Pochi mesi dopo, quando Mary Pereira confessò finalmente il suo delitto e rivelò i segreti degli undici anni in cui era stata perseguitata dal fantasma di Joseph D’Costa, apprendemmo che, al ritorno dall’esilio, era rimasta fortemente impressionata dalle condizioni in cui si era ridotto lo spettro in sua assenza. Aveva cominciato a decomporsi, e ora ne mancavano dei pezzi: un orecchio, varie dita di entrambi i piedi, quasi tutti i denti; e nel ventre c’era un buco più largo di un uovo. Afflitta per questo fantasma in rovina, gli chiese (quando fu ben sicura che non ci fosse nessun altro a portata d’orecchio): «Oh Dio, Joe, cos’hai combinato?». Lui rispose che gli era stata decisamente addossata la responsabilità del delitto di Mary finché lei non avesse confessato, e che questo stava avendo effetti disastrosi sul suo organismo. Da quel momento la confessione di Mary divenne inevitabile; e tuttavia ogni volta mi guardava e qualcosa le impediva di farla. Ma era solo questione di tempo.

Intanto, del tutto ignaro di quanto fossi vicino a essere smascherato come un impostore, tentavo di ristabilire i rapporti con una Proprietà Methwold dove erano egualmente avvenute numerose trasformazioni. In primo luogo mio padre sembrava non voler più avere niente a che fare con me, un atteggiamento questo che consideravo crudele ma anche (tenuto conto del mio corpo mutilato) del tutto comprensibile. In secondo luogo c’era un notevole cambiamento nelle condizioni della Scimmia d’ottone. «La mia posizione in famiglia,» fui costretto ad ammettere «è stata usurpata.» Adesso infatti era la Scimmia che mio padre ammetteva nell’astratto rifugio del suo ufficio; la Scimmia che lui stringeva sul suo ventre flaccido e che era costretta a sopportare il peso dei suoi sogni sul futuro. Udii persino Mary Pereira cantare alla Scimmia la canzoncina che era stata il mio leitmotiv da quando ero al mondo: «Quel che vuoi essere,» cantava Mary «tu puoi esserlo. Puoi proprio essere tutto ciò che vuoi!». Persino mia madre pareva essersi adeguata; ed era mia sorella che riceveva sempre la più abbondante porzione di patatine fritte a tavola e i nargisi kofta in più e i migliori pasanda. Mentre io – ogni volta che qualcuno in casa mi metteva casualmente gli occhi addosso – mi accorgevo di una ruga sempre più profonda tra le loro sopracciglia e di un’atmosfera di confusione e di diffidenza. Ma come potevo protestare? La Scimmia aveva tollerato per anni la mia posizione privilegiata. Con la sola possibile eccezione di quando caddi da un albero del nostro giardino dopo che lei mi aveva urtato (e dopo tutto poteva anche essere stato un incidente), aveva sempre accettato la mia supremazia di buona grazia, e persino con lealtà. Ora toccava a me: munendomi di calzoni lunghi, mi si richiedeva di comportarmi da adulto anche rispetto alla mia retrocessione di grado. «Questo diventar grande,» mi dissi «è più difficile di quanto m’aspettassi.»

La Scimmia, devo dire, non era meno stupita di me da questa sua improvvisa elevazione al ruolo di figlio prediletto. Fece del suo meglio per cadere in disgrazia, ma sembrava che non potesse più fare niente che non andasse bene. Erano i tempi del suo flirt con il cristianesimo, dovuto in parte all’influenza delle compagne di scuola europee e in parte alla presenza del rosario di Mary Pereira (che, non potendo andare in chiesa per paura del confessionale, ci bombardava invece di episodi della Bibbia); ma da parte sua, credo, era soprattutto un tentativo di riconquistare la sua vecchia e comoda posizione nel canile di famiglia (e a proposito di cani, la Baronessa Simki era stata eliminata durante la mia assenza, uccisa dalla promiscuità.)

Mia sorella parlava benissimo di Gesù dolce e mansueto; mia madre sorrideva in modo vago e le accarezzava la testa. Girava per casa canticchiando inni; mia madre ne riprendeva i motivi e le faceva coro. Volle un corredo da suora in sostituzione della prediletta uniforme da infermiera; le fu regalato. Infilava ceci in una cordicella e li usava come rosario, mormorando Ave-Maria-piena-di-grazia, e i miei genitori elogiavano la sua abilità con le mani. Tormentata dall’impossibilità di farsi punire, portò all’estremo il suo fervore religioso, recitando il Padre Nostro mattino e sera, digiunando nelle settimane di Quaresima anziché durante il Ramzàn, rivelando una vena insospettata di fanatismo che avrebbe poi improntato la sua personalità; e tuttavia, apparentemente, la si tollerava. Infine ne parlò con me. «Be’ fratello,» disse «sembra proprio che d’ora in avanti io dovrò essere il bravo figliolo e tu potrai sfogarti nei divertimenti.»

Aveva probabilmente ragione; l’evidente perdita d’interesse per me dei miei genitori avrebbe dovuto darmi una maggiore libertà; ma io ero sconvolto dalle trasformazioni che stavano avvenendo in ogni settore della mia vita, e in queste circostanze divertirsi diventava molto difficile. Stavo cambiando anche fisicamente: troppo in anticipo comparve sul mio mento una soffice peluria e la mia voce correva, incontrollabile, su e giù per il registro vocale. Avevo una forte sensazione di assurdità: i miei arti, che si andavano allungando, mi rendevano goffo, e dovevo anche avere l’aspetto di un clown, perché non entravo più nelle camicie e nei pantaloni e venivo fuori sgraziatamente ed eccessivamente da ogni estremità dei miei vestiti. Mi sentivo in certo qual modo vittima di una congiura, ordita da questi indumenti che sbattevano in maniera buffa intorno alle mie caviglie e ai miei polsi, e anche quando mi rivolgevo al mio interno, verso i miei Bambini segreti, trovavo dei cambiamenti che non mi piacevano.

