I
In quella che oggi chiamiamo Italia il contatto con il Mediterraneo orientale produsse effetti disomogenei. Nell’orizzonte quotidiano delle popolazioni indigene della Sicilia (sicani, siculi ed elimi) la cultura greca penetrò più lentamente che in quello dei popoli di Toscana e Lazio. In Sicilia, sia i greci sia i cartaginesi si tennero a debita distanza dalla popolazione locale. Dal canto suo la Sardegna, terra di ricche risorse minerarie, ospitava da secoli una dinamica civiltà il cui marchio distintivo erano le torri in pietra dette «nuraghi», che ancora oggi punteggiano l’isola a migliaia. Intorno a tali edifici sorgevano quelli che sembrano essere stati prosperi villaggi, essenzialmente dediti allo sfruttamento del fertile suolo locale. I primi nuraghi furono costruiti intorno al 1400 a.C., ma se ne edificavano ancora in piena Età del ferro.1 In epoca micenea la Sardegna aveva intrattenuto contatti con il mondo esterno grazie ai mercanti del Mediterraneo orientale, approdati sull’isola in cerca di rame. La ricchezza raggiunta dall’élite indigena nel II millennio a.C. si può misurare dalle tombe di Anghelu Ruju, nei pressi di Alghero, sul versante nordoccidentale dell’isola. Sono tra le sepolture più ricche del tardo Neolitico e della prima Età del bronzo nell’Europa occidentale e rivelano contatti con la Spagna, la Francia meridionale e il Mediterraneo orientale.2 L’influsso spagnolo è evidente nei bicchieri a campana rinvenuti nella necropoli. Con la Spagna c’era anche un legame linguistico. I sardi non ci hanno lasciato documenti scritti, forse perché non conoscevano l’uso della scrittura o forse perché scrivevano su supporti friabili che non sono giunti fino a noi. Tuttavia, i toponimi dell’isola, anche molti di quelli attualmente in uso, nonché la stessa lingua sarda (particolare forma di tardo latino volgare che nei suoi vari dialetti conserva numerosi vocaboli prelatini), forniscono indizi molto eloquenti al riguardo. Risulta, pertanto, che le popolazioni nuragiche parlassero una o più lingue imparentate con il basco, un idioma non indoeuropeo: così il termine sardo per «agnello», bitti, ricorda molto da vicino il basco bitin, «capretto».3 Più che attestare una grande migrazione dalla penisola iberica alla Sardegna, tutto ciò prova l’esistenza di un gruppo di lingue mediterranee occidentali parlate in Spagna, nella Francia meridionale, in alcune delle isole del Mediterraneo occidentale e in zone del Nordafrica.
Già nel II millennio a.C. gli antichi sardi seppellivano i loro defunti in suggestive tombe scavate nella roccia. Realizzate in modo da assomigliare alle case dei vivi, il loro interno si componeva di numerose camere collegate da passaggi e nelle cui pareti erano incisi a rilievo stipiti, cornici e altre imitazioni scultoree di quelli che nelle abitazioni dovevano essere elementi lignei. In sardo moderno tali sepolture sono chiamate domus de janas, «case delle fate». Gli antichi sardi ci hanno lasciato anche impressionanti siti sacri, come quello del Monte d’Accoddi, a Sassari, dove costruirono un tronco di piramide accessibile tramite una lunga rampa. Il monumento, probabilmente risalente al XV secolo, doveva essere un luogo di culto.
