Intorno all’VIII millennio a.C., nella cosiddetta “mezzaluna fertile” – una fascia di territorio del Medio Oriente che copre grossomodo l’Egitto, la Siria, l’Iraq e l’Iran odierni – alcuni cacciatori-raccoglitori intelligenti cominciarono a mettere da parte i semi di cereali e legumi selvatici insolitamente produttivi o gustosi e a ripiantarli in appezzamenti di terreno liberi dalla vegetazione. Tornarono la stagione successiva e ripeterono l’operazione; forse passavano periodicamente per irrigare o estirpare le erbacce. Alla fine, questo processo di selezione produsse le prime versioni delle coltivazioni moderne, piante abbastanza produttive da sfamare le popolazioni stanziali e premiarne gli sforzi, che andavano dalla preparazione del terreno, alla semina e cura dei campi, passando infine per il raccolto dei frutti del loro lavoro. Et voilà, l’agricoltura. Qualche tempo dopo, processi simili condussero in modo indipendente alle rivoluzioni agricole in altre regioni del pianeta, come la domesticazione del grano, del miglio e del riso nelle vallate del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro in Cina, o del mais nella Americhe.
Quando i raccolti cominciarono a diventare regolari, capitava che i primi agricoltori si ritrovassero con eccedenze che potevano essere immagazzinate in vista di una stagione di magra o per tutelarsi da un eventuale cattivo raccolto. A un certo punto, però, qualcuno si accorse che, se un cereale veniva lasciato in ammollo nell’acqua (mettiamo in seguito a un tentativo fallito di preparare il pane), l’impasto si trasformava in qualcosa di completamente diverso. L’odore non era male. Il gusto era un po’ strano, ma dopo un po’ ti ci abituavi e alla fine diventava gradevole. Soprattutto, era capace di darti alla testa. Così, a quanto pare, non molto tempo dopo aver imparato a padroneggiare l’agricoltura, gli uomini cominciarono anche a godere dei benefici della birra. In tutto il mondo si diffusero processi analoghi che portarono alla produzione di bevande alcoliche prodotte a partire da uva, miglio, riso e mais. Finalmente la gente aveva qualcosa di gustoso con cui accompagnare il pane e il formaggio. Per lungo tempo questa è stata la ricostruzione più accreditata dell’origine della produzione di alcolici: un errore, una conseguenza non intenzionale dell’invenzione dell’agricoltura.
Ma intorno agli anni cinquanta del secolo scorso questa prospettiva cominciò a essere messa in discussione dai sostenitori di varie teorie secondo cui la birra era stata inventata prima del pane.1 Secondo questi autori, i banchetti affollati e probabilmente innaffiati dall’alcol, che spesso radunavano abitanti di regioni molto lontane fra loro per diverse giornate a base di musica, danze, rituali, libagioni e sacrifici, si diffusero molto prima dell’invenzione dell’agricoltura. A Göbekli Tepe, un sito archeologico nell’odierna Turchia di cui parleremo più avanti, i cacciatori-raccoglitori si ritrovavano con regolarità già fra il X e l’VIII millennio a.C. per banchettare con carne di gazzella, costruire strutture circolari ed erigere enormi pilastri a T di pietra calcarea incisi con misteriosi pittogrammi e forme animali. È alquanto probabile che in queste occasioni la birra scorresse a fiumi. Va detto che, in termini pratici, l’ubriachezza non sembra andare molto d’accordo con la costruzione di architetture monumentali. I pilastri di pietra eretti a Göbekli Tepe pesavano da dieci a venti tonnellate ciascuno e dovevano essere trasportati per quasi un chilometro dalla cava dove venivano estratti, cosa che richiedeva l’impiego di forse cinquecento persone. Tutta questa attività di intaglio, trasporto e sollevamento doveva essere ancora più difficoltosa sotto l’effetto dell’alcol o dei postumi della sbornia, per non parlare dei piedi e delle dita schiacciate per via dell’ubriachezza.
Eppure, in tutto il mondo antico, troviamo evidenze analoghe secondo cui i primi grandi raduni di questo genere si tenevano molto prima che a qualcuno venisse in mente di dedicarsi all’agricoltura. Gli archeologi che lavorano nella “mezzaluna fertile” hanno notato che nei siti più arcaici gli utensili impiegati e le varietà di cereali coltivati erano più adatti alla birrificazione che alla produzione del pane. Di recente sono state rinvenute le prove della produzione di pane e/o birra in un sito nel nord-est della Giordania datato a 14 400 anni fa, quattromila anni prima della nascita dell’agricoltura.2 Dato che sarebbero dovuti passare millenni prima che il pane diventasse un alimento di base, la motivazione più plausibile per cui i cacciatori-raccoglitori si dessero tanto da fare era la produzione della bevanda al centro dei banchetti e dei rituali estatici.3 Vale anche la pena notare che la ricetta più antica del mondo è quella di una birra – riportata in un mito sumerico – e che le rappresentazioni più antiche dei banchetti includono evidenti scene di bevute.4 La maestria dell’uomo nella fermentazione alcolica è così antica che, in base alle evidenze raccolte, certi ceppi di lieviti associati al vino e al sakè sarebbero stati domesticati almeno 12 000 anni fa.5
Anche in altre parti del mondo osserviamo il medesimo schema, secondo cui la produzione di bevande alcoliche precederebbe l’agricoltura. Un antico progenitore del mais, il teosinte, veniva coltivato in America centrale e meridionale quasi 9000 anni fa, molto prima che gli agricoltori riuscissero a produrre il mais vero e proprio. Dal teosinte si ottiene una farina pessima ma un alcol eccellente; è alla base della chicha, la bevanda simile alla birra che si consuma ancora in tutta l’America centrale e meridionale. Esistono evidenze secondo cui la chicha veniva consumata nei banchetti rituali già nel IX secolo a.C., e che ci fanno ritenere che il controllo e la distribuzione della bevanda costituivano aspetti centrali dei rituali e del potere statale durante l’impero degli Inca fin dal III secolo a.C.6 Lo stesso vale presumibilmente per le droghe che prendevano il posto degli alcolici in zone dove queste non venivano prodotte. Riecheggiando l’argomentazione secondo cui la birra sarebbe stata inventata prima del pane, alcuni studiosi hanno fornito evidenze per cui, in alcune regioni dell’Australia, fu l’esigenza di coltivare gli ingredienti del pituri a portare allo sviluppo dell’agricoltura.7 Analogamente, è possibile che la coltivazione del tabacco in Nord e Sudamerica, in particolare nelle regioni dove la pianta non era nativa, abbia suggerito la manipolazione di altre specie vegetali e, quindi, dato avvio all’agricoltura.8
Tutto ciò suggerisce la forte probabilità che sia stato il desiderio di ubriacarsi o stordirsi a portare alla nascita dell’agricoltura, e non il contrario. Sull’agricoltura, naturalmente, si fonda la civiltà stessa. Ciò implica che la nostra predilezione per le neurotossine liquide o fumabili, ossia modalità agevoli per mettere fuori uso la PFC, potrebbe aver fatto da catalizzatore nel dare origine alla vita agricola. Inoltre, le sostanze inebrianti non solo ci hanno introdotti alla civiltà, ma, come vedremo in questo capitolo, hanno anche reso possibile che ci civilizzassimo. Facendo in modo che l’uomo diventasse, almeno temporaneamente, più creativo, culturale e comunitario – e vivesse come gli insetti sociali, malgrado fosse un primate – le sostanze inebrianti hanno innescato la scintilla che ci ha permesso di formare gruppi molto numerosi, domesticare un numero sempre maggiore di piante e animali, accumulare nuove tecnologie e, quindi, dare vita alle civiltà in grado di espandersi e rendere l’uomo la megafauna dominante del pianeta. In altre parole, è Dioniso, ebbro di vino e intento a suonare i suoi seducenti flauti di Pan, il fondatore della civiltà: Apollo è solo un comprimario.
Uno dei molti poteri che i greci attribuivano a Dioniso era la metamorfosi. Dioniso poteva assumere le sembianze di un animale, e fu lui il dio che donò all’incauto re Mida il potere di trasformare in oro qualunque cosa toccasse. Essendo il dio dell’ebbrezza, poteva far impazzire le persone assennate. O, cosa ancora più impressionante, poteva trasformare dei primati concentrati sul compito, diffidenti, aggressivi e fieramente indipendenti in esseri sociali rilassati, creativi e fiduciosi. Vediamo ora come, ovunque e in ogni epoca, gli umani abbiano chiesto aiuto a Dioniso quando si sono trovati ad affrontare la sfida intrinseca nell’essere una scimmia creativa, culturale e comunitaria.
Le sponde del Gange udirono il trionfo
del dio della gioia, quando dall’Indo giunse
il conquistatore di tutto, il giovane Bacco
col sacro vino a destare i popoli dal sonno.
F. Hölderlin9
Secondo un tema ricorrente nelle culture di tutto il globo e di ogni epoca, l’alcol è considerato una musa ispiratrice. Come nota Da’an Pan, «nella cultura cinese tradizionale […] il vino svolge il ruolo paradossale di inebriante in grado al tempo stesso di favorire l’immaginazione artistica, “risvegliando” i bevitori nei loro momenti creativi migliori […] essere ubriachi significa essere ispirati».10 Non è insolito per i poeti dell’antica Cina raccogliere intere serie di poesie sotto il titolo “Scritte quando ero ubriaco”, come questa di Zhang Yue (667-730):
Una volta ubriaco, la mia delizia non conosce limiti,
persino meglio di quando non sono ubriaco.
Le mie movenze, le mie espressioni, tutto si trasforma in danza,
e ogni parola che la mia bocca proferisce si trasforma in una
poesia!11
Questo ci riporta a un antico detto greco:
Se con l’acqua riempi i bicchieri
non scriverai mai nulla di saggio
ma il vino è il cavallo del Parnaso
che conduce un bardo nei cieli.12
Il nome di Kvasir, dio anglosassone dei bardi e dell’ispirazione artistica, deriva dall’equivalente di strong ale. Nella mitologia norrena, Kvasir viene ucciso e il suo sangue mescolato con alcol per creare l’“idromele dell’ispirazione”. «Chiunque bevesse di questa pozione magica», osserva Iain Gately, «poteva comporre poesie e parlare con saggezza.»13 E malgrado il divieto formale imposto dalla religione, le poesie persiane venivano concepite sotto l’effetto del vino e ne celebravano i poteri rivelatori.
Coma fa notare lo studioso di letteratura inglese Marty Roth, mentre gli scrittori moderni, da Eugene O’Neill a Ernest Hemingway, hanno esplicitamente negato il ruolo dell’alcol nella loro arte, «è probabile che questa ammissione, quando proviene da un forte bevitore, sia più un alibi per le proprie abitudini alcoliche che la constatazione di un fatto».14 Comunque sia, è impossibile ignorare come innumerevoli scrittori, poeti, artisti e musicisti siano anche forti consumatori di ispirazione liquida, disposti a tollerarne i costi fisici, e talvolta finanziari e personali, in cambio della possibilità di dare libero sfogo alla propria creatività. «M’ingrossa il fegato, vero? […] Mi brucia i reni, eh?» dichiara lo scrittore alcolista di Giorni perduti, la pellicola di Billy Wilder. «Ma che effetto fa alla mia mente? Scarica la zavorra e il mio spirito si libra in volo.»15 Per svolgere questo ruolo è possibile ricorrere anche ad altre sostanze chimiche inebrianti. A Vanuatu, un’isola del Pacifico dove tradizionalmente la kava sostituisce l’alcol, quando ai musicisti viene commissionato un brano nuovo, si ritirano nella foresta per entrare in contatto con gli antenati, bere kava e attendere l’ispirazione.16 Per millenni la cannabis ha svolto un’analoga funzione ispiratrice, alimentando l’immaginazione di mistici sufi, poeti della Beat Generation e jazzisti.17 Non dimentichiamo che la celebre Kubla Khan di Samuel Taylor Coleridge venne scritta in pieno trip di oppio.
Il vantaggio dell’alcol, della kava o della cannabis è che queste sostanze sono facilmente integrabili nella normale vita creativa e sociale. Le sostanze psichedeliche come la psilocibina o la mescalina producono uno scollamento più netto dalla realtà quotidiana. Per questa ragione, storicamente il loro uso è stato riservato alle occasioni rituali o a gruppi sociali specifici, come nel caso degli sciamani. Il termine “sciamano” viene genericamente utilizzato dagli studiosi dei fenomeni religiosi per riferirsi a individui che fungono da intermediari con il mondo degli spiriti, da cui vengono investiti di svariati poteri, come la capacità di curare malattie, predire il futuro, comunicare con gli animali e controllarli.18 In tutto il mondo, nelle sepolture più antiche sono stati rinvenuti quelli che sembrano i resti di figure sciamaniche, in virtù della presenza di oggetti rituali, figure animali e – forse la caratteristica diagnostica più citata – sostanze inebrianti, in particolare psichedeliche. Le religioni sciamaniche sono così antiche che, secondo alcuni studiosi, possono essere rintracciate perfino presso altre linee evolutive di ominidi estinti. La cosiddetta “sepoltura dei fiori”, rinvenuta in una grotta nel nord dell’Iraq e risalente a circa 60 000 anni fa, contiene i resti di un maschio di Homo neanderthalensis che nei primi resoconti è stato indicato come un possibile sciamano, sulla base di tracce di pollini che suggeriscono come sia stato sepolto su un letto di fiori, fra cui svariate sostanze medicinali e inebrianti.19 Per quanto possa essere più o meno verosimile che l’uomo di Neanderthal si stordisse o entrasse in comunione con gli spiriti, le prime sepolture umane suggeriscono come le trance e le visioni sciamaniche indotte da sostanze inebrianti abbiano origini arcaiche. I recipienti di ceramica della cultura Chavin rinvenuti sulle Ande peruviane (1200-600 a.C.) che ritraggono un giaguaro sotto un cactus “San Pedro” (da cui si ricava la mescalina) vengono solitamente ricondotte a un contesto sciamanico. Il cactus è una droga che favorisce le visioni dello sciamano e i viaggi nell’oltretomba. Sulle Ande, una sepoltura rinvenuta in una grotta e risalente grossomodo al 1000 d.C. potrebbe essere la tomba di una figura sciamanica, data la presenza di numerosi strumenti rituali, tavolette e tubicini per sniffare e una sacca contenente resti di cocaina, sostanze chimiche riconducibili all’ayahuasca e, forse, alla psilocibina. Nessuna di queste sostanze è autoctona, suggerendo che le sostanze inebrianti circolassero grazie a un’ampia e consolidata rete commerciale.