La graduale disgregazione della Conferenza dei bambini della mezzanotte – che si dissolse definitivamente il giorno in cui le truppe cinesi calarono dall’Himalaya a umiliare il fauji indiano – era già in corso. Quando vien meno la novità, s’instaura inevitabilmente la noia, e poi il dissenso. O (per esprimerci in altri termini) quando un dito è mutilato e ne zampillano fontane di sangue, diventa possibile ogni sorta d’abiezione... e le crepe della Conferenza, fossero o no il risultato (attivo-metaforico) della perdita del mio dito, si stavano chiaramente allargando. Su nel Kashmir, Narada-Markandaya già cadeva nei sogni solipsistici dell’autentico narcisista, interessato soltanto ai piaceri erotici dei continui cambiamenti di sesso; mentre Soumitra, il viaggiatore nel tempo, offeso perché avevamo respinto le sue descrizioni di un futuro in cui (a sentir lui) il paese sarebbe stato governato da un vecchio rimbambito e bevitore d’orina che si rifiutava di morire, e la gente avrebbe dimenticato tutto ciò che aveva imparato, e il Pakistan si sarebbe scisso come un’ameba, e i primi ministri d’ambedue le metà sarebbero stati assassinati dai loro successori, che avrebbero avuto entrambi – giurava a dispetto della nostra incredulità – lo stesso nome... l’offeso Soumitra prese a disertare regolarmente le nostre riunioni notturne, sparendo per lunghi periodi nei labirinti a ragnatela del Tempo. E le sorelle di Baud s’accontentavano della loro capacità di ammaliare gli sciocchi, vecchi e giovani. «A che ci serve questa Conferenza?» domandavano. «Noi di innamorati ne abbiamo già fin troppi!» E il nostro alchimista si stava affaccendando in un laboratorio costruito per lui da suo padre (cui aveva rivelato il proprio segreto); assillato dalla pietra filosofale, aveva pochissimo tempo per noi. Ce lo aveva fatto perdere il richiamo dell’oro.

E poi entravano in gioco anche altri fattori. I bambini, per quanto magici, non sono immuni dai propri genitori; e quando i pregiudizi e le visioni del mondo degli adulti cominciarono a impadronirsi delle loro menti, trovai bambini del Maharahtra che odiavano i gujarati e nordisti di pelle chiara che insultavano i “negri” dravidici; c’erano poi rivalità religiose, e anche le classi entrarono nelle nostre assemblee. I bambini ricchi arricciavano il naso trovandosi in umile compagnia; i brahmini cominciavano a sentirsi a disagio quando permettevano anche soltanto ai loro pensieri di entrare in contatto coi pensieri degli intoccabili; mentre, tra quelli di nascita modesta, stavano diventando evidenti le pressioni della miseria e del comunismo... e oltre a questo, c’erano scontri di personalità e le schiamazzanti baruffe che sono inevitabili in un parlamento interamente composto di marmocchi cresciuti solo per metà.

Fu così che la Conferenza dei bambini della mezzanotte esaudì la profezia del Primo ministro e divenne veramente uno specchio della nazione: il modo passivo-letterale era in atto, benché io inveissi contro di esso, con crescente disperazione, e poi sempre più rassegnato... «Fratelli! sorelle!» trasmettevo, con una voce mentale incontrollabile quanto quella fisica «non lasciate che questo avvenga! Non permettete che s’intrometta tra noi la dualità senza fine delle masse-e-delle-classi, del capitale-e-del-lavoro, del loro-e-noi! Noi!» gridavo con passione «dobbiamo essere un terzo principio, dobbiamo essere la forza che si spinge tra i corni del dilemma; perché solo essendo altro, solo essendo nuovi, potremo mantenere la promessa della nostra nascita!» Avevo dei fautori, e nessuno più di Parvati-la-strega, ma li sentivo scivolar via da me, ognuno distratto dalla propria vita... come anch’io, a dire il vero, ero distratto dalla mia. Pareva quasi che il nostro glorioso congresso stesse diventando niente più che un qualunque giocattolo infantile e che i calzoni lunghi stessero distruggendo ciò che la mezzanotte aveva creato... «Dobbiamo accordarci su un programma,» insistevo «su un nostro Piano quinquennale, perché no?» Ma udivo, dietro la mia angosciata trasmissione, la risata divertita del mio rivale numero uno; c’era Shiva nelle nostre teste, e diceva con disprezzo: «No, ragazzino ricco; non esiste un terzo principio; ci sono solo denaro-e-miseria e avere-e-non-avere e destra-e-sinistra; ci sono solo io-contro-tutto-il-mondo! Il mondo non è composto di idee, ragazzino ricco; il mondo non è fatto per i sognatori e per i loro sogni; il mondo è fatto di cose. Sono le cose e quelli che le fabbricano a governare il mondo; guarda Birla e Tata e tutti i potenti; fabbricano cose. È per le cose che il paese viene governato. Non per le persone. Per le cose, America e Russia mandano aiuti; ma cinquecento milioni restano affamati. Quando hai cose, hai anche il tempo di sognare; quando non le hai, combatti». E i bambini ascoltavano affascinati i nostri battibecchi... o forse no, forse neanche il nostro dialogo riusciva a fermare il loro interesse. E allora io: «Ma le persone non sono cose; se ci mettiamo assieme, se ci vogliamo bene, se mostriamo che questo, proprio questo, questa solidarietà tra persone, questa Conferenza, questi bambini che restano amici nella buona e nella cattiva sorte, può essere la terza via...». Ma Shiva, sbuffando: «Sono tutte chiacchiere, ragazzino ricco. Tutta questa importanza-dell’individuo! Tutte queste possibilità-dell’umanità! Oggi, le persone non sono altro che un particolare tipo di cose». E io, Saleem, vicino al crollo: «Ma... il libero arbitrio... la speranza... la grande anima, chiamata anche mahatma, dell’umanità... e la poesia e l’arte e...». Così Shiva colse la sua vittoria: «Lo vedi? Lo sapevo che saresti finito così. Spappolato come riso stracotto. Sentimentale come una nonna. Vattene, non le vuol nessuno le tue stupidaggini. Diavolo, naso-cetriolo, io sono stufo della tua Conferenza. Non ha niente a che vedere con niente».

