I. La nozione di pensiero

Supponiamo un essere che ignori ogni distinzione fra pensiero e corpo. Quest’essere prenderà coscienza dei propri desiderî e sentimenti, ma avrà indubbiamente una nozione di se stesso molto meno chiara di quella che abbiamo noi di noi stessi. Si sentirà – per cosí dire – meno interiore a se stesso di noi, meno indipendente dal mondo esteriore: perché ciò che ci stacca dalle cose è precisamente la coscienza che abbiamo di pensare. Ma soprattutto le esperienze psicologiche di un tale essere saranno affatto diverse dalle nostre. Ad esempio, i sogni gli sembreranno un’irruzione dell’esterno nell’interno. Le parole saranno legate alle cose e parlare significherà agire direttamente sui corpi. Inversamente, i corpi esteriori saranno meno materiali: saranno penetrati di intenzioni e di volontà.

Cercheremo di dimostrare che questo è il caso del fanciullo. Egli ignora la specificità del pensiero, anche quando si lascia influenzare dai discorsi degli adulti concernenti la «mente», il «cervello», l’«intelligenza».

La tecnica da seguire nell’interrogare i fanciulli è, in breve, la seguente. Si chiede: «Sai che cosa significa pensare? Quando tu sei qui e pensi alla tua casa, o alle vacanze, o alla mamma, tu sai che cosa vuol dire pensare a qualche cosa?» Quando il fanciullo ha capito, si prosegue: «Va bene: ora, con che cosa si pensa?» Se il bambino non afferra (ma è raro), si spiega: «Quando cammini, tn cammini con i piedi. Ora, quando pensi, con che cosa pensi?» Qualunque sia la risposta, occorre insistere per rendersi conto di ciò che nascondono le sue parole. Infine si domanda se, aprendo la testa a qualcuno, senza cagionarne la morte, si potrebbe vedere il pensiero, o toccarlo, o sentirlo con un dito, ecc. Queste ultime domande, molto suggestive, vanno tenute in serbo per la fine, cioè per il momento in cui non si potrebbe piú lasciar parlare il fanciullo da sé.

Inoltre, quando il bambino usa termini appresi da altri, come «cervello», «anima» ecc. – il che talvolta accade –, conviene interrogarlo su queste parole, fintanto che ci si sia resi conto di come il fanciullo le abbia assimilate. Può esserci solo del verbalismo; ma possono anche esservi deformazioni molto interessanti.

Abbiamo potuto cosí rilevare tre stadi, di cui il primo è facilmente distinguibile dagli altri due e sembra contenere un elemento puramente spontaneo. In questo stadio, i fanciulli credono che si pensi «con la bocca». Il pensiero è identico alla voce. Nulla accade nella testa e nel corpo. Naturalmente il pensiero è confuso con le cose stesse, nel senso che le parole fanno parte delle cose. Non c’è nulla di soggettivo nell’atto di pensare. L’età media dei fanciulli a questo stadio è di 6 anni.

Il secondo stadio è caratterizzato dall’intervento dell’adulto. Il fanciullo ha imparato che si pensa con la testa; talvolta allude perfino al «cervello». Tre sole circostanze indicano una certa spontaneità nel fanciullo. Per prima l’età: abbiamo trovato risposte spontanee verso gli 8 anni. Ma soprattutto la continuità che esiste fra il primo e il secondo stadio: infatti il pensiero è spesso concepito come una voce nella testa o nel collo, il che denota il persistere dell’influenza delle precedenti credenze del fanciullo. Infine, il carattere materiale di cui il fanciullo riveste il pensiero: il pensiero è aria, sangue, una sfera ecc.

Il terzo stadio, la cui età media è sugli 11-12 anni, caratterizza la dematerializzazione del pensiero. È senza dubbio difficile distinguere nettamente questo terzo stadio dal secondo. Ma per noi l’essenziale è distinguere il secondo dal primo, cioè l’apporto dell’adulto alle credenze del fanciullo.

  1.Il primo stadio: si pensa con la bocca

La figlia di Stern,9 Hilda, credeva che l’uomo pensasse con la lingua e gli animali con la bocca. Inoltre diceva che le persone pensano quando parlano e non pensano quando stanno ferme con la bocca. In base ai nostri elementi, queste credenze infantili sono molto generali.

MONT (7;0):10 «Sai che cos’è il pensiero? – Si. – Vuoi provare a pensare alla tua casa? – Si. – Con che cosa pensi? – Con la bocca. – Puoi pensare con la bocca chiusa? – No. – Con gli occhi chiusi? – Si. – E con le orecchie turate? – Si. – Chiudi la bocca e pensa alla tua casa. Ci pensi? – Si. – Con che cosa hai pensato? – Con la bocca».

PIG (9½. Ritardato): «Conosci la parola “pensare”? – . – Che cos’è il pensiero? – Quando uno è morto e lo si pensa. – Tu pensi, qualche volta? – Si, a mio fratello. – Quando sei a scuola, pensi? – No. – E qui? [siamo in uno studio dell’edificio scolastico] – Sí, penso perché mi domandate qualche cosa. – Con che cosa pensi? – Con la bocca e le orecchie. – E i bimbi piccini piccini pensano? – No. – Quando la mamma gli parla, il bebé pensa? – Si. – Con che cosa? – Con la bocca».

ACKER (7;7): «Con che cosa si pensa? – Con la bocca». (Quest’affermazione ritorna quattro volte nel corso di un interrogatorio sul sogno che si vedrà piú avanti.) Dopo alcune parole sull’animismo, abbiamo aggiunto: «Un cane può pensare? – Si, perché ascolta. – Un uccello può pensare? – No, non ha orecchie. – Con che cosa pensa il cane? – Con le orecchie. – Un pesce pensa? – No. – E una lumaca? – No. – E un cavallo? – Sí, con le orecchie. – E una gallina? – Sí, con la bocca».

SCHMI (5½): «Con che cosa si pensa? – Con la bocca».

MUY (6 anni): «Con che cosa pensi? – Con qualcosa; con la bocca!»

Talvolta, come si è visto, si pensa non solo con la bocca, ma anche con le orecchie.

BARB (5½): «Sai che cosa significa pensare? – Quando non ci si ricorda piú qualcosa e si riflette. – Con che cosa pensi? – Con le orecchie. – Quando le turi, puoi pensare? – Sí… no…»

RHEM (5;11): «Sai cosa succede quando si pensa a qualcosa? – . – Pensa alla tua casa. – . – Con che cosa si pensa? – Con le orecchie. – Quando pensi a casa tua, pensi con le orecchie? – ».

