Durante il Ramzàn, il mese del digiuno, andavamo al cinema il più spesso possibile. Dopo essere stati svegliati a scossoni alle cinque del mattino dalla mano assidua di mia madre; dopo colazioni prima dell’alba a base di meloni e di lime water zuccherata, e in particolare la domenica, la Scimmia d’ottone e io facevamo a turno (o a volte glielo chiedevamo all’unisono) per ricordare ad Amina: «Lo spettacolo delle dieci e mezzo! È il giorno del Metro Cub Club, amma, ti preeego!». Poi la corsa in Rover sino al cinema, dove non assaggiavamo né la Coca-Cola, né le patatine e neanche i gelati Kwality o i samosa in carta oleata, ma se non altro c’erano l’aria condizionata, i distintivi del Cub Club appuntati ai nostri vestiti e gare e annunci di compleanno fatti da un presentatore con baffi inadeguati, e infine il film, dopo i prossimamente con i loro titoli introduttivi, «Imminente su questo schermo» e «Quanto prima», e il disegno animato («Tra un momento, il film, ma prima...»): L’arciere del re, per esempio, o Scaramouche. «Una smargiassata!» ci dicevamo alla fine, giocando a fare i critici cinematografici, e «Un movimentato e piccante successo!» – anche se non sapevamo nulla né di smargiassi né di cose piccanti. Non si pregava molto nella nostra famiglia (tranne che per Id-ul-Fitr, quando mio padre mi portava alla moschea del venerdì, mi legava un fazzoletto intorno alla testa e mi premeva la fronte sul pavimento)... ma eravamo sempre disposti a digiunare, perché ci piaceva il cinema.
Evie Burns e io eravamo concordi: il più grande divo del mondo era Robert Taylor. Mi piaceva anche Jay Silverheels come Tonto; ma il suo kemo-sabay, Clayton Moore, era troppo grasso per essere attendibile come Cavaliere senza volto, a mio avviso.
Evelyn Lilith Burns arrivò a Capodanno del 1957, per stabilirsi con il padre vedovo in un appartamento di uno dei due tozzi e brutti casamenti di cemento che erano cresciuti, senza che noi quasi ce ne accorgessimo, sui tratti più bassi della nostra collinetta, e che erano curiosamente segregati: gli americani e gli altri stranieri vivevano (come Evie) a Noor Ville: le fortunate carriere degli arrivisti indiani si concludevano invece nelle Laxmi Vilas. Dalle vette della Proprietà Methwold, noi li guardavamo dall’alto in basso tutti quanti, bianchi o bruni; ma nessuno guardò mai dall’alto in basso Evie Burns – tranne una volta. Solo una volta ci fu chi riuscì ad avere la meglio su di lei.
Prima ancora di infilarmi il mio primo paio di calzoni lunghi, mi innamorai di Evie, ma quell’anno l’amore era una cosa bizzarra, che provocava reazioni a catena. Per risparmiar tempo, schiererò tutti noi nella stessa fila del cinema Metro; Robert Taylor si rispecchia nei nostri occhi, di noi seduti in tremolante trance – e anche in sequenza simbolica: Saleem Sinai è il-vicino-di-posto-e-l’innamorato di Evie Burns che è la-vicina-di-posto-e-l’innamorata di Sonny Ibrahim, che è il-vicino-di-posto-e-l’innamorato della Scimmia d’ottone che occupa la sedia sul corridoio e ha una fame che non ci vede... Ho amato Evie per sei mesi, forse, della mia vita; due anni dopo, tornò in America, accoltellò una vecchia e fu mandata in riformatorio.
A questo punto è necessaria una breve espressione di gratitudine: se Evie non fosse venuta a vivere in mezzo a noi, forse la mia storia non si sarebbe mai spinta oltre il turismo-in-una-torre-dell’orologio e gli imbrogli a scuola... e non ci sarebbero stati né un climax nella pensione di una Vedova, né una chiara prova del mio significato, né una coda in una fumante officina, presieduta dall’ammiccante e danzante figura zafferano e verde della dea al neon Mumbadevi. Ma Evie Burns (era serpente o scala?) venne sulla sua bicicletta argentea e mi permise non solo di scoprire i bambini della mezzanotte, ma anche di provocare la spartizione dello Stato di Bombay.
Per cominciare dall’inizio: i suoi capelli erano fatti di paglia per spaventapasseri, la sua pelle era cosparsa di lentiggini e i suoi denti vivevano in una gabbia di metallo. Questi denti, apparentemente, erano le sole cose al mondo su cui non avesse alcun potere – crescevano selvaggi, in una maliziosa sovrapposizione da pavimentazione a mosaico e la irritavano terribilmente ogni volta che mangiava un gelato. (Mi permetto quest’unica affermazione d’ordine generale: gli americani sono diventati padroni dell’universo, ma non hanno autorità sulle proprie bocche; mentre l’India è impotente, ma i suoi figli hanno di solito delle splendide dentature.)