Voi mi domandate: sono bambini di dieci anni? Io rispondo: Sì, ma. Voi dite: davvero dei decenni, o anche dei quasi undicenni, discutevano sul ruolo dell’individuo nella società? E sulla rivalità tra capitale e lavoro? Venivano davvero rese esplicite le tensioni interne tra zone agricole e industrializzate? E i conflitti tra le varie eredità socio-culturali? Davvero bambini di neanche quattromila giorni discutevano sull’identità e sui conflitti intrinseci del capitalismo? Davvero, dopo aver vissuto meno di centomila ore, contrapponevano Gandhi e Marxlenin, il potere all’impotenza? Davvero la collettività si opponeva all’individualismo? Dio fu ucciso dai bambini? Anche ammettendo la verità dei presunti miracoli, come possiamo credere che dei monelli parlassero come vecchi con la barba?

Rispondo: forse non con queste parole; forse anche senza usar parole, ma nel linguaggio più puro del pensiero; sì, certo, era proprio questo che c’era in fondo a tutto; perché i bambini sono i recipienti in cui gli adulti versano i loro veleni, e fu il veleno degli adulti che ebbe su di noi questo effetto. Il veleno, e dopo un intervallo di alcuni anni, una Vedova con un coltello.

Insomma: dopo il mio ritorno a Villa Buckingham, persino il sale dei Bambini della mezzanotte perse il suo sapore; c’erano notti, ora, in cui non mi prendevo neppure la briga di collegarmi con la mia rete nazionale; e il demone che si nascondeva in me (aveva due teste) era libero di procedere nelle sue diavolerie. (Non ho mai saputo se Shiva fosse colpevole o innocente degli assassinii delle prostitute; ma tale era l’influenza di Kali-Yuga che io, bravo ragazzo e vittima naturale, fui sicuramente responsabile di due morti. Toccò per primo a Jimmy Kapadia; e il secondo fu Homi Catrack.)

Se esiste un terzo principio, si chiama infanzia. Ma muore; o meglio, viene assassinato.

In quei giorni tutti avevamo i nostri guai. Homi Catrack aveva la sua idiota Toxy e gli Ibrahim avevano altre preoccupazioni; il padre di Sonny, Ismail, dopo aver passato anni a corrompere giudici e giurati, rischiava di essere messo sotto inchiesta dal Consiglio dell’Ordine; e lo zio di Sonny, Ishaq, che dirigeva un albergo di seconda categoria, l’Embassy, vicino alla Flora Fountain, era, si diceva, carico di debiti con certi gangster locali e temeva costantemente di essere “fatto fuori” (in quei tempi gli omicidi stavano diventando quotidiani come il caldo)... e quindi forse non stupisce che noi tutti ci fossimo dimenticati dell’esistenza del professor Schaapsteker. (Gli indiani invecchiando diventano sempre più grossi e potenti; ma Schaapsteker era un europeo, e quelli come lui purtroppo con gli anni appassiscono sino a sparire del tutto.)

Ma ora, guidato forse dal mio demone, i miei piedi mi portarono all’ultimo piano di Villa Buckingham, dove trovai un vecchio pazzo, incredibilmente assottigliato e rimpicciolito, la cui stretta lingua dardeggiava in continuazione dentro e fuori le labbra – guizzando, leccando: l’ex ricercatore di contravveleni e assassino di cavalli, Sharpsticker sahib, ora novantaduenne ed estraneo all’Istituto che portava il suo nome, ritiratosi in un buio appartamento all’ultimo piano stipato di piante tropicali e di serpenti in salamoia. L’età, non essendo riuscita a estrargli i denti e le sacche di veleno, lo aveva trasformato nell’incarnazione della serpentinità; come ad altri europei che restano troppo tempo fra noi, le antiche follie dell’India gli avevano messo in salamoia il cervello, ed era arrivato a credere nelle stesse superstizioni degli inservienti dell’Istituto, secondo le quali lui era l’ultimo di una schiatta iniziata quando un cobra reale si era accoppiato con una donna procreando un figlio umano (ma serpentino)... Sembra che in tutta la mia vita mi sia sempre bastato voltare un angolo per imbattermi in un mondo nuovo e favolosamente trasformato. Salite su una scala (o anche su uno scalone) e troverete un serpente che vi aspetta.

Le tende erano sempre tirate; nell’appartamento di Schaapsteker il sole non sorgeva né tramontava, e non ticchettavano orologi. Fu il demone ad attrarci o il nostro comune senso d’isolamento?... Fatto sta che in quei giorni di supremazia della Scimmia e di declino della Conferenza, cominciai a salire il più spesso possibile quelle scale per ascoltare i vaneggiamenti di quel vecchio pazzo sibilante.

Il primo saluto che mi rivolse, quando entrai con passo malfermo nel suo antro mai chiuso a chiave fu: «Vedo, bambino... che ti sei rimesso dal tifo». La frase mescolò il tempo come una pigra nuvola di polvere e mi raggiunse in ciò che ero quando avevo un anno; ricordai allora che Schaapsteker mi aveva salvato la vita col veleno del serpente. Poi, per parecchie settimane, andai a sedermi ai suoi piedi, e lui mi mostrò il cobra che giaceva attorcigliato dentro di sé.

Chi elencò, a mio beneficio, i poteri occulti dei serpenti? (La loro ombra uccide le vacche; se entrano nei sogni d’un uomo, sua moglie concepisce; se vengono uccisi, alla famiglia dell’assassino è negata discendenza maschile per venti generazioni.) E chi mi descrisse – con l’aiuto di libri e di cadaveri impagliati – gli eterni nemici del cobra? «Studia i tuoi nemici, bambino,» sibilava «se non vuoi che t’uccidano»... Ai piedi di Schaapsteker, studiai la mangusta e il cinghiale, il marabù col becco a stiletto e il cervo barasinga che schiaccia sotto i piedi le teste dei serpenti; e l’icneumone egizia e l’ibis; e l’uccello segretario alto un metro e venti, impavido e col becco a uncino, il cui aspetto e il cui nome mi riempirono di sospetti sull’Alice Pereira di mio padre; e la poiana sciacallo, la puzzola e il ratele delle colline; il corridore della strada, il pecari e il formidabile uccello cangamba. Schaapsteker, dagli abissi della sua senilità, mi dava lezioni sulla vita. «Sii saggio, bambino. Imita il comportamento del serpente. Sii segreto: colpisci dal riparo d’un cespuglio.»