La formula di Barb è notevole: pensare è far rivivere una voce o un suono dimenticati. Questi casi segnano il punto di passaggio ai seguenti, che a loro volta annunciano il secondo stadio: i fanciulli di cui leggeremo ora le risposte dicono già che si pensa con la testa, ma il pensiero non è ancora interiore: è ancora legato alla bocca. Riserviamo per il secondo stadio i fanciulli che non parlano piú di bocca, e che immaginano il pensiero come una piccola voce localizzata nella testa. Tra i due gruppi vi sono tutte le transizioni; ma, dal momento che si fanno classificazioni, occorre stabilire dei limiti. Perciò lasciamo nel primo stadio i bambini che pronunciano esplicitamente la parola «bocca».

CERES (7 anni): «Con che cosa si pensa? – Non lo so. – Dov’è il pensiero? – In testa. – Dove? – Nella bocca, in testa».

RATT (8; 10): «Quando pensi alla tua casa, dov’è il tuo pensiero? – Nella testa. – Che cosa c’è nella tua testa? – Niente. – Come fai a pensare alla tua casa? – Con la bocca». «Nella tua testa ci sono delle parole? – No. – C’è la voce? – Si. – La voce e il pensiero sono la stessa cosa? – ».

KENN (7½): «Con che cosa pensi? – Con la testa. – La tua testa è vuota o piena? – Piena. – Se si aprisse la tua testa si vedrebbe quando pensi? – No, perché non ci si vede. – Se si guardasse nella tua testa senza che tu morissi, si vedrebbe il tuo pensiero? – Non lo si sente, quando si parla sottovoce. – Con che cosa si pensa? – Con la testa. – Con che cosa nella testa? – Con la bocca. – Che cosa c’è nella testa? C’è il pensiero? – Sí, quando si pensa a qualcosa. – Che cosa c’è nella testa? – Ci si parla. – Quando tieni chiusa la bocca, puoi pensare? – Sí, ma senza parlare. – Con che cosa pensi, quando non parli? – Con la bocca. – Che cosa c’è nella testa quando si pensa? – Niente. – Potresti vedere il pensiero? – No. – E io, potrei sentirlo? – No. – E lo sentirei, invece, se ci mettessi un dito? – ».

Quest’ultimo caso è eccellente: vi si notano la resistenza e la spontaneità della credenza del fanciullo: senza alcuna suggestione, il bambino comincia dicendo che non si sente il pensiero quando si parla sottovoce, e solo in seguito si rende conto che si pensa con la bocca. Il pensiero è dunque una silenziosa voce interiore. Da notare che questa voce si potrebbe sentire con un dito. Cosí Kenn determina i casi in cui il pensiero sarà esplicitamente assimilato all’aria (l’aria della bocca che parla).

Nei bambini suddetti, una credenza spontanea sta alla base delle risposte date. In altri, al principio dell’interrogatorio non si trova nulla, ma poi l’interrogatorio fa scaturire una credenza, pur senza suggerirla, e – cosa interessante – questa credenza è simile alle precedenti:

METR (5;9): «Quando pensi, con che cosa pensi? – Non lo so. – Con le mani? – No. – Con la testa? – No, non si vede mai il pensiero. – Con che cosa leggi? – Con gli occhi. – Puoi pensare con gli occhi chiusi? – . – Con la bocca chiusa? – No, non posso. – Con le orecchie turate? – . – I bebé pensano? – No, non sono capaci. Sono troppo piccoli. – Con che cosa si pensa? – Non lo so. Non ho mai visto il pensiero. – Si pensa con la testa? – No. – E con che cosa? – Con la bocca».

Ecco un esempio eccellente di credenza suscitata. Possiamo osservare la credenza liberarsi a poco a poco, senza un intervento diretto, ma anche senza che il fanciullo trovi immediatamente una soluzione.

Talvolta s’incontrano varianti, ma sono rare. Un solo bambino (Go, 5;9) ci ha detto che si pensa «col cuore». Ma doveva essere una parola imparata, perché, nel corso dell’interrogatorio, Go cambiò idea e disse che si pensa con le orecchie. Ad eccezione di questo, tutti i soggetti che non possiamo classificare nel secondo o nel terzo stadio ci hanno dichiarato che si pensa con la bocca o con le orecchie. Sarebbe stato ragionevole attenderci una divisione dei nostri soggetti in «visuali» e «auditivi», e che i primi credessero di pensare con gli occhi. Ma invece questo non ha importanza, e il problema immaginativo sembra non abbia parte alcuna. Perlomeno, i due soli fanciulli che risposero che si pensa con gli occhi, trovarono questa risposta dopo essere stati interrogati sui sogni, il che toglie valore alle loro affermazioni.

Come interpretare quest’assimilazione del pensiero al linguaggio? Per prima cosa va notato che la parola «pensare» ha per i nostri bambini un senso limitato: pensare, per loro, significa riflettere, pensare con sforzo. Ma ciò avviene perché essi non hanno preso coscienza di alcuna altra manifestazione del pensiero, a parte il sogno, di cui tratteremo piú avanti. In genere la parola «memoria» è sconosciuta ai nostri scolari, e quando si chiede loro con che cosa «si ricorda», o non capiscono o rispondono che si ricorda con la bocca. Se pure il termine «pensiero» ha per essi un significato limitato, è nondimeno il solo che designi un’attività decisamente mentale. Abbiamo ora visto che, secondo il loro criterio, tale attività mentale ha per unica sede la bocca. Che cosa significa tutto ciò?

A questo punto occorre fare una distinzione fondamentale. Stern11 pretende che, dai 3 anni circa, si avverte una distinzione tra l’elemento fisico e quello psichico, nel senso che a quest’età il fanciullo usa alcune parole che significano «credere», «sembrare» ecc., come nella seguente frase: «Le fa male la testa, credo». Il fanciullo distinguerebbe dunque la realtà percepita e la sua interpretazione o ipotesi, cioè distinguerebbe le cose e il pensiero. Ma occorre guardarsi dai «sofismi dell’implicito», e conviene separare il piano dell’azione da quello della riflessione.

Sul piano dell’azione, o dell’uso effettivo del pensiero, è infatti chiaro che i fanciulli di cui parla Stern cominciano a distinguere la percezione immediata dalla realtà supposta o arguita. Ciò costituisce una conquista notevole. Ma non è detto che questi stessi fanciulli abbiano preso coscienza di questa dualità (che abbiano cioè notato ciò che implicitamente facevano), e soprattutto che abbiano dedotto da questa dualità l’idea di una realtà percepita e di un pensiero che l’interpreta.

