un’acca. Ma fattosi dichiarare ogni cosa pel minuto, rimasero d’accordo che si sarebbero sparse per tutta Italia quattromila schede di associazione con quattro parole d’invito contenenti i sommi capi dell’opera, e che si sarebbero stampate mille copie del primo fascicolo in ottavo grande. Il conte tornò a casa che non toccava coi piedi il selciato; e le tre settimane che impiegò a correre dalla casa alla stamperia, rivedendo bozze, ammendando errori, cambiando vocaboli e aggiungendo postille furono per lui il tempo più felice della vita, quello che sarebbe stato il primo amore ad un giovinetto qualunque. Ma lo stampatore non partecipava gran fatto di questo eccesso di giubilo; le schede non tornavano colle firme desiderate; e appena era se in Venezia e nelle città vicine se n’erano raccolte un paio di dozzine. Queste poi capitavano loro per mezzo dei commessi librarii e si sa quanto stenti il denaro a rifluire per questi incerti canali. Peraltro il Conte era sicuro di veder stampato entro un mese il suo primo fascicolo, e dormiva sulle rose. Ebbe sì a litigare colla censura per qualche frase per qualche periodo, ma erano correzioni che non intaccavano menomamente l’opera d’importanza, e le concesse volentieri.

Così finalmente venne alla luce il famoso frontespizio coi quattro capitoli che gli tenevano dietro, e il conte Rinaldo ebbe la straordinaria consolazione di poter contemplare i cartoni della sua opera nelle vetrine dei librai. A questa consolazione tenne dietro l’altra non meno vitale di udirne strombettar il titolo sui giornali, e di vederne la critica tirata giù a campane doppie in qualche appendice. Fu il primo un giornale di Milano a lodare l’intento e la profonda erudizione del libro, nonché il grande valor pratico che poteva acquistare anco per l’odierno commercio, ove concorressero circostanze tali che lo avviassero a ritentare gli scali d’una volta. Si parlava in quel cenno critico delle Indie, della China, delle Molucche, dell’Inghilterra, della Russia, dell’oppio, del pepe e della paglia di riso, di Meemet Alì, dell’Impero birmano e del taglio dell’istmo di Suez, di tutto insomma fuorché del lavoro di Rinaldo e della mercatura e degli istituti commerciali veneziani durante il Medio Evo.

Tuttavia Rinaldo se ne accontentò perché infatti l’intento patriottico e la critica vasta e profonda erano designati come i pregi principali; il che era vero e l’autore se l’ sapeva, come seppe buon grado al giornalista di aver letto e interpretato a dovere l’opera sua. Un diario toscano copiò nella sostanza il giudizio del giornale milanese aggiungendo qualche cosa del suo, e dando a divedere con queste aggiunte di aver al più malamente sfogliazzato quel libro. Ma dopo cominciarono a comparire qua e là cento critiche, cento giudizii gli uni più strambi degli altri ricalcati servilmente e variati a piacere da quelle prime relazioni. Si accorgeva alle prime che gli scrittori conoscevano il libro appena nel titolo, e non aveano forse neppur pensato due volte a questo, perché un dotto pubblicista di Torino ebbe a raccomandare lo studio del conte di Fratta come un ottimo manuale per quei commercianti che vogliono aiutare la pratica dei loro negozi colle speculazioni della moderna economia. Leggendo quest’ultimo giudizio il povero autore si stropicciò gli occhi, e credette aver straveduto o che almeno non parlassero di lui e della sua opera. Ma poi ci tornò sopra e se ne persuase pur troppo.

– Razza di somari! – mormorò egli fra i denti. – Pazienza non comperarlo, pazienza non leggerlo! ma non intendere nemmeno il titolo!... Giudicarlo a rompicollo prima di osservarne il frontespizio!... Questa poi trascende ogni misura, e dico il vero che vorrei piuttosto essere lacerato che lodato da simile genia di aristarchi.

Era vissuto fino allora nelle biblioteche il conte Rinaldo e non sapeva che quelli non erano tempi da perdersi in letture. E che si lodava e si biasimava senza leggere, appunto perché si apprezzava più lo spirito e l’intento che il valore scientifico e la forma delle opere. Ognuno diceva al vicino: – Leggi quel libro che a primo assaggio mi parve buono! – Ma le parole passavano e il libro restava in bottega. Piuttosto si correva a divorare le recentissime di qualche giornale. Io non voglio dire che non restassero studiosi di polso che avean tempo a tutto; ma la gioventù, la gran consumatrice dei libri nuovi, era troppo occupata. Volendo tener dietro ai chiassi ai trastulli agli amorazzi nei quali era cresciuta e alle nuove passioni che fermentavano nelle combriccole, non era bastevole un’anima per individuo. Allora appunto era morto Gregorio XVI, al quale succedette nella sedia pontificale il Giovanni Mastai Ferretti sotto il nome di Pio IX. Chi al leggere questo nome non lo sente rimormorare sulle labbra, come una nota melodia che ci ronza negli orecchi lungo tempo dopo averla ascoltata?... Pio IX era anzitutto sacerdote e Papa, e lo si volle trasformare in un Giulio II pontefice e soldato; fu come quando si travede in una nuvola un simbolo una figura che chi l’ha in capo la ravvisa, ma invano si cercherebbe farla vedere agli altri.

Allora il nuovo papa o non capì o non volle capire il significato di quegli applausi che lo portavano a cielo, e tacendo diede ragione a chi sperava da lui più forse che non era disposto a concedere. Non so se l’entusiasmo fosse di moda o la moda generasse l’entusiasmo; so che entusiasmo e moda provennero dal bisogno universalmente sentito di ricoverare le proprie speranze dietro un vessillo santo ed inviolabile: non v’avea né congiura, né impostura, era saviezza d’istinto. Questi avvenimenti che rompevano la lunga sonnolenza d’Italia non secondarono per nulla l’impresa tipografica del conte Rinaldo; certo anche in tempi soliti non avrebbe guadagnato dal primo fascicolo di che aiutare almeno per metà la stampa del secondo, ma allora poi non ci cavò uno scudo che l’è uno scudo. E quello che è più curioso, toccò anche a lui dimenticarsi del proprio libro per correre cogli altri in piazza a gridare: Viva Pio IX!...

Sua sorella era fra le meglio invasate pel nuovo Pontefice; ne parlava come d’un profeta, e tutta la sua conversazione se n’era scandolezzata perché mai più s’immaginavano che la vecchia bigotta, la badessa emerita di Santa Teresa plaudisse di gran cuore ad un papa che tirava più al politico che al sacerdotale; almeno così credevano allora. Ma ignoravano forse il perché la Clara si fosse fatta bigotta e monaca, e a quali condizioni s’era obbligata verso Domeneddio all’osservanza dei voti. Io non lo sapeva ancora di sicuro; ma da qualche mezza parola credeva già di poterlo indovinare.

Intanto in mezzo a questi torbidi il danaro si faceva più raro che mai; e fu allora che il conte Rinaldo mandò un ordine urgente al suo castaldo di Fratta che gli si spedisse qualche soldo ad ogni costo; e il povero contadino si tolse d’impiccio vendendo i materiali che rimanevano del castello e anticipandone al padrone il prezzo. Il Conte con quella sommetta voleva aiutare la fondazione d’un giornale patriottico in non so qual città di terraferma; e così anche allora il danaro gli scappò dalle dita, e la Clara rimase senza caffè, ed egli con poco pane: ma l’una pregando, l’altro leggendo e fantasticando si difendevano valorosamente contro la fame. Qualche volta io ebbi la cristiana previdenza d’invitarlo a pranzo, ma era tanto svagato che benché sovente avesse nello stomaco l’appetito vecchio d’un paio di giorni, si smemorava dell’ora del pranzo e non veniva che alle frutta. Peraltro rimesse che fossero in movimento le mascelle, mostravano assai buona memoria del digiuno sofferto e una discreta previdenza di non volerlo patire per un buon pezzettino di futuro.

Questo era il poco bene che poteva operare a vantaggio de’ miei cugini, dei fratelli della Pisana; del resto non aveva il coraggio di esibirmi conoscendo la loro permalosa delicatezza; ed anche qualche libbra di caffè di cui l’Aquilina regalava la Clara, la facevamo giungere a loro di soppiatto per mezzo della serva. Confesso la verità che negli anni antecedenti quei due stampi singolari mi erano oltremodo antipatici, e durava fatica a sopportarli pensando di qual sangue erano; ma mano a mano che i tempi minacciavano scuri e temporaleschi mi rappaciava con loro, e serbava la mia bile contro la gente che li circondava. Là si vide il doppio intento d’una condotta e d’un modo di pensare che pareva uguale ed era tutt’altro; l’Ormenta, i Cisterna e i loro satelliti pensavano all’utile proprio, alla sicura comodità della vita sotto la scusa della gloria di Dio; Rinaldo e la Clara operavano per la gloria di Dio in tutto e per tutto, e la sostanza i commodi la vita avrebbero sacrificato allegramente per quel santissimo scopo. Gli è vero forse che anche la gloria di Dio la intendevano assai diversamente tra fratello e sorella, ma ad ogni modo nelle azioni e nell’opinion loro uno scopo ideale c’era; e picchiavano anch’essi le mani e si univano al generale entusiasmo, mentre il dottor Ormenta guardava sospettoso dalla finestra e mandava il canchero nel cuore a quei maledetti gridatori. Tuttavia all’occasione gridava quant’ogni altra buona gola; e non si faceva grattar la pancia come le cicale.