Una volta mi disse: «Tu devi considerarmi un secondo padre. Non ti ho forse ridato la vita quando l’avevi perduta?». Con questa affermazione rivelò di subire il mio fascino quanto io subivo il suo: aveva accettato anche lui di appartenere a quella schiera interminabile di genitori che io soltanto avevo il potere di mettere al mondo. E anche se, dopo un certo periodo, trovai troppo opprimente l’aria del suo appartamento e lo lasciai ancora una volta a quell’isolamento dal quale non sarebbe mai più stato distolto, lui mi aveva insegnato come procedere. Divorato dal demone a due teste della vendetta, mi valsi (per la prima volta) dei miei poteri telepatici come di un’arma; e scoprii in tal modo i particolari della relazione tra Homi Catrack e Lila Sabarmati. Lila e Pia erano sempre state rivali in bellezza; e la moglie dell’erede apparente al titolo di ammiraglio della flotta era la nuova amica del magnate cinematografico. Mentre il comandante Sabarmati era in mare per le manovre, Lila e Homi compivano altre manovre per conto proprio; mentre il leone dei mari aspettava la morte dell’ammiraglio allora in carica, anche Homi e Lila prendevano appuntamento con la Grande Mietitrice. (Col mio aiuto.)

«Sii segreto» aveva detto Sharpsticker sahib. Segretamente io spiai il mio nemico Homi e la madre infedele di Fettadocchio e di Brillantina (divenuti di recente molto pieni di sé, precisamente da quando i giornali avevano annunciato che la promozione del comandante Sabarmati era ormai una mera formalità. Solo questione di tempo...) «Donna dissoluta!» sussurrava silenziosamente il demone che stava dentro di me. «Perpetratrice della peggiore delle perfidie materne! Faremo di te un terribile esempio; attraverso di te mostreremo la sorte che attende i lascivi. O adultera distratta! Non hai visto cosa è successo all’illustre Baronessa Simki von der Heiden a forza di fornicare con Tizio e con Caio? E anche lei, per dir le cose come stanno, era una cagna come te.»

Il mio giudizio su Lila Sabarmati si è addolcito con gli anni; dopo tutto noi due avevamo qualcosa in comune – il suo naso, come il mio, era dotato di straordinari poteri. La sua però era una magia puramente mondana; un’increspatura di pelle nasale riusciva a incantare il più austero degli ammiragli; una minuscola vibrazione delle narici accendeva strani fuochi nei cuori dei magnati cinematografici. Sono un po’ pentito di aver tradito quel naso; fu un po’ come pugnalare alla schiena un cugino.

Ciò che scoprii: ogni domenica mattina alle 10, Lila Sabarmati portava in macchina Fettadocchio e Brillantina al cinema Metro per il raduno settimanale del Metro Cub Club. (Si offriva gentilmente d’accompagnare anche gli altri; e così Sonny, Cyrus, la Scimmia e io ci ammucchiavamo nella sua Hindustan di fabbricazione indiana.) E mentre noi ci dirigevamo verso Robert Taylor o Lana Turner o Sandra Dee, il signor Homi Catrack si preparava al suo appuntamento settimanale. Mentre la Hindustan di Lila avanzava scoppiettando lungo i binari della ferrovia, Homi si annodava un foulard di seta color crema intorno alla gola; mentre lei si fermava ai semafori rossi, lui indossava una sahariana in technicolor; mentre lei ci guidava nel buio della platea, lui si metteva un paio d’occhiali da sole con la montatura d’oro; e quando lei ci lasciava a guardare il film, lui pure abbandonava una bimba. Toxy Catrack non mancava mai di reagire alle sue partenze gemendo scalciando agitando le gambe; sapeva quel che stava succedendo e neanche Bi-Appah era in grado di frenarla.

C’erano una volta Radha e Krishna e Rama e Sita e Laila e Majnu; e anche (poiché non possiamo dire di non essere stati toccati dall’Occidente) Romeo e Giulietta e Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Il mondo è pieno di storie d’amore e tutti gli amanti sono in un certo senso gli avatar dei loro predecessori. Quando Lila guidava la sua Hindustan verso un appartamento dalle parti di Colaba Causeway, era Giulietta che usciva sul suo balcone; quando Homi, foulard crema e montatura d’oro, partiva a tutta velocità per incontrarla (su quella stessa Studebaker che un tempo aveva portato d’urgenza mia madre alla Casa di cura del dottor Narlikar), era Leandro che attraversa a nuoto l’Ellesponto per raggiungere la candela accesa di Ero. In quanto alla mia partecipazione alla faccenda – non voglio darle un nome.