Torturata dal mal di denti, la mia Evie si levava mirabilmente al di sopra della sua sofferenza. Non ammettendo di lasciarsi dominare da ossa e gengive, mangiava torte e beveva Coca-Cola ovunque si andasse; e non si lamentava mai. Una bambina dura, Evie Burns: l’aver saputo dominare il dolore confermava la sua sovranità su tutti noi. È stato detto che ogni americano ha bisogno di una frontiera: la sua era la sofferenza, e lei era fermamente decisa a spingersi oltre.
Una volta, le regalai timidamente una collana di fiori (regine-della-notte per il mio giglio-della-sera), comprata con i miei soldi da un ambulante di Scandal Point. «Io non porto fiori» disse Evelyn Lilith, e lanciò in aria la sgradita collana, trafiggendola prima che ricadesse con una pallottola del suo infallibile fucile Daisy ad aria compressa. Distruggendo quei fiori con un Daisy, comunicava in pratica che non si sarebbe lasciata impastoiare da niente, neanche da una collana: era la nostra capricciosa turbinosa Lillina-della-Collina. Era anche Eva. Il pomo d’Adamo dei miei occhi.7
Ed ecco come arrivò: Sonny Ibrahim, Fettadocchio e Brillantina Sabarmati, Cyrus Dubash, la Scimmia e io stavamo giocando a cricket francese nella pista da circo tra i quattro palazzi della Proprietà Methwold. Una partita per Capodanno; Toxy applaudiva dietro le sbarre della sua finestra; ed era di buon umore persino Bi-Appah: una volta tanto, non ci stava insultando. Il cricket – anche quello francese e anche se giocato da bambini – è un gioco tranquillo: pace spalmata con olio di lino. I baci tra cuoio e mazza; le spruzzatine d’applausi; le grida occasionali – «Tiri, tiri, signore!» o «Machehacombinato?», ma Evie sulla sua bicicletta non tollerava niente del genere.
«Ehi voi! Voialtri! Ehi, che vi succede? Siete tutti sordi?»
Io stavo battendo (con l’eleganza di Ranji e la potenza di Vinoo Mankad) quando lei salì velocissima la collina sulle sue due ruote, capelli di paglia al vento, lentiggini fiammeggianti, bocca metallica che lampeggiava messaggi semaforici nel sole: uno spaventapasseri in groppa a una pallottola d’argento... «Ehi, tu col naso che cola! Smettila di contemplare quella stupida palla, buono a niente! Ti mostro io qualcosa che val la pena guardare!»
È impossibile descrivere Evie Burns senza evocare anche una bicicletta; e non una due ruote qualsiasi, ma uno degli ultimi esemplari delle grandi veterane, un’Arjuna Indiabike in perfette condizioni, con manubrio da corsa protetto da un nastro adesivo, cambio a cinque velocità e una sella in pelle di ghepardo. E un telaio d’argento (il colore, non ho bisogno di precisarlo, del cavallo del Cavaliere senza volto)... Lo sciatto Fettadocchio e l’impeccabile Brillantina, Cyrus il genio e la Scimmia, Sonny Ibrahim e io – gli amici migliori, gli autentici figli della Proprietà, i suoi eredi per diritto di nascita – Sonny con la lenta innocenza che gli era propria da quando il forcipe gli aveva ammaccato il cervello e io con le mie pericolose conoscenze segrete – sì, tutti noi, futuri toreri e ufficiali di Marina, restammo paralizzati e a bocca aperta, mentre Evie Burns cominciava a pedalare, sempre più in fretta, continuando a girare intorno alla pista da circo. «Guardatemi ora: guardate come vado, tontoloni!»
Su e giù dalla sella di ghepardo Evie si stava esibendo. Con un piede sulla sella e una gamba tesa dietro di sé, turbinava intorno a noi; poi aumentò velocità e si mise a testa in giù sulla sella! Era capace di stare a cavalcioni sulla ruota anteriore, con il viso rivolto verso quella di dietro, facendo girare i pedali in senso contrario... la gravità era la sua schiava, la velocità il suo elemento, e noi sapevamo che era arrivata tra noi una potenza, una strega su due ruote, e i fiori delle siepi lanciarono i loro petali, la polvere della pista da circo si alzò in nubi d’ovazione, perché aveva trovato la sua signora: era tela sotto il pennello delle sue ruote turbinose.
A questo punto notammo che la nostra eroina portava un fucile Daisy ad aria compressa sul fianco destro... «C’è ancora dell’altro, nullità!» gridò, ed estrasse l’arma. I suoi proiettili diedero alle pietre la facoltà di volare: noi lanciammo in aria degli anna che lei abbatté con il fucile, morti stecchiti. «Bersagli! Altri bersagli!» – e Fettadocchio sacrificò senza un sussurro il suo amato mazzo di carte da ramino, perché lei potesse far saltare la testa ai re. Annie Oakley con l’apparecchio ai denti – nessuno osò mai contestare le sue doti di tiratrice, tranne una volta, e fu la fine del suo regno, durante la grande invasione dei gatti; ma c’erano circostanze attenuanti.
Arrossata, sudata, Evie Burns smontò e annunciò: «D’ora in avanti qui c’è un nuovo grande capo. Okay, indiani? Nessuna obiezione?».
Nessuna obiezione; capii allora che mi ero innamorato.