La maggior parte dei nuraghi è ubicata lontano dalla costa. Molti sorgono in cima a un colle, e tutto fa pensare che si trattasse principalmente di strutture difensive: fornivano protezione dai ladri di pecore, dai razziatori in arrivo dal mare e, soprattutto, da qualche turbolento vicino sardo; ma erano anche casseforti in cui stoccare rame e bronzo, allo stato grezzo o sotto forma di armi e statuette. Un ottimo esempio è il grande complesso di Su Nuraxi, a Barumini, nel Sud dell’isola, fiorito tra l’VIII e il VI secolo a.C. Oltre che una fortezza, Su Nuraxi comprendeva una sessantina di capanne con fondamenta in pietra, disposte attorno a uno spiazzo centrale. Si conservano anche le tracce di una grande costruzione probabilmente destinata a ospitare le assemblee, con all’interno un grande banco di pietra e nicchie per le lampade. Attaccata e distrutta dai cartaginesi, che avevano il loro avamposto a Cagliari, poco più a sud, Su Nuraxi fu ricostruita nel V secolo a.C. e, a giudicare dai reperti in terracotta, bronzo e ferro, tornò a essere un centro fiorente.4 Quella degli antichi sardi era una società frammentata, in cui ogni signorotto possedeva il proprio castello. L’influsso della Fenicia, di Cartagine e dell’Etruria si fece sentire a poco a poco; nel contatto con il mondo esterno questa civiltà non conobbe la rapida e luminosa trasformazione che si produsse tra i primi etruschi all’incontro con greci e fenici.5 L’interazione dei sardi con l’Italia, la Spagna e l’Africa fu più contenuta, e si ha l’impressione che la loro società fosse fortemente conservatrice: la costruzione dei nuraghi era ancora praticata alla fine del III secolo a.C., quando la minaccia non arrivava solo da Cartagine, ma anche da Roma. La profusione di torri, scale, muraglioni e passaggi segreti, documentata intorno al 750 a.C. in siti come Palmavera, nei pressi di Alghero, e il moltiplicarsi dei villaggi fortificati raccolti ai piedi dei nuraghi parlano di un’epoca in cui gli invasori fenici si stavano insediando in territorio sardo e bisognava opporre difese più sofisticate a un nemico più sofisticato. Il conservatorismo trapela anche dai culti religiosi dell’antica Sardegna, dove gli dèi greci e fenici non riuscirono a imporsi e la devozione degli isolani restò confinata ai pozzi sacri e alla taurolatria.6
I sardi non abitavano all’interno di città. I loro insediamenti tipo erano villaggi situati intorno a un castello. A creare le prime città furono i fenici e i cartaginesi. Il fatto che i rapporti tra cartaginesi e sardi non fossero facili non significa, peraltro, che la civiltà nuragica fosse completamente impermeabile al mondo esterno. Un prodotto esotico d’importazione era, per esempio, l’ambra, che per vie a noi ignote arrivava dal Baltico fino a Su Nuraxi. L’oro, invece, non suscitava molto interesse nei sardi, e anche il pieno sfruttamento delle miniere d’argento nel Sud dell’isola si ebbe solo nel XIV secolo d.C. I più antichi esemplari di ceramica greca rinvenuti in Sardegna (a parte qualche frammento di origine micenea) risalgono all’VIII secolo a.C. Nel VII secolo un vaso ionico giunse a Su Nuraxi. A testimonianza di una certa vitalità dei contatti con l’esterno, si può poi osservare che mentre la ceramica corinzia è attestata solo nel Sud dell’isola, quella etrusca (comprese le imitazioni di vasi greci) è stata trovata in tutta l’isola.7 Agli occhi dei sardi, evidentemente, si trattava di attraenti oggetti esotici, che potevano essere facilmente acquistati pagando in lingotti di rame.