Lo confesso: ciò che feci non fu un atto eroico. Non affrontai Homi a cavallo, con occhi ardenti e spada infocata; imitando invece il comportamento del serpente, cominciai a ritagliare pezzi di giornale. Da COMITATO PER LA LIBERAZIONE DI GOA VARA CAMPAGNA SATYAGRAHA, cavai “COM”; PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA DEL PAKISTAN ORIENTALE DICHIARATO MANIACO mi fornì la seconda sillaba, “MAN”. Trovai “DER” nascosto in NEHRU CONSIDERA L’IPOTESI DI DIMETTERSI DAVANTI ALL’ASSEMBLEA DEL CONGRESSO; poi, passando alla seconda parola, tolsi “SAB” da TUMULTI E ARRESTI IN MASSA NEL KERALA IN MANO AI ROSSI: SI SCATENANO SABOTATORI: GHOSH ACCUSA I GOONDA DEL CONGRESSO; e ricavai “ARM” da LE ATTIVITÀ DI FRONTIERA DELLE FORZE ARMATE CINESI VIOLANO I PRINCIPI DI BANDUNG. Per completare il nome estrassi le lettere “ATI” da LA POLITICA ESTERA DI DULLES È INCOERENTE, IMPREVEDIBILE (ERRATIC), DICHIARA IL PRIMO MINISTRO. Ritagliando la storia per adattarla ai miei perfidi fini, m’impadronii di PERCHÉ (WHY) INDIRA GANDHI È ORA IL PRESIDENTE DEL CONGRESSO e tenni il “WHY”; ma poi, rifiutando di legarmi esclusivamente alla politica, passai alla pubblicità per il “DOES YOUR” in IL TUO (DOES YOUR) CHEWINGGUM PERDE SAPORE? P.K. IL SUO SAPORE LO CONSERVA! Un articolo “d’interesse umano” nella rubrica sportiva, CENTRATTACCO DEL MOHUN BAGAN PRENDE MOGLIE (WIFE) mi diede l’ultima parola, e “GO TO” lo trovai nel tragico MASSE VANNO AL (GO TO) FUNERALE DI ABUL KALAM AZAD. Ora però ero di nuovo obbligato a trovar parole nei titoli delle notiziole: MORTE IN SOUTH COL: PRECIPITA UNO SHERPA mi fornì l’indispensabile “COL”, ma “ABA” era difficile da trovare, finché non comparve in una pubblicità cinematografica: ALI-BABA, DICIASSETTESIMA SUPERCOLOSSALE SETTIMANA – LE PIÙ ROSEE PREVISIONI SI STANNO RAPIDAMENTE AVVERANDO... Erano quelli i giorni in cui lo sceicco Abdullah, il Leone del Kashmir, stava chiedendo a gran voce un plebiscito per determinare il futuro del suo Stato; e fu il suo coraggio a darmi la sillaba “CAUSE” perché aveva suggerito il titolo: LA CAMPAGNA DI ABDULLAH CAUSA (CAUSE) DEL SUO NUOVO ARRESTO, DICE UN PORTAVOCE DEL GOVERNO. Poi Acharya Vinobha Bhave, che aveva passato dieci anni a convincer i proprietari terrieri perché regalassero appezzamenti ai poveri con la sua campagna, bhoodan, annunciò che le donazioni avevano superato il livello del milione di acri e varò due nuove campagne, chiedendo donazioni di interi villaggi (gramdan) e di singole vite (jivandan). E quando J.P. Narayan annunciò di voler dedicare la propria esistenza all’opera di Bhave, il titolo NARAYAN SEGUE LA STRADA (WAY) DI BHAVE mi diede la ricercatissima “WAY”: ora avevo quasi finito: strappando un “ON” da IL PAKISTAN VERSO (ON COURSE FOR) IL CAOS POLITICO: LE LOTTE DI FAZIONI TURBANO LA VITA PUBBLICA, e un “SUNDAY” dalla testata del «Sunday Blitz», arrivai al punto che mi mancava ormai soltanto una parola. Furono gli eventi nel Pakistan orientale a fornirmi il finale: LANCIO DI MOBILI UCCIDE VICEPRESIDENTE ASSEMBLEA EST PAKISTAN: PROCLAMATO PERIODO DI LUTTO (MOURNING) dalla quale eliminai, con abilità e con decisione, la lettera “U”. Avevo poi bisogno, per concludere, di un punto interrogativo e lo trovai nell’eterna domanda di quello strano periodo: DOPO NEHRU, CHI?

Nel segreto di una stanza da bagno, incollai il messaggio così completato – mio primo tentativo di riordinare la storia – su un foglio di carta; e, alla maniera di un serpente, m’infilai in tasca il documento come veleno in un sacco. Feci poi astutamente in modo di trascorrere una serata con Fettadocchio e Brillantina. Giocammo a «Delitto nel buio»... Durante il gioco, mi insinuai nell’almirah del comandante Sabarmati e infilai la missiva mortale nella tasca interna della sua divisa di ricambio. In quel momento (inutile nasconderlo) provavo la gioia del serpente che ha centrato il suo bersaglio e sente i propri denti penetrare nel tallone della vittima...

COMMANDER SABARMATI (diceva il mio biglietto)

WHY DOES YOUR WIFE GO TO COLABA

CAUSEWAY ON SUNDAY MORNING?9

No, non sono più fiero di ciò che feci; ma ricordatevi che il mio demone della vendetta aveva due teste. Smascherando la perfidia di Lila Sabarmati, speravo anche di infliggere uno choc salutare a mia madre. Due piccioni con una fava; due donne sarebbero state punite, impalata ognuna su un dente della mia lingua forcuta di serpente. Non è sbagliato dire che quello che sarebbe diventato famoso come il caso Sabarmati iniziò in realtà in uno squallido caffè della zona nord della città, quando un passeggero clandestino assistette a un balletto di mani che giravano l’una intorno all’altra.

Fui segreto; colpii dal riparo di un cespuglio. Cosa mi spinse? Mani al Pioneer Café; telefonate di gente che sbagliava numero, biglietti infilatimi in mano su balconi e passati sotto le lenzuola; l’ipocrisia di mia madre e il dolore inconsolabile di Pia: «Ahi! Ai-ahi! Ai-ahi-ahi!...». Fu un veleno lento il mio; ma, tre settimane dopo, diede i suoi risultati.