A Juhu Beach con Evie: vinse la corsa dei cammelli, bevve più latte di cocco di chiunque di noi, sapeva tenere gli occhi aperti sotto la pungente acqua salata del Mare Arabico.
Sei mesi facevano davvero tanta differenza? (Evie aveva mezzo anno più di me.) Ti davano il diritto di parlare da pari a pari con gli adulti? Evie fu vista spettegolare con il vecchio Ibrahim Ibrahim; sosteneva che Lila Sabarmati le stava insegnando a truccarsi, andava a trovare Homi Catrack per parlare d’armi. (Era una tragica ironia della vita di Homi Catrack che proprio lui, contro il quale sarebbe stata un giorno puntata una pistola, fosse un autentico aficionado delle armi da fuoco... In Evie trovò una sua simile, una bambina senza madre che, a differenza della sua Toxy, era sottile come un coltello e brillante come una bottiglia. A proposito, Evie Burns non sprecava simpatia per la povera Toxy Catrack. «È malata nella testa» dichiarava con noncuranza a noi tutti. «Bisognerebbe eliminarla come si fa coi topi.» Ma Evie: i topi non sono deboli! C’era più del roditore nel tuo viso che in tutto il corpo della tua disprezzata Toxy.)
Questa era Evelyn Lilith, e meno di una settimana dopo il suo arrivo, io avevo già avviato quella reazione a catena dalle cui conseguenze non mi sarei mai del tutto ripreso.
La cosa cominciò con Sonny Ibrahim, Sonny-della-porta-accanto, Sonny con le sue ammaccature da forcipe, che è rimasto pazientemente seduto tra le quinte della mia storia, aspettando la sua battuta d’entrata. A quei tempi Sonny era molto malconcio; e non era stato soltanto il forcipe ad ammaccarlo. Amare la Scimmia d’ottone (sia pure nell’accezione novenne del termine) non era certo una cosa semplice.
Come ho già detto, mia sorella, nata seconda e non annunciata, aveva sempre reagito con violenza a qualsiasi dichiarazione d’affetto. Le si attribuiva la conoscenza dei linguaggi degli uccelli e dei gatti, ma le tenere parole degli innamorati suscitavano in lei un furore quasi animalesco; Sonny però era troppo ingenuo perché fosse possibile metterlo in guardia. Ormai la stava importunando da mesi con frasi come: «Sorella di Saleem, sei un tipo piuttosto solido!» o «Senti, vuoi essere la mia ragazza? Potremmo andare al cinema con la tua ayah». E per altrettanti mesi lei lo aveva fatto soffrire per il suo amore – facendogli la spia con sua madre spingendolo un po’ per caso e un po’ apposta in pozzanghere di fango; arrivando persino una volta ad aggredirlo fisicamente, lasciandogli lunghi graffi sul viso e un’espressione da cane bastonato negli occhi; ma lui non voleva imparare. E alla fine lei progettò la più terribile delle vendette.
La Scimmia frequentava la scuola femminile Walsingham in Nepean Sea Road; una scuola piena di europee altissime e dagli splendidi muscoli, che nuotavano come pesci e si tuffavano come sommergibili. Nelle ore libere, potevamo vederle dalla finestra di camera nostra esibirsi nella piscina a forma di mappa del Breach Candy Club, da cui eravamo ovviamente esclusi... e quando scoprii che la Scimmia si era in qualche modo legata a queste segregate nuotatrici, come una sorta di mascotte, mi sentii, forse per la prima volta, realmente offeso con lei... ma non c’era verso di discutere, faceva sempre quel che le pareva. Nerborute quindicenni bianche le permettevano di sedersi con loro sul pullman della scuola Walsingham. Tre di queste femmine aspettavano con lei ogni mattino nello stesso luogo dove Sonny, Fettadocchio, Brillantina, Ciro-il-Grande e io attendevamo il pullman della scuola Cathedral.
Una mattina, per qualche ragione che ora non ricordo, alla fermata dei maschi c’eravamo soltanto Sonny e io. Forse stava imperversando qualche epidemia. La Scimmia aspettò che Mary Pereira ci avesse lasciati soli, affidandoci alle nuotatrici nerborute; e allora improvvisamente mi lampeggiò in testa la verità su ciò che stava progettando, essendomi sintonizzato, senza alcun motivo particolare, coi suoi pensieri; e gridai: «Attento!» – ma troppo tardi. La Scimmia strillò: «Tu non c’entri con questa storia!» e subito dopo con le tre nuotatrici nerborute saltò addosso a Sonny Ibrahim, e vagabondi e mendicanti e fattorini in bicicletta guardavano cordialmente divertiti, perché le femmine si erano messe a staccare ogni capo di vestiario dal suo corpo... «Accidenti, uomo, conti di startene lì a guardare e basta?» – così Sonny, gridando aiuto, ma io ero paralizzato, come potevo prender posizione tra mia sorella e il mio miglior amico, e lui: «Lo dirò al mio papà!», piangendo adesso, mentre la Scimmia: «Così imparerai a dire stronzate!» e via le sue scarpe; e non più camicia e la maglia sfilatagli da una tuffatrice dalla piattaforma. «Così imparerai a scrivere quelle sdolcinate lettere d’amore» non più calzini adesso, e ancora tante lacrime e «Ecco!» gridò la Scimmia; arrivò il pullman della Walsingham e le assalitrici e mia sorella saltarono a bordo e s’allontanarono veloci, «Ciao, ciao, gran seduttore!» strillavano e Sonny fu lasciato solo sul marciapiede di fronte a Chimalker e al Paradiso del lettore, nudo come il giorno in cui era nato, e le tacche del forcipe luccicavano come pozzanghere, perché vi era gocciolata la vaselina dai capelli; e anche i suoi occhi erano bagnati, come lui. «Perché lo ha fatto, uomo? Le avevo solo detto che mi piaceva...»