Un modo per considerare la funzione storica degli sciamani consiste nel vedervi una fonte di intuizioni radicalmente creative. Gli sciamani tornavano dai loro viaggi spirituali indotti da sostanze psicoattive con notizie su cosa faceva stare male Tizio o Caio, sulle cause all’origine del conflitto tra le fazioni X e Y, e su come comportarsi di fronte alla recente siccità o alla scomparsa della selvaggina. Mentre gli sciamani attribuivano tali intuizioni agli spiriti, potremmo invece vedervi dei messaggi che, in un cervello con la PFC disattivata, avevano la possibilità di risalire dalle profondità dell’inconscio. Grazie alla moderna scienza cognitiva, siamo in grado di affermare che questa antica e diffusa associazione fra sostanze inebrianti e intuizione creativa non è casuale.
Da tempo gli psicologi sanno che la creatività tipica del pensiero laterale viene inibita dalla focalizzazione esplicita sul raggiungimento di un obiettivo o dalla preoccupazione per le ricompense esterne a un compito che si sta eseguendo. Sforzarsi eccessivamente di risolvere il Remote Associate Task (RAT) ci porta a risultati peggiori che se ci rilassassimo e lasciassimo la nostra mente libera di individuare una parola chiave che accomuni le tre parole-stimolo.20 Se vi venisse chiesto di realizzare un collage creativo utilizzando dei fogli colorati e della colla, e se pensaste di dover essere valutati da un giudice esterno, otterreste un risultato più anonimo e prudente.21 Sebbene i soggetti con un ridotto controllo cognitivo mostrino difficoltà di concentrazione, sembrano ottenere risultati migliori nella soluzione di problemi che richiedono creatività e flessibilità.22 Gli scrittori professionisti e i fisici riferiscono che le idee più creative – quando si accende la fatidica lampadina – emergono quando “vagano con la mente” o si trovano in uno stato mentale scollegato dal compito che stanno eseguendo o dagli obiettivi immediati.23
Come abbiamo visto in precedenza, qui il problema è la PFC, la sede di Apollo. Abbiamo notato come gli adulti con una lesione prefrontale, o i soggetti la cui PFC è stata momentaneamente disattivata da una bella scarica magnetica transcranica, ottengano risultati migliori nei compiti creativi. Altrettanto utile è uno stato mentale di generale passività o rilassatezza, indicato da un elevato ritmo alfa nel cervello, che rispecchia una sottoregolazione delle regioni preposte al controllo cognitivo, orientate all’obiettivo e basate sull’elaborazione top-down, come la PFC. In uno studio, gli sperimentatori hanno utilizzato il biofeedback per accrescere il ritmo alfa in un gruppo di soggetti.24 I partecipanti venivano collegati a un elettroencefalografo, veniva mostrato loro uno schermo con una barra verde che indicava il livello di attività alfa e veniva chiesto loro di far salire il più possibile la barra. Per aiutare i soggetti, venivano fornite loro indicazioni che chiunque abbia provato a praticare la meditazione conosce molto bene: rilassare la mente, fare respiri profondi e regolari, lasciar correre liberamente i pensieri e le emozioni, sentire il corpo che si rilassa. Poco dopo, i soggetti che erano riusciti ad aumentare l’attività alfa ottenevano risultati migliori degli altri partecipanti in un compito di pensiero laterale.
Essendo primati creativi, gli umani dipendono in modo decisivo dal pensiero laterale. Abbiamo bisogno di un flusso continuo di intuizioni nuove e di una costante riorganizzazione delle conoscenze acquisite. In questo i bambini, grazie alla PFC non ancora sviluppata, sono dei veri campioni. Ma, come abbiamo visto, l’aspetto che li rende così creativi è anche il motivo per cui quasi tutte le loro invenzioni sono inutili, quantomeno dalla prospettiva pragmatica degli adulti orientati a uno scopo. Mondi incredibilmente distorti percorsi da veicoli post-apocalittici fatti con pezzi di recupero e guidati da omini della Lego con la testa della Barbie, o un tè in perfetto stile british a cui partecipano pupazzi dei supereroi e peluche, riflettono un’impressionante capacità di pensare fuori dagli schemi. Ma ciò di cui ora ha davvero bisogno la società sono nuovi vaccini e batterie agli ioni di litio più efficienti. Se l’obiettivo è massimizzare l’innovazione culturale implementabile, la persona ideale sarebbe qualcuno dotato del corpo di un adulto ma, per un breve periodo, della mente di un bambino, qualcuno con un controllo cognitivo ridotto, maggiore apertura agli stimoli e una mente disposta a vagare in direzioni imprevedibili. In altre parole, un adulto ubriaco, fatto o sballato. Le società sono giunte ad associare l’ebbrezza alla creatività poiché l’ebbrezza chimica è stata una tecnologia essenziale e ampiamente diffusa per “tornare bambini”, almeno in termini mentali, in modo relativamente controllato.
Lev Tolstoj era davvero un rompiscatole quando si trattava di fare i conti con la realtà. In un saggio del 1890, dal titolo Perché la gente si droga?, lo scrittore dichiara che «[n]on è nel gusto, non è nel piacere, non è nello svago né nell’allegria che risiede la causa dell’universale diffusione dell’hashish, dell’oppio, del vino, del tabacco, ma solamente nel bisogno di nascondere a se stessi le indicazioni dateci dalla coscienza». Ahia.
Non c’è alcun dubbio che i personaggi dei romanzi di Tolstoj ricorrano alle sostanze inebrianti per distogliere lo sguardo dalla propria condotta immorale o dissoluta. Eppure non è difficile constatare come le tradizioni religiose di tutto il mondo abbiano difeso l’alcol come fonte di gioia e sollievo genuini. Un antico inno dedicato alla dea sumera della birra sentenzia:
Che il cuore dell’orcio dove fermenta la birra sia il nostro cuore!
Ciò che rende il tuo cuore pieno di meraviglia,
che renda anche il nostro cuore pieno di meraviglia.
Il nostro fegato è felice, il nostro cuore ricolmo di gioia.
Hai versato una libagione sul mattone del destino […]
bevendo birra, con umore beato,
bevendo liquore, sentendomi inebriato,
con gioia nel cuore e un fegato felice.25
La gioia che regala l’alcol viene spesso collegata a una sorta di evasione mentale, cosa che era al centro delle preoccupazioni di Tolstoj, ma solitamente ciò da cui si fugge non è la propria coscienza, bensì la durezza della vita quotidiana. Come leggiamo nel libro dei Proverbi, «date bevande inebrianti a chi si sente venir meno e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore. Beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene».26 Di certo, in fondo alla bottiglia i poeti non trovavano solo l’ispirazione, ma anche un conforto emotivo. «Non dovremmo lasciare che i nostri spiriti cedano alla tristezza», scrive il lirico greco Alceo. «La migliore di tutte le difese è mescolare molti vini, e bere.»27 Il poeta cinese Tao Yuanming dichiara:
Innumerevoli tribolazioni si susseguono.
Vivere non è forse estenuante?
Come posso soddisfare, le mie emozioni?
Lasciate che mi goda un po’ di vino torbido.28
Nel contesto della poesia in questione la traduzione migliore del verbo cheng (稱) è “soddisfare”, ma il significato originario è “pesare su una bilancia”, oppure “correggere” o “armonizzare” un sistema. Come nei versetti tratti dal libro dei Proverbi, l’alcol viene chiaramente descritto come uno strumento per regolare l’umore.
Se degli aristocratici relativamente benestanti come Tao Yuanming o Alceo avvertivano l’esigenza di affogare i propri dispiaceri o di concedersi un momento di allegria e negazione della realtà, immaginate quanto possa essere intenso questo stesso bisogno per la maggior parte di coloro che vivono nelle moderne società complesse, spaccandosi la schiena nei campi, nelle fabbriche, sulle strade e nei cantieri, e che tirano avanti giorno dopo giorno mangiando e riposandosi poco e male. Per persone così, prendersi una pausa di due o tre ore dalla realtà non è solo piacevole, ma forse necessario.
Fra gli antropologi che in passato hanno cercato di dare una spiegazione al consumo di sostanze inebrianti, la riduzione dello stress o dell’ansia è stata la funzione sociale attribuita più comunemente all’alcol.29 Forse il sostenitore più autorevole di questo punto di vista fu Donald Horton. In una panoramica delle pratiche alcoliche presso cinquantasei società poco numerose, pubblicata nel 1943, Horton dichiarava che «in tutte le società la funzione principale delle bevande alcoliche è la riduzione dell’ansia».30 L’autore proponeva una sorta di modello idraulico, argomentando che il consumo di alcol aumenta con la scarsità di cibo o in tempo di guerra, entrambi motivi di ansia, finché non emergono nuove preoccupazioni generate dal consumo eccessivo di alcol. Ogni società raggiungerebbe un equilibrio fra questi due estremi.
La teoria di Horton è invecchiata male. Resta il fatto, tuttavia, che la capacità dell’alcol di risollevare l’umore generale nonché di alleviare l’ansia e lo stress rimane al centro delle spiegazioni, sia popolari che scientifiche, del consumo di sostanze inebrianti.31 Ciò che è cambiato è il riconoscimento che la funzione di migliorare l’umore e ridurre l’ansia a livello individuale probabilmente assolve alla funzione sociale più ampia di permettere alle persone di favorire la convivenza all’interno degli angusti confini gerarchici delle grandi società. Altre teorie antropologiche più recenti vedono nell’alcol uno strumento per aumentare la solidarietà sociale, permettendo ai cacciatori-raccoglitori gelosi della propria indipendenza di ignorare quegli aspetti che li accomunavano agli scimpanzé e che impedivano loro di vivere come insetti sociali.32
Per avere un’idea di come la riduzione dello stress sia un problema fondamentalmente anche sociale, i ratti possono essere un modello illuminante. Uno studio che esaminava la relazione fra lo stress e l’assunzione volontaria di alcol nei ratti ha sottoposto tre gruppi di ratti sani, che non avevano mai assaggiato alcol, a diversi livelli di stress.33 Un gruppo di controllo è stato collocato in una normale gabbia poco affollata e priva di fattori di stress quotidiani. Un gruppo sottoposto a stress acuto trascorreva sei ore al giorno in una gabbia minuscola e sovraffollata dove i ratti riuscivano a malapena a muoversi, e il resto del tempo in una gabbia normale. Un terzo gruppo sottoposto a stress cronico trascorreva l’intera durata dello studio, una settimana, in una gabbia non eccessivamente affollata, ma pur sempre disagevole. Tutti i ratti avevano libero accesso al cibo e a due liquidi: una bottiglia contenente solo acqua di rubinetto e un’altra contenente acqua del rubinetto “corretta” con abbondante etanolo.
Rispetto al gruppo di controllo, i gruppi sottoposti a stress acuto e cronico mostravano una diminuzione del peso corporeo durante lo svolgimento dello studio, indicando che le condizioni in cui si trovavano mandavano i ratti fuori di testa. Entrambi i gruppi rispondevano allo stress attaccandosi alla bottiglia: dopo un solo giorno di sovraffollamento, il consumo di alcol era significativamente più elevato rispetto al gruppo di controllo. Tutto questo è interessante, ma non così sorprendente. Più indicativo, invece, era il modo in cui differiva il comportamento dei gruppi sottoposti a stress acuto e cronico. Il consumo di alcol da parte del gruppo sottoposto a stress acuto è rimasto pressoché stabile, e al termine della settimana era grossomodo equivalente a quello del gruppo di controllo, il quale sembrava aver sviluppato un moderato interesse per questa nuova bevanda. I ratti cronicamente stressati, d’altro canto, alzavano il gomito con entusiasmo, facendo salire il consumo di alcol a livelli che avrebbero fatto arrossire Francis Scott Fitzgerald (figura 6).
Figura 6. Consumo di alcol dopo 1 giorno e dopo 7 giorni nei tre gruppi di ratti (controllo, stress acuto, stress cronico).
Gli autori sono giunti alla conclusione che ci si poteva adattare ai fattori di stress temporanei con un aiuto chimico, laddove lo stress a lungo termine motivava il consumo prolungato di alcol in quantità che dovevano aumentare nel corso del tempo per ottenere il medesimo effetto.