Si venne poi a sapere che, una volta trovato il mio biglietto anonimo, il comandante Sabarmati era ricorso ai servigi dell’illustre Dom Minto, il più famoso poliziotto privato di Bombay. (Minto, vecchio e quasi zoppo, aveva a quel punto ridotto le proprie tariffe.) Poi aspettò che gli arrivasse il rapporto di Minto. E allora:

Quella domenica mattina, sei bambini sedevano in fila al Metro Cub Club e guardavano Francis il mulo parlante e la casa stregata. Come vedete, io avevo un alibi: ero ben lontano dal luogo del delitto. Come Sin, la luna crescente, agivo a distanza sulle maree del mondo... mentre un mulo parlava sullo schermo, il comandante Sabarmati si recò all’arsenale della flotta. Firmò la ricevuta di una solida rivoltella a canna lunga, nonché delle relative munizioni. Teneva nella mano sinistra un foglietto su cui la mano ferma di un poliziotto privato aveva scritto un indirizzo; teneva nella destra l’arma già estratta dalla fondina. A bordo di un taxi, il comandante arrivò in Colaba Causeway. Pagò la corsa, scese con la rivoltella in mano uno stretto vicoletto, fiancheggiato da banchetti di camicie e da negozi di giocattoli, e salì le scale di una casa d’appartamenti posta a una certa distanza dal vicolo, in fondo a un cortile di cemento. Suonò il campanello dell’appartamento 18C; lo udì al 18B un insegnante anglo-indiano che stava dando una lezione privata di latino. Quando la moglie del comandante Sabarmati, Lila, venne ad aprire, lui le sparò due colpi al ventre a distanza ravvicinata. Lei cadde all’indietro; lui procedette oltre e vide il signor Homi Catrack che si stava alzando dalla toilette, con il sedere non ancora nettato, e cercava freneticamente di tirarsi su i pantaloni. Il comandante Vinoo Sabarmati gli sparò un colpo sui genitali, uno al cuore e il terzo all’occhio destro. E quando la rivoltella ebbe finito di parlare, calò nell’appartamento un enorme silenzio. Il signor Catrack, una volta colpito, tornò a sedersi sulla toilette e sembrava sorridere.

Il comandante Sabarmati uscì dalla casa con la pistola ancora fumante in mano (lo vide, attraverso una fessura della porta, un terrorizzato ripetitore di latino); e poi si mise a camminare per Colaba Causeway finché non vide un vigile sul suo piccolo podio. Il comandante Sabarmati disse al vigile: «Poco fa ho ucciso mia moglie e il suo amante con quest’arma; mi consegno nelle sue...». Ma nel dire questo agitava la rivoltella sotto il naso del vigile, e costui si spaventò al punto che lasciò cadere il bastone con cui regolava il traffico e fuggì. Il comandante Sabarmati, rimasto solo sul piedestallo del vigile in mezzo a un traffico divenuto improvvisamente caotico, cominciò a regolare il passaggio delle auto adoperando come bastone la pistola fumante. Fu così che lo trovò una squadra di dodici poliziotti, arrivati dieci minuti dopo, che gli saltarono coraggiosamente addosso, gli immobilizzarono mani e piedi e gli tolsero l’insolito bastone con il quale per dieci minuti aveva abilmente diretto il traffico.

Un giornale disse del caso Sabarmati: «È un teatro in cui l’India scoprì chi era, che cos’è e cosa può diventare»... Ma il comandante Sabarmati era solo una marionetta; il burattinaio ero io e la nazione stava rappresentando la mia commedia – solo che non era stata questa la mia intenzione! Non sapevo che lui... volevo soltanto... uno scandalo, sì, uno spavento e una lezione per tutte le mogli e le madri infedeli, ma non questo, no, mai.

Inorridito dal risultato delle mie azioni, mi lasciai trasportare dalle turbolente onde del pensiero della città... all’Ospedale generale parsi, un medico disse: «Begum Sabarmati vivrà, ma dovrà stare attenta a quel che mangia»... Ma Homi Catrack era morto. E chi fu assunto come avvocato per la difesa? – Chi disse: «Io lo difenderò gratis e per niente?» – Chi, già vincitore del Caso del congelamento, divenne ora il campione del comandante? Sonny Ibrahim disse: «Se qualcuno può tirarlo fuori, è solo mio padre».

Il comandante Sabarmati fu l’assassino più popolare dell’intera storia della giurisprudenza indiana. Mariti acclamavano la punizione inflitta a una moglie adultera; donne fedeli si sentivano giustificate nella loro fedeltà. All’interno dei figli di Lila, trovai questi pensieri: «Noi sapevamo che lei era così. Sapevamo che un ufficiale di marina non l’avrebbe mai sopportato». Un collaboratore dello «Illustrated Weekly of India», in un suo “ritratto” che accompagnava la caricatura in policromia del comandante quale “Personalità della settimana” scrisse: “Nel caso Sabarmati, i nobili sentimenti del Ramayana si fondono con lo smaccato melodramma dei film di Bombay; ma per quanto riguarda il protagonista, tutti concordano sulla sua rettitudine; è senza alcun dubbio un tipo interessante”.

La mia vendetta su mia madre e su Homi Catrack aveva provocato una crisi nazionale... perché, secondo i regolamenti della Marina, un uomo che era stato detenuto in un carcere civile non poteva aspirare al titolo di ammiraglio della Flotta. Di conseguenza ammiragli, uomini politici e naturalmente Ismail Ibrahim proposero: «Il comandante Sabarmati deve stare in un carcere navale. È innocente finché non verrà provata la sua colpevolezza. Non bisogna rovinargli la carriera se appena è possibile evitarlo». E le autorità: «Sì». E il comandante Sabarmati, al sicuro nella prigione della Marina, scoperti gli inconvenienti della fama – inondato di telegrammi di solidarietà, aspettava il processo; la sua cella era piena di fiori e, benché avesse chiesto una dieta ascetica di riso e acqua, i suoi tifosi lo sommergevano di portavivande colmi di biriani e di pista-ki-lauz e di altri cibi succulenti. E, aggirando la coda, il processo alla Corte d’Assise cominciò rapidissimamente... L’accusa disse: «L’imputazione è omicidio di primo grado».

Mascelle rigide, occhi decisi, il comandante Sabarmati replicò: «Non colpevole».

Mio padre disse: «Oh Dio, pover’uomo, è molto triste, eh?».

Io dissi: «Ma essere una moglie infedele è una cosa terribile, amma...» e lei volse la testa altrove.

L’accusa disse: «Questo è un caso estremamente semplice. Abbiamo il movente, l’occasione, la confessione, il cadavere e la premeditazione; la rivoltella con la firma sulla ricevuta, i bambini mandati al cinema, il rapporto dell’investigatore privato. Cos’altro dire? L’accusa ha finito».