«Non ne ho idea» dissi, non sapendo dove guardare. «Le fa queste cose, tutto qui.» Non sapendo neanche che sarebbe venuto il momento in cui a me avrebbe fatto persino di peggio.
Ma questo accadde nove anni dopo... intanto, all’inizio del 1957, era cominciata la campagna elettorale: lo Jan Sangh si batteva perché si costruissero case di riposo per le vacche sacre invecchiate, nel Kerala; E.M.S. Namboodiripad assicurava che il comunismo avrebbe dato a tutti cibo e lavoro; a Madras, il Partito Anna-DMK di C.N. Annadurai attizzava le fiamme del regionalismo, il Congresso reagiva con riforme come la Legge indù sulla successione che dava alle donne indù gli stessi diritti di ereditare... insomma erano tutti affaccendati a perorare la propria causa; io, però, non ero capace di aprir bocca di fronte a Evie Burns, e così chiesi a Sonny Ibrahim di perorare a mio nome.
In India, siamo sempre stati sensibili agli europei... Evie era tra noi da poche settimane e io già mi lasciavo risucchiare in una grottesca parodia della letteratura europea. (Avevamo recitato il Cyrano a scuola in versione semplificata; e lo avevo anche letto a fumetti nella collana dei Classici illustrati.) Sarebbe forse giusto dire che in India l’Europa si ripete in forma farsesca... Evie era americana. La stessa cosa.
«Ma, uomo, non è corretto, uomo, perché non lo fai tu?»
«Senti Sonny,» insistetti «tu sei mio amico, no?»
«Già, ma tu non mi hai neanche aiutato...»
«Era mia sorella, Sonny; come potevo?»
«Già, e allora fatteli da solo i tuoi sporchi...»
«Ehi, Sonny, pensa. Pensa solo un momento. Le ragazze bisogna maneggiarle con cautela, uomo. Guarda come ti è scappata di mano la Scimmia! Ma tu hai fatto questa esperienza, tu ci sei passato. E la prossima volta saprai comportarti come si deve. Io invece cosa so, uomo? Forse non le piaccio nemmeno. Vuoi che anche a me tolgano i vestiti di dosso? Ti sentiresti meglio se lo facessero?»
E l’ingenuo, il generoso Sonny: «... Be’, no...».
«Okay, allora. Tu vai. Canti un po’ i miei elogi. Dici che il mio naso non è poi tanto importante. È il carattere che conta. Ce la farai?»
«... Beeee’... io... Okay, ma tu in cambio parlerai con tua sorella, d’accordo?»
«Le parlerò, Sonny. Ma non ti prometto niente. Lo sai com’è fatta. Comunque le parlerò di sicuro.»
Tu puoi elaborare la tua strategia con tutte le attenzioni possibili; le donne te la rovinano in un baleno. Per ogni campagna elettorale vittoriosa, ce ne sono almeno due che falliscono... dalla veranda di Villa Buckingham, attraverso le assicelle delle tapparelle, spiai Sonny Ibrahim che stava facendo propaganda con l’elettorato che m’ero scelto... e udii la voce dell’elettorato stesso, la fragorosa nasalità di Evie Burns, squarciare l’aria col proprio disprezzo: «Chi? Lui? Perché non gli dici di andare a soffiarsi il naso? Quel Tirasù! Non sa neanche andare in bicicletta!».
Era vero.
E c’era anche di peggio; perché poi (benché una tapparella di bambù dividesse la scena in tante strette fessure) non vidi anche l’espressione del viso di Evie che cominciava a addolcirsi e cambiare? – non era la mano di Evie (tagliata per il lungo dalle assicelle di bambù) che si tendeva verso il mio agente elettorale? – e non erano le dita di Evie (con le unghie mangiate a sangue) che toccavano le tacche sulle tempie di Sonny, e le punte delle sue dita non si stavano coprendo di gocciolante vaselina? – ed Evie disse o non disse: «Tu sì invece che sei carino». Mi si permetta di rispondere con tristezza che vidi, che era lei, che erano loro, che lo disse.
Saleem Sinai ama Evie Burns; Evie ama Sonny Ibrahim; Sonny è cotto della Scimmia d’ottone; ma cosa dice la Scimmia?
«Non farmi vomitare, Allah» disse mia sorella, quando cercai – nobilmente, devo dire, tenuto conto di come mi aveva deluso – di sostenere le ragioni di Sonny. Gli elettori avevano bocciato entrambi.