Infine, non è detto che abbiano distinto, in generale, l’elemento fisico da quello psichico. La sola scoperta che questi fanciulli hanno fatto è che la realtà non obbedisce piú interamente ai desideri o alle affermazioni.12 Ma la realtà fisica può benissimo in questo stadio restar penetrata di intenzioni, di psichismo ecc., cosí come il fanciullo può benissimo ignorare ancora il proprio pensiero o concepirlo come una voce materiale.

Se vogliamo parlare dello sviluppo della nozione di pensiero, abbiamo il diritto di considerare primitiva la credenza dei fanciulli secondo cui si pensa con la bocca. Al suo apparire, la nozione si confonde dunque con la nozione di voce, cioè delle parole che si pronunciano o ascoltano.

Esiste allora in questo stadio una distinzione tra l’elemento fisico e quello psichico? Si, senz’altro – si risponderà – poiché la parola è un’attività dell’io. Ma due ostacoli fondamentali ci impediscono di vedere le cose a questo modo: anzitutto per il fanciullo le parole fanno parte della realtà materiale, e in secondo luogo quel tanto di attività soggettiva contenuta nel parlare, o non è avvertita dal fanciullo, o è assimilata a un processo materiale, come fischiare o soffiare. Cosí il pensiero viene a consistere di parole-cose o (piú raramente) d’aria.

Infatti le parole per il fanciullo non hanno nulla di interiore o di psichico. Tenteremo di dimostrarlo piú avanti, con un’analisi diretta. Allora vedremo che le parole fanno parte delle cose, e sono poste nelle cose. Le orecchie e la bocca si sforzano dunque di collaborare con le cose, di ricevere le parole e di rimandarle. Vedremo anche che a un certo stadio i sogni si trovano «nella stanza», mentre il pensiero si trova tanto fuori della bocca quanto dentro. Non esiste distinzione completa tra l’interiorità psichica e l’esteriorità materiale.

Contentiamoci, per ora, di una prima approssimazione. Quando si chiede ai fanciulli «da dove viene il pensiero?», tutti, dicendo che si pensa con la bocca, non esitano a dare al pensiero un’origine esteriore. Ecco due esempi:

ACKER (7;7) ci ha detto quattro volte, come si è visto, che si pensa con la bocca. «Quando si pensa con la bocca, da dove viene il pensiero? – Dagli occhi, da fuori. Si vede, e quindi si pensa. – Allora, quando non si parla, si può pensare? – Si. – Con che cosa? – Con la bocca». E un attimo dopo: «Quando non si parla, da dove nasce il pensiero? – Dallo stomaco». Acker indica con questo nome l’esofago o la laringe. Dunque si tratta sempre della voce.

RATT (8;10) ci ha risposto, come s’è visto, che non v’è nulla in testa mentre si pensa. «Si può vedere la voce? – No. – Si può udirla? – Si. – Le parole hanno una forza? – Si. – Dimmi una parola che abbia forza. – Il vento. – Perché ha forza la parola “vento ” ? – Perché va in fretta. – È la parola o il vento che va in fretta? – È il vento. – Dimmi un’altra parola che abbia forza. – Quando si tira un calcio. – È una parola questa? – No. – Dimmene un’altra che abbia forza. – … – Con che cosa si pensa? – Con la bocca. – Cosa c’è in testa quando si pensa? – Niente. – Cosa fa la voce? – Parla. – Sai cosa sono le parole? – Quando si parla. – Dov’è la parola “casa ”? – In bocca. – È in testa? – No».

Si potrà dubitare del valore di questi esempi, prima di conoscere i nostri risultati sulle parole (§ 4 e cap. II). Ma, alla luce di tali risultati, questi due casi sono chiari. Nessuno dei due fanciulli distingue le parole dalle cose nominate. Acker dunque crede che basti vedere una cosa per pensare subito al suo nome, come se il nome fosse scritto sulla cosa. Ratt non capisce che sono le cose e non i nomi che hanno forza. Dunque il nome viene percepito a mezzo della cosa: allo stesso modo che i sensisti si rappresentavano il pensiero come un giuoco d’immagini impresse nel cervello sotto la pressione degli oggetti, cosí il fanciullo si rappresenta il pensiero come l’articolazione delle parole deposte nella bocca sotto la pressione delle cose.

Ecco ora il caso di un fanciullo che ha una concezione tutta particolare della memoria, concezione caratteristica di quel realismo di cui parliamo:

SCHI (6 anni) pronuncia spontaneamente la parola «memoria». «Che cos’è la memoria? – Quando si ricorda qualcosa. – Come si ricorda? – Tutt’a un tratto la cosa ritorna nella nostra anima. Prima qualcuno ci dice qualcosa, essa entra nella nostra anima, poi ne esce, poi vi torna ancora. – Esce: e dove va? – In cielo. – Credi questo? – Sí, io non lo so, ma dico quello che so [quel che credo]».

La migrazione dei ricordi in cielo è certamente una fabulazione. Ma restano le espressioni significative: «uscire» e «tornare». Bisogna prenderle alla lettera, perché vedremo che Schi ci dirà pure che i sogni «escono» quando si dorme (vedi cap. III, § 2: «Quando non si dorme, è nella nostra testa. Quando si dorme, esce»… «va contro il muro»). Non bisogna supporre in Schi alcuna precisione sul «come» di questi fenomeni: le sue parole significano semplicemente che egli non giunge a rappresentarsi i ricordi, le parole udite e i sogni come «interiori». Vedremo, a proposito dei nomi delle cose, altri casi del tutto analoghi di fanciulli che dicono che il nome è «nella camera» (vedi il caso di Roc, cap. II, § 2).

In breve, a seconda della misura in cui il pensiero è assimilato alla voce, esso partecipa delle cose stesse. Ci richiamiamo semplicemente ai risultati del capitolo II per far ammettere la fondatezza di questa conclusione. Quanto al secondo aspetto del pensiero, l’aspetto interno, che per il fanciullo consiste essenzialmente in un’articolazione della parola, cerchiamo ora di dimostrare ch’è anch’esso materiale, e che partecipa ugualmente – cosa curiosa – del mondo esteriore.

