Se uno scimpanzé potesse partecipare al reality show Survivor probabilmente distruggerebbe gli altri concorrenti. Non solo in senso letterale – uno scimpanzé adulto è dotato di una dentatura notevole ed è abbastanza forte per fare a pezzi un uomo – ma anche in termini di abilità di sopravvivenza. Gli scimpanzé sono problem solver astuti, tenaci ed estremamente intelligenti. Se dovessi puntare dei soldi sul probabile sopravvissuto in un gruppo di individui di specie diverse paracadutati in un ambiente selvaggio e sconosciuto, scommetterei su uno scimpanzé. Un uomo non si piazzerebbe nemmeno nella cinquina dei finalisti. Un uomo solo catapultato in un ambiente ignoto ha i giorni contati.1 Tuttavia, uno scimpanzé che partecipasse a Survivor sarebbe uno dei primi a dover lasciare l’isola, almeno dopo la “fusione”, quando le due tribù concorrenti si uniscono in un’unica formazione. È questa la ragione per cui gli esseri umani godono di un vantaggio considerevole: trascorriamo la maggior parte del nostro tempo in una versione su larga scala della “fusione”, in cui la sopravvivenza non dipende principalmente dalla forza fisica o dall’intelligenza individuale, ma dalle abilità sociali. Di certo aiuta essere forti o bravi ad accendere un falò o a cacciare, ma i concorrenti di Survivor che arrivano in finale tendono a essere quelli capaci di formare coalizioni, negoziare alleanze e manipolare gli altri con astuzia.2 Per un periodo molto lungo, la principale sfida adattiva per gli esseri umani sono stati gli altri esseri umani, e non l’ambiente fisico. Sapere come trovare l’acqua nel deserto è importante, ma nemmeno lontanamente essenziale come imparare come condividere quell’acqua con altri esseri umani, negoziare la divisione del lavoro nel trasportare l’acqua fino all’accampamento e capire chi potrebbe provare a rubare la vostra razione d’acqua quando vi girate dall’altra parte.
Questa osservazione è fondamentale per risolvere l’enigma del perché ci piace così tanto sbronzarci. L’uomo è l’unica specie che si ubriaca in maniera deliberata, sistematica e regolare. La rarità di tale comportamento non è sorprendente, visti i costi che comporta. Ciò che è sorprendente è perché, malgrado tutto, gli esseri umani insistano a farlo. Come abbiamo visto, la voglia di sostanze inebrianti non sembra essere un accidente evolutivo, data la sua persistenza a fronte delle pressioni evolutive di segno opposto e l’esistenza di “soluzioni” genetiche e culturali. Le teorie del dirottamento e del doposbornia non sembrano essere soluzioni adeguate. Ma questo non spiega a cosa serva ubriacarsi.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima comprendere le difficoltà specifiche a cui deve far fronte l’essere umano. Le specie nascono e sopravvivono adattandosi a una particolare nicchia ecologica. Questa espressione si riferisce in parte alla posizione di una specie nell’ecosistema locale, cioè se è preda o predatrice, erbivora o carnivora. Ma soprattutto, il termine si riferisce al repertorio di metodi grazie ai quali la specie è riuscita a occupare il suo posto, procurandosi il cibo e un riparo, nascondendosi o cacciando e interagendo con i membri della stessa specie e le altre specie. I cambiamenti graduali messi in atto nelle popolazioni man mano che si adattano a una nuova nicchia vanno annoverati fra i fattori che permettono a una nuova specie di emergere. Dal momento che le nicchie ecologiche favoriscono la specializzazione, possono crearsi situazioni molto strane.3
Prendiamo in considerazione il tetra messicano, un piccolo pesce d’acqua dolce che gli appassionati di acquari conoscono molto bene. Questa specie si è evoluta in due forme estremamente diverse, dato che alcune sottopopolazioni sono arrivate a vivere esclusivamente nelle grotte sotterranee e non più nei fiumi di superficie. Il tetra delle caverne si è gradualmente adattato all’ambiente privo di luce diventando completamente bianco e, in modo ancor più eclatante, perdendo gli occhi. La pigmentazione è utile nelle acque colpite dai raggi solari e permette ai pesci di mimetizzarsi. Allo stesso modo, gli occhi e i circuiti neurali necessari per il loro funzionamento sono un ottimo investimento negli ambienti in superficie, dove sono essenziali per individuare le prede e riconoscere i predatori. Nel mondo buio delle caverne, tuttavia, la pigmentazione e la funzione visiva sono inutili, perciò le pressioni adattive hanno favorito gli individui che potevano fare a meno di queste caratteristiche fisiologiche onerose ma inutili. Il tetra di caverna, bianco e cieco, sarà bizzarro quanto vogliamo, ma si è perfettamente adattato alla sua nuova e tenebrosa nicchia ecologica, dove caccia le prede servendosi dell’olfatto e del tatto. Ormai però non c’è modo di tornare indietro: se venisse trasferito nel mondo luminoso e colorato di un fiume in superficie, il tetra farebbe una brutta fine. Si è adattato alle caverne, e lì deve rimanere.
Fra i primati, l’uomo si trova in una situazione non dissimile da quella del tetra delle caverne. Homo sapiens ha conquistato il suo impressionante successo adattandosi a una nicchia ecologica estrema e insolita, molto diversa da quella abitata dai suoi antenati e dai primati odierni. Proprio come il tetra delle caverne non può sopravvivere nel terrificante mondo luminoso dei fiumi di superficie, l’uomo è diventato così dipendente dalla cultura che non può più vivere senza.4
Per esempio, una delle primissime, e più basilari, tecnologie a cui ci siamo adattati come specie è il fuoco. Come osserva il primatologo Richard Wrangham, il fuoco è utile in molti modi, non ultimo il fatto che ci permette di cuocere la carne e le verdure.5 Il cibo cotto è più facile da mangiare e da digerire, il che implica che i primi umani o proto-umani in grado di padroneggiare il fuoco non avevano più bisogno di mandibole enormi, denti robusti e complicati sistemi digerenti di cui gli scimpanzé, per esempio, non possono fare a meno per sostenere una dieta a base di frutta coriacea e fibrosa e carne cruda. Ciò consentì ai primi uomini a reindirizzare queste risorse fisiologiche per rinforzare altre parti anatomiche, come per esempio il cervello, che consuma molta energia. Come nel caso del tetra privo di occhi, questa perdita ci ha reso più efficienti nel nostro nuovo ambiente caratterizzato da cibi cotti, e quindi predigeriti, ma ci ha reso anche dipendenti dal fuoco. Nell’adattarsi alla nicchia ecologica che includeva l’utilizzo del fuoco, la nostra linea di ominidi perse la capacità di sopravvivere nutrendosi esclusivamente di cibi crudi. (Con buona pace dei crudisti contemporanei.)
Così, una caratteristica della “caverna” a cui gli uomini si sono adattati è che fornisce il fuoco, oltre ad altre tecnologie culturali basilari. Inoltre fornisce il linguaggio e informazioni culturali incredibilmente preziose, cosa che spiega i molteplici adattamenti umani a padroneggiare le lingue e a imparare dagli altri. Rispetto all’ambiente a cui si è adattata in origine la linea evolutiva dell’uomo, la nostra “caverna” è affollata di estranei, individui con cui non abbiamo alcuna parentela ma con cui dobbiamo in qualche modo cooperare. Vivere in un ambiente simile è impegnativo dal punto di vista cognitivo, poiché richiede non solo la capacità di padroneggiare una miriade di tecnologie culturali e norme artificiali, ma anche quella di produrne di nuove.
Vivere in questa nicchia, pertanto, esige creatività individuale e collettiva, costante cooperazione, tolleranza per gli estranei e la folla e un grado di apertura e fiducia pressoché ineguagliati fra i nostri cugini primati. Rispetto agli scimpanzé, fieramente individualisti e instancabilmente competitivi, noi umani siamo come dei cuccioli un po’ tonti e scodinzolanti. Siamo pateticamente docili, alla disperata ricerca di affetto e contatto sociale, e terribilmente vulnerabili allo sfruttamento. Come rileva l’antropologa e primatologa Sarah Blaffer Hrdy, è notevole che centinaia di persone si schiaccino come sardine in un minuscolo aeroplano, si allaccino obbedienti le cinture di sicurezza, mangino i loro pacchetti di cracker raffermi, guardino film, leggano giornali e chiacchierino amabilmente con i vicini di posto, per poi mettersi in fila educatamente una volta giunti a destinazione. Se stipassimo altrettanti scimpanzé su un aereo, all’atterraggio ci ritroveremmo con una fusoliera imbrattata di sangue e piena di corpi smembrati.6 Gli umani hanno molto successo in gruppo proprio perché sono deboli come individui, pateticamente ansiosi di connettersi fra loro, e del tutto dipendenti dal gruppo per la sopravvivenza.
Ho paragonato gli esseri umani ai tetra ciechi e ai cuccioli, ma da questo punto di vista un’altra analogia è ancora più appropriata: quella con gli insetti sociali, come le formiche o le api.7 Rispetto ad altri primati, siamo straordinariamente socievoli e cooperativi: non solo ce ne stiamo seduti buoni buoni in aereo, ma lavoriamo insieme per costruire case, ci specializziamo in competenze differenti e viviamo vite che sono indirizzate dal nostro ruolo specifico all’interno del gruppo.
Tutto considerato, una bella impresa per un primate, tenendo conto della nostra storia evolutiva più recente. Vivere in un formicaio è semplicissimo e non richiede chissà quale cervello (letteralmente): le formiche condividono gli stessi geni, perciò sacrificarsi per il bene comune non è un sacrificio vero e proprio. Se sono una formica, il bene comune è il mio bene. Gli uomini, invece, sono scimmie, evolutesi per cooperare solo in modo limitato con i parenti più stretti e al massimo con i membri della stessa tribù, attentissime a non farsi manipolare, ingannare o sfruttare dagli altri. Eppure marciamo nelle parate, ce ne stiamo seduti in file obbedienti a ripetere la lezione, ci conformiamo alle norme sociali, e qualche volta sacrifichiamo la nostra vita per il bene comune con un entusiasmo che farebbe vergognare una formica guerriera. Cercare di trasformare un primate irrimediabilmente individualista in un insetto sociale è alquanto difficile. Ma, come vedremo, l’ebbrezza può venirci in aiuto.
I polli non sono così stupidi come potreste pensare. Discendenti del Gallus gallus, una specie nativa del sud-est asiatico, nel processo di addomesticazione hanno subito un numero sorprendentemente ridotto di conseguenze negative in termini cognitivi. Il pollo d’allevamento medio è intelligente più o meno quanto il suo cugino selvatico, in grado di operare con numeri e relazioni logiche elementari, ragionare in termini di causa ed effetto, assumere il punto di vista altrui e sperimentare l’empatia.8
Si tratta di capacità e comportamenti cognitivi impressionanti, che tuttavia sono innati. I polli non sono stupidi, più che altro sono rigidi e duri di comprendonio: quello che riescono a fare quando hanno due settimane di vita andranno avanti a farlo per sempre. La cosa non dovrebbe stupirci, dato che i biologi classificano i polli come uccelli “precoci”. Escono dall’uovo già formati, dotati di penne e pronti a mettersi subito all’opera, la testolina già piena di tutto quello che gli servirà sapere della nicchia ecologica relativamente ristretta a cui si sono adattati. Il che significa, a quanto pare, che possono partire in quarta, cosa che presenta ovvi vantaggi.
Altre specie di uccelli, definiti “altriciali”, alla nascita sono più o meno inetti. Escono dall’uovo nudi e ciechi, incapaci di muoversi o di nutrirsi da soli. La prospettiva del volo è solo un sogno lontano. Sono del tutto impreparati a sopravvivere senza un notevole investimento parentale, spesso per periodi relativamente lunghi. La cornacchia della Nuova Caledonia, per esempio, deve aspettare due anni prima di potersi arrangiare da sola, e spesso rimane con i genitori anche per quattro anni, scroccando da mangiare e imparando a combinare qualcosa. Dato che le cornacchie non sono animali longevi, questo periodo rappresenta una porzione sorprendentemente significativa della loro vita.9
A prima vista, la strategia del pollo sembra decisamente migliore. Chi ve lo farebbe fare, come specie, di accollarvi degli adolescenti inetti e mammoni che rubano il latte dal frigorifero e lasciano in giro i vestiti sporchi? Visti gli ovvi vantaggi di uscire dall’uovo già bell’e pronti per affrontare il mondo, è difficile capire come o perché si sia evoluta la strategia altriciale, e perché le specie nate come altriciali non si siano evolute in specie precoci.