Io però non intendevo arrendermi. Le tentazioni da sirena di Evie Burns – alla quale, devo ammetterlo, non importò mai niente di me – mi conducevano inesorabilmente alla caduta. (Ma non le serbo rancore; perché questa caduta portò a un’ascesa.)
Segretamente, nella mia torre dell’orologio, sottrassi tempo ai miei vagabondaggi trans-subcontinentali per riflettere sul corteggiamento della mia lentigginosa Eva. “Smettila con gli intermediari!” mi consigliai. “Devi occupartene personalmente.” Finii per elaborare un piano: avrei condiviso i suoi interessi, avrei fatto mie le sue passioni... le pistole non mi avevano mai affascinato. Decisi di imparare ad andare in bicicletta.
Evie, a quei tempi, aveva ceduto alle molte richieste dei bambini in cima alla collinetta perché insegnasse loro l’arte del ciclismo; e per me fu quindi semplice mettermi in coda per le lezioni. Ci riunivamo nella pista da circo; Evie, direttrice suprema, troneggiava al centro di cinque ciclisti traballanti e furiosamente concentrati... e io me ne stavo accanto a lei, senza bici. Prima che arrivasse Evie, non avevo mai palesato il minimo interesse per questo tipo di veicolo, e quindi non me ne avevano mai regalato uno... umilmente, sopportavo le sferzate della lingua di Evie.
«Ma dove hai vissuto sinora, nasone? Mica vorrai chiedere in prestito la mia?»
«No» mentii tutto contrito, e lei si placò. «Okay, okay» disse alzando le spalle. «Monta in sella e vediamo cosa combini.»
Voglio subito rivelare che, appena salii sull’argentea Arjuna Indiabike, mi sentii colmo della più pura ebbrezza; che, mentre Evie continuava a girare attorno, tenendo la bici per il manubrio ed esclamando: «Ci riesci a tenerti in equilibrio? No? Gesù, nessuno ci mette tutto un anno!» – mentre Evie e io giravamo, mi sentivo... qual è la parola?... felice.
Intornointornointorno... Infine, per accontentarla, balbettai: «Okay... credo di... lasciami» e immediatamente mi trovai abbandonato a me stesso, mi aveva dato una spinta d’addio, e l’argentea creatura volava luminosa e incontrollabile attraverso la pista da circo... la sentii urlare: «I freni! Adopera quei dannati freni, idiota!» – ma le mie mani non riuscivano a muoversi, ero diventato rigido come un’asse e lì ATTENTO di fronte a me c’era la due-ruote azzurra di Sonny Ibrahim, in rotta di collisione, TOGLITI DI MEZZO DEFICIENTE, Sonny in sella che cercava di deviare e non ci riusciva, e l’azzurro continuava a puntare veloce sull’argento, Sonny girò a destra ma io feci la stessa cosa ATTENTO LA MIA BICI e la ruota d’argento toccò l’azzurra, il telaio baciò il telaio, io spiccai il volo al di sopra del manubrio in direzione di Sonny che aveva iniziato un’identica parabola verso di me CRASH le biciclette caddero a terra sotto di noi, strette in un intimo abbraccio CRASH sospesi a mezz’aria Sonny e io ci incontrammo, la testa di Sonny salutò la mia... Nove e più anni prima io ero nato con tempie protuberanti mentre quelle di Sonny erano state intaccate dal forcipe; ma ogni cosa ha una sua ragione perché ora le mie tempie protuberanti andarono a inserirsi nelle tacche di Sonny. Una corrispondenza perfetta. Con le teste perfettamente combacianti, iniziammo la discesa verso terra, cadendo per fortuna a una certa distanza dalle bici UUUMMP e per un attimo il mondo scomparve.
Poi Evie con le sue lentiggini in fiamme: «Oh piccolo verme, oh pila di moccio, mi hai fracassato la...». Ma io non l’ascoltavo perché l’incidente sulla pista da circo aveva completato ciò che era cominciato con il disastro del cassone del bucato, e adesso erano lì nella mia testa, ma in primo piano ora, non più come un rumore di fondo soffocato di cui neanche m’ero accorto, tutti quanti, e mandavano i loro segnali eccomi-qui, da nord sud est ovest... gli altri bambini nati in quell’ora di mezzanotte, che gridavano «Io», «Io», «Io» e «Io».
«Ehi! Ehi! Testa di moccio! Sei okay?... Ehi, dov’è sua madre?»
Interruzioni, nient’altro che interruzioni! Le varie parti della mia vita piuttosto complicata si rifiutano, con una testardaggine del tutto irragionevole, di starsene tranquille ciascuna nel proprio scomparto. Voci traboccano dalle loro torri dell’orologio per invadere la pista da circo, che dovrebbe essere territorio di Evie... e ora, nel momento stesso in cui dovrei descrivere i favolosi bambini del tic, tac, vengo portato via dal Postale della Frontiera – condotto a tutta velocità nel mondo in sfacelo dei miei nonni, ed è così che Aadam Aziz s’intromette nello svolgimento naturale del mio racconto. Pazienza. Ciò che non si può guarire, bisogna sopportarlo.