Tutto ciò potrebbe sembrare piuttosto crudele nei confronti dei ratti. È presumibile, tuttavia, che la transizione della nostra specie dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori – lo stile di vita che abbiamo seguito per la maggior parte della nostra storia evolutiva, e che condividiamo con i nostri progenitori e parenti più stretti – alle comunità agricole stanziali abbia comportato un trauma altrettanto sconvolgente.
Secondo Greg Wadley e Brian Hayden, che sostengono una variante particolarmente convincente della tesi secondo cui la birra sarebbe stata introdotta nelle nostre diete prima del pane, la transizione all’agricoltura avvenuta nel Neolitico aumentò in modo significativo l’affollamento quanto le disuguaglianze. I gruppi di cacciatori-raccoglitori consistevano verosimilmente di venti-quaranta individui che si spostavano su un ampio territorio in cerca di prede e piante. I primi che vissero la rivoluzione agricola nella mezzaluna fertile, quando i cacciatori-raccoglitori nomadi cominciarono a insediarsi in comunità più numerose e stanziali, dovettero sentirsi un po’ come i ratti rinchiusi in una gabbia troppo piccola con provviste piuttosto scadenti. Un tale cambiamento dovette certamente comportare una marcata diminuzione nella qualità e nella varietà del cibo: si passava da un’alimentazione variata, ricca di carne, piante e frutta, a una dieta a base di pane, capace di saziare ma poco gustoso e povero di vitamine, o altri amidi. Inoltre si assistette a un costante e considerevole aumento sia dell’affollamento sia delle disuguaglianze. Come rilevano Wadley e Hayden, già 12 000 anni fa i villaggi della mezzaluna fertile ospitavano 200-300 abitanti e mostravano i primi segni di proprietà privata, disparità economiche e stratificazione sociale. Da allora le cose sarebbero alquanto peggiorate, e molto rapidamente.
Studi empirici hanno mostrato che l’effetto dell’alcol sulla risposta umana allo stress è simile a quello sui ratti, come ci si potrebbe aspettare dalla panoramica degli effetti fisiologici dell’alcol riportata nel capitolo 2. In uno studio classico,34 un gruppo di volontari maschi della Indiana University vennero sottoposti a fattori di stress presumibilmente più intensi di una gabbia affollata: dovevano guardare un conto alla rovescia da 360 a 0 su un orologio digitale, al termine del quale ricevevano una dolorosa scarica elettrica, oppure dovevano tenere una relazione improvvisata, inquadrati da una telecamera, sull’argomento: «Cosa mi piace e cosa non mi piace del mio aspetto fisico». La relazione veniva poi valutata da una commissione di giudici in base al grado di apertura e al livello di nevroticismo. (Negli anni ottanta, evidentemente, era molto più semplice ottenere il consenso dei soggetti umani che si sottoponevano agli studi.) La risposta allo stress veniva costantemente monitorata con misurazioni implicite, come la frequenza cardiaca e la conduttanza cutanea (che aumenta con lo stress), oltre a indicazioni esplicite fornite da una “manopola dell’ansia”, che i soggetti dovevano ruotare in base al loro stato mentale conscio, su una scala da 1 (“estremamente calmo”) a 10 (“estremamente teso”). Anche la pressione sanguigna, l’umore autoriferito e il tasso alcolemico (BAC, Blood Alcohol Concentration) venivano misurati prima e dopo l’esperimento.
Per controllare gli “effetti aspettativa”, ossia i punti di vista culturali sugli effetti prodotti dall’alcol, gli sperimentatori utilizzarono il cosiddetto balance placebo design. A tutti i partecipanti venne offerto un drink che aveva l’aspetto e il sapore di un vodka tonic con succo di lime, ma ai gruppi vennero riferite informazioni diverse su cosa avrebbero bevuto. Ai membri di un primo gruppo venne detto che stavano per bere un vodka tonic, ed era effettivamente così; ai membri di un secondo gruppo veniva fornita la stessa informazione, ma nel bicchiere c’era solo acqua tonica. (Alla gradazione alcolica utilizzata nello studio, la versione alcolica e analcolica del cocktail erano indistinguibili al palato.) Ai membri di un terzo gruppo veniva detto che avrebbero bevuto solo acqua tonica, quando in realtà si trattava di un vodka tonic. Infine, i membri di un quarto gruppo venivano informati che stavano per bere un cocktail analcolico, che è quanto ricevevano. Al termine, i soggetti che avevano bevuto il drink alcolico (i membri del terzo e quarto gruppo) presentavano un tasso alcolemico intorno allo 0,09 per cento, appena superiore al limite per la guida negli Stati Uniti. Nel corso dell’esperimento questi soggetti avevano mostrato aumenti contenuti della conduttanza cutanea e della frequenza cardiaca, oltre a livelli di ansia autoriferita più bassi. Dopo l’esperimento riferirono di essere più allegri rispetto al gruppo di controllo. È significativo che gli effetti dell’alcol fossero interamente dovuti alle proprietà farmacologiche dell’etanolo: i soggetti del secondo gruppo non mostravano effetti placebo, né fisiologici né psicologici.
A partire dagli anni ottanta, i risultati di questo studio sono stati corroborati da una corposa letteratura che dimostra come l’alcol «attenui la risposta allo stress».35 Livelli moderati di ebbrezza riducono la risposta fisiologica e psicologica a un’ampia gamma di fattori di stress, sia fisici (rumori forti, choc elettrici) e sociali (parlare in pubblico, conversare con estranei). Questo effetto calmante deriva dal complicato e ampio spettro di effetti che l’alcol esercita sull’organismo umano, che vanno dalle funzioni stimolanti (aumento dell’energia, lieve euforia) a quelle depressive (rilassamento, riduzione della tensione muscolare, miopia cognitiva).36
Tornando ai ratti, lo stress provocato dal sovraffollamento non è l’unico fattore che li spinge a bere. I ratti alzano il gomito anche in risposta alle difficoltà riscontrate nelle interazioni sociali. I topi costretti a stare cronicamente in compagnia di altri maschi più dominanti e territoriali bevevano molto di più dei soggetti del gruppo di controllo che vivevano tranquillamente da soli, inoltre il loro consumo di alcol aumentava non appena venivano bullizzati dai maschi dominanti.37 Come osservano laconicamente Hayden e Wadley, «probabilmente l’abuso di alcol negli umani è dovuto a situazioni simili». Può darsi benissimo, come discusso nel capitolo 1, che la “nobilitazione biologica” di cereali poveri di vitamine e minerali traccia tramite la fermentazione fosse una manna per i primi agricoltori altrimenti costretti a una dieta monotona. Ancora più importanti, tuttavia, erano gli effetti psicologici, la “gioia nel cuore” e il “fegato felice” dispensati dalla dea sumera della birra.
Una meravigliosa illustrazione di questa funzione sociale dell’alcol è il film Il pranzo di Babette (1987). La vicenda si svolge in una piccola comunità di rigidi pietisti che vive in una zona isolata della costa danese. Tutti seguono uno stile di vita parsimonioso, ascetico e assolutamente sobrio, evitando alcol e altre sostanze inebrianti. Unico motivo di festa sono le funzioni religiose regolari e pacatamente estatiche (per dei danesi, quantomeno), organizzate e presiedute dal carismatico padre spirituale del villaggio. Quando quest’ultimo muore, le cerimonie non bastano più per unire la comunità, che comincia a disgregarsi. Riemergono antichi rancori e offese, e la congregazione comincia ad assomigliare più a un astioso gruppo di scimpanzé che a un’armoniosa comunità di api. Alla fine, la comunità ritrova l’armonia perduta grazie a una serata di libagioni organizzata da una donna straniera, Babette, una cuoca francese costretta a fuggire dalla Parigi rivoluzionaria. Il banchetto preparato da Babette offre una serie impressionante di pietanze elaborate ed esotiche, ma non è possibile fare a meno di notare come le portate siano innaffiate da un flusso incessante di raffinatissimi alcolici d’importazione. Nel corso della serata la tensione si allenta, la conversazione si scioglie e le vecchie amicizie si rinsaldano. È difficile immaginare una migliore raffigurazione romanzata della riduzione dello stress e dei conflitti interpersonali che accompagna l’innalzamento costante del tasso alcolemico collettivo. Ci sono molti modi in cui gli uomini possono aspirare a una coscienza collettiva, ma l’alcol è certamente il più rapido.
Non è quindi un caso che, nella corsa al taglio dei servizi offerti dalle compagnie aeree che ha portato dai pasti completi e gratuiti della mia infanzia ai pacchetti di cracker concessi con il contagocce nella classe economica di oggi, l’alcol sia l’unica cosa che non viene lesinata. Un modo essenziale in cui gli esseri umani sono riusciti a non farsi a pezzi a vicenda quando si sono ritrovati stipati in ambienti ristretti, o costretti a lavorare alle dipendenze di altri, è assumere la giusta dose di un leggero inebriante. Al giorno d’oggi tendiamo a relegare la riduzione chimica dello stress al termine della giornata lavorativa, rilassandoci con uno o due bicchieri a casa o al pub. I nostri progenitori, d’altro canto, di solito allentavano la tensione con birre piuttosto leggere per gli standard moderni, e facevano attenzione a spalmare questa loro automedicazione nel corso dell’intera giornata lavorativa. A ogni modo, se i sostenitori della teoria per cui la birra è arrivata prima del pane avessero ragione, l’alcol avrebbe dato impulso alla creazione della civiltà non solo motivando i primi agricoltori a diventare stanziali e a produrre cereali da destinare alla fermentazione, ma anche fornendo loro uno strumento preziosissimo per gestire lo stress psicologico indotto da questo drastico cambiamento nello stile di vita.38
Nell’ultimo capitolo abbiamo parlato di quanto conti la fiducia nelle relazioni umane e di come l’impegno emotivo può permetterci di risolvere i dilemmi della cooperazione altrimenti insormontabili. Imparare a fidarsi degli altri è essenziale per il primate sociale. Un aspetto che non abbiamo citato, tuttavia, è che le relazioni fondate sull’impegno, nonostante gli ovvi vantaggi, sono vulnerabili a una peculiare forma di defezione: l’ipocrisia. Se posso fingere di essermi impegnato con qualcuno – magari con un gesto plateale, per esempio legandomi all’albero maestro come Ulisse, magari senza stringere i nodi – posso anche raccogliere tutti i vantaggi dell’impegno senza accollarmene i costi. Nei termini del dilemma del prigioniero, la sfida alla cooperazione che abbiamo discusso in precedenza, io me la cavo con un mese di galera mentre voi marcite in prigione per tre anni. Avete accettato di aiutarmi a spostare il divano, ma, guarda caso, vengo colpito da un misterioso mal di schiena, o scopro di avere una gomma a terra, proprio quando tocca a voi traslocare.
Allo scopo di godere dei benefici di una sincera vita sociale, gli uomini hanno dovuto imparare a fidarsi, ma non in modo indiscriminato. Questa esigenza ha portato all’evoluzione di varie abilità per valutare la sincerità e l’affidabilità altrui, fra cui saper leggere le microespressioni facciali, il tono di voce e il linguaggio corporeo.39 La ricerca mostra come misuriamo e valutiamo l’affidabilità di qualcuno quasi subito dopo averlo incontrato. Uno studio ha scoperto che i soggetti giudicavano l’affidabilità dei volti in meno di 100 millisecondi, e che tali giudizi non cambiavano nemmeno quando alle persone venivano fornite più tempo o maggiori informazioni.40 Questa tendenza a etichettare istantaneamente le persone come probabili cooperatori o meno compare precocemente nel corso dello sviluppo: a partire dai tre anni d’età i bambini classificano i volti come “buono” o “cattivo” rapidamente e senza difficoltà.41 Tali valutazioni “di pancia” ricorrono in tutte le culture, e svolgono un ruolo sorprendentemente importante nei contesti formali, come i processi giudiziari o le elezioni politiche, dove ci si aspetterebbe che le persone siano guidate da criteri più astratti e razionali.
La “pancia” è importante anche quando si affrontano le sfide della cooperazione nei cosiddetti public goods games (“giochi dei beni pubblici”) come il dilemma del prigioniero. In un esperimento,42 ad alcune coppie di estranei veniva concesso di interagire per trenta minuti prima di giocare a una versione one-shot (a turno singolo) del dilemma del prigioniero in cui si forniva un reale incentivo a non cooperare. Le coppie cooperative si capivano alla perfezione in poco tempo e scioglievano il dilemma, ottenendo il payoff complessivo più vantaggioso. È interessante notare che chi non collaborava era in grado di identificare i partner propensi a defezionare e a quel punto negavano a loro volta la cooperazione. I casi in cui chi defezionava riusciva ad approfittare di un partner disposto a collaborare sono stati pochissimi. Questo risultato è stato replicato con successo molte volte, e le predizioni accurate sembrano basarsi su segnali impliciti forniti dalle espressioni facciali, dal linguaggio corporeo e dal tono della voce.43
Quando si tratta di decidere se fidarsi o meno di qualcuno, preferiamo basarci su segnali come le espressioni emotive e le sottigliezze del linguaggio corporeo, poiché sono relativamente indipendenti dal controllo consapevole. Sappiamo, almeno implicitamente, che dobbiamo stare in guardia dalla PFC, la sede del freddo calcolo e del tornaconto personale, così siamo intuitivamente propensi a basare le valutazioni sull’affidabilità altrui sui segnali che bypassano il controllo prefrontale. Le emozioni attingono direttamente alla cognizione inconscia e non mediata. Tendono a insorgere senza preavviso e sono molto difficili da controllare, come sa bene chiunque abbia cercato di reprimere un sorriso spontaneo o un’espressione di terrore.