Svilupparsi troppo presto, però, ha degli svantaggi, come hanno scoperto a loro spese molti re e reginette del ballo di fine anno alla rimpatriata del liceo. Gracilini e vittime dei bulli, gli sfigati maniaci di computer e giochi di ruolo spesso si trasformano in adulti colti, cosmopoliti e di successo. In modo simile, le cornacchie appena uscite dall’uovo, così debolucce e spelacchiate – che quegli arroganti dei polli avrebbero rinchiuso negli armadietti e rubato loro i soldi del pranzo – crescono fino a diventare animali incredibilmente creativi e dotati di una stupefacente flessibilità comportamentale.
Le cornacchie fanno parte di una famiglia di uccelli denominata “corvidi”, che include anche i corvi e le ghiandaie. I corvidi sono in grado di costruire utensili che richiedono numerosi passaggi cumulativi (come per esempio rametti modellati a forma di uncino o foglie ritagliate in forme particolari), portando con loro questi utensili durante le uscite in cerca di cibo (cosa che dimostra programmazione e capacità di pianificazione) e utilizzandoli per snidare gli insetti da luoghi inaccessibili.10 Hanno una memoria impressionante, dimostrata dalla capacità di nascondere il surplus di cibo su un’ampia area geografica. La caratteristica più stupefacente, però, è la strabiliante intelligenza sociale. Un corvide, se viene sorvegliato da un suo simile mentre nasconde il cibo, aspetterà che il potenziale ladruncolo si distragga per tornare a recuperare il bottino più tardi. Oppure nasconderà del cibo finto, come sassolini simili a noci, o, ancora, trascinerà l’incauta spia in una vana ricerca a chilometri di distanza dal deposito di cibo. (I corvidi non fanno neanche caso ai polli, per ovvie ragioni.) Un corvide se la caverebbe egregiamente nella fase di “fusione” di Survivor.
I corvidi sono flessibili e creativi, in grado di modificare comportamenti così complessi in funzione delle circostanze. In laboratorio, i corvidi privati dei materiali con cui realizzano di solito i loro utensili sono in grado di produrre un uncino con materiali nuovi, come per esempio del fil di ferro. Posti in condizioni in cui una fonte di cibo deperibile (grilli) si guasta più rapidamente che in natura, imparano rapidamente a immagazzinare e recuperare nocciole, che si mantengono più a lungo. Come le scimmie e i primati, i corvidi sono in grado di inferire regole generali da compiti di apprendimento particolari, e applicare queste stesse regole a situazioni analoghe ma nuove. Per esempio, se vengono premiati con del cibo dopo aver beccato un bersaglio azzurro in risposta a uno stimolo azzurro, imparano velocemente la regola generale, “associa lo stimolo”, e possono continuare a seguirla anche quando lo stimolo cambia colore o viene sostituito da forme.11
I corvidi sanno anche risolvere problemi del tutto nuovi che richiedono intuizione e immaginazione. In un esperimento condotto in laboratorio,12 per esempio, alcuni corvi si videro mettere davanti un pezzo di carne attaccato a uno spago che penzolava da un trespolo. L’unico modo per arrivare alla carne era sollevare un tratto di spago con il becco, tenerlo fermo sul trespolo con una zampa e quindi ripetere la procedura da sei a otto volte con grande attenzione. È incredibile, ma un corvo selvatico coinvolto nell’esperimento, dopo aver studiato attentamente la situazione, risolse il compito al primo tentativo. Gli altri corvi ci riuscirono dopo qualche tentativo.
Tonto com’è, se un pollo si vedesse mettere davanti del cibo senza poterlo agguantare morirebbe di fame. In genere le specie precoci, come polli e piccioni, non riescono ad andare oltre una gamma relativamente ristretta di comportamenti. In laboratorio possono imparare compiti specifici per ripetizione meccanica, ma non sono in grado di cogliere la regola generale sottostante. Questo li lascia del tutto sconcertati di fronte a problemi inediti. Se a un piccione insegnate a beccare un quadrato azzurro quando gli viene mostrato un quadrato azzurro, il pennuto non ha la più pallida idea di cosa fare quando i colori vengono modificati o vengono sostituiti da forme, non essendo in grado di formulare il concetto astratto di “associazione”. Il fiore degli anni delle specie precoci è l’adolescenza, quando se ne vanno in giro tutti tronfi per il cortile, troppo fighi e popolari per preoccuparsi dei libri o della scuola. Questa potrebbe non sembrare una delle migliori strategie a lungo termine, ma in realtà dipende dal contesto. Entrambe le strategie – raggiungere la maturità precocemente oppure più tardi – esistono poiché ciascuna ha i suoi vantaggi, e non è possibile dire quale potrebbe essere la migliore senza conoscere l’ambiente in cui dev’essere messa in campo.
Come hanno osservato la psicologa dell’età evolutiva Alison Gopnik e i suoi colleghi, l’intelligenza generale, la flessibilità comportamentale, la capacità di risolvere problemi inediti e la necessità di affidarsi agli altri per apprendere mostrano una certa correlazione con un esteso periodo di immaturità.13 Questa relazione è stata riscontrata in un’ampia varietà di specie animali, fra cui uccelli e mammiferi, suggerendo l’esistenza di un fondamentale compromesso evolutivo fra ridotta competenza e flessibilità creativa. In altri termini, ogni specie sembra puntare sulla strategia del corvo o su quella del pollo, per poi collocarsi in nicchie ecologiche in cui la strategia prescelta fornisce i vantaggi maggiori. Oppure, ritrovandosi in un ambiente che richiede una strategia piuttosto che l’altra, si specializza di conseguenza.
Non dovrebbe stupirci il fatto che gli umani facciano eccezione, come in molti altri aspetti. Noi umani siamo i super-sfigati, i nerd bullizzati, i cocchi della maestra del mondo animale. Come sa bene ogni genitore o nonno, siamo i mammiferi di gran lunga più altriciali e incapaci. I nostri bambini sono completamente inetti, e verrebbero calpestati – metaforicamente e letteralmente – dai loro coetanei scimpanzé o scimmie. Chiunque abbia perso la pazienza mentre aspettava sulla porta di casa che un bambino di quattro anni si allacciasse le scarpe può essere perdonato per aver desiderato che la prole umana fosse più simile a quella dei polli. Non è solo la totale mancanza di abilità o l’incapacità di ricordare i passaggi a essere così esasperante. Il punto è che i bambini sono svagati: si allacciano una scarpa e subito si dimenticano quello che stanno facendo, per poi togliersi una caccola dal naso o slacciarsi l’unica scarpa che erano riusciti a sistemare. Vi distraete un attimo per guardare l’ora e, quando vi voltate di nuovo, scoprite che non solo si sono sfilati le scarpe, ma che per qualche ragione imperscrutabile hanno deciso (ta-da!) di togliersi pure i pantaloni.
È possibile che l’inettitudine della nostra prole spieghi un altro aspetto insolito della specie umana. Siamo una delle poche specie in cui le femmine vanno in menopausa – rinunciando a qualunque prospettiva riproduttiva – molti anni prima di morire. È strano che un organismo faccia una cosa del genere, a meno che questo non massimizzi il successo riproduttivo della specie, e infatti rinunciando alla riproduzione personale si possono investire tempo e risorse nell’accudire nipoti e bisnipoti. Questo, a sua volta, ha senso solo se i piccoli sono una scocciatura tale che è necessario che le nonne sopravvivano. Questo sembra essere proprio il caso degli esseri umani.14 Come dice un proverbio africano, ci vuole un intero villaggio per tirare su i nostri figli fragili, distratti e fastidiosi.
Gli esseri umani hanno adottato una forma tanto estrema della strategia del corvo poiché, in quanto specie, viviamo in una nicchia ecologica estrema. Le richieste che ci vengono imposte dalla strana e affollata caverna a cui ci siamo adattati possono essere riassunte con quelle che chiamo “le tre C”: ci viene richiesto di essere creativi, culturali e comunitari. Le tre C ci rendono, un po’ come i pulli di corvo, inetti, ciechi e altriciali, più vulnerabili di animali robusti e meno complicati. Prendiamo per esempio gli squali: è sconsigliabile mettere un essere umano di quattro anni contro uno squaletto della stessa età. Eppure rimane il fatto che i nostri bambini gracili e piagnucolosi crescono fino a diventare i padroni dell’universo, gli stessi che costringono gli squali negli acquari, ne mangiano le pinne nella zuppa e oggi, purtroppo, stanno portando all’estinzione questi animali in diverse regioni del pianeta.
La transizione dall’estrema vulnerabilità al potere immenso di cui gode l’essere umano è, tuttavia, un percorso irto di ostacoli. Comprenderne la natura è essenziale per cogliere i potenziali vantaggi adattivi dell’ebbrezza. Ci ubriachiamo perché siamo una specie bizzarra, i perdenti del mondo animale, e abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Ora prenderemo in esame “le tre C” e ci chiederemo perché un lungo periodo di sviluppo, o quantomeno il suo equivalente chimico, potrebbe essere estremamente utile a una specie come la nostra.
Quanto era sfortunato Edipo? Il protagonista della tragedia di Sofocle, Edipo re, viene abbandonato quando è ancora in fasce e fugge dalla sua città, Corinto, poiché secondo l’oracolo di Delfi è destinato a uccidere il padre e sposare la madre. Nonostante tutto sopravvive, ma lungo il tragitto verso Tebe finisce per uccidere un uomo e il suo cocchiere: senza esserne consapevole, ha appena avverato la prima parte della profezia. Ma il peggio deve ancora arrivare. Per entrare a Tebe deve superare la terribile Sfinge, che terrorizza la città e minaccia di uccidere Edipo e i tebani se non prima non risolvono un indovinello: «Qual è l’animale che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzogiorno due e alla sera tre?».
La risposta, naturalmente, è l’uomo, che gattona da bambino, poi cammina eretto e infine deve sostenersi con un bastone. Più tardi, dopo essere diventato re di Tebe (e, dovremmo aggiungere, aver sposato sua madre), Edipo affronta un’altra crisi sotto forma di una terribile pestilenza. Alcuni, come il veggente Tiresia, si rivolgono agli dei in cerca di aiuto, sperando di interpretare correttamente gli indizi emersi leggendo il volo degli uccelli e altri presagi. Edipo li castiga, ricordando il suo incontro con la Sfinge:
Poiché, dimmi dunque, in cosa tu sei indovino veritiero? Come mai, quando c’era l’orrida cantatrice, non desti un responso che liberasse questi cittadini? Eppure, spiegare l’enigma non era cosa del primo venuto, ma abbisognava di arte profetica; e tu non mostrasti di possederla, non conoscendola né dagli uccelli né da parte di qualcuno degli dèi: ma quando giunsi io, Edipo, che non sapevo nulla, la feci smettere, indovinando con la mia intelligenza, né avendolo appreso dagli uccelli.15
È il potere dell’intuizione e della creatività umana, e non la magia o la divinazione, a sconfiggere la Sfinge.
Come fa notare lo storico della cultura Johan Huizinga, gli indovinelli che devono essere risolti, a prezzo della vita, sono una caratteristica comune nelle culture mitiche di tutto il mondo. «L’indovinello», osserva Huizinga, «dimostra il suo carattere sacro, cioè pericoloso, col fatto di risultare quasi sempre “un indovinello a vita” nei testi mitologici o rituali, cioè un problema nella soluzione del quale è coinvolta e impegnata la vita stessa.»16
L’universalità di indovinelli così rischiosi nella mitologia mette in evidenza, in forma simbolica, una delle sfide principali che dobbiamo affrontare nel momento in cui ci adattiamo alla nostra nicchia ecologica: se vogliono sopravvivere, gli esseri umani devono essere creativi.