Mio figlio intanto era andato inzaccherandosi sempre più in sì trista compagnia: e per quanto mi studiassi di sollevargli la mente dalle cose basse e materiali e di tenergli viva la gioventù dello spirito, egli non mi badava più che tanto e mi pareva più vecchio lui a ventidue anni che non fossi io a settanta. Più anche mi studiava di volgerlo a sentimenti forti e generosi in quegli ultimi anni quando m’accorgeva delle vicende che ci pendevano sopra, e sentendomi già poco meno che decrepito, l’avrei dovuto lasciare senza guida nei momenti in cui più forse ne avrebbe abbisognato. Ma il sozzo dolciume dei vizii gli aveva troppo guasto il palato, e quei pervertitori della gioventù lo avevano persuaso che fuori della tranquillità, della buona tavola e del buon letto non sono altre cose desiderabili al mondo; cotali opinioni le ostentava come segno di animo forte e di indipendenza filosofica, facendosi merito di sprezzare la puerilità di chi metteva gran parte delle sue speranze nel contentamento di qualche desiderio meno umile.

Era la riazione contro il romanticismo della quale quei volponi si giovavano per fuorviare i giovani secondo il loro interesse. E siccome altri giovani di più matura esperienza o più rettamente guidati si opponevano a quelli colla parola coll’esempio, gridando che era un abbominio il negare così ogni idealità della vita, e il rendersi come porci in brago schiavi solo dei commodi e dei godimenti; quei maestri di corruzione soffiavano che eran gridate d’invidia e che non bisognava badarci, e che era tutto effetto d’ipocrisia, ma che si voleva coraggio per beffarsi delle predicazioni di quei farisei. Giulio che era di volontà forte e ricisa non si buttava a mezzo in un partito: per lui quell’opporsi a visiera alzata alle censure dei puritani, come li chiamavano, fu una prova di coraggio, e tanto essi lo biasimavano, d’altrettanto egli esagerava la cinica scapestratezza dei costumi. Gioco, beverie, donne erano le sue tre virtù principali; ne aveva molte altre di accessorie, e sopra tutte poi, quella ch’essi rimproveravano agli avversarii, una profonda e spontanea ipocrisia. Messo ch’egli aveva il piede oltre la soglia della casa, senza nemmeno pensarlo la sua persona assumeva un contegno composto, la sfacciataggine e la dissolutezza gli cadevano dagli occhi, e le labbra dimenticavano il solito frasario di bordello. Vicino a sua madre pareva un angelino; e quando io, per colpire il lato debole di quell’educazione cui l’aveva avviato, ripeteva quanto de’ suoi costumi mi riferivano le pubbliche voci, ella mi smaniava contro gridando che le erano falsità, e che il suo Giulio bastava guardarlo per conoscerlo fin nel fondo del cuore. Che se egli non perdeva il capo dietro le fantasticaggini solite dei giovani, che se teneva invece al sodo e cogli uomini posati bisognava ringraziarne il cielo; e che già una tremenda lezione l’avea già avuta nella fine di Donato. E lì rappiccava i soliti capi d’accusa; sui quali a me conveniva scrollar le spalle ed andarmene per non udir predicare tutta la giornata.

Peraltro non potei far a meno di somministrar a Giulio una gran lavata di capo, e minacciarlo di peggio pel futuro quando alle solite voci che correvano sul suo conto se ne aggiunsero di peggiori e quasi infami. Un amico del cavalier Frumier mi avvertì aver udito raccontare d’una scena avvenuta in una bisca a proposito di alcuni tagli di makao2, eseguiti, a quanto dicevano, da mio figlio con soverchia destrezza. Egli non avea risposto che coi pugni all’importuno osservatore, e questa maniera di difendere la propria onestà non gli dava ragione presso il giudizio dei più. Giulio, interpellato da me sopra questa circostanza, rispose per la prima volta con qualche alterezza che egli voleva giocare a suo piacimento senza che altri gliene prescrivesse il modo, che si beffava delle loro ciarle, ma che non voleva ricevere mali atti, e che chi era malcontento de’ suoi pugni se li facesse levare. Quanto al delitto appostogli non disse né sì né no: e vi scivolò sopra con qualche confusione lasciandomi quasi persuaso che non glielo apponessero a torto. Peraltro aveva ancora una lontana lusinga che quei suoi mali dipartimenti provenissero da un amor proprio fuorviato, da una smania eccessiva di contraddizione, e che se ne sarebbe forse allontanato prima che, batti e ribatti, le petulanze diventassero abitudini, e quelle colpe vizii. Attendeva a questa mia speranza, quando in mezzo all’entusiasmo propagatosi per tutta Italia all’amnistia concessa da Pio IX, Giulio fu appunto il solo ch’ebbe il coraggio di opporsi all’invasamento universale; di deridere quelle feste quelle gridate in piazza, e di chiamar pazzi e femminette coloro che ci credevano. Non parlava e non agiva forse così per antiveggenza politica, ma per mostra di cinismo; ad ogni modo, fosse anche stata profonda convinzione, era più sfacciataggine che coraggio manifestarla a quel modo, in quei momenti. Anche le illusioni meritano qualche volta rispetto, e così non bisogna sfiorare la virginità d’anima d’un garzoncello, come non è lecito infirmare la fiducia generosa d’un popolo, quando la fede è per sé una forza rigeneratrice. Giulio invece motteggiava e beffeggiava senza riguardo; coloro stessi che forse meglio di lui erano persuasi delle sue opinioni, e ai quali tornava conto quell’opposizione, in pubblico facean le viste di non udire, o tirati in mezzo, disertavano lesti lesti all’entusiasmo dei più. Giulio allora s’ostinava sempre più e percotendo a due mani amici e nemici, smascherava la doppiezza di quelli, scherniva la dabbenaggine di questi, e si godeva di esser fuggito come il corvo delle male nuove, e odiato come il paladino delle anticaglie e dello statu quo.

Più l’odio era generale più si faceva un vanto di resistere; e fors’anco cominciava a credere nella verità di alcune fra le sue idee; ma raccolse il solito frutto della sua imprudenza. Gli uomini troppo assoluti e sinceri sono caricati per solito delle colpe di tutto il loro partito, e Giulio si ebbe addosso l’esecrazione generale: senza sapere appuntino tutte queste vicende, perché i parenti son gli ultimi ad aver contezza della condotta dei figliuoli, ne subodorai abbastanza per mettere Giulio in avvertenza di tutto il male che gliene poteva intervenire. Egli mi rispose che della vita faceva omai il conto ch’ella merita, e che nulla di male poteva intervenirgli persuaso com’era che non fossero mali quelli che affliggono solamente l’immaginazione.

– Bada, bada, Giulio! – io soggiunsi con voce di preghiera e quasi colle lagrime agli occhi. – La vita non si compone soltanto di quello che tu credi! L’anima tua potrebbe svegliarsi, sentir bisogno d’amore di stima...

– Oh padre mio! – m’interruppe sogghignando il giovane – non parliamo di queste poesie! Transeat se gli uomini fossero savii giusti perfetti, ma così come sono tanto importa posseder l’amore e la stima del proprio cane che quella di costoro. Io per me vi rinunzio volentieri e per sempre!

– Non dir per sempre, Giulio, ché non lo puoi! Sei troppo giovane! – (Egli sorrise, come tutti i giovani, quando si appunta loro mancanza d’esperienza) – Quegli uomini che tu giudichi così pazzi così tristi possono sollevarsi per uno slancio magnanimo da quella solita abiezione e riavere momenti sublimi di giustizia e di generosità!... Ora se tu, Giulio in quei momenti dovessi sopportare il loro disprezzo, credilo, ti spezzerebbe l’anima, a meno che non abbia perduto ogni pudore ogni dignità umana. In quei momenti non è l’ostracismo della pazzia e della nequizia che soffrirai, ma la sentenza della generosità e della giustizia!... E non potrai illuderti, non potrai difenderti!... Contro uno contro due contro dieci potrai insorgere, fremere, vendicarti; ma contro l’opinione d’un popolo non v’ha riparo: gli è come un incendio che compresso da una parte divampa subitaneo e maggiore dall’altra!... In tanta sciagura uno solo è il ricovero che la Provvidenza permette all’onest’uomo, il ricovero della coscienza. Ma tu Giulio, come ti troverai di faccia alla coscienza?... Quali conforti ti darà essa? a te che ti sei fatto una gloria di calpestare quanto di più nobile di più etereo racchiude l’umana speranza?... a te che professando un disprezzo profondo degli uomini senza pur conoscerli, ti sei accostato ai peggiori, e hai con ciò dato appiglio a credere che tu disprezzi te stesso più di ogni altro?... Via, rispondi; non ti pare che fra i tuoi maestri, i tuoi amici, fra il dottor Ormenta, fra Augusto Cisterna, i suoi figliuoli e il resto della gente non corra alcun divario? Ma se la gente accusa, vitupera, perseguita le azioni di quelli non è segno che almeno la coscienza pubblica è migliore della loro, e che v’è una vita possibile possibilissima, e se non felice e dignitosa in tutto, certo più degna di quella cui essi ti hanno invitato?... Temi, temi, Giulio di esser confuso con simil razza di serpenti; temi che la contraddizione non ti trascini più oltre di quanto non vuoi; e che per la tua smania di distinguerti e di capitaneggiarti, non ti si faccia carico dei delitti e dei vizii di coloro che stanno ora dietro te, e che al maggior uopo avranno la furberia di lasciarti solo.

– Ti sbagli di grosso sul mio conto – rispose Giulio colla massima pacatezza e senza onorare la mia predica neppur d’un istante di esame. – Io non ho adottato il credo di nessuno. Il dottor Ormenta e il signor Augusto Cisterna sono vecchi furbi e scostumati non migliori né peggiori degli altri; ho continuato a stare con loro per abitudine e perché non ci vedea ragione di mutar compagnia, cascando dalla padella nella bragia, cioè dal vizio nell’impostura. I giovani coi quali costumo son quelli che consentono meglio colle mie idee; e se hanno i loro difetti non posso avermene a male. Quanto poi a farmi soggezione delle ciarle della gente, non sono così sciocco. La mia coscienza mi dirà sempre ch’io la penso più dirittamente di loro, e il mio buonsenso riformerà le sentenze appellabilissime dell’altrui ignoranza.