Nella moderna letteratura scientifica l’idea delle espressioni emotive del viso come segnali sinceri e difficilmente dissimulabili risale a Charles Darwin, sebbene la funzione comunicativa delle emozioni fosse ben nota ai pensatori antichi di Cina e Grecia.44 Le persone sanno riconoscere e classificare con rapidità e precisione le emozioni osservate negli altri,45 ed è difficile impedire il cosiddetto leakage emotivo, ossia che le emozioni trapelino dalle espressioni del viso o dal tono della voce.46 Siamo capaci di distinguere i sorrisi autentici e le risate spontanee da quelli forzati. Di fatto, questi due tipi di manifestazioni coinvolgono sistemi muscolari e vocali distinti,47 laddove il primo è assai meno soggetto al controllo cosciente. In public goods games tratti dalla vita reale, gli individui erano più disposti a fidarsi – cioè a rischiare di più e, quindi, a trarre maggiori benefici – quando interagivano con partner che mostravano sorrisi sinceri rispetto a quelli che sorridevano in maniera forzata.48 In seguito a una defezione, è più probabile che gli individui perdonino e si fidino di un partner pentito che arrossisce, una tipica reazione involontaria.49
In uno studio tanto inquietante quanto elegante,50 la psicologa Leanne ten Brink e i suoi colleghi hanno montato dei video televisivi reali in cui alcuni individui visibilmente emozionati chiedevano al pubblico informazioni che li avrebbero aiutati a ritrovare un parente scomparso. In metà dei casi le persone riprese stavano mentendo e in seguito sarebbero state condannate, sulla base di prove schiaccianti, per l’omicidio del parente in questione. Pur non sapendo quali fossero gli assassini, i partecipanti allo studio furono in grado di individuarli concentrandosi su gruppi muscolari facciali difficilmente controllabili. Gli assassini mostravano una minore attivazione dei muscoli che esprimono sofferenza (corrugatore del sopracciglio e depressore dell’angolo della bocca), una maggiore attivazione dei muscoli associati ai sorrisi forzati (zigomatico maggiore) e tentativi consci di apparire tristi (muscolo frontale).
Nella nostra mente l’affidabilità, quindi, è collegata alla percezione di manifestazioni emotive autentiche e spontanee.51 Tutto questo ha senso. Non ci fidiamo di persone che sembrano fredde o che dissimulano le proprie emozioni: riprendendo l’analogia con Ulisse e le sirene, queste persone non si sono fatte legare all’albero maestro, o l’hanno fatto senza stringere i nodi. Il pregiudizio contro Spock e a favore del capitano Kirk è stato validato da un recente esperimento che suggerisce come le persone siano più cooperative nei public goods games quando sono costrette a decidere in breve tempo o è stato detto loro di fidarsi dell’intuito.52 Dire loro di riflettere, o costringerle a prendersi del tempo per decidere, fa riemergere il lato egoista e razionale e porta a maggiori defezioni a discapito del bene comune. Non è un caso che i sistemi religiosi ed etici di tutto il mondo e di ogni epoca abbiano collegato la spontaneità e l’autenticità all’affidabilità morale e al carisma sociale.53
L’abilità nell’evitare gli ipocriti è quindi un elemento essenziale della vita comunitaria umana, e siamo piuttosto bravi nell’individuare i partner sospetti. Così, pare che gli esseri umani abbiano risolto il peggior pericolo della vita sociale – il rischio di incappare in individui ipocriti e opportunisti – tramite un astuto espediente evolutivo: prestare attenzione ai segnali emotivi e inconsci. Utilizzateli per esaminare i potenziali partner e lasciate perdere quelli che non vi convincono.
L’evoluzione, per fortuna, non si ferma mai. Se i leoni diventano più veloci e più abili nel catturare le gazzelle, sopravvivranno solo le gazzelle più veloci, che a loro volta diventeranno ancora più scattanti. A questo punto solo i leoni più veloci riusciranno a catturare le prede, innescando una rinnovata pressione evolutiva sulla rapidità dei leoni. E così via. Questa specie di “corsa agli armamenti” evolutiva può essere osservata in tutto il mondo biologico,54 e solitamente è questo il motore dello sviluppo di tratti estremi.
Uno di questi tratti è proprio la capacità umana di smascherare i truffatori. Per noi è scontato riuscire a intuire che il venditore di hot-dog ha qualcosa di losco, o che nostro figlio sta mentendo quando dice di aver portato fuori il cane, ma uno scimpanzé sarebbe esterrefatto di fronte alla capacità dell’uomo di leggere la mente altrui. Gli scimpanzé sembrano dotati di un rudimentale sistema per esprimere il proprio stato mentale,55 ma la nostra capacità di trasmetterci a vicenda uno spettro estremamente ampio di pensieri, emozioni e tratti caratteriali alzando in modo impercettibile un sopracciglio, cambiando il tono della voce o muovendo le labbra è pressoché unica nel mondo animale, ed è alquanto probabile che sia un tratto estremo indotto da una “corsa agli armamenti” evolutiva.
Quando vediamo delle gazzelle velocissime che sfrecciano nella savana, deduciamo la presenza di predatori quasi altrettanto scattanti che ne hanno motivato una simile andatura – nel caso delle antilopi americane, in realtà i “fantasmi” dei leoni e ghepardi, predatori estinti nella regione ormai migliaia di anni fa.56 In modo analogo, la nostra abilità apparentemente soprannaturale di smascherare le bugie ha portato allo sviluppo di una corrispondente abilità a ingannare gli altri. Gli umani sono mentitori di prima categoria, una qualità che affinano da millenni. Le gazzelle superveloci hanno successo, almeno in parte, perché sono in grado di controllare volontariamente sistemi muscolari che di norma non ricadono sotto il controllo consapevole. L’attore e regista Woody Allen, per dire, appartiene alla ristretta cerchia di persone che riescono a controllare un gruppo di muscoli della fronte che permette loro di fare la tipica espressione che significa: «So che pensi che io abbia fatto qualcosa di sbagliato o che sono un idiota, ma in realtà sono solo un incompreso». Essere capaci di sfoderare questa espressione a comando, soprattutto quando gli altri ci riescono solo in modo spontaneo, torna molto comodo.57 I politici più carismatici, come Bill Clinton, sembrano in grado di convincersi, temporaneamente ma in modo sincero, che l’interlocutore che hanno davanti in quel momento, magari un anonimo uomo d’affari preoccupato delle tasse doganali, sia l’unica persona al mondo per cui provano un genuino interesse, e che gli stiano concedendo quella che può sembrare la loro totale attenzione, anche quando una parte del loro cervello è tutta rivolta a un grosso finanziatore dall’altra parte della stanza. Disponiamo di alcune evidenze secondo cui gli psicopatici, i traditori sociali per eccellenza, sarebbero in grado di inibire il leakage emotivo,58 a tutto vantaggio della loro viscida capacità di mentire senza far trapelare nulla.
Venendo ai leoni, i chiromanti sono probabilmente la frangia più evoluta dei cheater detectors, o “rivelatori di imbroglioni”. Quando vi stringono la mano, vi guardano negli occhi e vi pongono domande via via più precise, stanno utilizzando le espressioni e le reazioni più sottili per intuire se di recente avete avuto un lutto in famiglia o se detestate il vostro lavoro. Agli occhi delle persone comuni tutto questo può sembrare strabiliante, più o meno come dovrebbe apparire la normale capacità dell’uomo di leggere la mente altrui agli occhi di uno scimpanzé. Lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke disse che «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia». Lo stesso vale per i tratti estremi indotti dalle “corse agli armamenti” evolutive fuori controllo.
Per quanto riguarda l’alcol, l’aspetto essenziale è che le culture non rimangono spettatrici disinteressate di questa competizione fra imbroglioni e cheater detectors. Le culture traggono beneficio dai membri in grado di risolvere le varie forme del dilemma del prigioniero e altre sfide della cooperazione, e così hanno tutto il diritto di favorire i cheater detectors, in particolare puntando sul tallone d’Achille degli imbroglioni, ossia il fatto che tradire o mentire richiede un controllo cognitivo. È facile e non richiede alcuno sforzo apparire onesti o sinceri quando state dicendo la verità o state esprimendo un’emozione genuina; dire una bugia o fingere un’emozione richiede sforzo e attenzione. Se volete rendere la vita difficile ai bugiardi, un valido approccio consisterebbe nell’approfittare di tale debolezza riducendo il loro controllo cognitivo. Idealmente, conviene farlo in qualunque circostanza sociale importante in cui un tradimento potrebbe avere conseguenze negative, e farlo in modo non appariscente. Lasciate perdere i magneti transcranici. Meglio ancora se ci riuscite in un modo che sia effettivamente piacevole e che renda le persone felici e più attente nei confronti di chi si trova nei paraggi.
Avete già capito dove sto andando a parare. Ho dedicato così tanto spazio alle dinamiche evolutive dell’impegno e della cheater detection perché l’ipocrita, l’amico falso, mette in pericolo l’esistenza stessa della comunità. Ecco perché aiutare a smascherare gli impostori, e quindi consolidare la fiducia interpersonale, è una funzione essenziale svolta dalle sostanze inebrianti nella storia della civiltà umana.59 Esiste una ragione molto valida per cui, in società così diverse fra loro come l’antica Grecia, la Cina arcaica, l’Europa medievale e le isole del Pacifico in epoca preistorica, nessun incontro fra individui potenzialmente ostili avveniva senza il ricorso a quantità smodate di sostanze inebrianti.
Un antico testo cinese scoperto di recente, risalente al IV o III secolo a.C. e scritto su strisce di bambù, contiene l’evocativa dichiarazione secondo cui «l’armonia fra gli stati si ottiene bevendo vino».60 Nell’antica Cina nessun accordo politico veniva raggiunto senza che i contraenti “disattivassero” volontariamente il proprio cervello con neurotossine liquide dispensate in cicchetti attentamente calibrati e assunti in base a una precisa scansione temporale. Lo storico romano Tacito rilevava che, fra le tribù barbare germaniche, qualunque decisione politica o militare doveva passare sotto le forche caudine dell’opinione comune, debitamente innaffiata dall’alcol:
Tuttavia, trattano perlopiù durante i banchetti anche le riconciliazioni fra gli avversari, gli accordi matrimoniali, la scelta dei capi, la pace, infine, o la guerra, come se in nessun altro momento, più che in quello, i pensieri possano manifestarsi con sincerità, gli animi riscaldarsi per le questioni di maggior importanza. Questa gente, né sagace né scaltra, apre ancora i segreti del suo intimo nella licenza dei sollazzi; ne deriva, perciò, che il loro pensiero si rivela nella piena chiarezza della sincerità. Il giorno dopo, la questione è ripresa […] trattano di una cosa quando non sono in condizioni di dissimulare, la decidono quando non possono più commettere errori.61
Sebbene Tacito stigmatizzi come pratica primitiva e barbara l’uso dell’alcol come siero della verità, gli antichi greci e romani non erano da meno. Anzi, l’idea stessa che l’ubriachezza riveli il “vero” sé, per quanto antica e universale, trova la sua espressione forse più celebre nel motto latino In vino veritas. L’individuazione del nesso fra sincerità e ubriachezza risale ai greci, per i quali il connubio “vino e verità” era dato per scontato. «La sobrietà in contesti inappropriati era considerata altamente sospetta», fa notare Iain Gately. «Alcune attività, come per esempio l’oratoria, potevano essere esercitate solo in stato di ebbrezza. Le persone sobrie sono fredde e calcolatrici: riflettono prima di parlare e sono attente a quello che dicono, e pertanto […] non venivano davvero coinvolte nell’argomento.»62 Nel Simposio, Platone cita un proverbio secondo cui il vino e i fanciulli rivelano la verità: un’equazione davvero indicativa del tipo di compromissione della PFC che accomuna bambini e ubriachi.
Dato che le parole pronunciate tra i fumi dell’alcol sgorgano direttamente dal cuore, storicamente è stato accordato loro un peso maggiore rispetto a quelle di un sé subdolo, controllato e calcolatore. Nell’antica Grecia, i giuramenti espressi sotto l’effetto del vino erano ritenuti particolarmente solenni, affidabili e potenti. In modo analogo i vichinghi nutrivano un rispetto quasi magico per gli impegni presi dopo aver bevuto (in abbondanza) dal sacro “calice delle promesse”. Nell’Inghilterra dell’età elisabettiana e degli Stuart, le dichiarazioni pubbliche erano viste con sospetto a meno che non venissero accompagnate da un brindisi.63
La mia raffigurazione preferita della funzione dell’alcol di avvalorare la verità e la fiducia è una serie televisiva: Il trono di spade. Nel famoso episodio Le nozze rosse, due clan rivali superano le rispettive divergenze e decidono di allearsi contro il nemico comune. Come gli uomini sono soliti fare, questo accordo è celebrato e sancito da un banchetto ad altissima gradazione alcolica. Nel bel mezzo della festa, un servo sta versando del vino a Lord Bolton, un personaggio decisamente ambiguo, il quale però copre il calice con la mano. Quando un commensale ubriaco gli domanda, incredulo, perché non stia bevendo, Bolton risponde seccamente: «Annebbia i sensi». «È questo il punto!» replica l’altro allegramente. Certo che è questo il punto. Come ogni fan del Trono di spade sa bene, Lord Bolton è il traditore per antonomasia, ben deciso a mantenersi lucido per poi orchestrare lo spietato massacro di tutti i suoi “amici” ubriachi. Non dimenticate la lezione: state in guardia da quelli che si tirano indietro dai brindisi.
