8.

Quella notte sognai i miei genitori, un’immagine che nel sonno avevo visto spesso. Erano sdraiati a letto: mio padre supino, mia madre su un fianco, raccolta contro di lui con la testa sul suo cuore, accovacciata sotto il suo braccio sinistro. Lei aveva i capelli sciolti, una cascata di lunghe onde ambrate sulla spalla di papà, sulla sua barba e i suoi capelli, oro che scintillava contro il nero. L’altro braccio di mio padre era posato di traverso sul petto, e le dita riposavano intrecciate a quelle di mamma all’altezza della vita. Un quadro di pace perfetta. L’arco dei capelli intrecciati e l’arco delle braccia allacciate formavano un cerchio, splendido nella sua completezza e terribile nella sua esclusività.

Perché il sogno si svolge così: io mi avvicino ai miei genitori, col desiderio disperato di entrare nel loro cerchio, ma loro non si aprono ad accogliermi. Non possono: le mani sono fuse insieme – me lo fanno capire sollevando impotenti le braccia – e i capelli sono intessuti in un’unica fune. Ci dispiace, ci dispiace.

Mi svegliai con il sogno ancora fresco nella mente, dolente come un livido, e scoprii che Anneke non c’era più.

Si trattava di un giorno solo, rammentai a me stessa. Solo quell’appuntamento, e domani sarebbe tornata. E poi le avrei riferito il nuovo piano, quello che avevo concepito prima di addormentarmi.

A colazione la zia non aveva voglia di parlare di quanto era successo la sera prima. Parlammo invece delle cose da fare quella mattina e, siccome non erano molte, ci attardammo a tavola lasciandoci scaldare dal sole e dal caffè.

Strappai una fogliolina morta da un geranio.

«Tante Mies» dissi. «Raccontami dei miei genitori».

La zia alzò bruscamente lo sguardo. Non chiedevo spesso di loro. «Che cosa vuoi sapere?»

«Be’, com’erano quando si sono conosciuti. Com’erano prima di come li ricordo io».

Si chinò in avanti e mi infilò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Tu come li ricordi, Cyrla?»

«Vicini vicini». Non sapevo che avrei detto questo. «Me li ricordo sempre in piedi o seduti vicinissimi l’uno all’altra, che si sfiorano. Quando penso a loro, li vedo sempre insieme». Poggiai il mento sui pugni e riflettei meglio. «E poi ricordo anche mamma sola con me in cucina. In quei momenti parlava olandese, e io credevo che la gente parlasse olandese quando cucinava». Per un istante mi persi in quella cucina, le braccia di mia madre bianche di farina fino al gomito, il viso scintillante del mio riflesso.

«Ja, fin dall’inizio è stato come se fossero stati sempre insieme. E come se fossero due parti di un tutto. Eppure erano così diversi! Tu assomigli molto alla tua mamma, lo sai? Alle volte vedo tanto di lei in te, del suo spirito. Amava moltissimo tuo padre e, hai ragione, erano sempre vicini, si sfioravano sempre».

Mi resi conto che non avevo mai visto sfiorarsi la zia e lo zio. In effetti, lo zio non toccava mai nessuno. Capii dall’espressione della zia che anche lei stava pensando la stessa cosa.

«Tuo zio ci vuole bene» disse. «Solo che lui è fatto in un altro modo. Gli piacciono le regole. E quel che ha fatto Anneke… be’…»

Che cosa aveva mai fatto Anneke? mi chiesi. C’erano delle regole in amore? Ero certa che, se mai fossi stata tanto fortunata da sentirmi parte di un tutto insieme a qualcuno, quello mi sarebbe bastato. Non avrei mai chiesto all’amore di seguire delle regole.

«E con quel giornale, ieri sera… è preoccupato e basta».

Allargai le braccia: non importava più. Ma lei voleva spiegarmi.

«La faccenda è complicata. Non è un sostenitore, e tu lo sai… Cyrla, ascoltami. Cerca di capire. La famiglia di tuo zio era ricca, ma investì in titoli zaristi, come molti altri olandesi. E quando i bolscevichi cancellarono tutto il proprio debito estero, loro persero gran parte del patrimonio. Tuo zio dovette lasciare l’università e imparare un mestiere, e credo che non abbia mai superato la delusione».

Pensai allo zio che ogni primavera appendeva le tende nuove in soggiorno. Solo nel soggiorno, l’unica stanza che dava sulla strada. Ricordai, il mio primo anno in quella casa, la zia che lo sgridava per averle foderate con il medesimo raso color ruggine di cui erano composte: «Per chi sono i tendaggi, Pieter?» gli aveva chiesto. «Per noi o per i passanti?»

«Giova agli affari» aveva risposto lui.

Ma avevo capito dalla sua espressione che le parole della zia avevano riaperto una vecchia ferita. E quando lei confezionava qualcosa con la stoffa ancora utilizzabile delle tende che lui tirava giù – mantelle per me e Anneke con il velluto verde bottiglia, copriletti per i nostri lettini con il damasco grigio a righe – lo zio la guardava male.