Capii che a predicare tutta una quaresima non ci avrei cavato alcun frutto; e lasciai che se n’andasse, sperando e temendo insieme che l’esperienza avrebbe fatto quello che indarno io aveva tentato. Ma cominciava a dubitare che la mia trascuranza e la soverchia deferenza all’Aquilina dovessero essere gravemente punite, e che i figliuoli preparassero i più fieri dolori della mia vecchiaia. Infatti non era solamente Giulio che mi dava da pensare; anche la Pisana cominciava a sgarrare sul serio, ed io m’accorgeva troppo tardi di aver perduto sopra di essi ogni paterna autorità.

Quella ragazza, ve lo dissi, era la più furba ed entrante che avessi conosciuto; ma mi confidava che l’esempio di sua madre e la scrupolosa religione nella quale la educava l’avrebbero preservata dai maggiori pericoli. Intanto andava tenendola d’occhio alla lontana, e non mi pareva che traesse molto buon frutto dalle sue devozioni. Era umile ed affettuosa con sua madre, con me del pari serbava un contegno modesto e discreto, e quando si trovasse in mezzo alla gente in nostra compagnia pareva addirittura una santoccia. Ma coi servi colle cameriere si mostrava dura ed altera; e a sbalzi poi l’udiva scherzare e ridacchiare insieme ad essi con modi tali che dissomigliavano da quelli tenuti in nostra presenza. Così se sua madre voltava l’occhio quando si trovavano in qualche brigata, subito mandava via occhiate di fuoco a destra e a sinistra, e m’accorgeva che non si sbagliava nel cernere i bei giovani dai brutti. Arrossiva anche talora e si storceva sulla seggiola in modo che dimostrava la malizia maggiore della santità. Insomma io non era quieto per nulla sul suo conto, e quando l’Aquilina, pur consentendo che Giulio dava un po’ nello scapato, si consolava della sua buona fortuna e ringraziava il cielo di averci compensato a mille doppi in quella eccellente figliuola, io non poteva stare che non torcessi un po’ il grugno.

– Come? che avresti a ribattere? – saltava su mia moglie con una voce aspra e convulsa che le serviva costantemente nei suoi colloqui col marito.

– Eh, nulla! – diceva io fregandomi il mento.

– Nulla, nulla!... credi che io non capisca i tuoi attucci da censore malcontento?... Ma via mo’ sentiamo che avresti ad osservare sul conto della Pisana!... Non è bella, perfetta che pare un angelo?... Non ha due occhi colore del lapislazzulo che dinotano un’anima candida ed amorosa, e colorito e capelli e statura che a scegliere non si potea fare di meglio?... Non è fornita di buon ingegno, e di modi riserbati e gentili come si addicono ad una zitella? Non è divota come un santino, umile ed ubbidiente poi che sembra un agnello?... Dove vorresti trovare una figliuola più esemplare?... Io per me torrei di essere un giovine per poterla sposare; e fortunato tre volte quello cui toccherà una tanta fortuna, ma ci guarderò tre volte prima di dargliela.

Io non rispondeva nulla e lasciava che si sbizzarisse nel suo panegirico; soltanto accenandole di parlar piano quando sospettava che la ragazza fosse nella camera vicina, e stesse anche origliando come qualche volta io l’aveva scoperta.

– Orsù, dunque! – continuava l’Aquilina – non istarti lì ingrognato che pari una statua!... Sei forse padre per nulla?... Dacché non hai più negozii in piazza, e mio fratello sgobba per te in campagna, sei diventato il più gran disutile che si possa immaginare!... Non sei buono ad altro che ad impancarti in un caffè, e legger le gazzette e fors’anco, Dio nol voglia, a chiaccherare senza prudenza con qualch’altro vecchio matto e a comprometterti.

– Aquilina, se si potesse, ti giuro che parlerei sovente, ma...

– E cosa faccio ora dunque?... non ti dico di parlare? non ti esorto da un’ora a palesare le tue osservazioni? Non son qui anche con troppa pazienza ad ascoltarti?...

– Allora ti dirò che la Pisana non mi sembra cogli altri la stessa che si mostra con noi: e che quando non la si tien d’occhio cambia subito maniere che è una meraviglia, sicché ho gran paura che tutte le sue belle doti non siano altro che fintaggini, e...

– Anche questa mi toccava sentire!... Oh povera me!... Povera figliuola! Tu sì che hai proprio il diritto di accusarla!... Tu che infatti la curi molto! Non ti trovi con noi in mezzo alla gente due volte l’anno, e vuoi insegnare a me che sto con essa da mattina a sera, che non l’abbandono mai né col pensiero né cogli occhi!...

– Ti dirò, Aquilina!... tu stai sempre con lei; ma ti piace molto il conversare, e non l’abbandonerai forse col pensiero, ma cogli occhi ti assicuro che la abbandoni sovente. Io certo non vengo con voi tutti i giorni perché né la conversazione di casa Fratta né quella di casa Cisterna si affanno al mio gusto, ma quando ci vengo siccome con quelle persone non ho gran voglia d’intrattenermi ho tutto il tempo di osservarla. Fidati di me; e credi che hai voluto farne una santa ma che se la continua a quel modo ne avrai fatto invece una civetta sopraffina!

– Oh Madonna santissima! ti prego, vammi fuori dei piedi e non bestemmiare!... La mia Pisana una civetta...

– Zitto, zitto, per carità, Aquilina, che non la ti senta.

– Eh che non importa nulla!...e non c’è pericolo ch’ella c’intenda nulla di tali nefandità!... Ho capito già; tu non le vuoi alcun bene a quella ragazza: vorresti degli omacci duri e sconoscenti come Luciano, o qualche pazzerello come quel povero Donato, che tu solo hai condotto al precipizio. Ma i giovani discreti e affettuosi, le fanciulle oneste e dabbene non ti si convengono per nulla... Han proprio ragione di dire che sei un giacobino incorreggibile... Infatti tu non ti ci trovi bene in casa Fratta quando ci siamo noi: ma se si tratta poi di gironzare le ore colle ore fabbricando castelli in aria, e impasticciando bestemmie ed eresie col conte Rinaldo, allora non ti ritraggi punto, allora la casa Fratta ti conviene!...

– Non confondere una cosa coll’altra, Aquilina. Il conte Rinaldo non ci ha nulla a che fare con quei volponi che la fiduciosa santocchieria di sua sorella gli ha tirato in casa.

– Ecco, ecco, sempre insulti sempre motteggi a tutto quello che v’è di santo, di venerabile al mondo!

– Ti ripeto quello che ti ho detto le mille volte. Io venero e rispetto la santità della signora badessa: ma la mi sa un po’ troppo d’ingenua: e non me ne fiderei per conoscer gli uomini. Infatti ora che si trovano in tanta strettezza, cosa hanno fatto per essi quei loro ottimi parenti, quei loro amici sfegatati?...

– Han fatto, han fatto poco meno di quello che facciamo noi. E farebbero di più se la signora badessa non fosse tanto permalosa.

– Infatti è l’esser dessa permalosa che li fa scappare, come le mosche dalla tavola poiché si levarono le portate!

– Se ora stanno ritirati ce n’hanno delle ottime ragioni, e tu adopreresti saggiamente imitandoli. Non son tempi questi da ciarle e da conversazioni massime pei vecchi.

– Secondo te bisognerebbe risparmiar al becchino la noia di seppellirci: e nascondersi appunto allora che un barlume di speranza torna a luccicare, e un po’ di vita a fermentare nelle nostre anime.

– Belle speranze! bella vita!... Ride bene chi ride l’ultimo.

La discussione cominciava a dare nel politico e me la svignai: non dimenticando peraltro il punto principale del diverbio e proponendomi di osservar la Pisana più che non avessi fatto per l’addietro. Negli ultimi giorni principalmente la mi sembrava così preoccupata così facile a cambiar di colore e confondersi che se gatta ci covava non me ne sarei meravigliato. Mia moglie invece affermava che quelli erano gli indizii soliti di quel certo passaggio dall’adolescenza alla giovinezza che turba inconsapevolmente l’innocenza delle ragazze. Io che d’innocenza me n’intendeva, e più forse ancora di malizia, non sapeva star contento a quell’opinione, e guardava e spiava sempre con ogni accorgimento di prudenza, persuaso che alla lunga la paziente furberia del vecchio l’avrebbe spuntata contro l’accortezza della fanciulla. Le cure ch’ella si dava di comparir tranquilla e disinvolta ogniqualvolta s’accorgesse di esser osservata, mi confermavano nel sospetto che non si trattasse né punto né poco di quell’inconsapevole turbamento messo innanzi da sua madre; ma i giorni passavano e non veniva a capo di scoprir nulla.

Finalmente una sera che l’Aquilina era uscita con suo fratello giunto allor allora dal Friuli, ed io pure doveva rimaner assente fino ad ora tarda, tornandomene non so per qual cagione a casa, ed entrato nella stanza ove lavoravano di solito le donne, non ci trovai la Pisana. Ne chiesi alla cameriera e mi rispose che la era nella stanza da letto. Allora avvicinatomi pian piano mi parve udire lo scricchiolio d’una penna d’acciaio, e tutto ad un tratto facendo per aprir l’uscio, non lo potei perché era chiuso a chiave.

– Chi è? – disse con voce un po’ paurosa la fanciulla.

– Eh, nulla!... Son io che veniva a vedere di te.

– Subito, subito, papà: mi son cambiata tutta perché a finir quel ricamo sudai tanto questa sera, ch’era bagnata come un pulcino. Ma ora vengo ad aprirti.