Per i sardi trovare rame non era un problema, ma per trasformarlo nella dura lega del bronzo era necessario importare stagno dalla Spagna e dalla Francia meridionale. Dal bronzo così ottenuto ricavavano statuette che irradiarono la propria influenza nello spazio e nel tempo: le loro figurine umane dalle lunghe gambe avrebbero attirato l’attenzione dello scultore novecentesco Alberto Giacometti, già sedotto dai bronzi etruschi di Vetulonia, dove i maestri locali, spesso artigiani di origine sarda, producevano anch’essi statuine dai lunghi arti. La Sardegna ci ha restituito diverse centinaia di questi bronzetti, databili tra l’VIII e il VI secolo a.C. Essi sembrano ritrarre un mondo reale dominato da figure maschili di guerrieri, arcieri, artigiani e pastori, mentre le figure femminili sono più rare. A volte rappresentano soggetti animali, che in qualche caso dovevano raffigurare divinità ed essere oggetto di culto locale.8 Dalla bronzistica viene la prova diretta che i sardi praticavano la navigazione. Infatti, nei porti etruschi sono stati trovati diversi modellini sardi di navi, verosimilmente databili a partire dall’VIII secolo a.C.; una di esse ha la prua sagomata a testa di cervo e le murate adorne di volatili e di altri animali; un’altra, dal fondo tondeggiante, contiene la figura accovacciata di una scimmia, animale forse giunto dall’Africa con i cartaginesi.9
II
I greci dell’Italia meridionale facevano da ponte tra i greci della Ionia, dell’Attica e del Peloponneso e le fiorenti città etrusche. Analogamente una remota colonia ionica, Massalia, situata nel punto in cui sorge l’odierna Marsiglia, assicurava i collegamenti tra il mondo greco metropolitano e le coste più occidentali del Mediterraneo.10 Ancora una volta il ruolo di pionieri toccò ai focei, giunti dalle sponde dell’Asia Minore: furono loro, intorno al 600 a.C., a fondare la colonia; vi confluirono circa 600 adulti, che ben presto si apparentarono con la popolazione indigena. L’antica Marsiglia conobbe una rapida espansione, arrivando, nell’arco del VI secolo, a coprire circa 50 ettari.11 Il periodo più glorioso furono i suoi primi cinquant’anni di esistenza. Alla metà del VI secolo a.C. l’invasione persiana della Ionia indusse i focei a emigrare il più lontano possibile dal nemico. Erodoto racconta che i persiani chiesero l’abbattimento di uno dei forti di Focea e la sua consegna simbolica al satrapo persiano. I focei fecero mostra di essere interessati alla proposta e chiesero un giorno di tregua per pensarci; poi, approfittando del momento di stallo, caricarono tutte le navi in loro possesso e, passata Chio, fuggirono verso il lontano Occidente, prima in Corsica, poi a Massalia. Al re persiano non rimase che una città fantasma.12
Ciò non significa che la colonia focea fosse un covo di irredentisti ionici. Massalia era un luogo particolare. Se i suoi abitanti se ne stettero in disparte mentre i loro compatrioti combattevano contro gli etruschi, una delle ragioni risiede negli stretti rapporti che avevano con i popoli del Mediterraneo occidentale, e non solo con gli etruschi, ma anche con i cartaginesi d’Africa e di Spagna e con i meno evoluti liguri, che abitavano l’Italia nordoccidentale e la Francia meridionale.13 Massalia divenne un punto di contatto con i popoli celtici dell’Europa occidentale: dalla città la ceramica greca ed etrusca e altri prodotti venivano inalveati verso il cuore della Gallia, a nord. Intanto greci, etruschi e cartaginesi commerciavano nella regione gli uni accanto agli altri. Il villaggio di Pech Maho era utilizzato come scalo commerciale dai mercanti cartaginesi, ma non mancavano di approdarvi anche altri, come rivela la già citata iscrizione etrusca del V secolo incisa su lamina di piombo. Ad attirare i mercanti nella Francia meridionale non era tanto il piombo, quanto lo stagno; di là, infatti, cercavano di accedere alle riserve di questo metallo della Francia nordoccidentale, e forse anche dell’Inghilterra, che i marinai fenici potevano raggiungere salpando da Cadice. Le ceramiche e i bronzi greci ed etruschi rinvenuti lungo il corso della Senna, in particolare un grande cratere greco in bronzo trovato a Vix, databile al 530 a.C., ci danno l’idea dei lunghi percorsi che le merci (non necessariamente i singoli mercanti) compivano per penetrare in territorio gallico.14 Il «Cratere di Vix», enorme recipiente usato per mescolare il vino, ci ricorda che il commercio vinario era una delle specialità di Massalia: aveva una capacità di 1100 litri di liquido, composto, secondo il costume dei greci, da due parti di acqua e una di vino. Il VI secolo fu l’epoca d’oro dei commerci greci nel lontano Occidente. Malgrado etruschi e cartaginesi avessero stroncato sul nascere una colonia ionica in Corsica, in breve tempo videro la luce piccoli insediamenti greci a Málaga e in altre località della Spagna meridionale, prima fra tutte Emporio, l’emporio per eccellenza, oggi conosciuto come Ampurias. Poco più in là sorgeva Rode, la Rosas della moderna Catalogna, probabilmente fondata da mercanti di Rodi.