Quel gennaio, durante la mia convalescenza dalla commozione cerebrale provocata dall’incidente con la bicicletta, i miei genitori ci portarono tutti ad Agra per una riunione di famiglia che finì ancor peggio del famoso (e possibilmente fittizio) Buco nero di Calcutta. Per due settimane fummo costretti ad ascoltare Emerald e Zulfikar (che era diventato maggiore-generale e insisteva perché lo chiamassimo generale) che citavano con noncuranza nomi di celebrità e accennavano continuamente alla loro favolosa ricchezza, a quel tempo il settimo patrimonio privato del Pakistan in ordine di grandezza; il loro figlio Zafar cercò (ma solo una volta) di tirare le trecce della Scimmia il cui rosso si stava ormai scolorendo. E fummo costretti a guardare con tacito orrore mio zio Mustapha funzionario pubblico e sua moglie Sonia, semi-iraniana, che a forza di botte e minacce, riducevano alla più totale anonimità la loro nidiata di rampolli senza nome e senza sesso; e l’acre aroma dello zitellaggio di Alia riempiva l’aria e rovinava i nostri pasti; e mio padre si ritirava di buon’ora per iniziare la sua segreta guerra notturna coi ginn; e peggio e peggio e peggio.
Una notte mi svegliai allo scoccare delle dodici e mi trovai in testa il sogno di mio nonno, e da allora non potei più fare a meno di vederlo come lui si vedeva – un vecchio cadente al centro del quale, con la luce giusta, era possibile scorgere un’ombra gigantesca. Man mano che le convinzioni che avevano rafforzato la sua giovinezza avvizzivano sotto l’azione congiunta della vecchiaia, della Reverenda madre e dell’assenza di amici con idee simili, ricompariva nel mezzo del suo corpo un vecchio buco, a fare di lui uno dei tanti vecchi vuoti e inariditi, su cui quel Dio (e altre superstizioni), contro il quale aveva per tanto tempo combattuto, incominciava a riaffermare il proprio dominio... e intanto la Reverenda madre trascorse l’intera quindicina a escogitare vari mezzi meschini per insultare la disprezzata moglie-attrice cinematografica di mio zio Hanif. E fu anche il periodo in cui mi venne affidata la parte del fantasma in una recita di bambini e trovai, in una vecchia borsa di pelle sopra l’almirah di mio nonno, un lenzuolo divorato dalle tarme, ma con il buco più largo fatto da mani umane: e per questa scoperta fui ricompensato (lo ricorderete) coi ruggiti della collera nonnesca.
Ci fu però anche qualcosa di positivo. Feci amicizia con Rashid, il wallah del ricsciò (lo stesso che, da giovane, aveva gridato silenziosamente in un campo di grano e aveva aiutato Nadir Khan a rifugiarsi nel gabinetto di Aadam Aziz); prendendomi sotto la sua protezione – e senza informarne i miei genitori che me lo avrebbero proibito a così poca distanza dall’incidente – mi insegnò ad andare in bicicletta. Al momento di partire, avevo anche questo segreto insieme con gli altri; solo che questo non intendevo tenerlo a lungo nascosto.
... E sul treno che ci riportò a casa, c’erano voci aggrappate all’esterno dello scompartimento: «Ohé, maharaj! Ci apra, eccellenza!» – voci di passeggeri clandestini che lottavano con quelle che avrei voluto ascoltare io, le voci nuove all’interno della mia testa – e poi la Central Station di Bombay e la corsa in macchina sino a casa passando davanti all’ippodromo e al tempio, e ora Evelyn Lilith Burns esige che io finisca la parte a lei dedicata prima di concentrarmi su cose più alte.
«A casa di nuovo!» grida la Scimmia. «Hurrà... Bombay!» (è in disgrazia. Ad Agra ha incenerito gli stivali del generale.)