«Così, all’inizio» continuò la zia, «prima che arrivassi tu, lui apprezzava l’antibolscevismo di Hitler. Ma ora non più».

«E allora che cosa sta cercando di dirmi?» Incrociai le braccia.

La zia allontanò la tazza del caffè e si portò le mani alla bocca. «Gli ebrei devono farsi registrare. È una regola tremenda, e noi non le vogliamo, le regole tedesche. Ma questa lo preoccupa, teme l’idea di infrangerla. E adesso, con le nuove restrizioni… Però posso parlargli».

«No, non farlo» conclusi.

Non appena ebbi terminato le faccende di casa telefonai a Isaak, al lavoro. «Vediamoci. Ho bisogno di parlarti».

«Cyrla, non posso. E poi, dove ci vediamo?»

«Al parco sul Burgemeester Knappertlaan» suggerii. Era una bellissima giornata, e avremmo potuto fare due passi.

Sentii Isaak sospirare e ricordai: lui non poteva andare da nessuna parte senza infrangere le nuove norme, a eccezione del quartiere ebraico. E non voleva che io andassi là. Ma non poteva tenermi lontana.

«Vengo subito al Consiglio» gli dissi.

«No, non va bene e lo sai. Possiamo parlare al telefono».

«Isaak, aspetta un attimo. Il negozio di mio zio oggi è chiuso. Vediamoci lì tra un’ora».

«Cyrla, no. Se mi prendono metto in pericolo un sacco di gente…»

«La porta sul retro» dissi. «Solo per questa volta».

Mentre riappendevo fui colpita da un pensiero: avevo sempre bisogno di un motivo per vedere Isaak, di un problema che lui potesse risolvere. Gli portavo i miei guai come monetine per avere udienza presso di lui.

Isaak era contrariato, me ne accorsi appena gli aprii la porta. Entrò, e proprio in quel momento mi resi conto di che cosa avrebbe visto: i banconi coperti di pezze di lana marrone. Gli sarebbe stato molto facile chiedere a chi fosse destinato un ordine così grosso.

«Sul tetto, è più sicuro». Lo presi per mano e lo condussi verso le scale, e per un istante lo sentii irrigidirsi. Isaak non gradiva essere toccato: quanto gli era costato, non avere una famiglia. Era stato allevato da brave persone, mi aveva detto; aveva trascorso i primi anni di vita in un orfanotrofio, ma poi si erano occupati di lui gli anziani della sinagoga. Però nessuno lo aveva mai abbracciato, la notte, per spiegargli attraverso la pelle quanto fosse amato. Non si ritraeva mai quando lo sfioravo, ma nemmeno ricambiava il tocco.

Sul tetto si rilassò. Arrivammo fino al bordo e guardammo oltre: le case di mattoni con i tetti a gradini ardevano d’ocra nel sole calante, il canale era di un fresco color verde edera, e gli alberi mutavano in oro a perdita d’occhio. Sopra i rumori delle strade c’erano calma e pace e, quando guardai Isaak, capii che avrebbe voluto essersi portato dietro il blocco da disegno.

«Ascolta, Cyrla» disse. Si spostò dall’altra parte del tetto. «Un rigogolo. Dev’essere tra quei peri laggiù, mi sa, ma questo è il canto del corteggiamento. Non l’ho mai sentito a stagione così avanzata».

«Non ha ancora trovato una compagna?» Pensai alla poesia di Rilke sull’arrivo dell’autunno, quella che mi perseguitava. Ne recitai i versi a Isaak.

Chi non ha casa adesso non l’avrà.

Chi è solo a lungo solo dovrà stare1.

«Come il tuo rigogolo» commentai. Come noi.

«Be’, non proprio. È più probabile che una compagna l’avesse, e che sia morta. E se lei è morta, è altrettanto probabile che i piccoli non siano sopravvissuti, se mai lei ha avuto la possibilità di deporre le uova».

Lo scrutai attentamente e capii che non stavamo più parlando di rigogoli. Ci accovacciammo sulla ghiaia tiepida di sole, con le schiene appoggiate al muretto.

Gli raccontai della minaccia di mio zio, di quel che aveva detto la signora Bakker, e infine che Anneke aveva parlato di me con Karl. Non c’era più ragione di nasconderlo. «Hai ragione tu» dissi. «È ora di andarsene». Gli lanciai un’occhiata di sbieco, per vedere se il pensiero della mia partenza gli pesasse. Ma naturalmente lui fu bravo a nascondere i suoi sentimenti.

«Comincerò a prendere accordi. I Verzet, quelli della resistenza, sono bravi in queste cose. Di loro mi fido».

«No. Ho intenzione di andare via, ma non molto lontano. Non voglio uscire dall’Olanda, non ce n’è bisogno».