Per la verità, molti fanciulli non hanno notato questa attività interna. Pensare è parlare, e parlare è un fatto autonomo; ma alcuni fanciulli hanno notato l’esistenza della voce, e allora – durante questo primo stadio – assimilano questa voce a «aria», aria tanto interiore che esterna, tanto respirazione che vento.

ROU (7½): «Si può vedere il pensiero? – . – Come? – Davanti a noi. – Dove? Cosi [a 50 centimetri] o laggiú? – Non importa dove. Il vento fa muovere le erbe e si vedono muoversi. È questo il pensiero. – Ma è davanti a noi o nel cervello? – In tutte e due. Si può pensare in qualunque modo. – Si può toccare il pensiero? – Qualche volta: le cose che sono vere».

BRUN (11; 11. Tardo e lento di spirito): «Il pensiero ha forza? – No, perché non è vivo. – Perché non è vivo? – Perché è aria. – Dov’è il pensiero? – Nell’aria, fuori». Ma Brun dice anche che il pensiero è in noi: la memoria, dice, «è un pensiero. – Dov’è? – Nella testa».

RIS (8½), bambina che ritroveremo parlando dei sogni (cap. III, § 1), ci dice, senz’essere stata interrogata prima sul pensiero, che il sogno è «in parole. – E le parole dove sono? – Nella voce. – E da dove viene la voce? – Dall’aria».

Ritroveremo casi analoghi nel secondo stadio (§ 3).

Vedremo pure, a proposito dei sogni, frequenti assimilazioni del pensiero all’aria, al vento e persino al «fumo che esce dal ventre» (la respirazione) ! Che cosa dobbiamo pensare di queste risposte? Dapprima sembra che i fanciulli siano stati influenzati: si sarà detto loro che abbiamo un’anima, o uno spirito, che tale spirito è invisibile, come il vento, e avranno concluso che si pensa con l’aria. Vedremo alcuni casi – nel secondo stadio – che vanno probabilmente interpretati cosí. Ma ci sembra che ai casi precedenti non si possa dare quest’interpretazione. Infatti questi fanciulli non ammettono l’interiorità del pensiero: per loro, esso è tanto al di fuori come all’interno di noi. Rou, che è un fanciullo intelligente, è molto chiaro a questo proposito: egli confonde il pensiero con la cosa a cui si pensa. Ciò gli fa dire che, quando si pensano «cose che sono vere», si può toccare il pensiero. Inoltre vi sono troppe risposte riferentisi tutte alla voce e alla respirazione (l’aria, il vento, il fumo che esce dal ventre ecc.) perché si possa ammettere una influenza sistematica degli adulti sui fanciulli.

Insomma, il pensiero partecipa delle cose nominate nella misura in cui prende forma di parole; e viene invece assimilato a un vento, ora esterno, ora interno, nella misura in cui è soltanto voce. Nei due casi non esistono pertanto frontiere precise tra l’io e il mondo esteriore.

  2.La visione e lo sguardo

Prima di proseguire lo studio della nozione di pensiero, occorre fornire una breve controprova delle interpretazioni precedenti.

Troviamo la stessa confusione tra interiore ed esteriore anche nelle rappresentazioni infantili di sguardo e di visione? Noi non abbiamo mai svolto un’inchiesta su questo soggetto, che è ancora un campo da esplorare. Ma abbiamo trovato per caso, nel corso delle nostre ricerche, alcuni fatti che meritano di essere ricordati, perché per se stessi molto significativi. Ecco anzitutto una domanda citata da Stanley Hall13 e un ricordo di un adulto:

Di un fanciullo di 5 anni: «Papà, perché i nostri sguardi non si confondono quando si incontrano?»

Di un adulto: «Mi ricordo che da piccolo mi domandavo come mai due sguardi che s’incrociavano non si urtassero in qualche punto. Avevo la convinzione che questo punto dovesse essere a mezza strada fra le due persone. Mi domandavo anche perché non si sentono gli sguardi degli altri, ad esempio sulla guancia, quando ci fissano la guancia».

Ed ecco tre casi del tutto spontanei di confusione fra visione e luce, confusione notata nel corso di domande sulle ombre e sui sogni.

PAT (10 anni) ci dice che una scatola fa ombra «perché le nuvole [Pat crede che quando non c’è il sole siano le nuvole a dar luce] non possono passarle attraverso» [perché la luce non può trapassare la scatola]. Ma un attimo dopo Pat dice di un portafogli che fa ombra «perché le nubi non ci vedono da questa parte. – È la stessa cosa vederci e far luce? – Si. – Dimmi quali sono le cose che fanno luce. – Il sole, la luna, le stelle, le nuvole, e poi il Buon Dio. – Tu fai luce? – Nosi. – In che modo? – Con gli occhi. – Perché? – Perché se non si avessero gli occhi, non si potrebbe vedere la luce».

DUC (6½) dice pure che il giorno non può vedere attraverso una mano, confondendo «vedere» e «rischiarare».

SCI (6 anni) dice che i sogni vengono «con le luci. – In che modo? – Quando siamo per istrada le luci [i riverberi] possono vederci… vedono in terra». «Dimmi alcune cose che fanno luce. – Le lampade, le candele, i fiammiferi, il lampo, il fuoco, le sigarette. – Gli occhi fanno luce o no? – Si. – Fanno chiaro anche di notte? – No. – Perché? – Perché sono chiusi. – Quando sono aperti fanno chiaro? – Si. – Fanno chiaro come le lucerne? – Si, un po’».

Gli ultimi casi sono interessanti per la loro analogia con la teoria delle percezioni di Empedocle, il quale, come è noto, spiegava la visione mediante un fuoco emanante dall’occhio che s’incontra con la luce emanante dagli oggetti.14

Da questi cinque casi si può trarre la stessa conclusione: per questi fanciulli lo sguardo è parzialmente esteriore all’occhio. Esce dall’occhio, illumina, e non vi è motivo quindi che non lo si avverta. Noi non sappiamo se queste credenze siano generali o no, ma bastano a mostrare la possibilità di un pensiero ora interno e ora esterno, e confermano cosí l’interpretazione dei fatti del paragrafo precedente.

  3.Il secondo e il terzo stadio: si pensa con la testa

Possiamo considerare le credenze del primo stadio come spontanee, poiché sono generali e non possono essere state suggerite, in ciò che hanno di generale, dagli adulti che circondano il fanciullo. Invece le credenze che caratterizzano il secondo stadio sembrano esser state in parte imposte dall’ambiente. Non si capisce bene come i fanciulli avrebbero scoperto da soli che si pensa con la testa. Tuttavia è interessante constatare che solo dopo i 7-8 anni (in qualche caso a 6 anni) il fanciullo rivolge domande e assimila le risposte.