È un fatto documentato che la Commissione per la riorganizzazione degli Stati aveva presentato il suo rapporto al signor Nehru sin dall’ottobre 1955; un anno dopo, le sue raccomandazioni erano state messe in atto. L’India era stata risuddivisa in quattordici Stati e sei “territori” amministrati dal centro. Ma i confini tra gli Stati non erano costituiti da fiumi o montagne o da altre caratteristiche naturali del terreno; erano soltanto muraglie di parole; il Kerala era per chi parlava il malayalam, la sola lingua al mondo con un nome bifronte, nel Karnataka8 dovevi parlare kanarese; e l’amputato Stato di Madras – chiamato oggi Tamil Nadu – raccoglieva gli aficionados del tamil. Ma, per non so quale svista, non era stato fatto niente per risolvere la questione dello Stato di Bombay; e nella città di Mumbadevi le marce per la lingua divennero sempre più lunghe e rumorose fino a trasformarsi in partiti politici, il Samyukta Maharashtra Samiti (Partito del Maharashtra unito) che si batteva per la lingua marathi e chiedeva la creazione dello Stato del Deccan Maharashtra, e il Maha Gujarat Parishad (Partito del grande Gujarat) che marciava sotto le bandiere della lingua gujarati e sognava uno Stato a nord di Bombay fino alla penisola Kathiawar e al Rann di Kutch... Mi sto eccitando per questa fredda storia, per queste vecchie e morte battaglie tra l’asciutta durezza del marathi nato nell’arida afa del Deccan e la paludosa mollezza da Kathiawari del gujarati, puramente per spiegare come mai, un giorno del febbraio 1957, immediatamente dopo il nostro ritorno da Agra, la Proprietà Methwold si trovò isolata dalla città a causa di una fiumana di salmodiante umanità che inondò Warden Road più ancora delle piogge monsoniche, un corteo talmente lungo che ci mise due giorni a sfilare e a proposito del quale si diceva che la statua di Sivaji avesse preso vita per cavalcare pietrosa alla sua testa. I manifestanti portavano bandiere nere; molti di loro erano bottegai in hartal; molti erano operai tessili in sciopero di Mazagoon e Matunga; ma sulla nostra collinetta non sapevamo nulla dei loro mestieri; per noi bambini l’interminabile scia di formiche dei marciatori per la lingua in Warden Road era solo magneticamente irresistibile come una lampadina per una falena. Era una manifestazione così sterminata, così intensa nelle sue passioni da cancellare dalla mente, come se non fossero mai avvenute, tutte le marce precedenti – e a noi tutti era stato vietato di scendere dalla collina, anche per la più fuggevole delle occhiate. Chi fu allora il più ardito di tutti noi? Chi ci spronò a trascinarci almeno sino a metà della discesa, al punto dove la strada della collinetta voltava bruscamente per fronteggiare Warden Road con una curva a U? Chi disse: «Che motivo c’è d’aver paura? Arriveremo solo a metà strada per dare una sbirciata»...? Gli ingenui disobbedienti indiani seguirono il lentigginoso capo americano. («Hanno ammazzato il dottor Narlikar – sono stati i marciatori» ci ammonì Brillantina con voce tremante. Evie gli sputò sui piedi.)
Ma io, Saleem Sinai, avevo ben altro per la mente. «Evie,» dissi con serena disinvoltura «che ne diresti di guardarmi andare in bicicletta?» Nessuna risposta. Evie era assorta nello spettacolo... Ed era sua l’impronta digitale sulla tacca sinistra da forcipe di Sonny Ibrahim, incastonata nella vaselina in modo che tutti potessero vederla? Per la seconda volta, e con un po’ più di enfasi, dissi: «Lo so fare, Evie. Lo farò sulla bici della Scimmia. Mi vuoi guardare?». Ed Evie, con crudeltà: «Sto guardando questo. È bello. Perché dovrei guardare te?». E io, ora un po’ piagnucoloso: «Ma ho imparato, Evie, tu dovresti...». Urla dalla sottostante Warden Road coprono le mie parole. Ho davanti a me la sua schiena; e la schiena di Sonny e le schiene di Fettadocchio e di Brillantina e il deretano intellettuale di Ciro-il-Grande... mia sorella, che ha visto anche lei l’impronta digitale e che sembra seccata, mi esorta: «Su. Su, falle vedere. Chi crede di essere?». E io monto sulla sua bici... «Lo sto facendo, Evie, guarda!» Pedalando in cerchio, intorno al gruppetto dei bambini. «Vedi? Lo vedi?» Un attimo d’esultanza; e poi Evie, scoraggiante spazientita assolutamente indifferente: «Vuoi toglierti di mezzo, per l’amor del cielo? Io voglio vedere quello!». Dito, unghia rosicchiata e tutto il resto puntano decisi verso la marcia per la lingua; sono stato scartato a beneficio del corteo del Samyukta Maharashtra Samiti! E, nonostante la Scimmia, che da sorella leale dice: «Non è giusto! Sta andando proprio bene!» – e nonostante l’eccitazione della cosa in sé – comincio a perdere la testa; e ora giro intorno a Evie, sempre più in fretta, piangendo e tirando su col naso senza poter controllarmi: «Ma che razza di persona sei? Cosa devo fare per...». E a questo punto qualcos’altro prende il sopravvento, mi rendo conto che non ho bisogno di chiederglielo, mi basta entrare in quella testa lentigginosa e con l’apparecchio in bocca per scoprirlo, una volta tanto posso realmente sapere cosa sta succedendo – ed ecco, ci entro, sempre pedalando, ma la parte anteriore della sua mente è piena di marciatori per la lingua marathi, e ci sono canzonette americane conficcate negli angoli dei suoi pensieri, ma niente che m’interessi; e ora, solo ora, ora per la prima volta, ora mosso dalle lacrime di un amore non corrisposto, comincio a scandagliare... mi sorprendo a spingere, a immergermi, ad aprirmi un varco tra le sue difese... sino al luogo segreto dove c’è un’immagine di sua madre, che indossa un grembiule rosa e tiene sollevato un pesciolino per la coda, e sto frugando sempre più a fondo, dove si nascondono i suoi meccanismi segreti, quando lei ha una sorta di scatto e si volta a guardarmi mentre io pedalo intornoeintornoeintornoeintorno...