La specie umana è l’unica a essere così dipendente dalle intuizioni e dalle invenzioni che danno vita alle tecnologie culturali, passando dai kayak e gli arpioni alle nasse e le “case lunghe”.17 Cuciamo abiti, realizziamo utensili complessi, costruiamo ripari, lavoriamo e cuciniamo il cibo. A quasi tutte le altre specie la natura ha fornito solo ciò di cui hanno bisogno per cavarsela: il leone ha gli artigli, la gazzella è velocissima. Anche gli insetti che costruiscono alveari e i castori che erigono dighe si affidano al pilota automatico. A un’occhiata superficiale, simili manufatti potrebbero ricordare creazioni umane, quando in realtà sono solo un’estensione del genoma dei loro autori, né più né meno delle ali degli uccelli o dei denti degli squali. Anche il corvo che realizza un uncino modellando un pezzo di fil di ferro sta grossomodo seguendo un copione – «verme irraggiungibile, serve un uncino» – anche se è abbastanza flessibile per ottenere lo stesso utensile con qualunque materiale abbia a disposizione. Gli esseri umani, invece, inventano cose nuove, nel senso che le innovazioni culturali non sono semplicemente trascritte a partire dal nostro DNA. Di fronte al problema dei vermi irraggiungibili, un corvo davvero simile all’uomo non si limiterebbe ad armeggiare con gli uncini, ma inventerebbe degli allevamenti di vermi che gli permetterebbero di afferrarne a piacimento. Noi uomini trasformiamo il mondo tramite le nostre tecnologie creative, senza le quali non potremmo sopravvivere. La totale dipendenza degli esseri umani dall’intuizione creativa costituisce il vero insegnamento da trarre dall’incontro di Edipo con la Sfinge.
Huizinga, che morì nel 1945, non disponeva dei vantaggi offerti dalla moderna scienza cognitiva, ma comprese piuttosto bene la sfida psicologica rappresentata dall’enigma della Sfinge. «La risposta all’enigma non si trova con la riflessione o col ragionamento logico», sosteneva. «La risposta è una soluzione, un improvviso scioglimento del legame col quale l’interlocutore vi tiene unito a sé.»18 Per risolvere un enigma non servono la forza bruta o chissà quali ragionamenti algoritmico-deduttivi: dobbiamo solo rilassare la mente e cogliere la risposta con un lampo di genio. Gli psicologi definiscono “pensiero laterale” il processo che porta all’intuizione. Un compito utilizzato per valutare il pensiero laterale è il Remote Associates Test (RAT), in cui bisogna trovare una parola che ne accomuni tre apparentemente scollegate fra loro, come per esempio fox, man e peep. (Trovate la soluzione in nota.)19 Analogamente, l’Unusual Uses Test (UUT) richiede di pensare fuori dagli schemi: il partecipante riceve un oggetto comune, per esempio una graffetta, e gli viene chiesto, entro un certo tempo, di trovare quanti più usi possibile (stuzzicadenti, orecchino, amo da pesca).
I compiti sul pensiero laterale sono piuttosto divertenti, un po’ come risolvere indovinelli, e possono essere adattati a giochi di società. Ma, come nel mito di Edipo, quando si tratta di risolvere enigmi facciamo davvero sul serio. Gli esseri umani sono come corvidi maturi con un becco inservibile e privi di ali. Un corvo ricorre agli utensili di tanto in tanto, quando deve snidare un verme particolarmente difficile da raggiungere o recuperare del cibo nascosto in profondità. Anche nelle società meno tecnologiche, tuttavia, gli esseri umani sono del tutto impotenti senza gli utensili e le intuizioni creative che li hanno generati. La creatività ci serve semplicemente per funzionare.
Il lungo periodo di sviluppo degli esseri umani potrebbe essere una risposta a questa esigenza. Se vi serve una mano per eseguire l’Unusual Uses Test, chiamate un bambino. Quando si tratta di risolvere compiti che richiedono l’impiego del pensiero laterale, il bambino di quattro anni che si fa distrarre da una formica sul pavimento invece di infilarsi le scarpe, o che tutt’a un tratto decide di togliersi i pantaloni così, tanto per fare, si troverà perfettamente a suo agio. I bambini sono un disastro in fatto di logistica e pianificazione, ma le loro piccole menti caotiche esplorano ogni minima possibilità con una velocità e un’imprevedibilità che qualunque adulto si sognerebbe. Se osservate un bambino qualsiasi in un momento qualsiasi della giornata, probabilmente lo vedrete fare qualcosa di simile all’UUT: trasformare un tubo di cartone in una navicella spaziale, o salire in groppa a un lungo bastone come se fosse un cavallo.
Infatti, una delle argomentazioni più importanti avanzate da Gopnik è che la flessibilità e la creatività cognitiva sono caratteristiche strutturali dei primi anni di vita. Gopnik e i suoi colleghi presentano una revisione delle prove che suggeriscono come, in fatto di compiti di apprendimento nuovi, spesso i piccoli di molte specie superano gli anziani.20 È certamente così per gli esseri umani. In uno degli esperimenti condotti da Gopnik, ai soggetti coinvolti veniva mostrato un blicket detector, un apparecchio grande più o meno come una scatola da scarpe che si illuminava ed emetteva dei suoni quando rilevava la blicketness di un oggetto. Ai partecipanti veniva chiesto di appoggiare diversi oggetti di forma diversa sul rilevatore per capire quali possedessero questa fantomatica proprietà. Gli adulti davano per scontato che la blicketness fosse una proprietà tipica di un singolo oggetto, e ottenevano risultati equivalenti a quelli dei bambini nella condizione “disgiuntiva” di questo tipo. Nella condizione “congiuntiva”, più controintuitiva, la scatola si illuminava solo quando vi veniva appoggiata una particolare combinazione di oggetti. In questi compiti, il soggetto doveva intuire che la blicketness non si riferiva, come ci si sarebbe aspettati, a un oggetto isolato. In questa situazione, i bambini di quattro anni surclassavano gli adulti. All’incirca il 90 per cento dei bambini identificava correttamente la blicketness di tipo congiuntivo, rispetto al 30 per cento circa degli adulti. Inoltre, la qualità della performance era inversamente proporzionale all’età (figura 3).
Figura 3. Percentuale di soggetti, per età, che identificano correttamente un blicket nella condizione congiuntiva, dove un blicket consiste di due oggetti separati.
Cosa spiega questa disparità nella performance, oltre al suo variare con l’età? Confrontate questo declino nella performance con un’altra tendenza, questa volta tratta dalle neuroscienze dello sviluppo, che mostra la graduale diminuzione della densità di materia grigia nella corteccia prefrontale umana (figura 4).
Figura 4. Performance nel compito di tipo congiuntivo in base all’età (in alto), rispetto all’aumento della densità della materia bianca (in basso a sinistra) e al declino della densità della materia grigia (in basso a destra) nella corteccia frontale durante lo sviluppo (le linee tratteggiate rappresentano i soggetti maschi e le linee continue le femmine).21
Si potrebbe supporre che il cervello maturi per accumulazione, aggiungendo sempre più neuroni in una data regione, quando in realtà la maturazione è il risultato del cosiddetto pruning (“sfoltimento”) sinaptico, ossia la graduale eliminazione di connessioni neurali superflue. Una regione cerebrale giunge a piena maturazione quando si assesta su un sistema snello e ben organizzato dal punto di vista funzionale. Un buon indicatore del pruning sinaptico è la densità di materia grigia, ossia la massa di neuroni che esegue il grosso del lavoro computazionale, la quale diminuisce man mano che la regione matura. Man mano che la materia grigia si riduce, la materia bianca – gli assoni mielinizzati che trasmettono le informazioni, ossia il risultato del lavoro computazionale eseguito dalla materia grigia – aumenta, portando a una maggiore efficienza e velocità ma anche a una ridotta flessibilità. Potremmo raffigurarci questa regione acerba e ricca di materia grigia come un territorio aperto e incolto, dove è possibile vagare senza limiti in molte direzioni, ma in modo poco efficace. Per raggiungere quell’invitante pianta di more e coglierne i frutti, sono costretto ad aprirmi a fatica un varco nella vegetazione e a traversare corsi d’acqua. La graduale sostituzione della materia grigia con quella bianca riflette lo sviluppo di questo paesaggio: man mano che vengono costruite strade e tirati su ponti, posso muovermi in modo rapido e veloce, anche se tenderò a spostarmi solo lungo questi percorsi prestabiliti. La comodità delle nuove strade rende la raccolta di more molto più comoda, ma mi impedisce di scovare le deliziose fragoline di bosco in cui mi sarei imbattuto se mi fossi inoltrato nella boscaglia. Il passaggio da flessibilità a efficienza, dalla scoperta di un obiettivo al suo raggiungimento, implica sempre un compromesso.
Man mano che il cervello si sviluppa, la densità della materia grigia diminuisce e quella della materia bianca aumenta in modo lineare, in conseguenza di una maggiore maturità ed efficienza funzionale. La porzione cerebrale che ci interessa in particolare è la corteccia prefrontale (PFC): la PFC è la sede sia del ragionamento astratto sia di quello che gli psicologi definiscono “controllo cognitivo”, vale a dire la capacità di mantenere la concentrazione su un compito, resistere alle distrazioni e alle tentazioni e regolare le emozioni. Come possiamo vedere dalla figura 4, passa parecchio tempo prima che la PFC completi il processo di pruning sinaptico. Di fatto è l’ultima regione cerebrale a maturare, raggiungendo lo stadio adulto non prima dei vent’anni d’età. Ecco perché gli anni dell’adolescenza sono così rischiosi: gli adolescenti hanno sistemi motivazionali simili a quelli degli adulti, ormoni impazziti e accesso a tecnologie pericolose come le automobili, ma un limitato autocontrollo razionale.
L’andamento del grafico è significativo. Con l’invecchiamento, nella corteccia frontale la densità della materia grigia si riduce e quella della materia bianca aumenta, e ciò corrisponde a un calo delle prestazioni creative basate sul pensiero laterale. Più la corteccia frontale matura, meno diventa flessibile la nostra capacità cognitiva. La PFC, essenziale per mantenere la concentrazione su un compito e ritardare la gratificazione, è nemica giurata della creatività. Ci permette di rimanere concentratissimi su un compito, ma ci rende ciechi a possibilità più remote. Sia la creatività che l’apprendimento di nuove associazioni richiedono un allentamento del controllo cognitivo.22 Uno studio su un gruppo di pianisti jazz tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha mostrato che il passaggio dall’esecuzione di scale o brani interamente scritti all’improvvisazione libera era rispecchiato da una sottoregolazione della PFC.23 Altre evidenze di una correlazione vanno nella stessa direzione. Per esempio, gli adulti con una lesione permanente alla PFC ottengono risultati migliori nel pensiero laterale rispetto ai soggetti di controllo sani. E, grazie alle meraviglie della tecnologia moderna, almeno uno studio fornisce evidenze dirette e causali del ruolo inibitorio della PFC a danno del pensiero laterale. Gli sperimentatori hanno chiesto ai soggetti coinvolti di eseguire un compito di creatività, ne hanno poi misurato la performance e infine hanno disattivato temporaneamente la PFC tramite un potente magnete transcranico.24 (Non fatelo a casa.) I soggetti hanno ottenuto risultati migliori dopo l’applicazione del magnete. Tutti questi dati fanno supporre che i bambini piccoli siano così creativi poiché la loro PFC non è ancora sviluppata. Non c’è nulla che tenga d’occhio i loro pensieri, il che ha i suoi pro e contro. Metterci venti minuti per infilarsi le scarpe è il prezzo che dobbiamo pagare per pensare fuori dagli schemi.
Ciò non significa che gli adulti, dotati di una PFC snella ed efficiente, siano un disastro in fatto di creatività e innovazione. Un po’ come i pianisti jazz che passano agevolmente da un brano scritto all’improvvisazione, talvolta gli adulti sono in grado di allentare la vigilanza della PFC e lasciarsi andare. In questo, gli esseri umani pienamente sviluppati sono ancora bambini, o, almeno, potenzialmente tali. Huizinga, lo storico della cultura così affascinato dagli enigmi, sosteneva che il tratto distintivo dell’uomo è il suo desiderio di giocare. In questo senso, assomigliamo a dei cani addomesticati.