Ciò che caratterizza il secondo stadio, in contrasto col terzo, è che il pensiero, sebbene ormai situato nella testa, resta materiale. O (primo tipo) il fanciullo continua a credere semplicemente che il pensiero sia una voce e un soffio, oppure (secondo tipo) cerca di comprendere le parole «cervello», «intelligenza» ecc., e si immagina palle, tubi, venti e cosí via.

Ecco ora alcuni casi del primo tipo, particolarmente interessanti per noi in quanto mostrano la persistenza dei fenomeni del primo stadio, nonostante la pressione progressiva dell’adulto:

FALQ (7;3): «Sai cos’è il pensiero? – Quando si pensa a qualcosa che si vuol fare. – Con che cosa si pensa? – Con qualcosa. – Con che cosa? – Con una vocina. – Dove è? – [indica la fronte]. – Da dove viene questa vocina? – Dalla testa. – Come cammina? – Sola sola. – Il cavallo pensa? – . – Con che cosa? – Con una vocina dentro la testa. – E i cani? – . – Questa piccola voce dice qualche parola? – . – Perché? I cani non parlano! – Parlano e ascoltano. – Dove? – [accenna alla fronte]. – Perché? – Perché c’è qualcosa. – Che cosa? – Una piccola palla». Nella testa c’è anche «una piccola bocca. – Lo scopri ora? – Si. – Sei sicuro? – Si». Un attimo dopo Falq ci parla della memoria. «Dov’è la memoria? – Qui dentro [indica la fronte]. – Che cosa c’è li? – Una piccola palla. – E che cosa c’è dentro? – Il pensiero. – Che cosa si vedrebbe se si guardasse? – Del fumo. – Da dove viene? – Dalla testa». «Da dove viene questo fumo? – Dal pensiero. – Il pensiero è fumo? – Si». «Perché il pensiero si trova nella piccola palla? – È un po’ di vento e di fumo che c’è entrato. – Da dove? – Dal di fuori. – Da dove? – Il vento da fuori e il fumo dal camino. – Il vento è vivo? – No, perché è vento, e quando si pensa a qualcosa, entra nella palla. Quando si è pensato a qualcosa, il pensiero viene col vento e col fumo». «In che modo? – Il pensiero attira il vento e il fumo, e si mescolano». «Che cos’è il fumo? – Un soffio. – E il vento? – Anche». «C’è del soffio in te? – No… sí, quando si respira. – Quando si respira, che cos’è che entra ed esce? – Il vento. – Si fa vento quando si respira? – . – E anche fumo? – No… si, del vapore».

È abbastanza chiara l’analogia di questo caso (la parte costituita di particolari, specialmente per ciò che riguarda «la piccola bolla») con quelli di Rou, Ris, e Brun (§ 1). È chiaro soprattutto come il vento, il fumo, la respirazione e la voce partecipino gli uni degli altri. Falq si trova dunque sul prolungamento diretto del primo stadio, ma, oltre che con credenze spontanee, con credenze acquisite, come la palla nella fronte. Quanto alla «piccola bocca» nella testa, Falq ci ricorda il fanciullo citato dalla signorina Malan e che diceva: «È la bocca là dietro [nella testa] che parla alla mia bocca davanti».

REYB (8;7): «Che cos’è il pensiero? – Quando si pensa a qualcosa. – Che cosa vuoi dire? – Che la si vorrebbe avere. – Con che cosa si pensa? – Col cervello. – Chi te l’ha detto? – Nessuno… – Dove hai imparato questa parola? – L’ho sempre saputa. – Che cos’è il cervello? – I tubi della testa. – Che cosa succede in questi tubi? – Qualcosa. – Che cosa? – Che si pensa. – Si può vedere il pensiero? – No. – E toccarlo? – No. – Com’è? – Qualche cosa che si sente. – Puoi pensare con le orecchie turate? – No. – Con gli occhi chiusi? – No. – Con la bocca chiusa? – No. – Dove vanno questi tubi e dove entrano? – Dalle orecchie. – Da dove escono? – Dalla bocca. – Chi ti ha detto: i tubi della testa? – Nessuno. – L’hai già inteso dire? – No».

Appare chiara l’influenza degli adulti. Ma è lecito pensare a una reazione spontanea quando Reyb dice che il pensiero è «ciò che si sente».

GRAND (8 anni) ci dice, durante un interrogatorio sull’animismo, che la luna non sa nulla perché «non ha orecchie». Questa è già un’indicazione. Piú avanti: «Sai che cosa vuol dire pensare? – . – Con che cosa si pensa? – Con la testa. – Che cos’è il pensiero? – È una cosa bianca nella testa. – Con che cosa si pensa? – Con una vocina».

MENN (12 anni) pensa anch’egli che si pensa «con la testa. – Si può vedere il pensiero se si apre la testa? – No, non resta dentro. – Potrei vederlo? – No. – Si potrebbe toccarlo? – No: è quello che si parla. – Si potrebbe sentirlo? – No. – Perché? Che cos’è il pensiero? – [si potrebbe sentirlo]. È la nostra voce».

Quest’ultimo caso è notevole, e dimostra chiaramente che il fanciullo, anche se localizza il pensiero nella testa, non ha però ancora dominato il problema tra interiore ed esteriore: infatti il pensiero è «la nostra voce», e questa voce «non resta dentro».

In altre località della Svizzera, dove la signorina Perret ha condotto la stessa inchiesta, si trovano casi analoghi.

NIC (10; 3), una bambina, pensa che non si possa vedere il pensiero perché «occorre che io parli perché lo si possa vedere».

E. KUN (7; 4) e sua sorella M. KUN (8; 4) sono stati interrogati l’una dopo l’altro senza aver avuto il tempo di mettersi d’accordo. Dicono entrambi che il pensiero è nella testa, e che è «bianco» e «rotondo». M. Kun lo immagina «grande come una grossa mela». E. Kun lo dice «piccolo». Sembra dunque che in queste risposte ci siano tracce di un insegnamento adulto intorno al cervello. Eppure E. Kun, in altri momenti, afferma che si pensa «con la bocca. – Dove si trova il pensiero? – In mezzo alla bocca. – Si può vederlo? – . – Si può toccarlo? – No. – Perché? – Perché è lontano. – Dove? – Nel collo». È evidente la mescolanza fra credenze spontanee e insegnamenti ricevuti.

