Premesse |
Per definire esattamente le rappresentazioni del mondo nel fanciullo, conviene senz’altro porsi subito questa domanda: la realtà esteriore è per il fanciullo altrettanto esteriore e obiettiva quanto per noi? In altri termini, il fanciullo è capace di distinguere il mondo esteriore dal suo io? Anche nei nostri precedenti studi sulla logica del fanciullo c’imbattemmo fin dal principio nel problema dell’io, e fummo portati ad ammettere che la logica si sviluppa in funzione della socializzazione del pensiero. Finché il fanciullo presuppone che tutti pensino necessariamente come lui, non cerca spontaneamente né di convincere, né di confermarsi alle verità comuni, né soprattutto di dimostrare o di verificare le proprie affermazioni. Possiamo dunque sostenere che, se la logica del fanciullo non raggiunge il rigore e l’obiettività, ciò è dovuto a un egocentrismo innato che si oppone alla socializzazione. Per studiare i rapporti del pensiero infantile non piú con i pensieri altrui, ma con le cose, ci troviamo subito di fronte a un problema analogo: saprà il fanciullo uscire dal proprio io per costruirsi una rappresentazione oggettiva della realtà?
A prima vista la domanda può sembrare futile. Il fanciullo, come l’adulto privo di cultura, sembra rivolto soltanto alle cose. La vita del pensiero lo lascia indifferente. L’originalità dei punti di vista individuali gli sfugge. I suoi primi interessi, i primi giuochi, i disegni sono essenzialmente realistici, rivolti unicamente all’imitazione della realtà visibile. In breve, il pensiero del fanciullo ha tutte le apparenze di una preoccupazione esclusivamente realistica.
Ma vi sono due maniere di essere realisti, o meglio: occorre distinguere fra oggettività e realismo. L’oggettività consiste nel conoscere cosí bene le molteplici intrusioni dell’io nel pensiero quotidiano e le mille illusioni che ne derivano – illusioni dei sensi, del linguaggio, dei punti di vista, dei valori ecc. – che, prima di azzardare un giudizio, si comincia col liberarsi dagli ostacoli dell’io. Il realismo, invece, consiste nell’ignorare la presenza dell’io, e quindi nel considerare la propria prospettiva come immediatamente oggettiva e assoluta. Il realismo è dunque illusione antropocentrica, è finalismo, è tutte le illusioni delle quali abbonda la storia delle scienze. Quanto piú il pensiero non prende coscienza dell’io, tanto piú si espone a perpetue confusioni tra oggettivo e soggettivo, tra il vero e l’immediato; pone tutto il contenuto della coscienza su un solo piano, sul quale le relazioni reali e le incoscienti emanazioni dell’io sono irrimediabilmente confuse.
Non è dunque assurdo, ma invece indispensabile precisare, per prima cosa, il limite che il fanciullo stabilisce fra il suo io e il mondo esteriore. Del resto non si tratta di un metodo nuovo. Ernst Mach e James Mark Baldwin lo hanno già da tempo introdotto in psicologia. Mach dimostrò che la delimitazione fra mondo interno, o psichico, e mondo esterno, o fisico, è ben lontana dall’essere innata. All’interno di un’unica realtà indifferenziata, l’azione classificherà a poco a poco le immagini secondo questi due poli, e i sistemi si costituiranno l’uno in corrispondenza dell’altro.
Baldwin chiamò proiettivo questo stadio primitivo nel quale le immagini sono semplicemente «presentate» alla coscienza, senza che esista distinzione fra io e non-io. Questo stadio proiettivo è caratterizzato dai suoi «adualismi»: in particolare sono del tutto assenti il dualismo di interno ed esterno e il dualismo di pensiero e cose, e il costruirli per gradi è còmpito dell’ulteriore sviluppo logico.8
Ma questi punti di vista sono ancora teorici. L’ipotesi di Mach non poggia su una vera e propria psicologia genetica, e la «logica genetica» di Baldwin è piú costruttiva che sperimentale. Perciò, seguendo dappresso gli ingegnosi sviluppi baldwiniani, se ne scopre, non tanto forse la fragilità, quanto, almeno, la complessità.