Una delle ragioni per cui i cani ci fanno tanta tenerezza è che, rispetto ai loro antenati lupi, mostrano una certa “neotenia”, ossia la permanenza in età adulta di certi tratti giovanili. In altre parole, l’aspetto e il comportamento dei cani adulti ricordano da vicino quelli dei lupacchiotti, con i tratti morbidi e cucciolosi, la voglia perenne di giocare e la propensione a fidarsi. Come fa notare lo psichiatra e studioso del gioco Stuart Brown, gli esseri umani adulti, nell’aspetto come nella giocosità, sono essenzialmente «i labrador del mondo dei primati».25 Nei tratti fisici come nel comportamento, gli umani assomigliano di più ai piccoli di scimpanzé che agli scimpanzé adulti. Le specie caratterizzate da neotenia (come i cani) tendono a essere più flessibili ma meno efficienti e autosufficienti; quelle che mostrano caratteristiche tipiche della maturità (come i lupi) sono terribilmente efficienti ma rigide. Proprio come un’infanzia più lunga tende a predire la flessibilità cognitiva, numerose specie sembrano mostrare una correlazione positiva fra le dimensioni del cervello e la propensione al gioco.26 Perciò i bambini umani, come i cuccioli di cane, sono doppiamente immaturi, in quanto versioni infantili di specie che di per sé hanno mantenuto tratti infantili.
Quando diventiamo adulti ci piace ancora giocare, magari non come ai bambini, ma assai di più rispetto ai lupi o agli scimpanzé adulti. Tutto ciò fornisce un vantaggio in termini di creatività. Come osserva Brown, molte invenzioni importanti – il motore a vapore, l’aeroplano, l’orologio, le armi da fuoco – sono nate come giocattoli.27 Trastullarsi e inventare cose che divertono noi e i nostri figli può aiutarci a recuperare la creatività infantile. Anche immaginarci bambini sembra andare nella stessa direzione. Uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari rilevava come i soggetti ottenessero risultati migliori in un test sulla creatività quando prima veniva chiesto loro di pensare, se avessero avuto sette anni, a come avrebbero reagito alla notizia che quel giorno la scuola sarebbe stata chiusa. Ripensare a quando costruivamo un fortino improvvisato o tiravamo sassi in un fiume sembra liberare la nostra capacità di pensare in modo laterale.28 Il gioco è essenziale anche nell’apprendimento, cosa che ci porta alla seconda C: cultura.
La creatività individuale degli esseri umani, per quanto di per sé impressionante, può essere esaltata esclusivamente dalla nostra capacità di accumulare e costruire sulla base delle intuizioni del passato tramite la cultura che ci viene tramandata, o le innovazioni culturali che vengono conservate e trasmesse. Questo è evidente nelle moderne culture altamente tecnologiche. L’iPhone che ho in tasca rappresenta centinaia di anni di ricerca e sviluppo, dai principi operativi di base ai materiali con cui è costruito. Un essere umano non potrebbe neppure sognarsi di realizzare da solo i componenti più semplici di un iPhone, o di qualunque altra tecnologia culturale complessa, tramite la semplice intuizione o la creatività. Le innovazioni sono sempre e necessariamente graduali e incrementali, poiché si basano sulle intuizioni accumulate da chi ci ha preceduto. Siamo gli animali culturali per eccellenza, e la nostra capacità di condividere i prodotti della creatività individuale e di trasmetterli alle generazioni future è la chiave del nostro dominio ecologico.29
Inoltre, nel loro insieme le culture possono escogitare soluzioni a problemi che, in linea di principio, vanno al di là della capacità del singolo individuo. Come sostengono il teorico dell’evoluzionismo culturale Michael Muthukrishna e i suoi colleghi, dobbiamo pensare ai nostri cervelli non come organi individuali chiusi dentro la testa, ma come parte di una rete estesa, i gangli di un enorme “cervello collettivo”.30 Spesso le scoperte frutto della creatività emergono in questa rete tramite un processo più ampio e potente di quanto un individuo riuscirebbe mai a fare. «Le innovazioni, grandi o piccole che siano», scrivono gli autori, «non richiedono geni eroici più di quanto i pensieri dipendano da un singolo neurone. Al contrario, proprio come i pensieri sono una proprietà emergente di neuroni che si attivano nelle nostre reti neurali, le innovazioni nascono come una conseguenza emergente della psicologia della nostra specie applicata all’interno delle società e delle reti sociali. Le nostre società e reti sociali funzionano come cervelli collettivi.»31
Per fare un esempio relativamente semplice dal punto di vista tecnologico di cervello collettivo in grado di risolvere un problema che va al di là delle capacità di un cervello individuale, prendiamo il caso della manioca (o cassava). Come spiega l’antropologo Joseph Henrich,32 questo tubero è un importante alimento di base che venne domesticato per la prima volta nelle Americhe, ma che non può essere semplicemente cucinato e mangiato come la patata. Quasi tutte le varietà contengono una sostanza dal gusto amaro, che la pianta usa per difendersi da insetti ed erbivori e che, quando viene ingerita, provoca un avvelenamento da cianuro. Così le culture che hanno storicamente basato la propria alimentazione sulla manioca hanno sviluppato elaborate procedure, che possono richiedere diversi giorni di lavoro, per trattare la radice: dopo essere stata sbucciata, grattugiata, lasciata in ammollo e bollita, bisogna attendere alcuni giorni prima di cuocerla e mangiarla. Le moderne analisi chimiche mostrano che questo procedimento riduce notevolmente la tossicità della manioca. Solo di recente abbiamo compreso perché la manioca non trattata sia pericolosa, e in che modo la lavorazione e la lisciviazione la renda innocua. Eppure le culture antiche risolsero il problema di come utilizzare la manioca millenni fa, attraverso un lungo e inconsapevole processo per prove ed errori combinato alla memoria culturale. I gruppi che facevano qualcosa di corretto, all’inizio per caso – per esempio, dimenticare la manioca in ammollo e lasciarcela per qualche giorno – avevano più successo dei gruppi che non erano incappati in quel provvidenziale errore. Altri gruppi cominciarono a imitare quelli con maggiore successo. Con il tempo, l’accumulo di errori utili o di variazioni casuali diede origine alla sequenza di pratiche culinarie che permettevano di consumare la manioca in modo sicuro.
È importante rendersi conto che un singolo individuo non avrebbe mai potuto scoprire tutto questo da solo; il lasso di tempo piuttosto lungo fra l’assunzione della manioca e la comparsa dei sintomi, oltre al problema di mettere nella sequenza corretta i vari passaggi del processo di preparazione, rende alquanto improbabile, se non del tutto impossibile, che qualcuno abbia potuto imparare a depurare la manioca da solo. Inoltre, in casi come questo, gli individui che traggono vantaggio da una soluzione culturale in genere non sanno come o perché funzioni, o addirittura che sia necessario. Come rileva Henrich, il procedimento di disintossicazione della manioca è causalmente opaco a qualunque individuo. Se pensate di dover lasciare in ammollo la manioca due giorni perché vostra madre vi ha detto che gli antenati si arrabbieranno se non lo fate, non avete colto il nesso di causa ed effetto, ma che importa? Ciò che conta è che avete reso la manioca commestibile.
Come aggiunge Henrich, un particolare esperimento storico mostra il pericolo di provarci senza una memoria culturale tradizionale. All’inizio del XVIII secolo, rendendosi conto che la manioca era facile da coltivare e offriva un ottimo rendimento anche in terreni coltivabili marginali, i portoghesi cominciarono a importarla in Africa dal Sudamerica. In breve tempo la manioca divenne un importante alimento di base della regione, e lo è ancora oggi. Tuttavia i portoghesi trascurarono di importare anche la conoscenza culturale degli indigeni sudamericani su come depurare correttamente la manioca. La difficoltà di reinventare il procedimento da capo, a quanto pare, è drammaticamente illustrata dal fatto che molti africani di oggi, centinaia di anni dopo l’introduzione del tubero, soffrono ancora dei problemi di salute causati dall’avvelenamento da cianuro a basso dosaggio.33 Il punto, conclude Henrich, è che «spesso l’evoluzione culturale è molto più intelligente di noi».
Una ricerca antropologica sulle culture isolane del Pacifico ha mostrato che il numero di abitanti e la connessione con altre isole correlavano positivamente con il numero di utensili posseduti da una cultura, oltre al grado di complessità degli utensili stessi. Nelle moderne società urbane, un aumento della densità di popolazione porta a un aumento nell’innovazione, in base ad alcuni indicatori fra cui il numero di nuovi brevetti o l’attività di ricerca e sviluppo pro capite.34 L’accumulazione culturale non permette solo la crescita graduale della tecnologia e della conoscenza, ma innesca anche un circolo virtuoso in cui le risorse culturali esistenti diventano materie prime per nuove invenzioni individuali. Con l’introduzione dell’agricoltura e l’avvento delle civiltà su larga scala, questo circolo virtuoso ha raggiunto ritmi elevatissimi. La condivisione in imperi immensi unì numerose etnie ed ecosistemi locali, impegnati a scambiarsi materie prime, conoscenze culturali e tecnologie. Tale processo di evoluzione culturale ci ha dato le automobili, gli aerei, gli ascensori ad alta velocità e internet.
La dipendenza dell’uomo dalla cultura è un fatto insolito nel mondo animale. La maggior parte delle specie affronta il mondo mediante l’“apprendimento asociale”, laddove un singolo individuo esamina un problema e formula una soluzione. Il nostro parente biologico più stretto, lo scimpanzé, si affida quasi esclusivamente all’apprendimento asociale. Gli esseri umani, invece, a un certo punto hanno varcato una sorta di Rubicone evolutivo.35 I vantaggi sempre più numerosi dell’accumulazione culturale hanno cominciato a rimodellare il nostro cervello rendendolo sempre più dipendente dall’“apprendimento sociale”, un processo in cui gli individui, posti di fronte a un problema, ricorrono a soluzioni fornite dalla cultura. Per poter trarre vantaggio da queste informazioni, gli individui devono essere aperti e fiduciosi, disposti ad affidarsi agli altri più che arrangiarsi da soli.
Reiterando un modello informatico del mondo reale, Muthukrishna e i suoi colleghi hanno variato le condizioni iniziali di numerosi parametri biologici e ambientali, fra cui le dimensioni del cervello, il numero di componenti del gruppo, la durata del periodo di sviluppo, i comportamenti riproduttivi e la ricchezza dell’ambiente, osservando quali strategie di apprendimento risultavano dominanti. Come illustra la figura 5, nella maggior parte delle condizioni, la selezione favoriva l’apprendimento asociale, mentre alcuni modelli mostravano una lieve dipendenza dall’apprendimento sociale. Solo in una gamma ristretta di condizioni, in cui i gruppi erano più numerosi, il cervello era di dimensioni maggiori, lo sviluppo si completava più tardi e la conoscenza culturale cumulativa si espandeva e forniva vantaggi adattivi, si osservava un picco nei modelli in cui gli individui si affidavano in via quasi esclusiva all’apprendimento sociale.
Figura 5. Grado di apprendimento sociale medio che emerge come strategia dominante in vari modelli. Sull’asse delle ordinate è rappresentato il numero di modelli.
Osservate l’ampio avvallamento fra l’apprendimento asociale e sociale che gli esseri umani hanno attraversato, oltre al ristretto spazio adattivo in cui siamo stati confinati. Nel momento in cui l’apprendimento sociale assume un valore sufficientemente elevato, una specie che vi ha accesso viene inesorabilmente allontanata dall’apprendimento asociale e diventa del tutto dipendente dalla cultura.