Tutti questi casi mostrano la continuità delle risposte del primo e del secondo stadio, e per conseguenza il valore di queste risposte. Al primo momento abbiamo avuto l’impressione che queste «voci» fossero la reminiscenza di discorsi religiosi («la voce della coscienza» ecc.), ma abbiamo abbandonato quest’idea davanti alla generalità del caso.

Nessuno dei fanciulli precedenti si rappresenta dunque il pensiero come distinto dalla materia. Questo sostanzialismo caratterizza anche i soggetti seguenti, che, sotto la spinta dei concetti adulti, hanno cessato di identificare il pensiero e la voce. Vedremo quale strana deformazione abbiano subito questi concetti; deformazione ch’è, in un certo senso, istruttiva quanto le reazioni spontanee dei fanciulli precedenti.

IM (6 anni): il pensiero è «la mia intelligenza». È quel «che ci fa pensare, che ci fa cercare. – Chi ti ha detto questo? – Non me l’hanno detto, lo so». Ma quest’intelligenza non si può toccare «perché è tutta piena di sangue».

DUSS (9 anni) identifica il pensiero con «il cervello», che è grosso «come una palla». Duss crede poi che si sogni «con la bocca».

ZIMM (8;1) pensa con la sua «intelligenza», ma crede che, aprendogli la testa, si potrebbe vedere e toccare quest’intelligenza.

KAUF (8;8), una bambina, pensa con la sua memoria. «La memoria è una cosa che si trova nella testa e che ci fa pensare. – E come credi che sia fatta la memoria? – È un piccolo mattone, in pelle, un po’ ovale, e dentro ci sono le storie. – Come sono queste storie? – Sono scritte sulla carne. – Con che cosa? – A matita. – Chi le ha scritte? – Ce le ha messe il Buon Dio, prima che io nascessi».

È chiaro che in questo particolare Kauf inventa. Conviene però considerare come spontanea la sua tendenza a credere che «le storie» siano innate. Questa credenza, infatti, dipende da un fenomeno da noi spesso osservato: la totale amnesia dei fanciulli per quanto riguarda l’origine delle loro conoscenze, anche di quelle piú recentemente acquisite. Im, di cui abbiamo letto le risposte, è convinto, ad esempio, d’aver sempre conosciuto «l’intelligenza». Reyb ha «sempre saputo» di avere un cervello ecc.15 È dunque naturalissimo che, quando i fanciulli pensano all’origine delle loro cognizioni, essi credano, come Kauf, che queste cognizioni siano innate. Vedremo la stessa cosa a proposito dell’origine dei nomi. Ci è stato fatto notare che questa tendenza dei fanciulli a considerare come nato da loro stessi tutto ciò che è stato loro insegnato non dovette essere senza influenza sulla genesi psicologica di dottrine come quelle della reminiscenza platonica.

Ecco ora alcuni fanciulli che identificano il pensiero con l’aria, ma per un’evidente influenza adulta piú o meno diretta:

TANN (8 anni) pensa col suo «spirito». «Che cos’è questo spirito? – È qualcuno che non è come noi, che non ha pelle né ossa, che è come l’aria, che non si può vedere. Dopo la morte, se ne va dal corpo. – Se ne va? – Se ne va, ma resta; resta partendo [!] – Che cosa resta? – Egli resta, ma è anche in cielo». Il dualismo esterno-interno non si impone ancora irresistibilmente all’intelligenza di Tann.

PERET (11;7): Si pensa «con la fronte. – Che cosa c’è nella fronte? – Il nostro spirito». «Si può toccare lo spirito? – No. – Perché? – Non si può toccarlo. Non si può; non lo si vede. –Perché? – Perché è aria. – Perché credi che sia aria? – Perché non lo si può toccare».

Si noti la differenza fra questi fanciulli e quelli citati alla fine del § 1 (Rou, Brun e Ris) e Falq (§ 3), che assimilano anch’essi il pensiero all’aria. Mentre questi ultimi dànno prova di una riflessione propria e non presentano tracce di vocaboli imparati, Tann e Peret si sforzano invece di deformare concetti imposti loro dall’ambiente. Ma queste deformazioni sono comunque interessanti e mostrano come, per il fanciullo al secondo stadio, il pensiero resti ancora materiale.

Non si può dunque ancora dire che, nel secondo stadio, il pensiero sia distinto dalle cose. O meglio, il fanciullo prolunga semplicemente il primo stadio, identificando il pensiero e la voce, oppure cade in un verbalismo piú o meno completo. Ma in entrambi i casi il pensiero non è distinto dalle cose alle quali si pensa, né le parole dalle cose nominate. Esiste semplicemente un conflitto fra le credenze anteriori del fanciullo e la pressione dell’insegnamento adulto, e solo questa crisi segna un progresso, senza che il secondo stadio porti al fanciullo alcuna soluzione nuova.

In quale momento si potrà dire che il fanciullo distingue il pensiero dalle cose? A quale punto, cioè, bisogna fissare l’inizio del terzo stadio? Noi non crediamo che la tecnica seguita fin qui nei nostri interrogatorî sia sufficiente per determinare una distinzione cosí sottile. Ma tale tecnica, unita a un interrogatorio sui nomi e sui sogni, darà utili ragguagli. Proponiamo dunque di subordinare la diagnosi del terzo stadio all’uso simultaneo di tre criteri. Perché si possa ammettere che un fanciullo sa distinguere il pensiero dalle cose, occorre: 1) che questo fanciullo sia capace di localizzare il pensiero nella testa e di dichiararlo invisibile, impalpabile ecc., cioè immateriale e distinto anche dall’«aria» o dalla «voce» ecc.; 2) che il fanciullo sia capace di far distinzione fra le parole e il nome delle cose; 3) infine, che il fanciullo sia capace di localizzare i sogni nella testa, e di dire che non si vedrebbero se gli si aprisse la testa (vedi, per i punti 2 e 3, la tecnica indicata piú avanti). Nessuno di questi criteri è in se stesso sicuro, ma crediamo che il loro uso simultaneo basti a caratterizzare il raggiungimento del terzo stadio.