Infatti aperse e m’accolse con un sì bel sorriso sulle labbra che dovetti baciarla, e rimettere anche non poco dei miei sospetti. Vidi alcuni capi di vestiario gettati qua e là come tolti appena di dosso; ma avvicinandomi al tavolino osservai che la penna era ancora intinta d’inchiostro. Certo adunque aveva scritto e non voleva farmelo sapere: il che bastava per farmi sospettare piucchemai, e la lasciai indi a poco augurandole la buona notte se non l’avessi più veduta. Il giorno appresso, quand’ella uscì per la messa insieme a sua madre, entrai nella sua stanza e feci di tutti i cassetti di tutti gli armadi un diligentissimo esame. Ma tutto era aperto, e niente trovai che potesse dar ragione ai sospetti concepiti la sera prima. Guardai nella cantera del buffetto3 vicino alla lettiera, e ci vidi, fra molti libricciuoli devoti, una specie di sacchettino ricamato nel quale ella costumava riporre medaglie, reliquie, immagini e altre simili cianfrusaglie. Mi parve che colle dita non si potesse giungere ben in fondo di quel sacchetto; e sentiva come alcune cartoline che non poteva carpire: allora lo rovesciai e scopersi una cucitura fatta, pareva, in gran fretta e con refe bianco. La disfeci e trovai tre letterine graziosette profumate ch’era una delizia a vederle.

– Ah ti ho colta, birbona! – diss’io, e non ebbi più rimorso di aver messo la mano ne’ suoi segreti; l’autorità paterna è forse, anzi certo, la sola che dia cotali diritti, perché è obbligata a procurare il bene dei figli anche contro la loro volontà. Quelle tre letterine portavano la firma di Enrico il quale era appunto il nome dell’ultimo figliuolo di Augusto Cisterna; vi si parlava oltre il bisogno di tenerezze di baci di abbracciamenti; ed io non cercava di saperne di più. Le misi in tasca e aspettai che le signore tornassero dalla chiesa. Infatti di lì a mezz’ora la Pisana venne alla sua stanza per levarsi il cappello e riporre la mantiglia, e fu meravigliata assai d’incontrarsi in suo padre.

– Pisana; – le dissi io senza andare tanto per le lunghe, ché di avere fatto l’inquisitore ero già piucché stanco – qui ti bisogna esser sincera, ed espiare con una pronta confessione le colpe che per mera fanciullaggine hai commesse: dimmi subito dove e con qual mezzo ti trovi da solo a sola con quel Signor Enrico che ti scrive tanto teneramente?...

La fanciulla traballò sulle gambe e tramortì in viso a segno ch’ebbi compassione di lei; ma poi ricominciò a balbettare che non sapeva nulla, che non era vero, in modo ch’io perdetti la pazienza e ripetei con voce più autorevole il comando di esser ubbidiente e sincera. Contuttociò ella rimase imperterrita a rispondermi che non ci capiva un ette e a far l’indiana con tanta buona grazia, che mi sentii il solletico di schiaffeggiarla.

– Senti, figliuola – ripresi io un po’ sbuffando un po’ trattenendomi. – Se io ti dicessi che tu ricevi e scrivi lettere a Enrico Cisterna, e che discorri con lui dopo che noi siamo a letto, alla finestra della Riva, non andrei un dito lontano dal vero. Ma non voleva dirla per lasciarti il merito della sincerità. Ora che tocchi con mano ch’io so tutto, e vedi cionnonostante che mi dispongo ad usar teco di tutta la mia bontà, spero che vorrai mostrartene degna, con dirmi come sei venuta in tanta confidenza con quel giovine, cosa ti piace tanto in lui, e perché, se credevi onesta la tua condotta, hai creduto bene di celarla ai tuoi genitori. So che sei ben avveduta quando ne hai voglia, e adesso dovresti accorgerti che il partito più saggio più onesto più furbo è di aprirti a me come ad un amico, perché si veda di metter ordine a tutto, accordando le nostre convenienze anche col tuo talento se vuoi!...

A queste parole la Pisana dimise affatto quel suo contegno di figliuola modesta e paurosa per diventare lesta sicura sfacciatella quale io l’avea veduta più volte colle cameriere, o in qualche crocchio durante le lunghe distrazioni di sua madre.

– Padre mio, – mi rispose col piglio disinvolto d’una prima amorosa che recitasse la sua parte – vi chieggo perdono di una mancanza che non finirò mai di rimproverarmi; ma non vi conosceva e aveva più paura della vostra autorità che confidenza nel vostro affetto. Sì, è vero; gli sguardi le preghiere di Enrico Cisterna mi hanno commossa, e per non vederlo patire ho voluto concedergli quanto mi domandava.

– E se io vi dicessi che Enrico Cisterna è un tristo, un giovinastro senza decoro e senza probità, al quale l’abbandonarvi sarebbe il peggior castigo che potessimo infliggervi?

– Oh non andate in collera!... No, per carità che non ce n’è il motivo! È vero, ebbi compassione di Enrico; ma non ci sono tanto ostinata, e se non è di vostro piacimento, meglio qualunque altro che lui!...

– Così tu rispondevi alle sue lettere, tu ti abboccavi tutte le sere con esso lui alla finestra...

– Non tutte le sere, padre mio. Appena quelle in cui la mamma spegneva il lume prima di mezzanotte. E siccome ell’ha molte divozioni distribuite per varii giorni della settimana, così questo non avveniva che il lunedì il mercoledì e la domenica...

– Ciò non monta affatto. Voleva dire che quanto facevi lo facevi per mera compassione.

– Te lo giuro, papà: proprio per compassione.

– Sicché se domani venisse un gondoliere, un cenciaiolo a domandarti per compassione di far all’amore con lui, gli risponderesti di sì!

– No certo, papà. Il caso sarebbe molto differente.

– Ah dunque convieni che ci vedi dei meriti particolari in Enrico, per sentir piuttosto compassione di lui che di un altro?... Ora favorirai dirmi quali sono questi meriti.

– In vero, papà, sarei molto imbrogliata a dichiararveli, ma giacché siete tanto buono, voglio farmi forza per accontentarvi. Prima di tutto quando s’andava a teatro, io vedeva Enrico accarezzato e festeggiato dalle più belle signore. Non vorrai già negare ch’egli non sia almeno almeno molto simpatico!...

Io non sapeva più in qual mondo mi fossi udendo la santoccia parlare a quel modo; ma volendo pur vedere fin dove sarebbe arrivata:

– Avanti – soggiunsi. – E poi?...

– E poi ha una foggia di vestire molto elegante, un bel modo di presentarsi, una loquela sciolta e brillante. Insomma per una ragazza senza esperienza c’era, mi pare, quanto bastava per rimaner abbagliata. Quanto ai suoi costumi al suo temperamento io non me ne intendo, padre mio; credo che tutti siano buoni, e non sarei mai tanto sfacciata da chiedere cosa voglia dire un giovane scostumato!

Era però abbastanza imprudente per farmi capire che lo sapeva; laonde io le risposi che senza cercar tanto addentro le doti morali di Enrico, ella doveva capire che quei pregi esterni e affatto d’apparenza non dovevano bastare per meritargli l’affetto d’una donzella bennata.

– E chi dice ch’egli abbia il mio affetto? – riprese ella. – Vi giuro, padre mio, che gli corrispondeva unicamente per compassione, e che adesso giacché vedo ch’egli non ha la fortuna di piacervi, lo dimenticherò senza fatica, e accetterò di buon grado quello sposo che avrete la bontà di procurarmi.

– Eh sporchetta! – io sclamai – chi vi parla ora di sposo?... Che premura avete?... Chi vi ha insegnato a tirar in mezzo voi simili discorsi?

– Nulla! – balbettò essa alquanto confusa – non ho parlato così che per dimostrarvi meglio la mia docilità.

– Capisco – risposi io – fin dove giunge la vostra docilità. Ma ti esorto a moderare la tua indole, a educare i tuoi sentimenti, perché fino che tu non sia in grado di apprezzare i veri meriti d’un onest’uomo, oh no, perbacco, che non ti lascierò andare a marito!... Non voglio fare né la tua né l’altrui rovina.

– Ti prometto, papà, che d’ora in poi tutte le mie cure saranno rivolte a moderare la mia indole e ad educare i miei sentimenti. Ma mi prometti almeno che la mamma non saprà nulla?

– Perché vorresti che la tua mamma non ne sapesse nulla?

– Perché mi vergognerei troppo di comparirle dinanzi!

– Eh via che un po’ di vergogna non ti starà male: vorrei anzi che la sentissi molto, per cercare di non averla a soffrire altre volte. Intanto ti avverto che non posso lasciar ignorare a tua madre una cosa che le darà la giusta misura della tua santità.

– Oh per carità, padre mio!

– No, non affannarti e non piangere!... Pensa a correggerti, ad esser sincera d’ora in avanti, a non invaghirti di frascherie e a non distribuire il tuo affetto con tanta leggerezza.

– Oh ti giuro padre mio...

– Non tanti giuramenti; a ora di pranzo ti dirà tua madre quello che avremo disposto a tuo riguardo. Non v’è male che non abbia il suo rimedio: sei giovinetta ancora e spero che tornerai una buona figliuola, capace di fare la felicità nostra, e dell’uomo cui il cielo ti ha destinato, se la sorte vuole che ti accasi. Intanto pensa ai casi tuoi; e medita sulla sconvenienza di quelle azioni che costringono una figliuola ad arrossire dinanzi ai suoi genitori.

Così la lasciai; ma era tanto sbalordito che nulla più. E quelle lusinghe di ravvedimento le avea buttate lì per vezzo; del resto non sapeva da qual banda cominciare per ridurre a donna di garbo una tale fraschetta. Confesso che m’immaginava di scoprire un giorno o l’altro delle assai brutte cose sotto quella vernice di santità, non mai peraltro quella sfrontata e ingenua frivolezza che ci aveva trovato.