Il potere dell’evoluzione culturale cumulativa ci ha riplasmato profondamente, un po’ come è accaduto ai tetra messicani. Dopo aver puntato tutto sull’apprendimento culturale, non abbiamo più potuto fare marcia indietro e tornare all’apprendimento asociale e individuale. Spesso ci si immagina i grandi innovatori o i pionieri come personaggi isolati e impavidi, tutti presi a risolvere gli enigmi della natura tramite la pura forza di volontà e l’intuizione. Questo ideale del genio solitario potrebbe descrivere efficacemente uno scimpanzé o un corvo particolarmente innovativo, ma non ha alcun senso quando viene applicato agli esseri umani. Gli scimpanzé sono forti, indipendenti e intelligenti; gli uomini sono deboli, dipendenti dagli altri e, come individui, nient’affatto geniali. Come i tetra delle caverne, ci siamo adattati perfettamente a vivere nella grotta buia e protetta dell’apprendimento sociale, ma saremmo ciechi e impotenti se venissimo catapultati in un mondo privo di cultura.
La dipendenza dalla cultura implica che le nostre menti devono essere aperte agli altri, per poter imparare da loro. Questo è un altro ambito dove un’infanzia più lunga è chiaramente un adattamento alla nostra nicchia ecologica. Neonati e bambini sono le macchine da apprendimento più potenti del pianeta. Come osserva Alison Gopnik, «per i neonati l’imperativo evolutivo è imparare il più possibile il più rapidamente possibile».36 Ciò implica, secondo l’autrice, che la PFC non ancora formata dei neonati non è un difetto, ma una caratteristica funzionale del progetto. I neonati e i bambini piccoli si distraggono facilmente, ma sono anche consapevoli di uno spettro molto più ampio di quanto accade intorno a loro, attenti a dettagli insignificanti che sfuggirebbero all’attenzione degli adulti concentrati e orientati verso uno scopo.37 Inoltre, il fatto che i bambini non facciano che giocare e armeggiare con le cose permette loro di imparare abilità e sviluppare la conoscenza della struttura causale del mondo che li circonda.38 La causalità che hanno bisogno di comprendere non è solo fisica, ma anche sociale. Per esempio, il gioco preferito di mia figlia quando era piccola era servire il tè. Mi faceva sedere in cerchio insieme a un serraglio di animali di peluche, e mi costringeva a indossare una coroncina. (Lo so, ero ridicolo.) Da brava padrona di casa, versava (o faceva finta di versare) a tutti il tè, ci offriva (o faceva finta di offrirci) degli stuzzichini e conversava amabilmente (di cose senza senso). Lei e le sue compagne di classe, quando giocavano per conto loro, “inscenavano” situazioni sociali di qualunque genere: insegnanti e scolari, dottori e pazienti, genitori e figli.
Tutte queste finzioni non sono solo un gioco, anche se i bambini sono progettati per divertirsi quando le mettono in scena. Si tratta di un processo serio ed essenziale di apprendimento della struttura causale del mondo sociale che li circonda. L’impulso a giocare, e la propensione ad assorbire informazioni dalle persone intorno a loro, è una caratteristica dei bambini pensata per consentire loro di acquisire la cultura accumulata di cui hanno bisogno per sopravvivere. È strabiliante la quantità di informazioni che i bambini umani devono padroneggiare: una o più lingue locali, oltre a sapere quale lingua parlare con chi; come vestirsi, mangiare, cucinare, andare a caccia, costruire un riparo, remare, seguire le prede; le strutture sociali, le norme, i tabù, i rituali e i miti del proprio gruppo.
Come potrà facilmente confermare chiunque abbia cercato di imparare una lingua straniera più o meno dopo i tredici anni, la capacità di apprendimento si atrofizza quando entriamo nell’età adulta. E, quando maturiamo, le difficoltà non insorgono solo con le lingue. Gli adulti fanno fatica ad acquisire nuove norme e pratiche sociali. Anzi, di solito sono riluttanti a farlo. Posti di fronte a del cibo cinese, la maggior parte degli abitanti dell’Iowa chiederanno una forchetta al posto delle bacchette, e si aspetteranno un livello di dolcezza vicino alla loro dieta consueta. Poiché ho raggiunto la maturità al di fuori del contesto culturale britannico, la Marmite mi farà sempre schifo. In modo analogo, gli adulti sono un disastro quando devono acquisire nuove abilità. Io ho imparato a giocare a tennis da adulto, e pur dopo anni di lezioni e partite ho problemi a giocare di diritto in modo corretto. Mia figlia ha imparato alla perfezione lo swing da bambina, e fra un po’ mi farà vedere i sorci verdi.
Di nuovo, come nel caso del declino della creatività, la colpa è tutta della PFC. Un intero corpus di evidenze mostra che i comportamenti complessi già acquisiti sono controllati da sistemi automatici e impliciti, e che esplicitare il lavoro della PFC e il controllo esecutivo manda tutto all’aria. Il modo migliore per sabotare il servizio di un tennista professionista è chiedergli di pensare a come lo effettua mentre batte. Se chiedete a un gruppo di persone che stanno scherzando allegramente di riflettere sulle dinamiche sociali in gioco in quel momento, è garantito che gli rovinerete la festa. Questo è il motivo per cui una PFC pienamente sviluppata ci rende relativamente resistenti a nuove conoscenze e abilità. Ed è il motivo per cui la PFC impiega così tanto tempo per maturare e l’infanzia degli umani è così lunga: abbiamo un elenco sterminato di cose da imparare dalle persone intorno a noi, così dobbiamo mantenerci flessibili e ricettivi il più a lungo possibile.
Dato che l’evoluzione ci ha plasmato in modo da essere insolitamente aperti e dipendenti dagli altri nell’apprendimento, gli esseri umani hanno dovuto anche imparare come giocare con gli altri, come è giusto che sia per i labrador del mondo dei primati. Rispetto agli altri primati, siamo davvero come dei cani un po’ tonti: siamo incredibilmente tolleranti nei confronti degli estranei, aperti a nuove esperienze e propensi al gioco. Tale apertura verso gli altri, se da una parte risulta necessaria per il nostro successo come specie, dall’altra ci rende vulnerabili. E questo ci porta alla terza C, ossia la nostra natura profondamente comunitaria.
La vita nasce dalla cooperazione. Il mondo biologico ci ha dotato di uno stupefacente caleidoscopio di unità intrecciate e interdipendenti, dai geni alle cellule, fino agli organismi e ai gruppi sociali. I cromosomi potrebbero essere visti anche come una “società di geni”,39 un insieme di segmenti individuali di DNA che dipendono l’uno dall’altro e condividono il medesimo destino. Le cellule costruite a partire dai cromosomi “si accordano”, in termini metaforici, per specializzarsi in tessuti e organi differenti, senza mai dimenticarsi di lavorare insieme per fare in modo che l’organismo individuale a cui hanno affidato il loro destino riesca a trasmettere almeno metà del proprio patrimonio genetico alla generazione successiva.40
Nel momento in cui raggiungiamo il livello degli organismi individuali, queste unità cooperanti potrebbero anche procedere da sole, combattendo contro il mondo o altri organismi, oppure scegliendo di allearsi con altre unità cooperative. Talvolta, in quest’ultimo scenario, il grado di cooperazione raggiunto è così elevato che i gruppi di individui cooperanti diventano simili a superorganismi, riproducendo su scala sociale lo stesso genere di accordi cooperativi che rendono possibili i corpi individuali.41 Nel caso degli insetti sociali, come le api e le formiche, gli individui si specializzano rapidamente in distinte “caste” funzionali, come le operaie, le guerriere o le regine preposte alla riproduzione. Una formica operaia non si farà problemi a sgobbare disinteressatamente per procurare il cibo per le compagne, mentre una formica guerriera si sacrificherà volentieri per neutralizzare gli intrusi. L’unica cosa che conta è che la regina sopravviva, per garantire che i geni del gruppo si trasmettano alla generazione successiva.
I primati sono più egoisti. In genere non sono propensi all’autosterilizzazione, né vanno incontro a un eroico suicidio. Come abbiamo notato, però, gli umani – gli insetti sociali del mondo dei primati – sono un’eccezione. Il livello di dipendenza e collaborazione reciproca necessario per ottenere cose che sono del tutto al di là delle nostre capacità individuali ci rende simili alle api o alle formiche, con i loro impressionanti alveari e formicai e la complessa divisione del lavoro. Ma la nostra biologia, tipica dei primati, lascia irrisolto un problema evolutivo: in fondo in fondo continuiamo a essere scimmie egoiste e fedifraghe. Un’ape regina non dovrà mai preoccuparsi di un’insubordinazione di una parte dei suoi sudditi. Si dà il caso invece che da sempre i nostri governanti finiscano avvelenati o decapitati, o semplicemente sconfitti alle elezioni, e quando accade è perché c’è lo zampino del nostro DNA da scimpanzé.
La tensione fra l’esigenza di cooperare su larga scala e l’egoismo che ci accomuna ai primati si manifesta con chiarezza nei dilemmi insiti nella cooperazione sociale. Ogni volta che sale la tensione fra il bene collettivo e gli interessi individuali, corriamo il pericolo di quella che gli economisti chiamano “defezione”, una situazione in cui un individuo egoista trae vantaggio dal bene comune senza tuttavia contribuirvi. Questa tensione assume vari nomi, fra cui “tragedia dei beni comuni” o “problema del free-rider”.42 I pesci sono sempre di meno? L’ideale sarebbe se ci mettessimo d’accordo per pescare di meno, ma in mare aperto come potremmo far rispettare un simile accordo? Nessuno vuole fare la figura del fesso che se ne sta a casa mentre i suoi concorrenti escono in mare e catturano anche l’ultimo tonno pinna blu. Così va a finire che il tonno pinna blu rischia l’estinzione. E se in ufficio usassimo la cucina comune per riscaldare o preparare il pranzo? In mancanza di una turnazione di pulizia precisa e applicabile, ben presto questi spazi diventerebbero dei disgustosi e inutilizzabili letamai, cosa che di certo non capiterebbe se si trattasse di spazi gestiti da individui. Il motivo è che non è nell’interesse di nessuno pulire se gli altri non fanno la loro parte: se mi arrendo e pulisco il lavandino sempre più lurido o se finalmente svuoto la lavastoviglie, permetto agli altri di approfittare del mio lavoro.
Simili sfide della cooperazione sono tipiche del mondo sociale umano a qualunque livello di interazione. Ostacolano gli sforzi globali per combattere il cambiamento climatico, portano i partiti politici e le alleanze economiche a disgregarsi,43 e spesso mettono gli individui di fronte a scelte difficili. Un caso di questo genere è alla base del famoso esperimento mentale del “dilemma del prigioniero”, che raffigura molto efficacemente una variante del “problema del free-rider”. Immaginate di essere stati arrestati e accusati di aver commesso un crimine. Il pubblico ministero vi informa dell’arresto di un altro sospettato, di cui non sapete nulla, per lo stesso crimine. Vi viene proposto un accordo: se farete il nome dell’altra persona ve la caverete con una tiratina d’orecchie, ossia una pena di un mese, mentre l’altro si beccherà tre anni di galera. Se vi rifiutate di parlare, verrete accusati di intralcio alla giustizia, rischiando una pena di sei mesi. Sapete anche che, se entrambi vi accuserete a vicenda, verrete accusati di complicità e riceverete una pena di due anni. Non avete alcun modo di comunicare con l’altro prigioniero.
È utile considerare il dilemma nei termini di una matrice dei payoff (tabella 1).
Tabella 1. Matrice dei payoff del dilemma del prigioniero.
Sarebbe nell’interesse di tutti se entrambi i prigionieri restassero in silenzio e ottenessero così la pena minore. Tuttavia, non c’è modo di garantire che l’altro prigioniero collaborerà. C’è il pericolo che collaboriate e veniate traditi dall’altro prigioniero, così l’unica strategia razionale è non collaborare, o accusare l’altro. Ciò non porta all’esito migliore per entrambi i prigionieri, ma è l’unica strategia sicura. In termini puramente razionali, gli individui egoisti non possono risolvere il dilemma del prigioniero.
