POSCRITTO



La chiesa del nostro villaggio non è una di quelle che Philip Larkin riterrebbe degne di una sosta;7 riedificata all’inizio dell’Ottocento, non è adorna e non sa di chiuso ma somiglia certamente a un fienile; un edificio che non sembra mai pieno e dove anche un affollato coro di fedeli pare sommesso e inadeguato.

In questi giorni penso spesso a questa chiesa, perché qui si terrà certo il mio funerale e il canto degli inni; anche se oggi lo faccio di rado, è sempre stato un grande piacere per me cantarli. Ma non nella chiesa del nostro villaggio e mi dispiace per la mia congregazione che deve cantare anche per me.

E non c’è granché ad allettare l’occhio: poche sculture da contemplare, vetrate insignificanti, niente tramezzo tra i fedeli e il coro, solo una sobrietà che in una chiesetta piccola sarebbe pittoresca, ma che fa apparire questa fredda e spoglia.

È vero, attraverso le vetrate si vedono sprazzi degli alberi del cimitero, e il cimitero è decisamente più bello della chiesa. Una volta fu dipinto da John Piper per Osbert Sitwell (la sua serie di dipinti del villaggio si trova a Renishaw); è cinto dagli alberi, col ruscello da un lato e una cascatella dietro, e s’affaccia su alcuni cottage dall’altra parte della stradina e sul villaggio, che è più in basso. Non è un brutto posto dove andare a finire, penso, a parte che io non ci starò perché è al completo e oggi si usa il cimitero grande sulla circonvallazione (costruito attorno al 1970), verso la stazione. Per andarci a piedi bisogna uscire dal villaggio e lì, siccome la A65 è la strada principale per il Lake District e il traffico è incessante, prendere il sottopasso fatto apposta per le vacche e gli scolari che abitano a sud. Sopra il sottopasso scorre anche il torrente, che quando è in piena allaga l’altra uscita, e quindi ci si bagnano le scarpe.

Queste cose non hanno importanza se si arriva in macchina (o in carro funebre), ma i parenti devono prepararsi a una lunga attesa prima di poter attraversare la circonvallazione, e poi a uno scatto in velocità poco consono a chi segue un feretro. Sulla sinistra poi c’è un campo che nei weekend si riempie di camper e roulotte.

Il cimitero è piccolo e circondato dagli alberi, per lo più aceri e qualche ippocastano, ma non gli amati faggi. Quando arrivammo al villaggio nel 1966 c’era ancora una cappella ardente; una zona di mattonelle rosse e beige ne segna il luogo. Alcune le abbiamo comprate dalla parrocchia e adesso sono il nostro pavimento di cucina. L’unico altro edificio è un capanno sgangherato all’angolo sudorientale, che ospita anche la fontanella.

Le tombe sono a file, alcune anonime; pochissime sono delimitate, il cimitero è fatto per lo più d’erba. La tomba di mio padre e le ceneri di mia madre sono nell’ultima fila a est. Lui morì nell’agosto 1974 a settantun anni e mia madre circa vent’anni dopo, a novantuno. I vicini di tomba sono persone che probabilmente papà salutava con un «buongiorno»; la gente sepolta qui aveva più o meno tutta questo tipo di rapporto. Alcune famiglie, come i Cross, i Kay, i Nelson, abitano in questo villaggio da generazioni.

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«Non fare le smorfie, papà. Sorridi!»

Quando ordinai la lapide per mio padre non volli uno di quegli affari di marmo lucido con le lettere dorate che molti sembrano prediligere. Volevo una cosa semplice; semplice come le tombe dei soldati caduti in Francia. E così è, anche se la lapide non ha proprio lo stesso aspetto, macchiata dall’umidità e con una scritta un po’ troppo elaborata e ingombrante.

Sulla tomba c’è un barattolo per conserve che usiamo per i fiori; una cosa più elegante rischia di essere rubata. I fiori che ci metto periodicamente vengono dal nostro giardino. A papà sarebbero piaciuti, anche se in estate, quando cresce l’erba, il posto diventa un mare di margherite giganti che gli piacerebbero ancora di più; tutto il cimitero è un rifugio di fiori selvatici. Qui cresce in particolare uno dei miei preferiti, la cariofillata dei rivi (Geum rivale), che Richard Mabey descrive come «fiore a coppa, di color violetto, rosa e arancio spento»; per qualche ragione fa pensare alle fragole, anche se il fiore della fragola è bianco. Mabey dice anche che è «una specie seducente e riservata», e nel cimitero cresce attorno alla fontanella dove riempio il barattolo.

Questo gesto mi ricorda una fontanella analoga, un rubinetto e una vasca di ferro nel cimitero di New Wortley in fondo a Tong Road, dove andavo da bambino con mia nonna a curare l’anonimo tumulo erboso che era la tomba di mio nonno. Siccome non c’era il nome non ero mai sicuro di dove fosse esattamente, e ritrovare la strada dalla fontanella stringendo tra le mani un vaso stracolmo non era mai semplice. Nonna era una donna alta, ma di solito se ne stava china sulla tomba, nascosta dalle altre lapidi. Mi infilavo tra le lapidi come in un labirinto sepolcrale. Ogni volta pensavo di essermi perso, e all’improvviso dietro un angelo mi imbattevo in nonna. In ginocchio, tagliava l’erba con le forbici da cucina.

Mettiamo nel vaso gli anemoni che lei ha comperato da Sleights, il fruttivendolo all’angolo di Green Lane, e dopo ci incamminiamo mano nella mano per il viale che porta all’uscita del cimitero, con le merlature del carcere di Armley che si stagliano dietro di noi.

A volte sto in piedi accanto alla tomba dei miei genitori e cerco di immaginarmeli, lui in camicia e gilè, mamma in soprabito blu e cappello di paglia lucido. Cerco anche di dire due parole in preghiera, anche se mi sarebbe difficile dire quali e rivolte a chi.

Più o meno si riducono a «Insomma...». O a «Ecco fatto», che è quello che dicono i vecchi quando hanno concluso una transazione.

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