L’Aquilina fu per diventar pazza alla contezza ch’io le diedi per lungo e per largo di tutto il marrone. Non volea credere sulle prime, ma aveva le tre letterine in tasca e se ne persuase; allora prese a gridare e a graffiarsi il viso colle unghie, ché guai per la Pisana se le capitava fra le mani! – Ma io la trattenni, e giunsi appoco appoco a calmarla, sicché pensammo anche al modo di troncare senza chiasso quell’amoruzzo e di assicurarci meglio dei costumi della ragazza con un metodo diverso d’educazione. Quanto al licenziare quell’Enrico, che era in verità un capo da galera, si decise che era meglio lasciarne l’incarico a lei come quella risoluzione venisse spontanea dalla sua volontà, e noi né ci entrassimo né sapessimo nulla. Poi si pensò di cambiar tutte le donne di servizio, alla compagnia delle quali io attribuiva non senza ragione la strana leggerezza con cui quella mia mattina mi aveva parlato. Conducendola meno a teatro e in mezzo alla gente, invogliandola a letture piacevoli e salutari, io mi lusingava di ottener qualche cosa; non nascondeva peraltro all’Aquilina che il guasto era più profondo di quanto non mi sarei mai immaginato, e che ogni rimedio avrebbe potuto essere inutile. Mia moglie mi dava sulla voce per questo mio scoramento soggiungendo che alla fine poi era una scappata più che di cattiveria d’inesperienza, e ch’ella scometteva senz’altro di rendere la Pisana così ragionevole e posata che in un mese avrei stentato a riconoscerla.

– L’ha un tal fondo di religione – diceva ella – che soltanto a richiamarle alla memoria i suoi doveri, si pentirà del fallo commesso, e farà fermo proponimento di non ricadervi mai più.

– Fidati della sua religione! – le risposi io. – Ti dico che è tutta apparenza, ed ora tocchi con mano lo sbaglio gravissimo di non armare la sua coscienza con altri motivi di ben fare che non sono i Comandamenti puri e semplici!...

L’Aquilina cominciò ad inalberarsi, io a tempestare; e perdemmo di vista la Pisana per litigare fra noi due; ma io me ne risovvenni per raccomandarle di adoperarsi intorno alla fanciulla con molta prudenza, e poi me n’andai sperando che l’istinto materno l’avrebbe condotta assai meglio del suo accorgimento di bigotta. Come infatti mi parve essere sulle prime; ché trovai giorno per giorno la ragazza migliorata d’assai; e benché continuasse sempre un po’ frivola e scapata, pure non usava più arte veruna per comparire diversa. La vergogna le avea fruttato bene, ma anco io aveva adoperato destramente di non ribadirle l’impostura mostrandomi troppo scandolezzato della sua naturale leggerezza. Così sperava che se non una donna forte ed esemplare, una sposina discreta e come tutte le altre ci verrebbe fatto di cavarne. Peraltro mi ficcava sempre più in capo che bisognava allettarla con quello che le piaceva; e se ci fosse capitato un giovine bennato che allo splendore dell’apparenza unisse la bontà della sostanza, io avrei ceduto l’educazione a lui quasi sicuro che sarebbe riuscito a buon fine e che di lì a qualche anno avrebbe avuto una moglie secondo i suoi desiderii. Nessun miglior maestro dell’amore; egli insegna anche quello che non sa.

Mentre la strana condotta di Giulio e la dubbia conversione della Pisana mi tenevano col cuore sospeso, le dimostrazioni in piazza prendevano per tutta Italia un tenore più fiero e guerresco; dalla Francia mutata improvvisamente in repubblica soffiava un vento pieno di speranza; la rivoluzione minacciò a Vienna, proruppe a Milano, e fu compiuta anche a Venezia nel modo che tutti sanno. In quei momenti, per quanto fossi vecchio mezzo cieco, e padre di famiglia, certo non ebbi tempo di pensare a miei affaruzzi di casa. Uscii in piazza cogli altri, buttai via i miei settant’anni, e mi sentii più forte più allegro più giovane che non lo fossi mezzo secolo prima quando avea fatto la mia prima comparsa politica come segretario della Municipalità.

Si armava allora la Guardia Nazionale, e mi vollero far colonello della seconda legione; senza consultare né gli occhi né le gambe io accettai con tutto il cuore; richiamai alla memoria tutto il mio antiquato sapere di tattica militare, misi in fila e feci voltare a destra ed a sinistra alcune centinaia di giovani buoni e volonterosi, indi me n’andai a casa col cervello nelle nuvole, e l’Aquilina al vedermi incamuffato in una certa assisa che mi dava figura più di brigante che di colonello, fu per cadere in terra per un repentino travaso di bile. Checché ne mormorasse la moglie, mangiai all’infretta un boccone, e tornai fuori ai miei esercizii; vi giuro che non mi sentiva indosso più di vent’anni. Soltanto la sera, quando mi ridussi a casa verso la mezzanotte, dopo aver subito le più gran rampogne che possa soffrire una buona pasta di marito da una moglie bisbetica, chiesi che ne fosse di Giulio, il quale io lo aveva cercato indarno qua e là per tutto quel giorno. Non lo avevano veduto, non ne sapevano nulla; e fu un nuovo appiglio all’Aquilina per tornar daccapo cogli strapazzi. Peraltro io era troppo inquieto sul conto di quel giovine per badare a lei: la condotta tenuta in fino allora, l’indole superba e violenta lo esponevano ai più gravi pericoli, e dopo molte considerazioni e un’altra mezz’ora di aspettativa, non potei trattenermi, ed uscii in cerca di lui. Non mi sarei immaginato mai più il colpo terribile che mi aspettava!...

Ne chiesi a casa Fratta a casa Cisterna, e non seppero dirmene nulla; tentai a casa Partistagno, ove usava molto in quell’ultimo tempo, ma mi risposero che il signor generale era partito da due giorni bestemmiando contro i suoi sette figliuoli che tutti avean voluto rimanere a Venezia, e che il signor Giulio non lo aveano veduto da una settimana. Mi venne in capo di cercarne contezza al Corpo di Guardia del nostro sestiere, e là mi toccò strappare dalla bocca di un giovine studente la triste verità. Il mattino Giulio era accorso insieme a loro all’Arsenale, dove si distribuivano le armi, e già s’avea cinto la sciabola, quando uno sconsigliato (diceva lo studente) s’era messo ad insultarlo; lì Giulio s’era volto contro di lui, quando dieci e cento altri avevano preso le parti dell’insolente, e fra gli urli gli oltraggi gli schiamazzi, mio figlio avea dovuto ceder al numero, abbastanza fortunato di salvar la vita. Ma alcuni dabbene che non volevano che quel giorno fosse macchiato di sangue fraterno lo avevano difeso colle loro armi.

– Spero – continuò lo studente – che il suo signor figlio otterrà giustizia e che messe in chiaro le cose egli otterrà nella Guardia Nazionale quel posto che gli si compete come cittadino.

E queste parole furono pronunciate in modo che significavano più compassione al padre che rispetto e confidenza alla causa del figlio. Io avea capito anche troppo, anche quello che la pietà di quel giovine avea creduto opportuno di sottacere: fui tanto padrone di me da ritirarmi rasente il muro, rifiutando il soccorso di chi voleva porgermi il braccio. Ma giunto che fui a casa mi sopraggiunse un violento assalto di convulsione, prima ancora che potessi porgere quella notizia all’Aquilina, accomodando come avrei saputo meglio. Con un salasso, con qualche cordiale mi calmarono in modo che verso l’alba riebbi l’uso della parola; e allora, con quell’indifferenza che seppi maggiore, accagionai del mio male le fatiche esorbitanti del giorno prima, e aggiunsi che avea ricevuto notizie di Giulio e ch’egli era partito da Venezia per affari di qualche momento. Mia moglie mi credette, o finse credermi: ma verso mezzogiorno essendo capitata una lettera da Padova coi caratteri di Giulio essa l’aperse a mia insaputa, la lesse, e capitò poi nella mia camera con quel foglio in mano, gridando come una forsennata che le avevano ammazzato un altro figlio, che certo lo avrebbero ammazzato!... La Pisana che in quei frangenti dimostrò assai maggior cuore che io non m’aspettassi, si mise intorno a sua madre, e poiché s’accorse che vaneggiava chiamò la cameriera, e la posero a letto anche lei. Poi dal capezzale di sua madre a quello del padre la vispa fanciulla fu per due buone settimane la più assidua e affettuosa infermiera che si potesse immaginare. Aveva torto a dire che l’amore è maestro di tutto; anche le disgrazie insegnano assai. La lettera di Giulio era del seguente tenore:

«Padre mio! – Tu avevi ragione: contro dieci contro venti si può ribattere un insulto, non contro una moltitudine; e vi sono certi momenti nella vita d’un popolo che ne rendono terribili i decreti. Io portai la pena della mia albagia e del mio sconsiderato disprezzo. Non potrò più vivere in quella patria che tanto amava, benché disperassi di vederla risorgere; essa si vendica del mio codardo abbattimento respingendomi dal suo seno appunto nell’istante che si raccoglie d’intorno tutti i suoi figliuoli a trionfo e a difesa. Padre mio, tu approverai, credo, la deliberazione d’un infelice che vuol ricomperare col proprio sangue la stima de’ suoi fratelli. Vado a combattere, a morire forse, certo ad espiar fortemente un errore di cui pur troppo mi confesso colpevole. Conforta mia madre, dille che il rispetto al vostro nome come al mio m’imponevano di partire. Io non poteva rimanere certo in un paese dove pubblicamente fui chiamato traditore, spia! E dovetti ingoiar l’insulto e fuggire. Oh padre mio! la colpa fu grave; ma ben fu tremendo il castigo!... Ringrazio il cielo, e la memoria delle tue parole, che mi preservarono dal ribellarmi al sopportar quella pena, consigliandomi di cercar la pace della coscienza in un glorioso pentimento, non il contentamento dell’orgoglio in una vendetta fratricida. Di rado avrete mie novelle perché voglio che il mio nome resti morto, finché non risuoni benedetto ed onorato sulle labbra di tutti. Addio addio; e mi consolo nella certezza dell’amor vostro del vostro perdono!»