Per fortuna, gli esseri umani non sono razionali, o quantomeno non fino in fondo.44 Quasi tutti i teorici della cooperazione concordano sul fatto che spesso le persone non riescono a collaborare di fronte al dilemma del prigioniero perché sono emotivamente coinvolti l’una nei confronti dell’altra. Quando siamo emotivamente legati a una persona o a un gruppo, per amore, affetto o amicizia, riusciamo a fidarci l’uno dell’altro, sciogliere il dilemma e quindi ottenere l’esito migliore per tutti. Nella realtà, di fronte a un pubblico ministero che cerca di convincere gli accusati a tradire i propri complici, i membri di una gang riescono a cucirsi la bocca e a cavarsela con pene minori. Il motivo non ha a che fare semplicemente con il timore di una vendetta (chi fa la spia, si sa, non è figlio di Maria), ma, più che altro, con la fedeltà al gruppo e alla vergogna che deriva dal tradimento. Gli spioni non piacciono a nessuno, e a nessuno piace fare la spia.
Il punto essenziale è che l’unica ragione di tutto ciò è che non abbiamo un totale controllo consapevole sulle nostre emozioni. Sul momento, rientra nel mio ristretto interesse personale inventarmi una scusa per il fatto di non avere nessuna voglia di alzarmi presto la domenica mattina per aiutare un’amica a spostare il divano, ma se lo facessi mi sentirei in colpa, così mi trascino giù dal letto, con il mal di testa e tutto il resto, e vado a prendere il mio furgone. Un problema di salute o di carriera, o il semplice trauma di crescere dei figli, può momentaneamente rendere una relazione svantaggiosa per uno o entrambi i partner, ma l’irrazionalità dell’amore funge da collante per tenere insieme le coppie nella buona e nella cattiva sorte. Le emozioni sociali, quando sono sincere, ci consentono di mettere da parte l’egoismo della nostra mente calcolatrice e a breve termine, ma solo perché non possiamo controllarle consciamente. Se potessimo farlo, la nostra mente razionale e conscia non esiterebbe a cancellarle se fosse nel nostro interesse farlo, e perderebbero la loro efficacia. L’amore o l’onore a cui posso ricorrere solo quando mi conviene non è vero amore o onore.
Di nuovo, il nemico è la corteccia prefrontale, la sede del pensiero astratto, della ragione strumentale e del controllo cognitivo. Due prigionieri in balia delle loro PFC sono destinati a beccarsi due anni di galera. L’unico modo per uscirne con una pena minore è disattivare la PFC tramite un’emozione irrazionale come l’onore o la vergogna. Due capitani Kirk possono risolvere il dilemma del prigioniero; due Spock sono destinati a marcire dietro le sbarre.
Allo scopo di capire in che modo le emozioni possono aiutarci a risolvere i dilemmi della cooperazione, e perché la nostra relativa incapacità di controllarle consciamente è essenziale alla loro funzione sociale, può essere utile un altro mito greco. (In questo capitolo tireremo spesso in ballo la mitologia greca.) Uno dei tanti pericoli che Ulisse deve affrontare nei suoi viaggi è un passaggio vicino all’isola delle sirene. I marinai più intelligenti si tengono alla larga da queste creature pericolose, che con il loro canto ammaliante attirano le navi sugli scogli e divorano i naufraghi indifesi. Ulisse, però, è uno che non si tira mai indietro di fronte a un’avventura. Da edonista consumato, è ben disposto ad ascoltare il canto delle sirene, che si dice sia incomparabilmente bello. Ulisse è anche consapevole dei rischi che corre. Con la consueta astuzia, escogita un espediente, un trucco per impedire che il suo sé futuro “defezioni” e si cacci nei guai. Così ordina ai suoi marinai di tapparsi le orecchie con della cera in modo da non udire il canto delle sirene, e di legarlo ben stretto all’albero maestro. In questo modo, Ulisse può ascoltare le sirene mentre gli viene fisicamente impedito di andare incontro alla morte, cosa che, nel momento in cui ode il canto, desidera con tutto se stesso.
Le funi che legano Ulisse all’albero maestro sono un’istanziazione letterale di ciò che potremmo chiamare “preimpegno”. Per usare un’espressione di Robert Frank, economista della Cornell University, le emozioni sociali rappresentano «passioni prive di ragione».45 Amore, onore, vergogna e rabbia legittima sono irrazionali solo in apparenza: in realtà è nel nostro interesse razionale e a lungo termine essere in balia di emozioni incontrollabili, quando la situazione lo richiede. Come le funi che legano Ulisse, le emozioni possono essere funzionali solo come dispositivi per vincolarci a un impegno, poiché non possiamo liberarcene volontariamente. Quando ci innamoriamo o promettiamo di essere fedeli a un gruppo, ci stiamo effettivamente legando all’albero maestro, vincolandoci agli impegni emotivi che ci tratterranno dal tradire gli altri quando, com’è inevitabile che sia, ci verrà la tentazione di farlo. Si tratta di una strategia notevolmente efficace, che spiega perché così tante coppie tengano fede all’impegno reciproco, gli studenti si aiutino a vicenda a spostare i divani e i membri di una gang dietro le sbarre si rifiutino sdegnosamente di fare una soffiata al pubblico ministero.
La necessità di fiducia nelle relazioni umane diventa evidente nel dilemma del prigioniero. È un aspetto ovvio anche in altre relazioni non transazionali motivate dall’impegno e dall’interdipendenza: le più tipiche sono le relazioni genitore-figlio, e quelle tra i malati e le persone che se ne prendono cura.46 Ciò di cui ci si rende meno conto è il grado a cui anche interazioni che in superficie sembrano puramente transazionali possono avvenire solo sulla base di un presupposto più profondo di fiducia implicita. Quando compro un hot-dog da un venditore ambulante e pago quattro dollari, lo scambio tra denaro e panino si basa su un numero di presupposti così elevato che sarebbe impossibile elencarli tutti. L’hot-dog è cotto in modo corretto. Non è stato deliberatamente avvelenato. Le banconote che consegno al venditore non sono contraffatte. L’hot-dog contiene (quasi sempre, almeno) carne di manzo o maiale, e non di cane. Nessuna di queste assunzioni viene espressa in maniera esplicita, ma nonostante ciò vengono tutte date per scontate. Questo è anche il motivo per cui l’eventuale scoperta di una violazione degli aspetti su cui si basa la fiducia reciproca sarebbe così scandalosa: Carne di cane negli hot-dog del venditore locale! Padre di famiglia spaccia denaro falso al parco! I titoli clamorosi dei tabloid non fanno che confermare quanto sia profonda la nostra fiducia nei confronti di questi presupposti fondamentali, e quanto raramente vengano violati.
In fatto di fiducia e legami sociali, come nel caso della creatività e dell’apprendimento culturale, i bambini surclassano puntualmente gli adulti. I bambini vengono al mondo con un bisogno profondo, quasi disperato, di instaurare un legame con gli altri membri del gruppo culturale di appartenenza. Ciò è evidente a chiunque sia stato avvicinato da una loquace bimbetta di quattro anni nella sala d’attesa di un aeroporto affollato e si sia dovuto sorbire una presentazione prolissa e recitata a macchinetta della sua bambola. Di fatto, è la spiccata propensione dei bambini a fidarsi e a interagire con gli altri, anche quando si tratta di perfetti estranei, a rendere le violazioni di quella fiducia così tragiche e orribili. Per converso, il fatto che un bambino non si fidi di nessuno indica che nel suo ambiente c’è qualcosa di profondamente sbagliato.
Per quanto riguarda la fiducia, come nel caso della creatività e dell’apprendimento, il gioco è importante. In tutto il mondo animale, il gioco permette di prendere dimestichezza con importanti abilità tipiche degli adulti, come cacciare o combattere, e fornisce agli individui più giovani un’opportunità per esercitarsi nelle strutture della gerarchia sociale. Ma, più di tutto, per allenare la fiducia. Come ha osservato l’esperto di comportamento animale Marc Bekoff, il gioco implica sempre una deliberata vulnerabilità – pensate a un cane che gioca esponendo la pancia o la gola – oltre a segnalare affidabilità. L’“inchino giocoso” con cui i cani si salutano in pubblico prima di fare la lotta è un segnale di fiducia sociale: se due cani che si incontrano si abbassano sulle zampe anteriori e sollevano il posteriore, si accordano per accedere a una dimensione ludica in cui i morsi non saranno profondi, i ringhi non saranno seri, e ci si soggiogherà a turno.47 A lungo i ricercatori hanno ritenuto che la funzione primaria del gioco fosse fare pratica e allenare certe abilità, ma la funzione socializzante e volta a instaurare un legame di fiducia sembra più fondamentale. Come osserva Stuart Brown, «i gatti e altri mammiferi, come per esempio i ratti, se impossibilitati a giocare saranno incapaci di distinguere chiaramente un amico da un nemico, sbaglieranno i segnali sociali si comporteranno in maniera eccessivamente aggressiva, oppure si tireranno indietro e non si impegneranno in normali percorsi di socializzazione».48
Come nel caso di altri tratti infantili, gli esseri umani adulti continuano a essere giocosi e a fidarsi in un modo che li fa assomigliare più ai labrador che ai lupi o agli scimpanzé adulti. Quando un lupo adulto o uno scimpanzé mostra i denti, è meglio squagliarsela. Gli umani, adulti compresi, sono di gran lunga più propensi a rincorrere una palla che a stabilire la dominanza. La nostra attitudine a giocare con amici, conoscenti e perfino estranei è notevole, anche se la discussione verbale o le battute tendono a sostituire gradualmente lo scontro fisico. Quando prendo in giro il venditore di hot-dog perché tifa per quelle mezze calzette dei Mets, come è evidente dal berretto da baseball che indossa, diventiamo molto simili a due cani che fanno la lotta al parco: i miei affondi verbali sono scherzosi e non hanno lo scopo di ferirlo davvero, e uno scambio verbale efficace instaura un’effimera ma importante connessione di fiducia nel bel mezzo di una frenetica metropoli. Provate a insultare la squadra preferita di uno scimpanzé, ed è probabile che vi staccherà un braccio. Il fatto che gli umani mantengano fino all’età adulta i complessi e sofisticati meccanismi cognitivi necessari per giocare, e continuare a divertirsi giocando con gli altri, è un riflesso della profonda importanza della fiducia nelle relazioni umane.
Un lungo periodo di immaturità e la conservazione di tratti infantili in età adulta possono essere considerati altrettanti aspetti della risposta umana alle sfide avanzate dalle “tre C”. Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza attraversiamo una lunga fase di sviluppo durante la quale la nostra mente rimbalza incessantemente da un pensiero all’altro. Siamo propensi ad assorbire nuove informazioni, ci fidiamo degli altri e gli altri possono fidarsi di noi, anche se sempre meno via via che gli anni passano. Anche in età adulta, però, per avere successo nella stranissima nicchia ecologica che noi stessi ci siamo ritagliati dobbiamo mantenerci creativi, capaci di assorbire e trasmettere cultura, ed essere in grado di ispirare fiducia negli altri e risolvere i dilemmi della cooperazione che richiedono un certo impegno da parte nostra. Come specie, siamo i labrador del mondo dei primati, conservando tratti infantili nella vita adulta.
Come raccontano innumerevoli miti e racconti per bambini, tuttavia, alla fine la giocosità infantile – qualcosa che l’uomo, caso unico fra i primati, desidera ardentemente – va perduta. Ci concediamo qualche battuta con il venditore di hot-dog, ma non possiamo perdere troppo tempo, perché altrimenti faremo tardi al lavoro. Da adulti, l’impulso infantile a vagabondare, togliersi le caccole dal naso e giocare viene subordinato alla routine produttiva: alzarsi, vestirsi, andare in ufficio, lavorare, mangiare, dormire, e poi tutto da capo. Questo è il regno della PFC, il centro del controllo esecutivo, e non è un caso che la sua maturazione corrisponda a una maggiore capacità di mantenere la concentrazione su un compito, ritardare la gratificazione e subordinare emozioni e desideri alla ragione astratta e al raggiungimento di obiettivi pratici.