E l’opinione pubblica: «Un così brav’uomo, Allah!».

Ismail Ibrahim disse: «È un caso di tentato suicidio».

Al che l’opinione pubblica: «????????».

Ismail Ibrahim spiegò: «Quando il comandante ebbe in mano il rapporto di Dom Minto, volle verificare coi propri occhi se esso corrispondeva al vero; e in questo caso, decise, si sarebbe ucciso. Andò dunque a quell’indirizzo di Colaba spinto soltanto dalla disperazione; non come un assassino, ma come un cadavere! Ma lì – vedendo lì sua moglie, signori della giuria! – vedendola seminuda con il suo spudorato amante! – signori della giuria, questo brav’uomo, questo grand’uomo vide rosso. Assolutamente rosso, e fu mentre vedeva rosso che compì le sue azioni. Non esiste dunque premeditazione, e quindi neanche omicidio di primo grado. Ha ucciso sì, ma non a sangue freddo. Signori della giuria, dovete giudicarlo non colpevole di ciò di cui è imputato».

E a ronzare in città erano frasi come: «No, è troppo... Stavolta Ismail Ibrahim ha esagerato... ma, ma... ha una giuria composta in maggioranza di donne... e non ricche... e quindi doppiamente sensibili al fascino del comandante e al portafogli dell’avvocato... chissà? Chi lo può dire?».

La giuria disse: «Non colpevole».

Mia madre gridò: «Oh, meraviglioso... Ma, ma: è giustizia?» E il giudice, rispondendole: «Servendomi dei poteri che mi sono stati conferiti, revoco questo assurdo verdetto. Colpevole di ciò di cui è imputato».

Oh, la furia selvaggia di quei giorni! Dignitari della Marina, vescovi e altri politici chiedevano: «Sabarmati deve rimanere nel carcere della Marina in attesa dell’appello presso l’Alta Corte! Il fanatismo di un giudice non deve rovinare questo grand’uomo!». E le autorità di polizia capitolando: «Benissimo!». Il caso Sabarmati si sta arrampicando di corsa, sta volando verso l’udienza dell’Alta Corte a una velocità senza precedenti... e il comandante dice al suo avvocato: «Mi sembra che non sia più il destino a controllare la mia vita; che abbia preso il sopravvento qualcos’altro... chiamiamolo Fato».

Io dico: «Chiamalo Saleem o Nasochecola o Tirasucolnaso o Facciamacchiata; chiamalo piccolo-quarto-di-luna».

Il verdetto dell’Alta Corte: «Colpevole di ciò di cui è imputato». I titoli dei giornali: SABARMATI FINALMENTE IN UN CARCERE CIVILE? Dichiarazione di Ismail Ibrahim: «Andremo fino in fondo! Fino alla Corte suprema!». E ora, la bomba. Un comunicato del Primo ministro dello Stato in persona: «È cosa grave fare un’eccezione alla legge; ma considerando i servizi resi dal comandante Sabarmati al paese, io permetto che resti affidato alla custodia della Marina in attesa della decisione della Corte suprema».

E altri titoli di giornali, pungenti come zanzare: IL GOVERNO DELLO STATO DISPREZZA LA LEGGE! LO SCANDALO SABARMATI DIVENTA UN’IGNOMINIA PUBBLICA!... Quando mi accorsi che la stampa si era messa contro il comandante, compresi che per lui era finita.

Il verdetto della Corte Suprema: «Colpevole».

Ismail Ibrahim disse: «La grazia! Chiediamo la grazia al presidente dell’India!».

E ora grandi questioni devono essere soppesate a Rashtrapati Bhavan – dietro i cancelli della Residenza presidenziale, un uomo deve decidere se un uomo può essere posto al di sopra della legge; se si deve trascurare l’assassinio dell’amante di una moglie in nome di una carriera in marina; e cose ancor più elevate – deve l’India dare la propria approvazione al primato della legge o all’antico principio della dominante supremazia degli eroi? Se Rama fosse vivo, lo manderemmo in prigione perché ha ucciso il rapitore di Sita? Grosse questioni; la mia vendicativa irruzione nella storia del mio tempo non fu certo una cosa da poco.

Il presidente dell’India disse: «Non grazierò quell’uomo».

Nussie Ibrahim (il cui marito aveva perso il suo più grosso processo) gemette: «Ahi! Ai-ahi!». E ripeté una sua precedente osservazione: «Sorella Amina, che quel brav’uomo vada in prigione – credimi, è la fine del mondo!».

Una confessione trema appena oltre le mie labbra: “È stata tutta opera mia, amma; volevo darti una lezione. Non andar più, amma, a incontrarti con altri uomini che portano ricami di Lucknow sulla camicia; basta, madre, con i baci alle tazze da tè! Porto i calzoni lunghi adesso, e posso parlarti come un uomo”. Ma queste parole non mi uscirono mai di bocca; non ce ne fu bisogno, perché udii mia madre rispondere a una telefonata di chi sbagliava numero – e, con una strana voce sommessa, dichiarare al microfono quanto segue: «No, qui non c’è nessuno che si chiami così; creda, per favore a ciò che le dico e non mi richiami mai più».

Sì, avevo dato una lezione a mia madre; e dopo il caso Sabarmati non vide più il suo Nadir-Qasim in carne e ossa, mai più finché visse; ma, costretta a fare a meno di lui, rimase vittima della sorte di tutte le donne della nostra famiglia, cioè della maledizione d’invecchiare prima del tempo; cominciò a rimpicciolire e il suo incedere zoppicante divenne più pronunciato e apparve nei suoi occhi il vuoto della vecchiaia.

La mia vendetta portò sulla sua scia una serie di sviluppi imprevisti, il più spettacolare fu forse la comparsa nei giardini della Proprietà Methwold di strani fiori di legno e metallo, dipinti a mano con grandi caratteri rossi... i cartelli fatali eretti in tutti i giardini tranne il nostro, a dimostrare che i miei poteri andavano persino oltre la mia comprensione e che, dopo essere stato a suo tempo esiliato dalla mia collinetta a due piani, ero finalmente riuscito a scacciarne tutti gli altri.