Volete che ve lo dica? La lettura di questa lettera mi rimise l’anima in corpo; temeva assai peggio, e mi maravigliai meco stesso che un animo superbo e impetuoso come quello di Giulio si fosse piegato a confessare i proprii torti e a cercarne una sì degna espiazione. Ebbi il conforto di compianger mio figlio in vece di maledirlo, e mi rassegnai del resto a quell’imperscrutabile giustizia che m’imponeva sì fieri dolori. Guarito che fui, [sebbene] lo stato di mia moglie fosse ancora tutt’altro che rassicurante, e la desse di quando in quando segni palesi di pazzia, ripresi il mio servizio come colonello della Guardia; e poiché fu sparsa la novella della partenza di mio figlio e della lettera che egli m’aveva scritta, ebbi la soddisfazione di veder pietosi e riverenti verso la mia canizie forse coloro stessi che l’avevano vituperato. Tuttavia non ebbi di lui ulterior contezza fino al maggio seguente, quando mi capitarono da Brescia alcune sue righe. Argomentai dal sito che si fosse arruolato nei corpi franchi che difendevano da quel lato i confini alpestri del Tirolo e si vedrà in seguito come mi apponessi alla verità. Io lo benedissi dal fondo del cuore e sperai che il cielo avrebbe secondato le generose speranze del figlio e i supplichevoli voti del padre.

Due giorni dopo che furono entrati in Venezia i sussidii napoletani sotto il comando del general Pepe, mio vecchio conoscente, due uffiziali di quelle truppe vennero a chieder di me. L’uno era Arrigo Martelli che, fino dal 1832 reduce dalla Grecia, s’era immischiato nel susseguente anno a Napoli nella congiura di Rossaroli, e d’allora in poi era sempre stato prigione nel castel Sant’Elmo. Mi presentava il suo valoroso amico, il maggiore Rossaroli stesso che dalla lunghissima prigionia aveva sì affievolita la vista, ma non affranta per nulla l’invitta forza dell’animo. Fummo amici d’un tratto, e mi sfogai con essoloro de’ miei vecchi e nuovi dolori. E così riandando poi le vecchie storie mi cascò per caso dalle labbra il nome di Amilcare Dossi, ch’era rimasto nel Regno e più non avea dato sentore di sé. Il Martelli allora rispose che pur troppo egli ne sapeva la fine miseranda; che immischiato nella guerra abruzzese del ventuno, e carcerato, era giunto a fuggire, ma che poi passato in Sicilia, dopo una vita piena di sventure e di delitti, avea terminato sul patibolo aringando fieramente il popolo, e imprecando sui suoi carnefici la giustizia di Dio. Queste cose avvenivano nel milleottocentotrentasei, e furono incentivo alle turbolenze che agitarono l’isola, e scoppiarono l’anno dopo in violente sommosse all’occasione del cholera.

– Povero Amilcare! – io sclamai.

Ma già di meglio non isperava del suo destino; e mi rammaricai colla mia sorte perversa che perfino da amici da lungo tempo sepolti mi suscitava nuovi dolori.

Cara del pari e non amareggiata da sì tristi evocazioni, mi fu indi a qualche mese la visita di Alessandro Giorgi, che tornava dall’America meridionale, vecchio, abbrustolito, storpio, maresciallo, e duca di Rio-Vedras. Col suo gran corpaccione insaccato in una sfarzosa giornea4 scarlatta, piena d’ori e di fiocchi, egli sembrava a dir poco un qualche grottesco antenato della regina Pomaré. Ma il cuore che batteva sotto quell’assisa indescrivibile era sempre il suo; un cuore di fanciullo insieme e di soldato. Vedendolo, non potei far a meno di instituire in cuor mio un confronto fra lui e il Partistagno: ambidue presso a poco della stessa indole, avviati alla stessa carriera; ma ohimè quanto diversi nella fine! Tanto possono su quei temperamenti ingenui e pieghevoli i consigli, gli esempii, le compagnie le circostanze: se ne foggiano a capriccio sgherri od eroi.

– Carlino dilettissimo, – mi diss’egli dopo avermi abbracciato sì strettamente che alcune delle sue croci mi si uncinarono negli occhielli del vestito – come vedi ho piantato lì tutto, il ducato l’esercito e l’America per tornare alla mia Venezia!

– Oh non dubitava: – soggiunsi io – quante volte udendo salire per la scala una pedata insolita ho pensato fra me: che sia Alessandro?

– Ora contami un poco; qual fu la tua vita di tutti questi anni, Carlino.

Gli narrai così di sfuggita tutte le mie vicende e la conclusione fu di presentargli la mia figliuola che allora appunto entrava nella stanza.

– Non lo nego; hai sofferto delle grandi sciagure, amico mio; ma ci hai qui delle consolazioni massiccie – (e stringeva fra le nocca dell’indice e del medio le guancie ritondette della Pisana). – Con tutta la mia duchea non son arrivato a fare altrettanto; eppure ti giuro che tutte le belle brasiliane mi volevano per marito. Amico mio, se hai figliuoli in istato di prender moglie, affidali a me: guarentisco loro delle belle cicciotte e qualche milioncino di reali.

– Grazie, grazie; ma come vedi si pensa ad altro ora che a maritarsi.

– Eh! ti pigli soggezione di queste frottole? Son cose finite subito, credila a me!... Noi in America si fa due rivoluzioni all’anno, e ci resta anco il tempo di goder la villeggiatura e di curar la gotta alla stagione dei bagni.

La Pisana stava lì con tanto d’occhi ammirando quello stampo singolarissimo di duca e di maresciallo; ond’egli la prese ancora soldatescamente per un braccio soggiungendo che si compiaceva molto di fermar ancora l’attenzione delle signorine veneziane.

– Eh! ai tempi nostri, eh, Carlino?... Ti ricordi la contessa Migliana?...

– Me ne ricordo sì, Alessandro; ma la contessa è morta da dieci o dodici anni in odore di santità, e noi strasciniamo assai malamente pel mondo i nostri peccati.

– Oh quanto a me poi, se non avessi quest’arpia di gotta che mi assassina le gambe, vorrei ballare la tarantella... Oh Bruto, fratello mio!... Eccone qui un altro dei ballerini!... Capperi, come ti sei fatto nero... Giuro e sacramento che se non fosse per la tua gamba di legno non ti avrei riconosciuto.

Queste esclamazioni furono provocate dalla comparsa di Bruto che nel suo arnese di cannoniere civico faceva un’assai strana figura, degna da contrapporsi alla macchietta americana del duca maresciallo. Egli dal canto suo non risparmiò né braccia né polmoni e la Pisana, vedendo quei due così abbracciati e bofonchianti, crepava dalle grandi risate. Peraltro se furono buffi in camera, si diportarono assai gravemente fuori; e porsero un bell’esempio di obbedienza militare a parecchi giovani che volevano esser nati ammiragli e generali. Alessandro in onta al ducato e al maresciallato si accontentò del grado di colonello; e Bruto tornò al suo cannone come appunto lo avesse abbandonato il giorno prima. La sua andatura zoppicante, e l’umore sempre allegro e burliero anche fra i razzi e le bombe tenevano in susta5 il coraggio dei giovani commilitoni. Tutti a quel tempo si facevano soldati, perfino il conte Rinaldo che molte volte, e lo vidi io, montò la guardia dinanzi al Palazzo Ducale con tanta serietà che pareva proprio una di quelle sentinelle mute che adornano il fondo scenico di qualche ballo spettacoloso. Quello, poveretto, che non arrivò a tempo di montar la guardia fu il cavalier Alfonso Frumier. Cascato di cielo in terra dopo la morte della sua dama, non avea più rappiccato il filo delle idee, e cercava cercava senza potervi mai riescire, quando un giorno entra il cameriere a raccontargli che in Piazza si grida: – Viva San Marco! – e che c’è la repubblica, e altre mille cose l’una più strana dell’altra. Il vecchio gentiluomo si diede una gran palmata nella fronte. «Ci sono!» parve ch’ei dicesse; indi cogli occhi fuori della testa, e le membra convulse e tremolanti:

– Orsù, presto! – balbettò. – Portami la toga... dammi la parrucca... Viva San Marco!... La toga... la parrucca, ti dico! Presto... che si faccia a tempo!...

Al cameriere sembrò che il padrone stentasse a proferire queste ultime parole, e che vacillasse sulle gambe; stese le braccia per sostenerlo; ed egli stramazzò al suolo, morto per un eccesso di consolazione. Mi ricordo ancora ch’io piansi all’udir raccontare quella scena commoventissima, la quale spiegava nobilmente il torpore semisecolare del buon cavaliere.

Intanto anche noi, senza essere così felici da morirne, pure ebbimo le nostre consolazioni. La concordia d’ogni classe di cittadini, la serena pazienza di quell’ottimo popolo veneziano in ogni fatta di disgrazie, la cieca confidenza nel futuro, l’educazione militare che dietro i forti ripari della laguna aveva tempo di assodarsi, tutto dava a sperare che quello era il fine, o come diceva Talleyrand, il principio della fine. L’attività pubblica, occupando le menti d’ogni fatta di persone, impediva l’ozio, migliorando grandemente la moralità del paese, e non ultimo conforto era l’abbassamento dei tristi, i quali, a quel ridestarsi vittorioso della coscienza popolare, s’erano rimpiattati nelle loro tane, come ranocchi nel fango. Il dottor Ormenta era fuggito in terraferma, e morì, come seppi in appresso, per uno spavento fattogli da una scorreria di Corpi franchi. Non gli giovò per nulla lo aver portato nell’infanzia l’abitino di Sant’Antonio, ed ebbe di grazia che lo accettassero in camposanto. Augusto Cisterna dimenticato e disprezzato da tutti rimase a Venezia; ma perfino i figliuoli vergognavano di portar il suo nome; ed Enrico, quello scapestrato, riconquistò qualche parte della mia stima col riportare uno sfregio traverso la faccia nella sortita di Mestre.