Ecco un esempio, basato sui punti 1 e 3:

VISC (11;1): «Dov’è il pensiero? – Nella testa. – Se ti si aprisse la testa, si vedrebbe il pensiero? – No. – Si potrebbe toccarlo? – No. – Sentirlo come l’aria? – No…» Poi: «Che cos’è un sogno? – È un pensiero. – Con che cosa si sogna? – Con la testa. – A occhi aperti o chiusi? – Chiusi. – Dov’è il sogno quando si sogna? – Nella testa. – Non è davanti a noi? – È come se [!] vedessimo. – C’è qualcosa davanti a te quando sogni? – Non c’è niente. – Che cosa c’è nella testa? – I pensieri. – Sono gli occhi che vedono qualcosa nella testa? – No».

Possiamo collocare l’inizio del terzo stadio approssimativamente verso gli 11 anni. Se ne possono trovare dei casi in fanciulli di 10 e anche di 9 anni. Ma, nella media, le scoperte essenziali – il pensiero non è una materia ed è distinto dai fenomeni che rappresenta – si possono situare soltanto verso gli 11 anni.

  4.Le parole e le cose

Due confusioni ben distinte, benché solidali, caratterizzano i primi due stadi che abbiamo studiato. Da un lato, la confusione tra pensiero e corpo: il pensiero, per il fanciullo, è un’attività dell’organismo – la voce –, è dunque cosa fra le cose e consiste essenzialmente nell’agire materialmente sugli oggetti o sulle persone per cui si abbia interesse. Dall’altro lato, la confusione tra significante e significato, cioè tra il pensiero e la cosa a cui si pensa. Da questo punto di vista, il fanciullo non farà distinzione, ad esempio, tra una casa reale e il concetto o l’immagine mentale o il nome della casa stessa. Ci resta da studiare quest’ultimo punto.

Come chiarire questa differenziazione capitale? Qual è il primo elemento concepito dal fanciullo come inerente al soggetto pensante? È il concetto, l’immagine, o la parola? In ogni caso non è il concetto, e noi non sappiamo a quale età appaia la nozione di «idea». A questo punto vi sarebbe da fare una ricerca interessante: in quale momento nascano, ad esempio, locuzioni come: «un’idea falsa», «farsi un’idea», ecc. Tutto ciò che sappiamo, in base ai casi precedenti, è che a 7 anni Rou (§ 1) confonde ancora la cosa con il suo concetto: dice che si può toccare il pensiero perché esso può toccare «le cose che sono vere». Va notato che una tale credenza suppone che ci siano «cose che non sono vere», vale a dire appunto oggetti della mente: ciò che i fanciulli chiamano «storie» o «cose da ridere». Ma lo studio delle spiegazioni infantili sui sogni ci mostrerà che questi oggetti mentali non sono considerati come rappresentazioni, ma come cose: immagini «in aria», parole ecc. Lo studio dei sogni ci ragguaglierà anche sul periodo in cui il fanciullo concepisce l’esistenza di immagini mentali; non è perciò il caso che ne trattiamo ora.

Restano le parole. Si sa che James Sully, e piú tardi Compayré e molti altri, hanno sostenuto, con molta ragione, che agli occhi del fanciullo ogni oggetto sembra possedere un nome primordiale e assoluto, facente parte cioè della natura stessa di quest’oggetto. Luquet ha dimostrato che molti disegni di fanciulli portano una didascalia precisamente a causa di questa particolarità: «L’aggiunta di una didascalia non ha altro scopo, secondo noi, che di esprimere il nome dell’oggetto; nome considerato dal disegnatore come una proprietà altrettanto inerente alla sua essenza e degna di essere riprodotta quanto i suoi caratteri visivi».16

Può dunque essere interessante indagare a quale età il fanciullo sa distinguere le parole dalle cose che esse indicano. Per risolvere questo problema abbiamo applicato due tecniche diverse. La piú importante sarà esposta nel capitolo seguente: essa concerne l’origine e la localizzazione dei nomi delle cose. La tecnica piú indiretta, della quale tratteremo ora, è anche la piú discutibile. Essa consiste semplicemente nel chiedere al fanciullo se le parole «hanno forza», e nel dimostrargli il suo sofisma se cade nel tranello. L’inconveniente del procedimento sta proprio nell’esistenza di un tranello. D’altronde, non oseremmo trarre alcuna deduzione dai risultati ottenuti con questo metodo, se l’avessimo usato da solo. Ma, unito ai metodi del capitolo II, è anch’esso interessante.

Abbiamo trovato tre tipi di risposte corrispondenti a tre stadi successivi. Durante il primo stadio (sin verso i 7-8 anni), i fanciulli non riescono assolutamente a distinguere tra parole e cose: non capiscono il problema. Nel secondo stadio (7-11 anni), i fanciulli capiscono il problema, ma non riescono a risolverlo sistematicamente. Nel terzo stadio (10-11 anni), viene raggiunta la soluzione giusta.

Ecco qualche esempio del primo stadio:

BOURG (6 anni): «Una parola ha forza? – Nosi. – Dimmi una parola che abbia forza. – Papà, perché è un papà e poi è forte. – Se dico “nuvola”, la parola “nuvola ” ha forza? – Sí, perché fa luce durante la notte. [È la credenza abbastanza generale che le nubi rischiarino in assenza del sole]. – La parola “ombrello“, ma la parola soltanto, non l’ombrello, è forte? – Un pochino, perché possono ficcarcelo negli occhi, e ammazzarci».

BOV (6;5): «Quando dico “ombrello“, io dico una parola; oppure “cassetto”, è una parola, non c’è nessun cassetto, sono soltanto parole. Se non dicessi delle parole, tu non sapresti che cosa voglio dire. Vediamo una parola… la parola “sole“; è forte questa parola? – No, perché è leggero [il sole]. – La parola “battere “è forte? – No, è fortissima. – Perché? – Perché a volte fa molto male. – Ma è la parola “battere “che è forte? Quando dico la parola “battere” con la bocca, soltanto la parola, questo è forte? – No, perché la bocca non può gridare. – Dimmi una parola forte. – Quando un cavallo s’infuria».

CAM (6 anni): «Quando dico la parola “correre”, io non corro. Dico la parola soltanto con la bocca. È forte una parola? – . – Perché? – Perché si dice questo. – Se dico la parola “saltare”, è forte? – Sí, perché le bambine saltano oon una corda».

Ma è chiaro che i casi di questo primo stadio, per se stessi, non provano nulla. Infatti è possibile che questi fanciulli abbiano la nozione di che cosa sia un vocabolo, ma che non conoscano un termine per designare tale nozione. Di conseguenza, il termine «parola» indica, per loro, la presenza della cosa stessa. Se cosí fosse, la nostra esperienza non varrebbe nulla. Può anche darsi che non siamo riusciti a farci capire. Insomma, il solo mezzo per provare che questi fanciulli confondono realmente la parola con la cosa nominata, consiste nel mostrare che i fanciulli piú grandi arrivano a comprendere il problema, ma senza saperlo risolvere. Ce lo dimostreranno gli esempi del secondo stadio.