«Va’ via!» urla Evie Burns. Portandosi le mani alla fronte. Io pedalando, con gli occhi umidi, mi tuffo sempre più a fondo; fin dove c’è Evie in piedi sulla soglia di una camera da letto in legno e ha in mano, ha in mano qualcosa di affilato e di luccicante da cui sgocciola del rosso, sulla soglia di una, Dio mio, e sul letto una donna, che in un grembiule, Dio mio, ed Evie con il, e il rosso che macchia il rosa, e un uomo che arriva, Dio mio, e no no no no no...
«VA’ VIA VA’ VIA VA’ VIA!» Bambini sconcertati guardano Evie che urla, dimenticando la marcia per la lingua, ma all’improvviso tornano a ricordarsene, perché Evie ha afferrato la parte posteriore della bici della Scimmia COSA STAI FACENDO EVIE e la spinge TI HO DETTO DI ANDAR VIA MASCALZONE VATTENE ALL’INFERNO – Mi ha spinto con tutte le sue forze, e io perdo il controllo, precipito giù per il pendio oltre la fine della curva a U giùgiùgiù, MIO DIO LA MARCIA superando la lavanderia Band Boy, superando la Noor Ville e le Laxmi Vilas, AAAAA, e giù in bocca alla marcia, teste piedi corpi, e la fiumana della marcia si apre quando io arrivo, urlando a squarciagola, entrando fragorosamente nella storia sulla bici incontrollabile di una ragazzina.
Mani afferrano manubri mentre io rallento in mezzo alla folla infiammata. Sorrisi pieni di denti d’oro m’attorniano. Non sono sorrisi amichevoli. «Guarda, guarda, un piccolo laad-sahib scende per unirsi a noi dalla grande collina dei ricchi!» In marathi, lingua che quasi non capisco, è la materia in cui vado peggio a scuola, e i sorrisi domandano: «Vuole iscriversi all’SMS, principino?». E io, comprendendo a fatica quello che mi dicono, ma abbastanza inebetito per dire la verità, scuoto il capo: No. E i sorrisi, «Ahah, al giovane nahab non piace la nostra lingua. Chissà cosa gli piace». E un altro sorriso: «Forse il gujarati. Lei parla gujarati, my lord?». Ma il mio gujarati era pessimo quanto il mio marathi; sapevo solo una cosa nella lingua paludosa del Kathiawar; e i sorrisi, incalzando, e le dita, pungolando: «Parla, padroncino! Parla un po’ gujarati!» e allora dissi quello che sapevo, una poesiola imparata a scuola da Ghiandoloso Keith Colaco, che la usava quando faceva il prepotente coi ragazzi gujarati, una poesiola per prendere in giro le cadenze di quella lingua:
Soo ché? Saru ché!
Danda lé ké maru ché!
Come stai? / Io sto bene! / Ora prendo un bastone e ti carico di botte! Un nonsense; un niente; nove parole vuote... ma quando le declamai, i sorrisi cominciarono a ridere; e poi le voci vicino a me e poi quelle sempre più lontane ripresero la mia nenia: COME STAI? IO STO BENE! e smisero d’interessarsi a me, «Vattene con la tua bicicletta, padroncino!» sghignazzarono, ORA PRENDO UN BASTONE E TI CARICO DI BOTTE! e io volai su per la collina, mentre la mia nenia correva avanti e indietro, su fino alla testa e giù sino alla coda di quel corteo lungo due giorni, diventando, man mano, un canto di guerra.
Quel pomeriggio, la testa del corteo del Samyukta Maharashtra Samiti si scontrò, in Kemp’s Corner, con la testa di una manifestazione del Maha Gujarat Parishad; voci SMS salmodiarono «Soo ché? Saru ché!» e gole MGP si spalancarono infuriate; sotto i manifesti del ragià di Air-India e del Kolynos Kid, i due partiti andarono all’attacco con notevole zelo, e sull’aria della mia poesiola ebbe inizio il primo scontro per la questione della lingua, quindici morti, più di trecento feriti.
In tal modo divenni il diretto responsabile di quell’esplosione di violenza che terminò con la spartizione dello Stato di Bombay, in seguito alla quale la città divenne la capitale del Maharashtra – e così se non altro mi trovai dalla parte vincente.
Cosa c’era nella testa di Evie? Un delitto o un sogno? Non lo scoprii mai; ma avevo imparato un’altra cosa: quando penetri a fondo nella testa di qualcuno, lui ti sente dentro.
Dopo quel giorno, Evelyn Lilith Burns non volle più aver rapporti con me; ma curiosamente, io ero guarito da lei. (Sono sempre state le donne a cambiare la mia vita: Mary Pereira, Evie Burns, Jarmila Singer, Parvati-la-strega devono rispondere di quello che sono; e la Vedova, che tengo in serbo per la fine; e dopo la fine, Padma, la mia dea dello sterco. Sono state insomma le donne a determinarmi, ma forse non furono mai al centro – forse il posto che avrebbero dovuto occupare, quel buco nel centro di me stesso che avevo ereditato da mio nonno Aadam Aziz, fu per troppo tempo occupato dalle mie voci. O forse – bisogna prendere in considerazione tutte le possibilità – mi hanno sempre fatto un po’ paura.)