Un giorno ch’io tornava da una visita al general Pepe, il quale sopportava volentieri le mie chiacchere, la Pisana mi si fece innanzi con cera più grave del solito, dicendo che aveva cose di qualche rilevanza da comunicarmi. Io risposi che parlasse pure, ed ella soggiunse che, siccome io le aveva promesso per marito un giovine di proposito e che valesse più per la sostanza che per l’apparenza, credeva di aver trovato chi facesse all’uopo.

– Chi mai? – le chiesi un po’ trasecolato perché la furbetta non si staccava mai dal letto di sua madre che allora appena cominciava a guarire.

– Enrico Cisterna! – sclamò ella gettandomi le braccia al collo.

– Come?... quello...

– No, non dite male di lui, padre mio... dite quel giovine bravo e generoso, quel giovine che ad onta d’una educazione trasandata e d’una vita floscia e pettegola ha saputo farsi tagliar il viso dalle sciabolate, e tornar una settimana dopo al sua posto come fosse nulla!... Oh io gli voglio bene piucché a me stessa, padre mio!... Adesso sì conosco cosa voglia dire il volersi bene!... Diceva di amarlo per compassione, quando di compassione non aveva certamente bisogno; ma ora che forse la meriterebbe, io l’amo per istima, l’amo per amore.

– Sì, tutto va bene, benissimo; ma tua madre...

– Mia madre sa tutto da questa mattina; ella unisce le sue preghiere alle mie...

In quel momento si spalancò sgangheratamente la porta, ed Enrico stesso che stava in agguato nella stanza vicina mi si precipitò di là, supplicandomi di non volerlo allontanare prima che non avessi pronunciato la sua sentenza di vita o di morte. Egli mi stringeva le gambe, quell’altra furiosetta mi attorcigliava il collo colle mani, chi sospirava chi piangeva; fu un vero colpo da commedia.

– Sposatevi, sposatevi nel nome di Dio! – sclamai raccogliendoli ambidue fra le braccia; e mai lagrime più dolci non isgorgarono dagli occhi miei sopra esseri più felici.

Allora volli anche sapere se e come il loro amore avesse continuato a mia insaputa e dopo quella licenza formale intimata al giovine da Pisana per ordine nostro. Ma la fanciulla mi confessò arrossendo di aver scritto quel giorno due lettere invece di una, nella seconda delle quali raddolciva d’assai il crudo tenore della prima.

– Ah traditorella! – le dissi – e così m’ingannavi!... così quella faccenda delle lettere continuò poi sotto il mio naso infino ad ora.

– Oh no, padre mio, – rispose la Pisana – non avevamo più bisogno di scriverci.

– E perché mo’ non avevate bisogno di scrivervi?

– Perché... perché ci vedevamo quasi ogni sera...

– Ogni sera vi vedevate?... Ma se fuori dell’inferriata io ho fatto inchiodare le imposte di quella maledetta finestra?...

– Papà mio, scusatemi; ma poiché la mamma s’era addormentata, io scendeva pian piano ad aprirgli la porta della riva...

– Ah sciagurati!... ah sfacciata!... in casa lo tiravi!... Tiravi l’amante in casa!... Ma se di chiavi di quella porta non ce n’ha che una e l’aveva sempre io, vicino al letto!...

– Appunto... papà mio; non andate in collera, ma tutte le sere quella chiave io ve la portava via, e la riponeva poi la mattina quando portava il brodo alla mamma.

– Scommetto io che mi giocavi questo bel tiro nel darmi il bacio della buona notte e quello della sveglia!

– Oh papà, papà!... siete tanto buono!... perdonateci!

– Cosa volete?... Vi perdonerò, ma col patto che nessuno ne sappia nulla; non vorrei che ne cavassero un libretto per qualche opera buffa.

Enrico si stava tutto vergognoso, mentre la sfacciatella mi confessava tra supplichevole e burlesca i suoi tradimenti; ma io gli diedi del pugno sotto il mento.

– Và là, và là, non farmi l’impostore! – gli dissi – e prenditi la tua sposa, giacché te l’hai guadagnata a Mestre.

Infatti egli non fu zoppo ad abbracciarla, e andammo a terminar l’allegria nella camera dell’Aquilina. Tre settimane dopo Enrico era mio genero, ma gli imposi il sacrifizio di rimanere in casa nostra, perché non voleva essere burlato e pagarne anche le spese. I miei vecchi amici onorarono tutti il pranzo di nozze, e fu provato anche una volta che lo stomaco non conta gli anni quando la coscienza è tranquilla. Quello, credo, fu il colmo delle nostre gioie. Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli interni sgomenti, le lungherie ubbriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio. Eh! ai vecchi non la si dà ad intendere tanto facilmente! Quell’inverno fra il quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva più alla Francia, non credeva all’Inghilterra, e la rotta di Novara più che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori. Si combatteva omai più per l’onore che per la vittoria; sebbene nessuno lo diceva per non scemar agli altri coraggio.

Dopo le pubbliche sciagure cominciarono per noi i lutti privati. Un giorno vennero a raccontarmi che il colonello Giorgi e il caporal Provvedoni, feriti sul ponte da una bomba, erano stati trasportati allo Spedale militare, donde per la gravità della ferita non era possibile traslocarli. Accorsi più morto che vivo; li trovai a giacere su due lettucci l’uno accanto all’altro, e parlavano dei loro anni giovanili, delle loro guerre d’una volta, delle comuni speranze come due amici in procinto di addormentarsi. E sì che respiravano a fatica, perché avevano il petto squarciato da due orribili piaghe.

– La è curiosa! – bisbigliava Alessandro. – Mi par d’essere nel Brasile!

– E a me a Cordovado sul piazzale della Madonna! – rispose Bruto.

Era il delirio dell’agonia che li prendeva; un dolcissimo delirio quale la natura non ne concede che alle anime elette per render loro facile e soave il passaggio da questa vita.

– Consolatevi! – diss’io trattenendo a stento le lagrime. – Siete fra le braccia d’un amico.

– Oh, Carlino! – mormorò Alessandro. – Addio, Carlino! Se vuoi che faccia qualche cosa per te, non hai che a parlare. L’imperatore del Brasile è mio amico.

Bruto mi strinse la mano perché non era affatto fuori di sé; ma indi a poco tornò a svariare anch’esso, e ambidue svelavano in quelle ultime fantasticaggini dell’anima tanta bontà di cuore e tanta altezza di sentimenti, che io piangeva a cald’occhi e mi disperava di non poter trattenere i loro spiriti che si alzavano al cielo. Tornarono in sé un momento per salutarmi, per salutarsi a vicenda, per sorridere e per morire. Pisana, l’Aquilina ed Enrico che vennero indi a poco mi trovarono piangente e genuflesso fra due cadaveri. Il giorno stesso moriva nel campo dell’assedio sotto Mestre il general Partistagno. Aveva lontani di là poche miglia numerosi figliuoli de’ quali nessuno poté consolare i suoi ultimi momenti.

Dopo aver chiuso gli occhi a due tali amici mi parve che non era un peccato desiderare la morte; e mi levai col pensiero alla mia Pisana che forse mi contemplava dall’alto dei cieli, domandandole se non era tempo ch’io pure passassi a raggiungerla. Un’intima voce del cuore mi rispose che no: infatti altri tristissimi ufficii mi restavano da compiere. Pochi giorni appresso il conte Rinaldo fu colto dal cholera che già cominciava la sua strage massime nel popolo affamato. Le bombe avevano accalcato la gente nei sestieri più lontani da terraferma, ed era uno spettacolo doloroso e solenne quella mesta pazienza sotto a tanti e così mortiferi flagelli. Il povero conte era già agli estremi quand’io giunsi al suo capezzale; sua sorella, incurvata dagli anni e dai patimenti, lo vegliava con quell’impassibile coraggio che non abbandona mai coloro che credono davvero.

– Carlino, – mi disse il moribondo – ti ho fatto chiamare perché nei frangenti in cui mi trovo mi risovvenne della mia opera che corre pericolo di rimaner imperfetta. Or dunque l’affido a te; e voglio che tu mi prometta di stamparla in quaranta fascicoli nell’egual carta e formato del primo!...

– Te lo prometto – risposi quasi con un singhiozzo.

– Ti raccomando la correzione – mormorò il morente – e... se giudicassi opportuno... qualche cambiamento...

Non poté continuare, e morì guardandomi fiso, e raccomandandomi di bel nuovo coll’ultima occhiata quell’unico frutto della sua vita. Io m’adoperai perché gli fossero resi onori funebri convenienti al suo merito; e raccolsi in casa mia la signora Clara che afflitta più che mai dalla sua paralisi, era quasi impotente a muoversi da sola. Ma assai breve ci durò il contento di prestarle le cure più assidue ed affettuose che si potessero. Spirò anch’ella il giorno della Madonna d’agosto, ringraziando la Madre di Dio che la chiamava a sé nella festa della sua assunzione al cielo, e benedicendo Iddio perché i voti ch’ella avea pronunciati cinquant’anni prima per la salute della Repubblica di Venezia, e che le aveano costato tanti sacrifizii, avessero ricevuto un bel premio sul tramonto della sua vita. Io pensai allora a Lucilio; e forse vi pensava anch’ella con un sorriso di speranza; perché assai confidava nelle proprie preghiere, e più a mille doppii nella clemenza di Dio.