L’alcol è la tecnologia più comunemente usata per spingere qualcuno a dire la verità, ma è indicativo il fatto che, nelle regioni dove l’alcol è assente, altre sostanze inebrianti ricoprano un ruolo funzionale identico. I primi esploratori europei che si spinsero nell’oceano Pacifico riferirono di essere stati accolti con banchetti innaffiati di kava, che avevano anche lo scopo di valutare fino a che punto gli stranieri potessero costituire una minaccia.64 Ancora oggi, alle isole Figi nessun consiglio di villaggio può deliberare alcunché se tutti i presenti non si sono scolati parecchi boccali di kava. Alla stessa maniera, fra i nativi americani delle grandi pianure e delle foreste del Nord America, i capitribù rivali risolvevano le controversie e mettevano fine ai conflitti fumando il calumet, la “pipa della pace”, in seguito immortalata nei film western hollywoodiani. Nelle ricostruzioni destinate al grande schermo, tuttavia, veniva del tutto tralasciato l’intenso effetto inebriante di quel tabacco arricchito con allucinogeni. «La tradizione imponeva che, se il calumet veniva offerto e accettato, il gesto di fumare avrebbe reso qualunque promessa sacra e inviolabile», sottolinea lo storico delle religioni americane Robert Fuller. «Si pensava che chiunque avesse violato l’accordo non sarebbe sfuggito alla punizione.»65
Il fatto che, in mancanza di alcol, si ricorra ad altre sostanze inebrianti per assolvere al medesimo ruolo funzionale è una valida prova con cui smentire qualunque teoria del dirottamento o del doposbornia. Sebbene non abbiano goduto dei vantaggi offerti dalle moderne neuroscienze o dalla psicologia sociale, le culture di ogni tempo e luogo hanno compreso implicitamente che la mente individuale sobria, razionale e calcolatrice è una barriera alla fiducia sociale. Ecco perché è normale che essere alticci – o, spesso, completamente sbronzi – sia obbligatorio in circostanze sociali importanti, durante trattative economiche o rituali religiosi. Un’antica poesia cinese tratta dallo Shījīng dichiara:
Umida si stende la rugiada;
finché il sole non sarà sorto, non si asciugherà.
Di notte tracanniamo in abbondanza;
finché non saremo ubriachi, non prenderemo la via di casa.66
La festa ebraica di Purim commemora lo sterminio degli ebrei tramato da Aman e sventato dall’intervento di Mardocheo. Tradizione vuole che il celebrante si ubriachi al punto di non riuscire più a cogliere la differenza tra “maledetto sia Aman” e “benedetto sia Mardocheo”.
Proprio come ci stringiamo la mano per dimostrare che non portiamo un’arma fisica, l’ebbrezza sociale ci permette di disarmarci cognitivamente di fronte agli altri. Al decimo brindisi con l’acquavite di sorgo a un banchetto cinese, all’ultimo calice di vino a un simposio greco, o al termine della festa di Purim, i partecipanti hanno messo fuori gioco la propria PFC, giocando a carte scoperte e abbassando le proprie difese cognitive. Questa è la funzione sociale a cui deve aver pensato Henry Kissinger quando avrebbe detto al leader cinese Deng Xiaoping: «Credo che se bevessimo abbastanza Maotai potremmo giungere a qualunque accordo».67 L’ebbrezza ha svolto un ruolo decisivo nell’aiutare gli uomini a superare i dilemmi della cooperazione che costellano la vita sociale, soprattutto nelle comunità molto numerose. Affinché i gruppi superino sospetti e diffidenze, è necessario paralizzare almeno temporaneamente la nostra infida mente conscia, e una dose generosa di sostanze chimiche inebrianti è il modo più rapido, efficace e piacevole per riuscirci.
La socialità ruota intorno alla fiducia. Pertanto non stupisce il fatto che le bevande che fungono da siero della verità siano sempre state utilizzate come potente simbolo di coesione sociale e armonia. Nell’antica Mesopotamia, la forma peculiare dell’anfora da birra fungeva da simbolo per le interazioni sociali in genere.68 Nella Cina arcaica, le prime assemblee rituali, che fossero finalizzate all’armonia tra gli uomini o tra i viventi e gli antenati, erano organizzate in funzione dell’alcol, dove gli oggetti rituali erano dominati da elaborati recipienti per bere. La gioiosa proclamazione «gli spiriti sono ubriachi!» contenuta in un’ode dello Shījīng sancisce la benevolenza degli antenati e l’armonia tra i vivi e i morti. Banchetti e libagioni, in ogni epoca e luogo, uniscono fra loro gli stranieri e i clan feudali, mettono fine alle dispute e favoriscono l’instaurazione di nuovi legami sociali. Il termine moderno bridal (“nuziale”) deriva dall’anglosassone bryd ealu, o bride ale (“birra nuziale”), che la sposa e lo sposo si scambiavano per suggellare la loro unione, oltre che il nuovo legame tra le rispettive famiglie.69
L’antropologo Dwight Heath, pioniere dello studio della funzione sociale dell’alcol, rileva che le bevande alcoliche hanno sempre ricoperto un ruolo essenziale nell’instaurare legami nelle situazioni in cui è necessario che individui altrimenti isolati vadano d’accordo, come i marinai al porto, i taglialegna dopo che hanno abbattuto l’ultimo albero della giornata e i cowboy al saloon.70 L’Industrial Workers of the World (IWW), un’organizzazione sindacale dei primi del Novecento, doveva risolvere un grave “problema di beni pubblici”: fare in modo che operai di provenienza etnica diversa e reciprocamente diffidenti, con mansioni e formazione disparate, mettessero da parte i loro ristretti interessi personali e formassero un fronte unitario in importanti trattative di categoria contro gli industriali. Quanto si affidassero al bere, associato alla musica e al ballo, è evidente dal nomignolo con cui oggi sono più noti, gli “Wobblies” (gli “itineranti”, ma anche i “barcollanti”), con ogni probabilità in riferimento al modo in cui caracollavano da un locale all’altro.71 Gli Wobblies, brilli e canterini, con il loro motto An injury to one is an injury to all (“Un torto fatto a uno è un torto fatto a tutti”) riscossero un notevole successo, radunando centocinquantamila lavoratori di svariati settori produttivi e strappando agli industriali importanti concessioni.
In molte culture, sbronzarsi aveva anche una funzione militare. Fra le tribù medievali celtiche, anglosassoni e germaniche, periodiche e colossali bevute servivano a rinsaldare il legame fra i guerrieri e fra questi ultimi e il loro signore, laddove lo scambio di alcol fungeva da potente simbolo di fedeltà e devozione.72 Abbiamo già ricordato come George Washington, nonostante avesse sconfitto un’armata di mercenari dell’Assia approfittando del loro stato di ebbrezza, considerasse l’alcol un elemento così essenziale per lo spirito di corpo militare da chiedere al Congresso di aprire delle distillerie pubbliche affinché al neonato esercito statunitense non mancassero adeguate scorte di alcolici. Federico il Grande di Prussia, nel 1777, emanò un proclama contro la nuova, e a suo avviso pericolosa, abitudine di bere caffè anziché birra:
È disgustoso notare l’uso crescente del caffè tra i miei sudditi e la quantità di denaro che di conseguenza lascia il paese. Tutti consumano caffè. Se possibile, questo deve essere impedito. Il mio popolo deve bere birra. Sua maestà fu cresciuta con la birra, e così i suoi antenati e i suoi ufficiali. Molte battaglie sono state combattute e vinte da soldati nutriti con la birra e il Re non crede che da soldati che bevono il caffè si possa attendere, nel caso di una nuova guerra, la forza di affrontare i disagi o di sconfiggere i nemici.73
Anche altre sostanze inebrianti sono state utilizzate per instaurare il legame sociale particolarmente profondo che doveva unire i guerrieri. Uno dei primi missionari spagnoli giunti nel Nuovo Mondo notò che alcune tribù indigene assumevano il peyote prima di lanciarsi in battaglia. La droga, riferiva il frate, «li incita alla lotta senza provare paura, fame o sete: si dice che in questo modo essi sono al di sopra di ogni pericolo».74 È probabile che la furia dei leggendari berserkir norreni fosse indotta da sostanze psichedeliche,75 mentre i temibili Assassini dell’antica Persia derivavano il loro nome (in persiano ḥashashiyan, in arabo hashīshiyyīn) dalla sostanza psicoattiva a cui dovevano il loro spirito combattivo, l’hashish.
Secondo un tipico schema interculturale, il bere è associato più agli uomini che alle donne. Nelle culture in cui bevono entrambi i sessi, gli uomini tendono a bere molto di più. In questo caso, quasi certamente entrano in gioco dei fattori fisiologici.76 In media gli uomini sono fisicamente più massicci e, rispetto alle donne, devono assumere più alcol per ottenere il medesimo effetto psicologico. Probabilmente, tuttavia, nelle società patriarcali tradizionali un fattore più rilevante è rappresentato dal fatto che nella vita pubblica e politica gli attori principali sono gli uomini, i quali, più delle donne, si trovano ad affrontare i dilemmi della cooperazione con estranei potenzialmente ostili.77 Nelle odierne società indigene delle Ande, per esempio, come scrive l’antropologo Justin Jennings, «gli uomini sono associati al consumo di alcol più delle donne […]. Entrambi i sessi bevono, ma la relazione di un uomo con altri uomini si afferma tramite il bere. La capacità di un uomo di reggere l’alcol lo definisce come tale, e, tramite l’alcol, si suggellano amicizie e accordi e si riconoscono i legami sociali».78 Una classica ricerca antropologica di Dwight Heath79 sui camba della Bolivia amazzonica documentava il modo in cui gli uomini camba ricorrono all’alcol, spesso bevendo fino a perdere i sensi, per rinforzare la solidarietà sociale e superare i conflitti interpersonali. Chi vomita insieme, rimane insieme.
Ecco perché gli estranei di solito vengono accolti con abbondanti quantità di alcol. Arrivare in fondo a una notte di bevute è forse il modo più rapido per farsi accettare in un nuovo ambiente sociale. L’antropologo William Madsen, nel suo lavoro sul campo nel Messico rurale, attirò su di sé una folla inferocita dopo essere stato notato mentre scattava foto di una cerimonia religiosa locale. Messo con le spalle al muro e minacciato da un gruppo di uomini armati di machete e ubriachi di pulque, una bevanda tradizionale ottenuta dalla fermentazione della linfa di agave, fu risparmiato solo perché un anziano del villaggio vicino, dove Madsen alloggiava, annunciò: «Lasciatelo, è un amico. Non è uno straniero. Si è ubriacato con il pulque». I machete scomparvero in un batter d’occhio, e tutti si sedettero insieme a bere pulque.80 Bere insieme allarga la cerchia dell’appartenenza e della fiducia. È indicativo come la raccolta di leggi forse più antica a noi nota, il Codice di Hammurabi, preveda la condanna a morte per i proprietari di taverne che non riferiscano di complotti orditi davanti a qualche pinta di birra.81 Il grande potere dell’alcol di stringere legami fra le persone è lo strumento ideale per aspiranti ribelli e rivoluzionari.
Per tale motivo, non offrire da bere o, viceversa, declinare l’offerta, sono considerati gravi atti di rifiuto e ostilità, che possono portare anche al castigo divino. Jennings riporta un mito peruviano risalente ai primi del Seicento su una divinità che decide di verificare la virtù di una comunità manifestandosi a un banchetto nelle vesti di uno straniero povero e affamato. Solo un uomo lo nota e lo accoglie offrendogli da bere. Quando il dio si rivela e riversa la sua ira sui convitati egoisti, solo quell’uomo viene risparmiato.82 In modo simile, rifiutare un drink che ci viene offerto viene visto spesso come un grave oltraggio. Agli albori della Germania moderna, per esempio, «rifiutare un bicchiere offerto in segno di amicizia era un affronto all’onore che poteva spingere gli uomini di qualunque ceto della società tedesca a sfoderare la spada, talvolta con esiti fatali».83 Altrettanto funeste erano le conseguenze per chi declinava l’offerta di un cicchetto in un saloon della frontiera americana.
In virtù della profondità e dell’autenticità della fiducia e dei legami dettati dall’alcol, sconfessare una promessa suggellata con il vino o la birra è una forma di tradimento particolarmente grave. L’archeologo Piotr Michałowski racconta una vicenda drammaticamente spiacevole risalente agli antichi sumeri, riportata in una lettera di lagnanze nei confronti di un re che continua a mantenere dei legami con un certo Akin-Amar:
Akin-Amar non è forse mio nemico e nemico di Sua Maestà? Perché gode ancora del favore di Sua Maestà? Una volta quest’uomo si trattenne presso Sua Maestà, con cui bevve e alzò il calice in segno di rispetto. Sua Maestà lo accolse fra i suoi uomini, lo vestì e gli consegnò un copricapo [cerimoniale]. Ma lui si rimangiò la parola e defecò nel calice da cui aveva bevuto; costui è ostile a Sua Maestà!