Che cos’è, ad esempio, la nozione di «proiezione»? A questo termine si possono attribuire tre significati distinti, poiché è ben difficile distinguere sempre fra «proiezione» ed «eiezione». Qualche volta si tratta semplicemente di un’indifferenziazione fra io e mondo esterno, di una mancanza di coscienza dell’io. Cosi si è sostenuto che il fanciullo che parla di se stesso in terza persona si ignora come soggetto e vede se stesso come dal di fuori. Questo potrebbe essere un caso di «proiezione», in quanto vengono narrate o forse concepite azioni proprie, come se, in rapporto al fanciullo che parla, fossero estranee al suo mondo interiore.
In altri casi, si può parlare di «proiezione» quando si attribuiscono alle cose caratteri dovuti invece all’io o al pensiero. Cosi il fanciullo che localizza nel sole il nome del sole, proietta una realtà interna nel mondo esterno.
Infine, è difficile distinguere dalla «proiezione» i casi nei quali prestiamo alle cose non già i nostri caratteri, ma il reciproco dei nostri stati di coscienza: il fanciullo sbigottito davanti a un fuoco vedrà nel fuoco intenzioni minacciose. Non è che il sentimento di paura venga trasferito sul fuoco; no, il sentimento diventa oggettivo, e il fanciullo proietta nel fuoco la condizione reciproca della paura: la malvagità.
Appunto in questo senso gli psicoanalisti hanno usato il termine di «proiezione». È un significato diverso dai due primi, ma è chiaro che esiste fra tutti e tre una parentela e anche, probabilmente, una perfetta continuità. Comunque, in tutti e tre i significati si nota un «adualismo» fra interno ed esterno.
Qual è dunque il meccanismo della proiezione? È solo mancanza di classificazione del contenuto della coscienza? Leggendo Baldwin, verrebbe fatto di pensare cosí. Appare chiaro nelle sue opere come i contenuti si siano differenziati e come si siano costituiti i «dualismi». Ma non appare come si siano costruiti gli stati primitivi e adualistici. Ciò si deve indubbiamente al metodo seguito da Baldwin. Nei suoi ultimi scritti, questo sottile analista ricostruisce infatti la logica genetica come se facesse della psicologia introspettiva, prendendo cioè la coscienza come un dato ultimo e senza ricorrere né all’inconscio né alla biologia. D’altra parte, è lecito chiedersi se la psicologia genetica non debba inevitabilmente presupporre anche dati biologici, e in particolare se la proiezione non risulti da un inconscio processo di assimilazione, per il quale le cose e l’io si condizionino anteriormente a ogni risveglio di coscienza. Se ciò fosse vero, i diversi tipi di proiezione sarebbero relativi alle diverse combinazioni possibili di assimilazione e adattabilità.
Ma per mettere in luce tali processi e seguirne gli sviluppi, occorre assolutamente uno studio minuzioso dei fatti, ed è questo studio che vorremmo affrontare nei riguardi dello sviluppo del fanciullo. È chiaro che tale campo di studi è illimitato: noi ci limiteremo dunque all’analisi di alcuni fatti ben definiti, per gettare qualche luce su questi difficili interrogativi.
Seguiremo un metodo regressivo, partendo dalla descrizione delle rappresentazioni della natura e del pensiero nei fanciulli (dualismo del pensiero e delle cose), per risalire allo studio dei limiti che i fanciulli tracciano, a proposito delle parole, dei nomi, dei sogni, fra il mondo esteriore e il mondo interiore, per concludere infine con una breve analisi di alcuni fenomeni connessi. Il vantaggio del metodo regressivo sta in ciò: che cominciando dai fenomeni di piú facile interpretazione, si possono dipanare alcuni fili conduttori che ci mancherebbero se seguissimo l’ordine cronologico.