Gli riferii il mio piano: mi sarei trasferita ad Amsterdam o a Rotterdam e avrei assunto una nuova identità. Poteva aiutarmi a far questo, aggiunsi. Lui si limitò ad ascoltare annuendo… finché non accennai al fatto che Anneke sarebbe venuta con me. Allora aggrottò la fronte. Gli dissi dov’era in quel momento, e che cosa aveva fatto mio zio.

«Ho sentito parlare di quei posti» disse, raccogliendo una manciata di ghiaia e facendola scuotere in mano. «I centri Lebensborn. Lo sai che cosa sono, vero?»

«Luoghi in cui le ragazze possono avere i loro bambini senza subire ostracismi».

«Non esattamente». Isaak si lasciò scorrere la ghiaia tra le dita. «Non si tratta di un servizio umanitario. Lo sai perché lo fanno?»

«Lei è incinta di uno di loro e se ne assumono la responsabilità. Vogliono che sia tranquilla e in buona salute».

«Sì, ma a che scopo? Pensa a cosa significa la parola Lebensborn. Fonte di vita, sorgente di vita».

Sentii che Isaak mi studiava, in attesa. Lui diceva sempre che bisognava analizzare le cose fino in fondo. Adesso volevo compiacerlo, perciò riflettei sulla questione come avrebbe fatto lui. La mia risposta fu: «Non ci credo».

«Invece è così» insistette lui. «Quelle sono culle del nemico: il motto del programma è Un bambino per il Führer. Loro si aspettano che tutte le donne tedesche, sposate o no, abbiano dei figli: vogliono riempire di loro simili ogni paese soggiogato. E avranno sempre bisogno di truppe. Lo sai che cosa mi spaventa per davvero? La loro lungimiranza. I bambini non sono bambini per i nazisti, Cyrla, sono risorse. E adesso li prendono anche dai paesi occupati».

Mi figurai il bimbo nel ventre di Anneke: un maschietto, una femminuccia… I tedeschi avevano intenzione di prendersi i bambini olandesi allo stesso modo in cui ci stavano portando via il carburante, il cibo, le stoffe. Ricordai la berakhà che era stata pronunciata alla circoncisione del mio fratellino più piccolo, Beniamin: Possa tu vivere e veder compiuto il tuo mondo, possa il tuo destino giungere a mondi di là da venire, e possa tu confidare in generazioni passate e ancora da nascere.

Mi sembrava quasi di odorare il profumo di sapone sul collo di Beniamin, di sentire di nuovo il suo denso peso umido contro il fianco mentre dormiva con le dita intrecciate a una ciocca della mia treccia, cosicché a ogni passo percepivo una minuscola stretta. «Glielo farò capire» dissi a Isaak. «Verrà con me».

«Farà quello che le pare» rispose lui. Il tono mi sembrò amaro. «Staremo a vedere, comunque. È probabile che la scartino, succede a molte. Sai a che esami le sottopongono?»

Accennai di sì, ma poi scossi il capo.

«Devono dimostrare di che stirpe sono. Devono avere un colore di occhi e capelli accettabile. Essere ariane, come dicono loro. Desiderabili».

Da qualche parte – non sapevo dove – qualcuno stava ora facendo questo a mia cugina. Potevano forse misurarne la dolcezza? La luce che riversava sulla nostra famiglia sarebbe stata accettabile? Non c’era altro da dire. D’un tratto mi sentii esausta, come se avessi mantenuto una postura rigida per giorni: posai il capo sulla spalla di Isaak e sentii che s’irrigidiva.

Una volta che avessero cominciato a sfiorarsi, aveva detto Anneke, due persone avrebbero saputo come fare l’amore. Ma Isaak prima aveva bisogno di imparare il linguaggio del tatto: e avrei dovuto insegnarglielo io. Chi altri avrebbe potuto farlo?

Tesi la mano verso il suo pomo d’Adamo, là dove si apriva il colletto della camicia, e con la punta delle dita gli carezzai dolcemente la gola, tiepida, liscia e bruna d’estate sui muscoli tesi. In un solo istante il mondo si restrinse, per riversarsi poi dentro quel deliberato interrogatorio della sua pelle: trattenni il fiato in attesa della risposta.

Lui mi prese la mano e la strinse forte, poi la spinse via.

«No, Cyrla. Non è… io devo rientrare». Si alzò in piedi e si girò dall’altra parte.

Avrei voluto tendere le braccia e costringere il suo sguardo su di me. Lo capivo: aveva bisogno di tempo per prendere le misure di quel nuovo linguaggio. Solo che noi il tempo non lo avevamo.

Quella sera, nel rigovernare i piatti dopo cena, tirai fuori un cucchiaio dalla saponata e me lo infilai in tasca.

1 Rainer Maria Rilke, “Giorno d’autunno”, in Poesie, trad. it. di Giaime Pintor, Einaudi, Torino, 1966 (N.d.T.).