Questo è senza dubbio un modo efficace per annullare un brindisi. «Un’immagine potente, non c’è che dire», commenta Michałowski. «Non è possibile immaginare un insulto più offensivo della cancellazione di un brindisi tramite la defecazione. Si tratta di una sintesi metaforica della distruzione di un intero sistema simbolico costruito tramite complesse cerimonie di benvenuto e scambi semiritualizzati di doni.»84 Akin-Amar avrebbe potuto insudiciare il sontuoso copricapo cerimoniale, ma è prendendo di mira il vincolo instaurato tramite il bere insieme che comunica con la massima chiarezza le proprie intenzioni.
In molte, se non quasi tutte le società, l’ebbrezza alcolica non ha solo lo scopo di instaurare legami fra individui potenzialmente ostili, ma viene anche vista come un rito collettivo di passaggio, un modo per mettere alla prova il carattere di ognuno. La capacità di reggere l’alcol è un segno di affidabilità più generale, se non di virtù morale. Uno dei miei passi preferiti su Confucio, verso la fine di un lungo resoconto su quanto fosse schizzinoso in fatto di cibo e bevande, recita: «Solo al vino non poneva limiti».85 Il fatto che Confucio riuscisse a bere finché voleva, ma senza mai perdere il proprio contegno, è un segno della sua saggezza. In modo simile, Socrate era elogiato per la sua capacità di mantenersi lucido nonostante prendesse parte, come qualunque ateniese che si rispetti, a vere e proprie maratone alcoliche. «Anche nel bere, quando era costretto a farlo anche se non lo voleva spontaneamente, batteva tutti», scriveva Platone nel Simposio. «E la cosa più straordinaria di tutte è che nessun uomo ha mai visto Socrate ubriaco.»86 Anzi, per i greci il simposio, una serata trascorsa a bere vino e presieduta da un “simposiarca” che stabiliva quanto e quando bere, era un modo per «testare le persone, un banco di prova dell’anima poco oneroso e innocuo se paragonato alle situazioni in cui l’insuccesso morale poteva portare a gravi conseguenze».87
La sinologa Sarah Mattice osserva come nell’antichità sia i cinesi sia i greci associassero la necessità di ubriacarsi insieme (almeno per i maschi) all’aspettativa che questa avrebbe costituito un’opportunità per dimostrare il proprio autocontrollo e la propria virtù in circostanze difficili. Nell’antica Cina, «non ubriacarsi poteva essere visto come un insulto, ma, d’altra parte, si dovevano evitare comportamenti sconvenienti, poiché, a quanto pare, questo avrebbe impedito di mantenere relazioni rispettose». Lo stesso valeva per il simposio greco:
Sotto la guida di un simposiarca sobrio – che controllava il carattere dei partecipanti – ai cittadini veniva offerta l’opportunità di mettersi alla prova contro il desiderio di soccombere ai piaceri, fino al punto in cui l’autocontrollo raggiunge il suo livello più basso. Bevendo vino e partecipando a una situazione in cui la sfrontatezza tende a regnare sovrana, i cittadini possono sviluppare una resistenza ai comportamenti eccessivi, e così sviluppare il proprio carattere. In più, dato che […] i simposi erano eventi civici, fornivano anche l’opportunità per osservare e testare la virtù dei cittadini.88
Se partecipare a una bevuta in compagnia compromette la nostra capacità di mentire, favorisce la connessione con gli altri e offre l’opportunità di mettere alla prova il nostro carattere, è facile capire perché si tenda a guardare con diffidenza chi non beve. Nell’antica Grecia, dire a qualcuno che beveva solo acqua era un insulto. Fin dall’antichità, rifiutarsi di partecipare ai frequenti brindisi rituali che scandivano un banchetto tradizionale cinese era considerato un gesto di scortesia quasi impensabile, che escludeva immediatamente il responsabile dal consorzio civile. Ancora oggi il nesso tra il bere e l’amicizia sopravvive con forza nelle culture di tutto il mondo. L’antropologo Gerald Mars, in uno studio sulle dinamiche sociali di un gruppo di scaricatori di porto di Terranova, riferisce: «Quando all’inizio della mia ricerca domandai a un gruppo di scaricatori di porto perché qualcuno che era sposato, giovane, in forma e lavorava sodo – tutte qualità apprezzate in un collega – fosse malgrado tutto emarginato, la risposta fu che era un “solitario”. Quando chiesi in che senso, mi sentii dire: “Non beve, ecco cosa intendo per ‘solitario’”».89
Uno schema analogo emerge nelle culture in cui altre sostanze inebrianti svolgono le funzioni dell’alcol. Alle isole Figi, John Shaver e Richard Sosis hanno osservato che gli uomini che bevevano più kava godevano del prestigio sociale, e chi beveva di frequente partecipava con maggiore coinvolgimento nei lavori agricoli collettivi. Gli uomini con la kanikani, una fastidiosa eruzione cutanea dovuta a un consumo eccessivo di kava, vengono guardati con rispetto e considerati i veri “uomini del villaggio”, depositari dei valori della comunità e conformi alle aspettative sociali. Secondo i due antropologi, i vantaggi sociali e riproduttivi riconducibili a queste figure come conseguenza del prestigio derivato dal consumo di kava devono essere superiori ai costi fisiologici più ovvi, che non sono trascurabili.90 Al contrario, gli uomini che bevono con moderazione, o che non partecipano alle cerimonie incentrate sul consumo di kava, vengono guardati con sospetto ed esclusi da molte attività sociali.
Le funzioni sociali dell’ebbrezza sono riassunte con efficacia nelle riflessioni di Robin Osborne, studioso dell’antichità classica, a proposito del simposio greco:
L’ebbrezza altrui non era semplicemente tollerata per via dei piaceri che regalava al singolo. L’ebbrezza rivelava anche l’autenticità dell’individuo, e garantiva l’unione del gruppo. Chi era in stato di ebbrezza […] accettava l’ordine che gli uomini imponevano al mondo e il posto che occupava in quel mondo; coloro che combattevano, e morivano, insieme fondavano la fiducia reciproca lasciando che il vino svelasse la loro identità e il loro valore.91
Si tratta del medesimo contesto in cui è possibile comprendere il commento di Ralph Waldo Emerson sul ruolo di un frutto umile come la mela nella neonata società americana: «L’uomo sarebbe più solitario, avrebbe meno amicizie e meno sostegno se la terra producesse solo piante utili come il mais e la patata, [e] non fornisse questo frutto ornamentale e sociale».92 I meli in fiore dispensavano bellezza, oltre a sidro e acquavite. Al di là dell’ovvia utilità di piante disadorne come il mais e le patate, quindi, Emerson individuava una funzione più sottile nella bellezza e nell’ebbrezza, altrettanto importanti del mais e delle patate per i primati sociali.
La sobrietà diminuisce le cose, discrimina e dice «No!»; l’ebbrezza dilata, unisce, dice «Sì!». Questa è realmente la più grande eccitatrice della funzione del «Sì!» nell’uomo. Essa porta il suo devoto dalla fredda periferia delle cose al loro centro raggiante. Lo rende per un istante una cosa sola con la verità.
William James93
Il termine “estasi” deriva dal greco ex-stasis, letteralmente “stare fuori”. Livelli estremi di ebbrezza non solo consentono a individui potenzialmente ostili di fidarsi e apprezzarsi a vicenda ma, in particolare quando si associano alla musica e alla danza, possono costituire uno strumento per annullare le distinzioni fra sé e l’altro. Arrendersi all’abbandono che deriva dall’ubriachezza, quindi, funge spesso da segnale culturale secondo cui l’individuo si è pienamente identificato con il gruppo, o ne è stato assorbito. Scrivendo a proposito del consumo di chicha fra le culture tradizionali andine, Guy Duke osserva:
Sulle Ande, l’ubriachezza pubblica era un aspetto essenziale della vita religiosa e sociale […]. L’ebbrezza veniva vista come un mezzo per ottenere una connessione più profonda con il mondo spirituale, e nessun rito veniva celebrato senza portare all’ebbrezza i partecipanti […]. Lo scopo era quello di ubriacarsi il più possibile e mostrare la propria ebbrezza in pubblico per dimostrare di essere coinvolti nella cerimonia […]. L’ubriachezza rituale pubblica non era solo ricercata, ma in molti casi era obbligatoria.94
Su un campione di 488 piccole comunità su cui esistono resoconti antropologici di rilievo, Erika Bourguignon ha scoperto che l’89 per cento istituiva pratiche rituali destinate a produrre stati dissociativi o di trance estatica, solitamente tramite la danza in gruppo, il canto e l’assunzione di sostanze stupefacenti.95
Da tempo la letteratura antropologica ha documentato il ruolo ampiamente diffuso dei primi due elementi, la danza e il canto, nell’indurre l’unione estatica.96 «Man mano che il danzatore si perde nella danza», scrisse Alfred Radcliffe-Brown in un resoconto classico su una cultura delle isole Andamane, «raggiunge uno stato di euforia in cui si sente colmato da un’energia che va oltre il suo stato ordinario […] e allo stesso tempo si immerge in un’armonia completa ed estatica con tutti gli altri membri della comunità.»97 Tipicamente, la ricerca si è concentrata sugli effetti psicologici e fisiologici prodotti da ritmo, sincronia e ripetitività. Il padre della moderna antropologia delle religioni, Émile Durkheim, considerava la musica, i rituali e la danza come le tecnologie culturali chiave utilizzate per suscitare l’“effervescenza collettiva” che funge da collante sociale nelle culture tradizionali. Nel solco di Durkheim, l’illustre studioso Roy Rappaport sosteneva che «la generazione rituale della communitas spesso si basa sul ricorso a tempi scanditi in modo rituale, sulla loro ripetitività e, cosa più importante, sul loro carattere ritmico».98
Lavori più recenti nell’ambito delle scienze cognitive hanno proseguito lungo questa strada, portando i ricercatori a concentrarsi su componenti rituali come la sincronia fisica. Uno studio, per esempio, ha scoperto che far danzare degli estranei a tempo – rispetto a condizioni in cui la danza era in parte o del tutto asincrona – innalzava la soglia del dolore (un buon indicatore dell’attivazione endorfinica) e suscitava sentimenti di vicinanza sociale. Altri studi hanno mostrato che battere a tempo con un’altra persona accresce le sensazioni di simpatia, fiducia interpersonale, disponibilità ad aiutare e affinità reciproca,99 e che queste sensazioni di prosocialità possono estendersi fino ad arrivare a includere altre persone non coinvolte nella stessa attività.100
Non c’è dubbio che siano tutti risultati importanti. Tuttavia, è sorprendentemente raro che i teorici della religione o i ricercatori che studiano i rituali da un punto di vista cognitivo riconoscano che in molti rituali tradizionali (se non in tutti), gli individui che danzano, cantano e si muovono a tempo sono anche fuori come dei balconi. La vita rituale delle culture inca e maya, per capirci, si incentrava su cerimonie pubbliche che ricorrevano alla danza e alla musica per unire la comunità e onorare gli dei, ma prevedeva pure un livello di ubriachezza che lasciò senza parole i primi missionari europei.101
Nell’antico Egitto, la “festa dell’ebbrezza” era un’occasione importante che commemorava la redenzione salvifica dell’umanità, quando la spietata dea Hathor era stata indotta a bere della birra colorata di rosso, facendole credere che fosse sangue umano. Dopo una serie di cerimonie preliminari, tutti passavano a sbronzarsi nella “sala dell’ebbrezza”, partecipando a orge prescritte dal rituale, per poi crollare addormentati. Come fa notare Mark Forsyth, «si beveva tenendo a mente un unico obiettivo: la sacra ubriachezza. E per essere un ubriaco sacro dovevi essere un ubriaco marcio».102 Il mattino dopo, nella sala veniva introdotta un’enorme statua di Hathor. I presenti, svegliati di soprassalto da un’assordante cacofonia di tamburi e tamburelli, ancora ubriachi si trovavano davanti la dea che incombeva su di loro. Non doveva essere esattamente piacevole, ma di sicuro incuteva soggezione. L’obiettivo, come osserva Forsyth, era quello di produrre «un istante di comunione perfetto» con la dea, e quindi con la comunità, annullando il sé ordinario e sobrio.
L’efficacia con cui l’alcol e altre sostanze decentrano il sé è la ragione per cui l’estasi indotta dall’assunzione di inebrianti è antica quanto i rituali umani. Orci contenenti le testimonianze più antiche a noi note di una bevanda alcolica – un “grog neolitico”, fatto con idromele, birra di riso e vino di frutta – rinvenute nella tomba di Jiahu (7000-6000 a.C.), nella valle del Fiume Giallo, erano «attentamente collocati accanto alla bocca dei defunti, forse per aiutarli a bere più facilmente nell’aldilà», e non c’è dubbio che il loro contenuto venisse consumato anche da coloro che celebravano e partecipavano alla cerimonia funebre.103 I reperti archeologici più impressionanti dell’età del bronzo scoperti in Cina sono degli enormi ed elaborati recipienti pensati per servire e bere alcolici. Le tombe del Neolitico recente e dell’antica età del bronzo sono colme di oggetti legati al bere, strumenti musicali e resti di cibo, suggerendo che, fin dagli albori della storia cinese documentata, ci si accomiatava dai morti con sfrenati baccanali al culmine dei quali i partecipanti, ubriachi persi, lanciavano i calici nella tomba.104
Alcune delle evidenze più antiche di un vino d’uva prodotto in Occidente, rinvenute in un complesso di grotte in Armenia e risalenti al 4000 a.C., suggeriscono che le prime uve domesticate venivano lavorate in elaborate strutture a metà tra la cantina e la camera mortuaria: tini per la pigiatura dell’uva, orci per la fermentazione e ciotole per bere sono stati rinvenuti accanto a un ampio sito di sepoltura, dove i calici erano disseminati all’interno delle tombe e fra le tombe stesse.105 Prove indirette di un’antica connessione fra sostanze inebrianti, rituali ed estasi sono state individuate in un notevole frammento di vasellame, risalente al Neolitico antico (IX millennio a.C.), rinvenuto in un sito nell’odierna Turchia, non lontano da Göbekli Tepe. Il reperto mostra due figure che danzano accompagnate da una tartaruga: secondo l’interpretazione degli studiosi, la presenza di un animale danzante sarebbe il simbolo di “stati alterati di coscienza” (figura 7).