E non potrebbe essere altrimenti. A dire il vero, per quanto possano essere teneri e divertenti, i bambini sono del tutto inutili. Se fossero responsabili delle cose, sarebbe un disastro. Mia figlia ha tredici anni, eppure non è affatto detto che spenga il forno dopo averlo usato, si ricordi di portare fuori il cane o appenda un asciugamano bagnato anziché appallottolarlo sul pavimento. E anche così, è un essere umano concentratissimo sui suoi obiettivi e molto più in grado di raggiungerli rispetto a quando aveva cinque anni. La PFC è una macchina fisiologicamente onerosa, e se ci siamo evoluti così c’è una ragione. La capacità di mantenersi concentrati su un compito, reprimere le emozioni e ritardare la gratificazione è un tratto essenziale dell’uomo. Non possiamo rimanere bambini in eterno.
Ecco perché non dovremmo dare troppa importanza alla capacità di un bambino di quattro anni di surclassare un adulto nella versione controintuitiva del blicket test. Riflettendo sull’apparente vantaggio creativo dei bambini, Alison Gopnik ricorre a un’analogia con il mondo del lavoro:
Esiste una divisione del lavoro evolutiva fra bambini e adulti. I bambini sono il dipartimento ricerca e sviluppo della specie umana, visionari e campioni di brainstorming. Gli adulti sono il reparto produzione e marketing. Loro fanno le scoperte, noi le implementiamo. Loro concepiscono un milione di idee nuove, quasi tutte inutili, noi prendiamo le tre o quattro idee buone e le rendiamo reali.49
Il problema di questa analogia, di fatto, è che pochissimi brevetti sono stati depositati da bambini di quattro anni. È altrettanto difficile trovare esempi di inventori adulti che si siano ispirati direttamente ai bambini.50 Può capitare che gli adulti traggano vantaggio o ispirazione da una variazione casuale emersa dai giochi infantili, ma solo se si trovano nelle circostanze adatte per riconoscere un’innovazione utile, capitalizzare le innovazioni tecniche e gli spunti creativi, o convertire le intuizioni in prodotti. Tutt’al più, è la giovinezza virtuale – uno stato mentale infantile in un adulto altrimenti funzionale – la chiave dell’innovazione culturale.
Se vogliono funzionare efficacemente come insetti sociali nonostante siano dei primati, gli esseri umani adulti devono essere in grado di accedere a tratti infantili nonostante dispongano di una PFC pienamente sviluppata. L’obiettivo è quello di recuperare temporaneamente la mente dei bambini, non di tornare a essere bambini. Dobbiamo essere creativi e fiduciosi, e al tempo stesso in grado di allacciarci le scarpe e uscire di casa senza fare tardi. È significativo che un tema comune nelle culture di tutto il mondo e di ogni epoca è l’idea secondo cui la perfezione spirituale o morale implicherebbe in qualche modo il recupero della mente del bambino. Il vangelo di Matteo proclama: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli». Un antico testo cinese, il Tao Te Ching, attribuito al saggio Laozi, paragona il saggio a un neonato o a un bambino piccolo, aperto e ricettivo nei confronti del mondo.51
In risposta a questa esigenza, gli umani hanno elaborato svariate tecnologie culturali per esaltare, temporaneamente ma in modo molto efficace, la creatività e la ricettività infantile in adulti altrimenti del tutto funzionali. Pratiche spirituali di vario genere, come la meditazione o la preghiera, possono essere modalità efficaci in questa direzione. Tuttavia, il modo più veloce, più semplice ed enormemente più apprezzato consiste nel rivolgersi a sostanze chimiche che, almeno per un po’, possono invertire lo sviluppo e la maturazione cognitiva.
Come abbiamo visto nell’esperimento sulla creatività descritto sopra, se vogliamo ricreare la flessibilità cognitiva di un bambino, possiamo utilizzare un magnete transcranico: basta una bella scossa per mettere in scacco la PFC. Dispositivi di questo genere, però, sono diventati disponibili solo di recente. Inoltre sono costosi, scomodi da trasportare e, soprattutto, non molto graditi alle feste. Ci serve qualcosa di decisamente meno tecnologico. Qualcosa che “sconnetta” efficacemente la PFC e ci renda felici e rilassati, ma solo per qualche ora. Qualcosa che possa essere prodotto ovunque, praticamente con nulla, da chiunque e con costi ragionevolmente contenuti. Se poi ha un gusto gradevole, se può essere abbinato facilmente al cibo, e se favorisce il ballo e altre forme di socialità, tanto meglio.
L’alcol, naturalmente, rispetta alla perfezione tutte queste specifiche. Il fatto che in natura si trovi nella frutta marcia implica che molte specie possano scoprirne facilmente le proprietà psicoattive. E che proprietà meravigliose! Ancor più della facilità con cui può essere scoperto, prodotto e consumato, un altro fattore che contribuisce a rendere l’alcol il re indiscusso delle sostanze inebrianti è l’ampia e complessa gamma di effetti sul corpo e sulla mente dell’uomo. Come osserva Stephen Braun, l’alcol imita l’azione di molte altre droghe, diventando una specie di «condensato farmacologico: una droga stimolante/depressiva/psicotropa che agisce senza risparmiare nessun circuito o sistema cerebrale». Sotto questo aspetto, l’alcol è unico fra le sostanze psicotrope. «Sostanze come la cocaina o l’LSD funzionano come bisturi farmacologici», fa notare Braun, «alterando il funzionamento di uno o al massimo un ristretto numero di circuiti cerebrali. L’alcol è più simile a una bomba a mano farmacologica, poiché agisce praticamente su tutto.»52
In parte ciò potrebbe essere dovuto alla facilità con cui l’alcol si diffonde nel nostro organismo. L’etanolo, il principio attivo delle bevande alcoliche, è sia idrosolubile che liposolubile. Il fatto che sia idrosolubile implica che venga facilmente trasportato dall’acqua e assorbito rapidamente dal flusso sanguigno, mentre la sua liposolubilità gli permette di attraversare agevolmente la membrana cellulare.53 Se da una parte siamo soliti pensare all’effetto sedativo dell’alcol, dall’altra la faccenda è molto più complicata, come ci si dovrebbe aspettare da una bomba a mano farmacologica.54
Tanto per cominciare, l’ebbrezza alcolica è “bifasica”. La fase ascendente, con l’aumento del tasso alcolico nel sangue, è caratterizzata da stimolazione e lieve euforia, dato che l’alcol favorisce il rilascio di dopamina e serotonina. In questo caso l’alcol imita l’effetto di sostanze stimolanti come la cocaina o l’MDMA. Durante questa fase, l’alcol stimola anche il rilascio di endorfine. Da questo punto di vista, possiamo paragonarlo a una versione più leggera della morfina, poiché produce un effetto antidolorifico, aumenta il tono dell’umore e riduce l’ansia.55
Nella fase discendente, quando il tasso alcolico nel sangue raggiunge il picco e poi comincia a diminuire, l’alcol ha un effetto depressivo. In termini di inibizione del funzionamento cerebrale, l’alcol ha un duplice effetto depressivo. Da un lato aumenta o esagera l’attività dei recettori GABAa, che inibiscono l’attività neurale, e al tempo stesso deprime l’attività dei recettori del glutammato, che di norma accrescono l’attività neurale. Così, in termini di attività cerebrale, è come se l’alcol alzasse il piede dall’acceleratore e contemporaneamente inchiodasse di colpo. Questa terribile frenata neurale è ciò che, in particolare con un elevato tasso alcolico nel sangue, provoca un effetto sedativo.56
Gli effetti depressivi dell’alcol sembrano concentrarsi in tre regioni cerebrali: la PFC, l’ippocampo e il cervelletto.57 L’ippocampo è preposto alla memoria e il cervelletto alle funzioni motorie di base. Il fatto che l’alcol agisca su entrambi spiega perché una persona ubriaca, rientrando da una notte di bagordi, possa inciampare in un vaso e romperlo e poi, il mattino dopo, domandarsi come ha fatto il vaso a rompersi.
Ma l’aspetto che ci interessa più da vicino è la sottoregolazione della PFC e delle regioni associate. Uno degli alleati più stretti della PFC ai fini del controllo cognitivo è la corteccia cingolata anteriore (ACC). La ACC è una sorta di guardiano che sorveglia la nostra performance nel mondo, cercando errori o altri feedback negativi che indicano la necessità di interrompere qualunque cosa stiamo facendo.58 Quando uscite di casa per andare in ufficio in una mattina d’inverno e cominciate a scivolare sul ghiaccio, l’ACC rileva il problema e segnala alla PFC di subentrare al vostro sistema motorio, che di solito funziona con il pilota automatico. Quando la PFC assume il controllo, la vostra camminata diventa goffa e innaturale, poiché i sistemi motori funzionano al meglio quando lavorano in autonomia. Magari ci metterete di più ad arrivare in ufficio, ma almeno non scivolerete e vi risparmierete una brutta caduta.
In laboratorio, un modo per vedere in azione la squadra formata dall’ACC e dalla PFC è un paradigma sperimentale chiamato Wisconsin Card Sorting Test. In questo compito, al soggetto viene consegnato un mazzo di carte con forme e simboli, di colori diversi e in numero variabile. Poi gli viene chiesto di “associare” una carta a una carta-stimolo proposta dallo sperimentatore. Se il soggetto sceglie la carta giusta, riceve un feedback positivo, ma nessun’altra istruzione. Si tratta di una versione più sofisticata del compito di associazione riservato a corvidi e piccioni: all’inizio è davvero snervante, perché il soggetto viene informato quando indovina, ma non ha la minima idea di quali possano essere le regole che determinano l’associazione. Ciononostante, in breve tempo i soggetti iniziano a capire il trucco, poiché il principio di associazione non è casuale. Magari bisogna associare il numero di simboli, oppure il colore o la forma, ma in qualunque caso i soggetti scoprono la regola corretta in modo sorprendentemente veloce. Quando il soggetto capisce di aver individuato la regola (per esempio, associa la forma e ignora il numero e il colore), e comincia a rispondere correttamente senza più pensarci, il perfido sperimentatore, senza dire nulla, modifica la regola: all’improvviso ciò che conta è il colore e non la forma, così le carte che prima funzionavano ora vengono rifiutate. In laboratorio, questo è l’equivalente di una lastra di ghiaccio che vi fa sentire il marciapiede diverso da come vi aspettereste di sentirlo. In soggetti neurologicamente normali, i nuovi errori provocati dal cambiamento della regola segnalano alla ACC che qualcosa non va. Così la ACC fa intervenire la PFC affinché interrompa il comportamento precedente (associare la forma), rallenta le risposte e attende che emerga una nuova regola. Quando il soggetto la scopre, la ACC è soddisfatta, la PFC può rilassarsi e il soggetto reinserisce il pilota automatico, associando tranquillamente le carte per colore.
Il passaggio non avviene in maniera istantanea. Dopo il cambiamento della regola, per un po’ il soggetto continua ad applicare la strategia scorretta nonostante il feedback negativo. Il tempo che il soggetto impiega per smettere di perseverare nell’errore è utile per misurare il controllo cognitivo e la buona salute della PFC: nei soggetti con una lesione o un deficit a livello prefrontale, il cambiamento delle circostanze impiega più tempo per modificare il comportamento.59 In altre parole, è come se continuassimo a camminare tranquillamente malgrado il ghiaccio sul marciapiede.
È degno di nota il fatto che i soggetti ubriachi sottoposti a questo test ottengono risultati simili ai soggetti con un danno alla PFC. Vanno avanti a testa bassa nonostante i feedback negativi, il che non dovrebbe sorprendere chiunque abbia osservato un tale reduce da una serata al pub che a tarda notte cerca ripetutamente di infilare le chiavi di casa sua nella toppa del vicino.60 In un ottimo esempio di come gli effetti prodotti dall’alcol si rinforzino a vicenda, la compromissione della capacità di riconoscere il feedback negativo è aggravata dalle altre esplosioni innescate nel cervello. L’elaborazione della paura e di altre emozioni negative nell’amigdala è ridotta, così un ubriaco diventa relativamente insensibile a qualunque stimolo negativo riesca a dispetto di tutto ad arrivare a destinazione.61 L’attenzione si restringe all’immediatezza del momento – la cosiddetta “miopia” alcolica62 – impedendo di essere influenzati da considerazioni astratte o esterne e di prevedere le conseguenze future. La memoria di lavoro e la velocità di elaborazione cognitive risultano ridotte.63 La capacità di inibire gli impulsi, una delle funzioni principali della PFC, è compromessa.64 Infine, il soggetto che sperimenta l’aumento di serotonina e dopamina nella fase ascendente dell’ebbrezza si sente così bene che, anche se la PFC e la ACC intorpidite venissero raggiunte da un segnale di pericolo, non si curerebbero minimamente del casino che stanno combinando.65 È a questo punto che il tizio tornato dal pub getta via le chiavi che non funzionano e rompe una finestra per entrare a casa “sua”, gettando nel panico i vicini che stanno dormendo.