Ai ventidue d’Agosto fu firmata la capitolazione. Venezia si ritrasse ultima dal campo delle battaglie italiane, e come disse Dante: «A guisa di leon quando si posa». Ma un ultimo dolore mi rimaneva; quello di vedere il nome di Enrico Cisterna sulla lista dei proscritti. Luciano ch’io aveva lungamente aspettato durante quei due anni s’era dimenticato affatto di noi; di Giulio aveva ricevuto una lettera da Roma nel Luglio decorso, ma i disastri successivi mi lasciavano molto dubbioso sulla sua sorte; la Pisana avanzata nella gravidanza s’avviava col marito ai martirii dell’esiglio; partì con loro, sopra un bastimento che salpava per Genova Arrigo Martelli che avea seppellito a Venezia il povero Rossaroll!... Quanti sepolcri e quanti dolori viventi e lagrimosi sopra i sepolcri!...

Restammo soli io e l’Aquilina oppressi costernati taciturni; simili a due tronchi fulminati in mezzo a un deserto. Ma la dimora di Venezia ci diventava ogni giorno più odiosa e insopportabile, finché di comune accordo ci trapiantammo in Friuli, nel paesello di Cordovado, in quella vecchia casa Provvedoni, piena per noi di tante memorie. Là vissimo un paio d’anni nella religione dei nostri dolori; alfine anch’essa la povera donna fu visitata pietosamente dalla morte. E rimasi io. Rimasi a meditare, e a comprendere appieno il terribile significato di questa orrenda parola: – Solo!...

Solo?... ah no, io non era solo!... Lo credetti un istante; ma subito mi ravvidi; e benedissi fra le mie angoscie quella santa Provvidenza che a chi ha cercato il bene e fuggito il male concede ancora, supremo conforto, la pace della coscienza e la melanconica ma soave compagnia delle memorie.

Un anno dopo la morte di mia moglie ebbi la visita tanto lungamente sperata di Luciano e di tutta la sua famiglia: aveva due ragazzetti che parlavano meglio assai il greco che l’italiano, ma tanto essi che la loro madre mi presero a volere un gran bene, e fu per tutti assai doloroso il momento della separazione, la quale Luciano avea fissato al sesto mese dopo il loro arrivo, e non fu possibile ottenere la protrazione d’un giorno. Egli era cosifatto; ma per quanti difetti abbia, gli è pur sempre mio figliuolo, e lo ringrazio di essersi ricordato di me, e penso con profondo dolore che non devo mai più rivederlo. Spero che la mia famiglia prospererà sempre nella sua nuova patria; ma nel ricordarmi quei due vezzosi nipotini non posso fare a meno di sclamare: perché non son essi Italiani! La Grecia non ha certo bisogno di cuori giovani e valorosi che la amino!...

Giulio dopo la caduta di Roma mi avea dato novelle di sé da molte stazioni del suo esiglio: da Civitavecchia, da Nuova Yorch, da Rio Janeiro. Egli era esule pel mondo, senza tetto, senza speranza, ma superbo di aver lavato col sangue la macchia dell’onor suo, e di portar degnamente un nome glorioso ed amato. Ma poi tutto ad un tratto cessarono le lettere e soltanto ne ebbi contezza dai giornali, i quali lo nominavano fra i direttori di una nuova Colonia Militare Italiana che si formava nella Repubblica Argentina, nella provincia di Buenos Ayres. Ascrissi dunque a infedeltà postali la mancanza di suoi scritti, e attesi pazientemente che il cielo tornasse a concedermi quella consolazione. Ma un’altra non meno desiderata me ne fu concessa a quel tempo; voglio dire il ritorno in patria della Pisana e d’Enrico, con una vaga bamboletta che portava il mio nome e dicevano somigliasse a un ritratto fattomi a Venezia quand’era segretario della Municipalità. Allora solamente, coi miei figliuoli al fianco e colla Carolina sui ginocchi, mi sentii rivivere. Fu come una tiepida primavera per una pianta secolare che ha superato un rigidissimo inverno. Allora solamente dopo quattr’anni ch’era tornato a Cordovado, ebbi il coraggio di visitar Fratta, e là passai coi nipoti del vecchio Andreini già padri essi pure di numerosa figliuolanza, l’ottantesimo anniversario del mio ingresso in castello, quando vi era giunto da Venezia, chiuso in un paniere.

Dopo il pranzo uscii soletto per rivedere almeno il sito dove già era stato il famoso castello. Non ne rimaneva più traccia; solamente qua e là alcuni ruderi fra i quali pascolavano due capre, e una fanciulletta canterellava lì presso spiandomi curiosamente e sospendendo di filare. Ravvisai lo spazio del cortile e in mezzo ad esso la pietra sotto la quale avea fatto seppellire il cane da caccia del capitano. Forse era l’unico monumento delle mie memorie che restasse intatto; ma no, m’inganno; tutto ancora in quei luoghi diletti mi ricordava i cari anni dell’infanzia e della giovinezza. Le piante la peschiera i prati l’aria ed il cielo mi menavano a rivivere in quel lontano passato. Sull’angolo della fossa sorgeva ancora alla mia fantasia il negro torrione, dove tante volte aveva ammirato Germano che caricava l’orologio; rivedeva i lunghi corridoi pei quali Martino mi conduceva per mano all’ora di coricarsi, e la sua romita cameretta dove le rondini non avrebbero più sospeso il loro nido. Mi sembrava veder passare sullo sterrato o Monsignore col breviario sotto l’ascella, o il grandioso carrozzone di famiglia con entro il Conte la Contessa e il signor Cancelliere, o il cavalluccio di Marchetto sul quale soleva arrampicarmi. Vedeva capitare ad una ad una le visite del dopopranzo, monsignore di Sant’Andrea, Giulio Del ponte, il Cappellano, il Piovano, il bel Partistagno, Lucilio; udiva le loro voci tumultuare nel tinello intorno ai tavolini da gioco, e la Clara leggicchiare a mezza bocca qualche ottava dell’Ariosto sotto i salici dell’ortaglia. Succedevano poi gli inviti clamorosi de’ miei compagni di trastulli; ma io non rispondeva loro, e ritraevami invece soletto e beato a giocolare colla Pisana sul margine della peschiera.

Oh con qual religiosa mestizia, con quanto delicato tremore mi accostava a questa memoria che pur palpitava in tutte le altre, e cresceva ad esse soavità e melanconia!... Oh Pisana, Pisana! quanto piansi quel giorno; e benedico te, e benedico Iddio che le lagrime dell’ottuagenario non furono tutte di dolore. Mi ritrassi a notte fatta da quelle rovine; le passerette sui pioppi vicini cinguettavano ancora prima di addormentarsi come nelle sere della mia infanzia. Cinguettavano ancora; ma quante generazioni si erano succedute da allora anche in quella semplice famiglia di augelli!... Gli uomini vedono la natura sempre uguale, perché non si degnano di guardarla minutamente; ma tutto cangia insieme a noi; e mentre i nostri capelli di neri si fanno canuti, milioni e milioni d’esistenze hanno compiuto il loro giro. Uscii dal mondo vecchio per tornare nel nuovo; e vi rimisi il piede sospirando; ma il bocchino sorridente e le mani carezzevoli della Carolina mi pacificarono anche con esso. Il passato è dolce per me; ma il presente è più grande per me e per tutti.

L’anno dopo fu triste assai per la notizia che ricevetti della morte di Giulio; ma a quel dolore ineffabile veniva compagno un conforto, in due figliuoletti ch’egli mi lasciava. Sua moglie era morta anch’essa prima ch’io sapessi d’averla per nuora. Il general Urquiza nell’adempiere alla volontà del defunto col mandare a me i due orfanelli e tutte le sue carte, mi scrisse una bella lettera nella quale testimoniava la gran perdita che la Repubblica Argentina avea fatto per la morte del colonello Altoviti.

La Pisana diventò madre amorosa de’ suoi due nipotini, a’ quali un dilicato pensiero di Giulio aveva imposto i nomi di Luciano e di Donato; i miei due figliuoli, uno assente e l’altro morto, rivivevano in quelle due care creaturine e la Pisana stessa s’incaricò di risuscitare il terzo, generando un fratello alla Carolina che fu chiamato Giulio. Allora io compresi appieno quanta cagione di dolcezza e di speranza sia in quel rigoglio di vita nuova e giovanile che circonda gli anni cadenti della vecchiaia. Non è tutta immaginazione quella somiglianza di piaceri tra la gioventù vissuta per sé e amata e protetta negli altri. La famiglia forma di tutte le anime che la compongono quasi un’anima collettiva; e che altro infatti son mai le anime nostre se non memoria, affetto, pensiero e speranza? – E quando cotali sentimenti sono comuni in tutto od in parte, non si può dir veramente che si vive l’uno nell’altro? –

Così l’umanità s’eterna e si dilata come un solo spirito in quei principii immutabili che la fanno pietosa, socievole e pensante. La Pisana avea dato ragione al mio pronostico, e s’era fatta una così buona ed amorosa madre, che in vero mi pareva un sogno quel colloquio avuto con lei dieci anni prima a proposito delle letterine profumate. Il merito di cotal conversione era in gran parte suo; ma le dure circostanze per le quali eravamo passati, e l’indole robusta ed assennata del marito non ci furono per nulla. Guardate se io dovea rendere un omaggio sì giusto a quell’Enrico che mi sembrava proprio per l’addietro un capo da galera! Non malediciamo a nulla, figliuoli miei, neppure alle disgrazie. Dicono i Francesi che a qualche cosa sono buone anch’esse, e piucché a tutto, a procurare quella felicità certa e duratura che s’insalda sulla fortezza dell’animo.

Fra le carte di Giulio mandatemi dall’America era anche il suo giornale indirizzato a me, e che può essere una prova di quanto ora vi ho detto. Io ci piansi sopra assai su quelle pagine; ma figuratevi! sono suo padre. Per voi basterà che impariate ad amarlo e lo rimeritiate con un postumo suffragio dell’ingiustizia che vivo egli ha saputo così nobilmente sopportare. Eccovelo trascritto, che non vi tolgo né vi aggiungo sillaba.