Figura 7. Frammento di vasellame proveniente da Nevali Çori (IX millennio a.C.).
In base a quanto sappiamo da altri reperti archeologici della regione, questa danza estatica era con ogni probabilità alimentata da notevoli quantità di birra.
E a proposito di stati allucinatori indotti dalla birra, non possiamo non ricordare le diverse sostanze psichedeliche di origine vegetale utilizzate comunemente come catalizzatori di esperienze estatiche di gruppo. Quando era necessario far incontrare gruppi diversi, e magari rivali, per commerciare o trovare delle compagne, le piccole comunità amazzoniche hanno sempre fatto ricorso allo yajé, una bevanda contenente una o più sostanze allucinogene, per indurre trance collettive che potevano protrarsi per giorni, accompagnate da canti e danze. «L’obiettivo principale dell’intera esperienza», fa notare Robert Fuller, «è dimostrare l’origine divina delle norme che regolano le relazioni sociali.»106 L’orizzonte di senso comune viene stabilito tramite un trip collettivo.
Una recente indagine sul record etnografico globale focalizzata sulla musica ha individuato una stretta relazione tra i riferimenti alla performance musicale e l’alcol,107 un’indicazione del fatto che la sincronia e l’armonia di gruppo indotte dalla musica sono tipicamente favorite da generose dosi di alcolici. Lo studio ha utilizzato un database centralizzato di resoconti etnografici provenienti da tutto il mondo, lo Human Relations Area File (HRAF), dove i contributi sono contrassegnati da parole chiave tematiche, come “matrimonio” o “cannibalismo”. Una rapida ricerca nello HRAF condotto da Emily Pitek, una mia assistente, ha scoperto che, su 140 culture associate a “pratiche religiose estatiche”, 100 (il 71 per cento) erano contrassegnate anche da “bevande alcoliche”, “bere (sociale)”, “ubriachezza (prevalenza)”, “droghe ricreative e non terapeutiche” e/o “droghe allucinogene”.108
In alcune culture, le esperienze estatiche di gruppo sono invece favorite da stimolanti puri. Per esempio, presso i fang del Gabon, la eboka, uno stimolante di origine vegetale, consente di scatenarsi nelle danze tutta la notte, inducendo uno stato di “insonnia euforica”.109 Va segnalato anche che in alcune pratiche estatiche non si ricorre ad alcuna sostanza inebriante. La liturgia pentecostale, per esempio, prevede canti e danze che possono portare alla glossolalia o ad altre manifestazioni della discesa dello Spirito Santo sui fedeli. Come abbiamo visto nel capitolo 2, esistono vari modi per mettere fuori gioco la corteccia prefrontale: un’intensa attività fisica può avere effetti simili a uno o due bicchierini di whiskey.
D’altra parte, come sanno bene tutti i ballerini impacciati e i cantanti stonati di ogni epoca e luogo, è molto più semplice lasciarsi andare e farsi coinvolgere dalla musica dopo aver buttato giù un po’ d’alcol per farsi coraggio. Pertanto è sorprendente quanto poco spazio venga dedicato al ruolo delle sostanze psicotrope dalla letteratura antropologica e scientifica sull’estasi rituale e collettiva. Può darsi che questa incapacità di comprendere appieno l’ebbrezza chimica rifletta un imbarazzo puritano per il piacere che serpeggia negli ambienti accademici. In un contesto scientifico moderno, non c’è dubbio che il problema sia dovuto anche alla difficoltà pratica di ottenere l’approvazione istituzionale a far ubriacare i soggetti coinvolti negli studi. (Ovviamente, questo ostacolo riflette di per sé l’atteggiamento puritano dei comitati etici.) In ogni caso, quasi tutti i lavori accademici attuali che si occupano dell’“effervescenza collettiva” o della “coscienza di gruppo” sono sostanzialmente incompleti, a dimostrazione di una curiosa mancanza d’interesse per la natura e la funzione delle bevande che vengono consumate fra un ballo e l’altro. Cionondimeno, resta il fatto che le culture di tutto il pianeta abbiano compreso come il miglior effetto sinergico si ottenga quando gli effetti psicologici indipendenti del ritmo e della ripetitività vengono associati a potenti droghe.
L’antropologo britannico Robin Dunbar rappresenta un’eccezione al diffuso atteggiamento liquidatorio nei confronti dell’ebbrezza. Secondo Dunbar e i suoi colleghi, gli effetti fisiologici dell’alcol, in particolare, costituiscono un elemento essenziale nei rituali sociali. Nello specifico, gli studiosi indicano nel rilascio di endorfine indotto dall’alcol, soprattutto quando il bere è associato alla musica, alla danza e ai rituali, un fattore decisivo che permette agli esseri umani di cooperare a livelli irraggiungibili dagli altri primati. In quasi tutti i mammiferi la produzione di endorfine e altri oppioidi endogeni viene stimolata naturalmente dai rapporti sessuali, dalla gravidanza, dal parto e dall’allattamento al seno, tutte circostanze che ricoprono un ruolo centrale nel legame di coppia quanto in quello fra madre e neonato. Ciò che gli uomini hanno scoperto, però, è che è possibile assumere una bevanda gustosa per rendere ancora più efficace questo “collante neurologico”.110 È lecito aspettarsi che a tutto ciò si aggiunga un aumento della serotonina, un ulteriore effetto indotto dall’alcol e da altre sostanze inebrianti. Oltre a migliorare l’umore individuale, è stato dimostrato che un incremento della serotonina riduce i comportamenti egoisti nel dilemma del prigioniero, mentre la deplezione di serotonina tramite alcuni inibitori, fra cui il triptofano, provoca l’effetto opposto.111 Questa sinergia ha forse trovato la sua forma ideale nella cultura moderna dei rave, dove il notevole aumento delle concentrazioni di serotonina indotto dal consumo di MDMA è associato a ritmi trascinanti e ossessivi e a sincronia di gruppo.112
Altri stupefacenti, come le sostanze psichedeliche, destabilizzano il senso di sé in modo ancor più potente dell’alcol, cancellando del tutto i confini tra il sé e l’altro, unendo fra loro le persone e favorendo l’identità di gruppo.113 Il risvolto negativo è che queste sostanze vi mandano al tappeto per un bel po’. Questa è la ragione per cui il consumo di sostanze psichedeliche tende a essere circoscritto a una classe specializzata, come gli sciamani, o a cerimonie importanti ma relativamente rare. L’uso rituale periodico del peyote sulla catena montuosa messicana della Sierra Madre occidentale, per esempio, ha radici antiche, e la sua funzione sociale è chiaramente indirizzata ad annullare completamente il sé, portandolo a fondersi in una totalità armoniosa. Un resoconto della metà del XVI secolo descrive uno di questi rituali collettivi a base di peyote: «Si radunarono da qualche parte nel deserto, cantarono tutta la notte e tutto il giorno. L’indomani si radunarono di nuovo. Piansero, piansero fino allo sfinimento. Dissero che [così] i loro occhi venivano ripuliti; così ripulirono i loro occhi».114 Ciò da cui ci si “ripulisce” nei viaggi con la mescalina, il principio attivo del peyote, sono i desideri egoisti e i dissidi insignificanti che impediscono ai primati con una PFC sviluppata di arrendersi al gruppo.
Queste cerimonie si tengono ancora oggi nelle medesime regioni desertiche. Al culmine di una cerimonia, descritta dall’antropologo Peter Furst, a tutti i presenti viene richiesto di ammettere pubblicamente qualunque trasgressione sessuale possono aver commesso dalla loro ultima confessione. È indicativo il fatto che la gelosia sessuale e i conflitti per le compagne siano forse le forze centripete più potenti che portano i gruppi a disgregarsi o a frammentarsi. Mentre ognuno pronuncia i nomi delle amanti di fronte alla propria moglie o compagna, «non è permessa alcuna manifestazione di gelosia, dolore, risentimento o rabbia; ancora di più, a nessuno è consentito albergare simili sentimenti “nel profondo del proprio cuore”». I partecipanti riemergono “purgati” da ogni trasgressione, in una forma di purificazione rituale che ricorda la confessione cattolica.115 Si tratta di una modalità insolitamente efficace per intercettare i conflitti ancor prima che esplodano.
Le droghe psichedeliche utilizzate in questo tipo di contesto rituale sono uno strumento a tal punto potente nell’indurre l’individuo ad abbassare le proprie difese e unire il gruppo, che la cerimonia del peyote si è diffusa ad altri gruppi indigeni americani che sentivano l’esigenza di compensare la perdita della propria identità culturale. Come osserva Robert Fuller, prima del 1890 la cerimonia del peyote era pressoché assente a nord del Rio Grande. Dopo il 1890, quando le culture tribali tradizionali subirono pressioni sempre più forti – spogliate della propria identità e confinate nelle riserve – adottarono una forma di rituale del peyote, la cosiddetta “danza degli spiriti”, come strumento per forgiare una nuova identità collettiva. «Fu in questo contesto di confusione culturale che la religione della danza degli spiriti emerse e suscitò un diffuso entusiasmo», scrive Fuller. «Il culto della danza degli spiriti profetizzava l’avvento imminente di un’età dell’oro di armonia panindiana. Enfatizzava la necessità di pacificare le tribù e offriva un senso di unità intertribale fondato sul disprezzo comune per la civiltà dell’uomo bianco.»116 Il peyotismo “americanizzato” continua a essere una vivace tradizione religiosa negli stati del sud-ovest, che ha dovuto rivendicare i propri diritti all’uso rituale di sostanze inebrianti contro un governo federale puritano.
«Estasi!» scrisse Gordon Wasson, micologo dilettante noto soprattutto per aver formulato l’ipotesi secondo cui l’antico soma vedico venisse ricavato da un fungo velenoso, l’Amanita muscaria o mosca agarica. «Nel linguaggio comune l’estasi è sinonimo di svago. Ma l’estasi non è affatto uno spasso. L’anima viene afferrata e sbatacchiata fino a intorpidirsi. In fondo, chi vorrebbe provare uno stupore così assoluto? L’uomo comune è disinformato e abusa del termine; dobbiamo recuperarne il significato pieno e terrificante.»117
L’estasi autentica è terrificante per l’individuo, poiché abbatte i confini del sé. È un’esperienza spaventosa per un primate, ma ordinaria amministrazione per un’ape o una formica. L’estasi indotta da sostanze inebrianti non causa solo piacere fisico e mentale, ma produce una trasformazione decisiva per ottenere la coesione del gruppo. Se pensiamo alla capacità dell’alcol, per esempio, di abbattere le barriere (menzogne, sospetti, tradimenti) che impediscono di cooperare, dobbiamo anche coglierne il ruolo positivo nell’instaurare legami emotivi di affiliazione, simili a quelli di coppia, fra i membri del gruppo, tramite la stimolazione di endorfine e serotonina. Gli stati estatici indotti chimicamente sono sia un bisturi che abbassa le difese del sé sia un collante in grado di legare dei primati diffidenti ed egoisti in una coscienza collettiva.
Abbiamo accennato in diverse occasioni a quello che è forse il sito epico-rituale più antico del mondo, ossia i recinti di pietra e i misteriosi, monumentali pilastri eretti a Göbekli Tepe (figura 8).
Figura 8. Immagini di Göbekli Tepe.
Risalente a 11 000 anni fa, il sito di Göbekli Tepe fu probabilmente creato da cacciatori-raccoglitori, dal momento che è precedente all’avvento dell’agricoltura stanziale. La sua scoperta, avvenuta una ventina d’anni fa, ha quindi fornito una prova importante per smentire l’opinione tradizionale secondo cui l’uomo avrebbe potuto raggiungere certe conquiste della civiltà – l’architettura monumentale, un’elaborata religione ritualizzata e la produzione di bevande alcoliche – solo dopo aver raggiunto la stanzialità e la disponibilità di risorse offerte dalla rivoluzione agricola. I sostenitori della teoria secondo cui la birra sarebbe stata creata prima del pane considerano questo sito, con le sue cisterne di pietra in grado di contenere fino a 150 litri di liquidi, i resti di recipienti per bere e le prove di grandi banchetti a base di selvaggina, un esempio emblematico di come gli antichi siano stati dapprima spinti a unirsi in gruppi numerosi dal bisogno di ebbrezza e di rituali, e solo in seguito si siano dedicati all’agricoltura. È significativo il fatto che a Göbekli Tepe non vi siano silos per i cereali o altri depositi per il cibo. «La produzione non era destinata all’accumulo di scorte», fanno notare l’archeologo Oliver Dietrich e i suoi colleghi, «ma per il consumo immediato.»118 In altri termini, siamo di fronte a raduni temporanei di un elevato numero di persone per banchetti colossali, accompagnati da rituali solenni,119 il tutto, verosimilmente, innaffiato da abbondante alcol.120
L’alcol assolveva a molteplici funzioni. Le bevande e il cibo richiamavano da ogni direzione i cacciatori-raccoglitori altrimenti dispersi su un territorio molto esteso, radunando la manodopera necessaria per spostare, incidere ed erigere enormi pilastri di pietra di sedici tonnellate. Le architetture monumentali, a loro volta, dovevano conferire un’incredibile autorità e potere nelle mani degli organizzatori, mentre i rituali celebrati fra gli imponenti pilastri e alimentati dalle sostanze inebrianti suscitavano un senso di coesione religiosa e ideologica. I banchetti innaffiati dall’alcol, dopo i quali i partecipanti si disperdevano nuovamente fino alla cerimonia successiva, servivano quindi da “collante” in grado di tenere unita la cultura che creò Göbekli Tepe e altri siti nel cosiddetto “triangolo d’oro”, dove videro la luce l’agricoltura e la civiltà.