Il secondo stadio è dunque paradossale. Da un lato il fanciullo comprende il problema e distingue per conseguenza il nome della cosa dalla cosa nominata. Ma, d’altra parte, questa distinzione non è sufficiente perché il fanciullo eviti il tranello tesogli: vi ricade a ogni occasione. Vediamo qualche esempio:

KRUG (6 anni): «Una parola è forte? – No, per niente. – Ci sono parole che hanno forza e altre che non ne hanno? – Ce ne sono alcune che ne hanno. – Quali? – La parolaforte”, perché si dice che è forte. – La parola “elefante” è forte? – Si, perché un elefante può portarci. – L’elefante si, ma la parola da sola, è forte? – No. – Perché? – Perché questo non conta. – Questo, che cosa? – La parola. – La parola “dormire” ha forza? – È debole, perché quando si dorme si è stanchi. – La parola “correre” ha forza? – Si, perché si è forti… perché è forte la parolacorrere”».

AUD (8;8): «Le parole hanno forza? – No, le parole non sono niente. Non hanno forza e non ci si può mettere sopra nulla. – Dimmi una parola. – “Tappezzeria”. Non è forte per niente, perché se ci si mette qualcosa sopra si strappa. Una parola non ha forza perché non si può montarvi sopra. La parola è quando si pronuncia. [La parola] “carta”, se ci si mettesse sopra qualcosa, si strapperebbe. – Ci sono parole che hanno forza? – No. – Dimmi un’altra parola. – “Portaombrelli”. Questa ha forza perché ci si possono mettere sopra gli ombrelli. [Questa parola è stata scelta da Aud, come la parola “tappezzeria”, perché aveva i relativi oggetti sotto gli occhi, nella sala.] – Ma gli ombrelli si mettono sulla parola “portaombrelli”? – No. – Ma la parola, ha forza? – No. – E la parola “tappezzeria”, perché non ha forza? – Perché si strappa facilmente. – È la parola che si strappa? – [Ride] No, è la tappezzeria. – La parola” automobile” ha forza? – Il nome non ha punto forza, ma l’automobile sí [!]. – Benissimo. Ci sei. Dimmi un’altra parola che non ha forza. – La ragnatela, perché bisogna metterci sopra cose leggere, altrimenti sí rompe. – È la parola che si rompe? – No [ride]. – Stordito, ti sei sbagliato di nuovo! – [Ride] . – Dimmi uno parola che non ha forza. – Gli alberi. – È la parola che non ha forze? – Sí, perché non sí può metterci sopra nulla. – Sopra che cosa? – Sopra gli alberi».

Questi casi sono notevoli. Krug e soprattutto Aud capiscono bene il problema. Aud dice immediatamente, ad esempio, che una parola «è quando la si pronuncia». Tuttavia lo si vede altrettanto spontaneamente aggiungere che la parola «carta» non è forte, perché la carta si strappa! È manifesto, in tali casi, che la confusione non è puramente verbale, ma dipende da una difficoltà sistematica a distinguere il vocabolo dalla cosa significata o il pensiero dalle cose alle quali si pensa.

Ecco infine, come esempio del terzo stadio, un fanciullo che scopre a poco a poco il tranello dell’interrogatorio e passa cosí, sotto i nostri occhi, dal secondo al terzo stadio. Le risposte di questo fanciullo sono, come vedremo, del tutto spontanee, e sono state esse che ci hanno spinto a condurre questa rapida inchiesta. Avendoci il fanciullo parlato del «pensiero» come di una cosa immateriale, abbiamo avuto l’idea di domandare, a puro titolo di controllo, se il pensiero avesse forza. La reazione originalissima e precisa del fanciullo ci ha dato allora l’idea di porre la stessa domanda a proposito delle parole, e di porla a fanciulli piú piccini:

T (10; 10): «Il pensiero ha forza? – No, ce l’ha e poi non ce l’ha. – Perché ce l’ha? – Secondo che cosa sí pensa. – Quando si pensa a che cosa? – A qualcosa che ha forza. – Se pensi a questa tavola, il pensiero ha forza? – . – Se pensi al lago? – No. – Se pensi al vento? – ». [Tié aveva detto pochi istanti prima che l’acqua del lago non aveva forza «perché è tranquilla», che il vento ha forza «perché può far crollare le case», e che anche la tavola ne ha perché porta delle cose.] «Le parole hanno forza? – Secondo che parola è. – Quali parole hanno forza? – La parolaboxe”… Ah! No, non hanno forza! [ride]. – Perché prima credevi di sí? – Mi sono sbagliato. Ho creduto che fosse la parola a menar pugni!»

Questo esempio è suggestivo per se stesso. In Tié la confusione fra vocabolo e cosa si accompagna, infatti, a una confusione esplicita e spontanea fra pensiero e oggetti ai quali si pensa. Il fatto che Tié si sia sbarazzato del suo sofisma durante l’interrogatorio aggiunge maggior pregio al suo caso, poiché mostra quanta fatica abbia dovuto compiere uno spirito riflessivo e indagatore per rispondere correttamente.

È inutile prolungare oltre la nostra inchiesta, poiché lo studio sistematico del «realismo nominale», che tenteremo nel capitolo successivo, ci darà le informazioni supplementari che qui mancano. I fatti citati bastano per considerare come acquisito che fin verso i 10-11 anni esiste confusione tra significante e significato. Come s’è visto, la nozione di pensiero si libera verso i 10-11 anni dalla nozione di materia fisica. Vedremo ora, verso i 10-11 anni, il fanciullo prender coscienza di «pensieri» o di parole distinti dalle cose alle quali si pensa. Le due scoperte sono, infatti, concomitanti.

In conclusione: fin verso gli 11 anni, pensare è parlare, sia che si pensi con la bocca, sia che il pensiero sia una voce localizzata nella testa; e parlare significa agire sulle cose stesse mediante le parole, le parole partecipando in certo modo delle cose nominate cosí come della voce che le pronuncia. In tutto ciò non v’è dunque altro che sostanze e azioni materiali. C’è «realismo», e un realismo dovuto a una continua confusione tra soggetto e oggetto, fra interno ed esterno.