Nessun’altra sostanza chimica inebriante è devastante quanto l’alcol, ma le più popolari sortiscono effetti simili sulla mente umana. Come l’alcol, il principio attivo della cannabis, il THC, agisce sui recettori specifici nel cervello (i recettori “cannabinoidi”) innalzando i livelli di dopamina, interferendo con la formazione dei ricordi e compromettendo le facoltà motorie. In modo analogo la kava sembra stimolare il rilascio di dopamina e ridurre l’ansia, in compenso influisce in modo piuttosto ridotto sulle abilità cognitive più elevate. Gli allucinogeni classici, come l’LSD e la psilocibina, agiscono sui recettori della serotonina e forse della dopamina, innalzando così il tono dell’umore, ma compromettendo seriamente il default-mode network (DMN) cerebrale. Il DMN sembra essere la sede del senso del sé. La sua compromissione da parte degli allucinogeni provoca una radicale fluidità cognitiva, confusione nel confine fra sé e gli altri e assenza del filtraggio sensoriale tipica sia dello stato onirico che della mente dei bambini piccoli.66
Vale anche la pena notare che diverse pratiche non chimiche possono produrre effetti cognitivi simili a quelli dell’ebbrezza alcolica. Per esempio, l’esercizio fisico estremo può indurre il cosiddetto “sballo del corridore” tramite la stimolazione della dopamina e la sottoregolazione della PFC, poiché il corpo sottoposto a un forte stress dirotta le risorse energetiche destinate alla neocorteccia ai sistemi motorio e circolatorio che ne hanno un bisogno immediato. Il neuroscienziato Arne Dietrich ha sostenuto che questa combinazione sembra essere responsabile della perdita del senso del sé e dell’intensa euforia tipiche delle esperienze atletiche estreme.67 Varie tradizioni religiose hanno fatto ricorso a questo trucco. Le danze, il canto corale e le salmodie sufi, le lunghe meditazioni in posture dolorose (con le gambe incrociate o in ginocchio), la mortificazione personale (autoflagellazione, perforazione) o le tecniche di respirazione estrema possono provocare un’ebbrezza simile, aumentando il rilascio di dopamina ed endorfine e dirottando l’energia dalla PFC.
Che scocciatura, però. Data l’incredibile quantità di tempo e fatica che tali esperienze esigono, non c’è da meravigliarsi che la gente preferisca le droghe. E, fra le droghe, l’alcol regna sovrano. La cannabis deve essere fumata o ingerita, è difficile da dosare e provoca effetti imprevedibili sul corpo e sulla mente.68 L’erba rende alcuni soggetti estroversi e attivi, altri introversi, paranoici e letargici. I funghi contenenti psilocibina possono provocare gravi problemi gastrointestinali, forte disorientamento e allucinazioni, e costringono chi ne fa uso a estraniarsi del tutto dalla realtà per un certo lasso di tempo. Questa è la ragione per cui nessuna cultura incoraggerà mai nessuno a buttar giù qualche funghetto magico prima di cena o in un’occasione sociale. E rispetto ai semi di cactus estremamente tossici o ai rospi velenosissimi, fra gli allucinogeni naturali la psilocibina è forse il più blando e sicuro, il che è tutto dire.
L’alcol, d’altro canto, è sotto molti aspetti la droga perfetta. È facile da dosare, e i suoi effetti cognitivi sono affini da un individuo all’altro. Meglio ancora, questi effetti aumentano e diminuiscono in modo prevedibile e hanno una durata relativamente breve. Mentre accettiamo tranquillamente il secondo drink che ci porge il barista, il nostro fegato ci sta già dando dentro come un matto per metabolizzare l’etanolo che abbiamo ingerito con il primo bicchiere e convertirlo in una sostanza innocua, in modo da eliminarlo dall’organismo. Perciò, alla luce degli svantaggi di gran parte delle sostanze inebrianti non alcoliche, e l’incredibile quantità di tempo, fatica e dolore richiesti dai mezzi non chimici, non stupisce che la maggior parte di noi, nella maggior parte dei casi, preferisca optare per qualche pinta di birra piuttosto che infilarsi degli oggetti appuntiti nelle guance. Se vogliamo aumentare il tono dell’umore e disattivare per un po’ la PFC, una deliziosa neurotossina liquida sembra essere l’opzione più veloce e piacevole.
La PFC è la parte evolutivamente più recente del cervello e l’ultima a maturare nel corso della crescita. Presumibilmente, è anche ciò che ci rende umani. È difficile immaginare che vita sarebbe la nostra se non fossimo in grado di controllare gli impulsi, concentrarci su compiti a lungo termine, ragionare in modo astratto, ritardare la gratificazione, monitorare il nostro funzionamento e correggere gli errori. Tuttavia, abbiamo anche visto che, quando si tratta di rispondere in modo efficace alle richieste poste dalle “tre C” e alle sfide specifiche che l’uomo deve affrontare occupando la propria nicchia ecologica, la PFC è il nemico. L’ebbrezza è un antidoto al controllo cognitivo, un modo per bloccare temporaneamente l’avversario della creatività, dell’apertura culturale e dei legami sociali.
Per cristallizzare i costi e benefici relativi dell’avere questo guastafeste astemio nella parte anteriore del nostro cervello, torniamo di nuovo alla mitologia greca. Il pantheon ellenico include due divinità, Apollo e Dioniso, che incarnano la tensione fra l’autocontrollo e l’abbandono.69 Apollo, dio del sole, rappresenta la razionalità, l’ordine e l’autocontrollo. Nell’arte, l’apollineo è caratterizzato da misura, eleganza e un equilibrio attentamente studiato. Apollo era venerato tramite offerte austere e formali in templi a lui dedicati. Dioniso è il dio del vino, dell’ubriachezza, della fertilità, dell’emotività e del caos. L’arte dionisiaca è caratterizzata dall’eccesso, dall’estasi e dagli stati alterati di coscienza. Fra i suoi seguaci erano celebri le menadi, donne invasate che di notte si radunavano in segreto nei boschi per celebrare quelli che nel mondo latino sarebbero stati chiamati baccanali, riti orgiastici a base di alcol e droghe, un po’ come i rave contemporanei, ma con un carattere più oscuro, più nudità e, in qualche caso, cannibalismo.
Dioniso fa leva sulle regioni più antiche e primitive del nostro cervello, preposte al sesso, alle emozioni, al movimento, al tatto. La dimora naturale di Apollo è la corteccia prefrontale. È la PFC a far sì che gli esseri umani adulti funzionino più come lupi scontrosi che come labrador giocherelloni. Sotto la sua guida, diventiamo molto efficienti in compiti specializzati e siamo in grado di eseguirli senza esitazione, mettendo da parte la noia, le distrazioni e la fatica. È lì che si trova tutto ciò che manca a un bambino di quattro anni che continua ad allacciarsi e slacciarsi le scarpe, quantomeno dalla prospettiva di un adulto che si sforza di arrivare all’asilo e al lavoro in orario. La caffeina e la nicotina sono gli alleati del lupo, aiutandolo a concentrarsi, a superare la fatica e focalizzare l’attenzione. Queste sostanze sono gli amici e alleati naturali della PFC. Sono gli strumenti di Apollo.
Se, d’altra parte, vogliamo dare un po’ di respiro alla nostra natura dionisiaca, ci serve qualcosa che rallenti o metta fuori uso la PFC, qualcosa che ci renda più spensierati, creativi, emotivi e fiduciosi. Dobbiamo spezzare le catene: non a caso uno dei nomi latini di Dioniso era Liber, cioè “libero”. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci consenta di godere in età adulta di tutte le meravigliose qualità della mente infantile e di allentare l’ordine e la disciplina apollinei con un pizzico di caos o svago dionisiaco.
Ovviamente questo spiega perché Dioniso sia anche il dio del vino. L’alcol, ancora meglio se con un po’ di buona musica, danza e altre forme di gioco, è lo strumento ideale per paralizzare la PFC per qualche ora. Dopo un bicchiere o due, la vostra attenzione si restringe alle immediate vicinanze. Vagate senza meta, più liberi di andare ovunque la conversazione possa condurvi. Vi sentite allegri e smettete di preoccuparvi del futuro. Le vostre facoltà motorie sono andate. D’altra parte, se parlate una lingua straniera, d’un tratto potreste sentirvi un po’ più sicuri e fluenti. In altre parole, siete tornati bambini, con tutti i costi e i benefici che derivano dal mettere fuori gioco la PFC. Si tratta di una soluzione elegante e conveniente al problema di come produrre temporaneamente uno stato mentale ricettivo, flessibile e infantile in qualcuno dotato del corpo, delle capacità e delle risorse di un adulto.
Permettere al Dioniso fanciullesco di assumere il controllo, almeno per un po’, è il modo in cui abbiamo risposto alle sfide tipiche dell’essere umano. L’ebbrezza ci dà una mano ad affrontare le richieste della nostra nicchia ecologica, rendendoci la vita più semplice quando dobbiamo essere creativi, convivere in spazi ristretti con gli altri, tenere alto il morale nelle imprese collettive, ed essere più aperti a instaurare un legame con gli altri e a imparare da loro. Perfino Platone, un devoto di Apollo a livelli quasi monomaniaci, riconosceva l’esigenza del ringiovanimento mentale e spirituale indotto dall’alcol: «Fu proprio tale dio [Dioniso] che diede agli uomini il vino, perché con il suo benefico potere fosse rimedio alla durezza della vecchiaia. In tal modo possiamo ritornar giovani e per il fatto di dimenticarci delle afflizioni l’indole del nostro animo, da dura qual era si addolcisce, come avviene per il ferro posto ad arroventare sul fuoco, che in tale stato si plasma senza difficoltà».70 Ubriacarsi ci aiuta anche nelle esigenze sociali, rendendoci più fiduciosi e al tempo stesso più affidabili.
Ecco perché il consumo di alcol, malgrado i costi e i problemi che comporta, non è stato eliminato dall’evoluzione genetica o per decreto culturale. In senso letterale o spirituale, di tanto in tanto, abbiamo bisogno di ubriacarci. Apollo deve essere subordinato a Dioniso, il lupo deve cedere il passo al labrador, e l’adulto lasciare il posto al bambino. Nella sua opera seminale sull’ebbrezza chimica, Le porte della percezione, Aldous Huxley osserva acutamente che «il ragionamento sistematico è qualche cosa di cui, come specie o come individui, non potremmo assolutamente fare a meno. Ma neppure, se dobbiamo rimanere sani, possiamo assolutamente fare a meno della diretta percezione, tanto meglio se meno sistematica, del mondo interiore e di quello esteriore, nei quali siamo nati».71
In altri termini, essere umani richiede un attento equilibrio fra Apollo e Dioniso. Dobbiamo essere capaci di allacciarci le scarpe, ma anche, di tanto in tanto, di lasciarci distrarre da ciò che è bello, interessante o nuovo. A causa delle particolari sfide adattive che dobbiamo affrontare come specie, abbiamo bisogno di un modo per iniettare dosi controllate di caos nelle nostre vite.72 Apollo, l’adulto sobrio, non può essere sempre al comando. Dioniso, come un bambino imbranato, potrà anche avere difficoltà a mettersi le scarpe, ma qualche volta riesce a trovare soluzioni innovative che Apollo non si sognerebbe neppure. Le tecnologie dell’ebbrezza, l’alcol sopra di tutte, sono state storicamente il modo in cui siamo riusciti a tenere aperta la porta a Dioniso. Ed è il Dioniso che beve, danza e si lascia rapire dall’estasi ad averci liberato dal sé egoista dei primati abbastanza a lungo per condurci, allegri e caracollanti, alla civiltà.