Una connessione simile, fra una produzione massiccia e centralizzata di alcolici e la nascita di un’unità politica e ideologica, è osservabile in regioni del pianeta dove, in modo indipendente, si svilupparono altre grandi civiltà. Abbiamo visto come i governanti delle culture Erlitou e Shang nella valle del Fiume Giallo, in Cina, sembrino aver derivato il loro potere da rituali a base di birre e vini di frutta, mentre sulle Ande la standardizzazione e la produzione su larga scala della chicha fu uno strumento decisivo nelle mani degli inca per consolidare il proprio impero. Come scrive Guy Duke:
“Madre Akha”, il nome dell’agente fermentante utilizzato per avviare i lotti di chicha, era anche un altro nome di Cuzco, la capitale inca […]. Questo nome alternativo e altamente simbolico testimonia l’importanza della chicha per gli inca a numerosi livelli. A un primo livello, mostra la centralità assegnata alla chicha nell’esercizio stesso del potere: senza Cuzco non ci sarebbero gli inca, e senza la chicha non ci sarebbe Cuzco. Inoltre, come conseguenza del fatto che la chicha avrebbe avuto origine, o sarebbe nata, a Cuzco, l’impero inca si appropriava della chicha e del suo potere sociale come strumenti per stabilire la propria legittimità in tutte le Ande: coloro che controllano la chicha controllano le Ande.121
La funzione politica dell’alcol è pratica quanto simbolica. Chiunque controllasse la produzione della birra a Göbekli Tepe controllava la manodopera che il sito attirava, e senza dubbio traeva benefici pratici dal sistema ideologico creato, consolidato e diffuso dai banchetti religiosi e alcolici che ne risultavano. Allo stesso modo gli imperatori inca facevano leva sulla promessa di cibo e chicha per attrarre l’elevatissimo numero di uomini necessari per occuparsi dei campi di mais e costruire le loro architetture monumentali. Anche i primi sovrani cinesi ricompensavano con l’alcol la forza lavoro, come attestato da un’antica poesia tratta dallo Shījīng:
Al sud sono le carpe
e, in gran numero, finiscono nelle nasse.
Il padrone di casa offre il vino
con cui i suoi onorevoli ospiti banchettano.122
Ancora oggi, in tutto il mondo, grandi progetti pubblici che impiegano lavoratori non retribuiti, per esempio nella costruzione di edifici o nella manutenzione di canali per la navigazione o l’irrigazione, premiano i lavoratori con imponenti feste e banchetti ad alto tasso alcolico sovvenzionati dalle autorità centrali o da finanziatori locali.123 Paul Doughty fa notare che la pratica del “lavoro festivo” nel Perù contemporaneo, dove gruppi di lavoratori volontari vengono pagati generosamente con alcolici e musica, rimane l’unico modo per portare a termine grandi progetti in assenza di un sistema formale di retribuzione. Nelle società industrializzate, dove abbiamo sindacati, giornate lavorative di otto ore, salari prestabiliti e assistenza sanitaria, bere sul posto di lavoro è una pratica disincentivata. Nelle società preindustriali, incoraggiare la manodopera a bere è l’unico modo per essere certi che il lavoro venga portato a termine.
La capacità di fornire alcol, oltre al cibo e agli svaghi che spesso lo accompagnano, a un numero elevato di persone è solitamente una prerogativa delle élite locali. Le feste dove l’alcol scorre a fiumi, quindi, sono anche un modo per dichiarare, simboleggiare e consolidare lo status sociale. Ciò è particolarmente vero perché l’alcol, a differenza di alimenti di base più comuni, come il pane o il riso, è sostanzialmente un bene di lusso. Fermentare cereali o frutta per produrre birre e vini contribuisce alla concentrazione della ricchezza, poiché le bevande fermentate accrescono il contenuto calorico e vitaminico mentre comprimono risorse biologiche ingombranti e diffuse in confezioni ridotte, trasportabili e di solito stoccabili.124 Ancora oggi, si riconosce un certo prestigio e autorità a chi porta un fusto di birra alla festa di una confraternita universitaria. Si tratta solo di un’eco lontana e indistinta del potere di cui godevano gli organizzatori dei banchetti a Göbekli Tepe, più di 11 000 anni fa, o i sovrani Erlitou e Shang nel Neolitico recente e nell’antica età del bronzo, che presiedevano epici rituali alcolici.
Vale la pena notare che, nell’Europa dell’età del ferro, in alcune regioni erano le tombe di donne aristocratiche, più che di uomini, a includere grandi e preziosi recipienti per servire idromele e vino. Per esempio, la sontuosa tomba di una sacerdotessa celtica sepolta a Vix, in Francia, intorno al 500 a.C. conteneva un cocchio, gioielli d’oro e altri oggetti di lusso, fra cui svariati recipienti importati dalla Grecia per servire bevande alcoliche. L’oggetto più spettacolare, tuttavia, era un enorme cratere di bronzo, alto 1,64 metri e con una capienza di 1100 litri, che pare venne prodotto a Corinto, in Grecia, intorno al 600 a.C. e trasportato a Vix smontato. Un oggetto di tali proporzioni e valore, un pezzo antico ed esotico fatto arrivare da lontano con costi enormi, doveva fungere da notevole simbolo di potere, e probabilmente veniva utilizzato nelle cerimonie ufficiali. Secondo Michael Enright, è verosimile che sepolture come questa riflettano un sistema religioso dove le donne detenevano il controllo sull’accesso all’alcol, forse in qualità di sacerdotesse con il compito di garantire la coesione dei guerrieri locali.125
Nelle società tradizionali, l’uso cerimoniale dell’alcol comporta anche un protocollo elaborato e sfarzoso che ha la funzione di enfatizzare lo status e la gerarchia sociale.126 Dai sumeri alla Cina antica, le cerimonie legate al consumo di bevande alcoliche erano altamente ritualizzate e meticolosamente controllate da sovrani e sacerdoti, con una particolare attenzione nel sottolinearne il rango e il ceto sociale. In gran parte delle società africane, l’accesso all’alcol era tradizionalmente controllato dalle aristocrazie e spesso riservato a queste ultime. Solo durante gli occasionali rituali pubblici l’alcol veniva condiviso con la popolazione, ma secondo una modalità che evidenziava le differenze di rango e il prestigio dei capi.127 Gli aristocratici, per esempio, tendono a bere per primi e a riservarsi le birre e i vini di prima scelta, per poi concedere l’alcol alle masse tramite i loro rappresentanti. Perfino in società più egualitarie la produzione di bevande inebrianti, come il vino di palma, segnala lo status di chi lo produce o lo acquista. Il vino viene condiviso in occasioni comunitarie, ma secondo una modalità che permette al padrone di casa di manifestare i propri legami e la propria gratitudine nei confronti di coloro ai quali sta offrendo il vino, conferendogli un particolare onore e consolidando le distinzioni di status locali.128 Altre bevande inebrianti, fra cui la kava, vengono utilizzate in modo simile. In una cerimonia tradizionale delle isole Figi, per esempio, gli uomini (e solo loro) si siedono in cerchio secondo una disposizione rigidamente dettata dal rango sociale di ognuno: i presenti bevono seguendo un ordine prestabilito e tengono il calice rivolto verso il capo, che è seduto nel punto più elevato dello spazio rituale.129 Integrando il consumo di sostanze inebrianti in un contesto rituale, le culture non solo garantiscono la coesione del gruppo, ma esprimono anche la posizione gerarchica dei singoli membri all’interno della compagine sociale.
Gran parte della letteratura antropologica sull’alcol enfatizza il potere simbolico e politico che deriva dal controllo sulla produzione e la distribuzione delle bevande, oltre alle modalità altamente ritualizzate con cui queste vengono consumate. È senza dubbio importante riconoscere come l’alcol non sia semplicemente una sostanza psicoattiva, ma funga anche da veicolo di significati culturali. L’origine del significato culturale associato alle sostanze inebrianti, tuttavia, si fonda chiaramente sui loro effetti fisiologici. Non dovrebbe sfuggirci il fatto che non esistono superculture basate sul kimchi o sullo yogurt. Il cratere da oltre 1100 litri sepolto insieme alla sacerdotessa di Vix fu realizzato per contenere alcolici, non certo porridge; gli orci per la fermentazione e i bacini di stoccaggio di Göbekli Tepe non erano destinati al pane lievitato naturalmente. Nelle tombe dei parenti defunti, gli aristocratici Shang ubriachi lanciavano calici di vino, non ciotole di miglio. Le sostanze inebrianti sono state investite di un enorme significato simbolico perché ci inebriano. L’alcol è riuscito a catalizzare la nascita di grandiose civiltà proprio per la sua efficacia psicofarmacologica. Alla luce di tutto ciò, non c’è da sorprendersi se le culture di tutto il mondo abbiano assegnato all’alcol – il grande catalizzatore della civiltà – un’importanza simbolica. L’ebbrezza è venuta prima della civiltà.
La comunità antropologica sta lentamente accettando questo essenziale ruolo funzionale dell’alcol e di altre sostanze inebrianti.130 I sostenitori della tesi secondo cui la birra sarebbe stata inventata prima del pane enfatizzano, giustamente, il modo in cui la maggiore coesione e le dimensioni delle culture che utilizzavano le sostanze inebrianti fornivano un netto vantaggio nella competizione con altri gruppi, permettendo di cooperare con maggiore efficacia nel lavoro, nella produzione del cibo e nella guerra.131 In questo modo, l’inesorabile pressione della selezione culturale avrebbe incoraggiato e diffuso l’utilizzo culturale delle sostanze inebrianti con la modalità che oggi osserviamo nella documentazione storica, e che è del tutto incoerente con qualunque teoria del dirottamento e del doposbornia.
C’è un’ottima ragione se storicamente l’uomo si è sempre ubriacato. Non è un caso che, nella brutale competizione fra gruppi culturali da cui emersero le civiltà, siano stati i bevitori, i fumatori e gli sballati a uscirne vincitori. In tutti i modi delineati fin qui, sembra che le sostanze inebrianti – prima fra tutte l’alcol – siano state lo strumento chimico che ci ha permesso di sfuggire ai limiti imposti dalla nostra natura di primati e di dare origine a forme di cooperazione simili a quelle degli insetti sociali. Abbiamo visto che i punti di vista tradizionali sui benefici funzionali del consumo di alcol trovano conferma nella scienza moderna. Esaltando la creatività, riducendo lo stress, favorendo il contatto sociale, incoraggiando la fiducia e i legami interpersonali, forgiando l’identità di gruppo e consolidando i ruoli e le gerarchie sociali, le sostanze inebrianti hanno svolto un ruolo decisivo nel permettere ai cacciatori-raccoglitori di passare alla vita collettiva dei primi insediamenti agricoli, dei villaggi e delle città. Questo processo ha gradualmente ampliato l’ambito della cooperazione umana, fino alla civiltà dei giorni nostri.
Si potrebbe sostenere, in ogni caso, che tutto ciò rivesta un interesse meramente storico. È senza dubbio possibile che ormai le sostanze inebrianti non siano più necessarie come in passato. Per esempio, oggi abbiamo a disposizione altri modi per ridurre lo stress e risollevare l’umore: su questo fronte la televisione, internet o gli antidepressivi possono funzionare altrettanto egregiamente di qualche pinta di birra. E forse sono perfino più efficaci. Grazie ai moderni sistemi bancari e a un solido stato di diritto non abbiamo più così bisogno di una stretta di mano o di fidarci dell’atteggiamento altrui. Oggi le grandi opere pubbliche possono essere finanziate con il denaro dei contribuenti e portate a termine da professionisti qualificati e sobri in cambio di salari e benefit. E forse, in un mondo globalizzato, ormai potremmo lasciarci alle spalle questioni come il monopolio e la tenuta delle élite nazionaliste al potere.
Queste sono tutte osservazioni ragionevoli. Nuove tecnologie, farmaci meno nocivi e più mirati e istituzioni moderne possono offrire molti dei benefici funzionali forniti storicamente dalle sostanze inebrianti, ma senza sgradevoli effetti tossici. Sono dell’idea, però, che non abbiamo ancora superato del tutto il bisogno di estasi chimica. L’alcol e le altre sostanze inebrianti possono e dovrebbero continuare a svolgere un ruolo nel mondo moderno. Anzi, per certi aspetti ne abbiamo bisogno più che mai. È facile dimostrare come le sostanze inebrianti non abbiano affatto esaurito il loro ruolo funzionale, e come ci siano parecchi motivi per cui dovremmo continuare a ubriacarci.