Cartelli nei giardini di Villa Versailles, di Villa Escorial e di Sans Souci; cartelli che si scambiavano piccoli inchini nella brezza marina dell’ora del cocktail. Su ognuno si potevano scorgere le stesse sette lettere, tutte d’un rosso acceso, tutte alte trenta centimetri: VENDESI. Tale era il messaggio dei cartelli.

VENDESI – Villa Versailles, il cui proprietario era morto sul sedile di una toilette; se ne occupò la feroce infermiera Bi-Appah per conto della povera idiota Toxy; conclusa la vendita, assistente e assistita sparirono per sempre, e Bi-Appah teneva in grembo una valigia rigonfia di banconote... non so cosa accadde poi a Toxy ma, considerando l’avidità della sua infermiera, penso proprio niente di buono... VENDESI, l’appartamento Sabarmati a Villa Escorial; Lila Sabarmati, cui fu negata la custodia dei suoi figli, sparì dalla nostra vita, mentre Fettadocchio e Brillantina fecero i bagagli e partirono affidati alle cure della Marina indiana, che si era posta in loco parentis in attesa che il loro padre finisse di scontare i suoi trenta anni di carcere... VENDESI anche la Sans Souci degli Ibrahim, perché l’Embassy Hotel di Ishaq Ibrahim era stato dato alle fiamme dai gangster il giorno stesso della sconfitta definitiva del comandante Sabarmati, come se la malavita della città avesse voluto punire la famiglia dell’avvocato per il suo fallimento; e poi Ismail Ibrahim fu sospeso dall’albo, a motivo di certe prove di scorrettezza professionale (per citare il rapporto del Consiglio dell’Ordine di Bombay); finanziariamente “in imbarazzo” anche gli Ibrahim uscirono dalle nostre vite; e infine VENDESI l’appartamento di Cyrus Dubash e di sua madre, perché durante il gran trambusto del caso Sabarmati, e quasi senza che nessuno se ne accorgesse, il fisico nucleare era morto soffocato dai semi d’arancia, scatenando così su Cyrus il fanatismo di sua madre e mettendo in moto le ruote di quel periodo di rivelazioni che sarà l’argomento del mio prossimo capitoletto.

I cartelli si scambiavano inchini nei giardini, che stavano perdendo qualsiasi memoria dei pesci rossi e delle ore del cocktail e delle invasioni dei gatti; ma chi li fece abbattere? Chi furono gli eredi degli eredi di William Methwold?... Uscirono sciamando da quella che era stata un tempo la dimora del dottor Narlikar: donne panciute e grossolanamente capaci divenute ancor più grasse e competenti che mai, grazie alla ricchezza prodotta dai tetrapodi (erano gli anni delle grandi bonifiche). Le donne Narlikar – dalla Marina acquistarono l’appartamento del comandante Sabarmati e dalla signora Dubash in partenza la casa del suo Cyrus; pagarono anche Bi-Appah con banconote usate e tacitarono i creditori degli Ibrahim con il contante dei Narlikar.

Mio padre, unico di tutti i residenti, si rifiutò di vendere; gli offrirono somme enormi, ma lui scuoteva il capo. Gli spiegarono il loro sogno – che consisteva nel radere al suolo gli edifici e nell’erigere sulla collinetta a due piani un palazzo che si sarebbe alzato al cielo per trenta piani, un trionfale obelisco rosa, un segno del loro futuro; Ahmed Sinai, perduto nelle sue astrazioni, non volle neanche sentirne parlare. Gli dissero: «Quando sarà circondato da macerie, dovrà vendere per quattro soldi», ma lui (ricordando la loro perfidia tetrapodale) rimase impassibile.

Andandosene, Nussie-l’anatroccola disse: «Te l’avevo detto, sorella Amina – è la fine! La fine del mondo!». Stavolta aveva insieme torto e ragione; dopo l’agosto 1958, il mondo continuò a girare; ma il mondo della mia infanzia era effettivamente finito.

Padma – quando eri piccola lo avevi un tuo mondo? Una piccola sfera sulla quale erano stampati i continenti e gli oceani e il ghiaccio polare? Due emisferi di metallo dozzinale tenuti assieme da un sostegno di plastica? No, naturalmente no; ma io sì. Era un mondo pieno d’etichette: Oceano Atlantico e Amazzonia e Tropico del Capricorno. E, sul Polo Nord, la scritta MADE IN ENGLAND. Nell’agosto dei cartelli che si scambiavano inchini e della rapacità delle donne Narlikar, questo mondo di latta aveva perso il suo sostegno; trovai dello scotch e reincollai la terra all’Equatore e poi, avendo la mia voglia di giocare travolto il mio rispetto, cominciai a usarla come pallone. Subito dopo il caso Sabarmati, mentre l’aria era satura del pentimento di mia madre e delle tragedie personali degli eredi di Methwold, io facevo risuonare la mia sfera di latta per tutta la Proprietà, convinto che il mondo fosse ancora tutto d’un pezzo (sebbene tenuto assieme dal nastro adesivo) e per di più ai miei piedi... finché, il giorno dell’ultimo lamento escatologico di Nussie-l’anatroccola – il giorno in cui Sonny Ibrahim cessò di essere Sonny-il-vicino-di-casa – mia sorella, la Scimmia d’ottone, piombò su di me inspiegabilmente furiosa, gridando: «Oh Dio, smettila di tirar calci, fratello; non ti senti neanche un po’ male quest’oggi?». E, spiccando un gran salto in aria, andò ad atterrare con entrambi i piedi sul Polo Nord e schiacciò il mondo nella polvere del nostro vialetto d’accesso sotto i suoi talloni infuriati.

Evidentemente, la partenza di Sonny Ibrahim, il suo oltraggiato adoratore, che lei stessa aveva spogliato nudo in mezzo alla strada, aveva turbato la Scimmia d’ottone, nonostante la sua persistente negazione della possibilità d’amare.

9 «Comandante Sabarmati, perché sua moglie va in Colaba Causeway la domenica mattina?» (NdT)