Massalia conservò i suoi legami con il Mediterraneo orientale, dove le fonderie avevano continuamente bisogno di stagno. Gli scavi di Marsiglia hanno riportato alla luce un gran numero di ceramiche greche del VI secolo a.C., provenienti dall’Eubea, da Corinto, da Atene, da Sparta, dalla Ionia, nonché dalla vicina Etruria. I ricchi mercanti massalioti, inoltre, eressero un thesaurós a Delfi.15 Massalia non era, insomma, una colonia sperduta. E la cultura della Francia meridionale si ellenizzò proprio grazie a essa. Il tardo scrittore latino Giustino, nella sua epitome delle perdute Storie Filippiche di un autore più antico, Pompeo Trogo, osservava:
Da costoro [scil. i greci di Massalia] i Galli, apprendendo un tenore di vita più civile, impararono a coltivare i campi e a cingere di mura le città, perdendo in parte e mitigando la loro barbarie. Allora si abituarono a vivere sotto l’impero della legge e non delle armi; allora appresero a potare la vigna, a piantare l’ulivo, e uomini e cose acquistarono così grande splendore, che sembrava non la Grecia essere migrata in Gallia ma la Gallia in Grecia.16
Certo, queste parole di elogio sono state scritte molti secoli dopo, e non è sicuro che a introdurre l’ulivo e la vite in Gallia siano stati i greci.17 È però assai verosimile che la coltivazione intensiva della vite si debba ai greci e agli etruschi, così come l’adozione di tecniche più avanzate per la spremitura delle olive e la vinificazione. John Boardman afferma con convinzione che «il primo vino gustato in Borgogna fu quello greco di Massalia», e le anfore vinarie ateniesi, fenicie ed etrusche trovate in numerosi siti della Linguadoca e della Provenza confermano la sua tesi.18 Giustino aveva ragione: per attrarre questa regione nell’orbita culturale della Grecia non occorreva una guerra di conquista, come invece avrebbero poi fatto le legioni romane.
Come in altre zone del Mediterraneo occidentale, anche qui gli anni intorno al 500 a.C. segnarono un’importante transizione. In parte ciò avvenne per la crescente tensione politica tra greci ed etruschi, che portò al declino dei contatti commerciali tirrenici. Nel contempo i centri culturali della Francia settentrionale e orientale (quella che in genere è chiamata «cultura di Hallstatt») persero importanza, e altri territori celtici, più a est, divennero il cuore di una nuova, vivace civiltà continentale, la cosiddetta «cultura di La Tène», fortemente influenzata dagli etruschi attraverso i passi alpini orientali. Le vie commerciali di collegamento tra il Mediterraneo e l’Europa settentrionale si spostarono perciò più a est, e nella valle del Rodano la domanda di prodotti mediterranei venne progressivamente meno.19 A Massalia, le importazioni di ceramica attica cominciarono a diminuire, anche se verso la fine del VI secolo si registrò una ripresa. Ma, cosa ancora più importante, i greci si videro preclusa la possibilità di inviare da Massalia vino e manufatti artistici nell’entroterra, mentre dalle lontane terre occidentali i cartaginesi, sfruttando le coste della Spagna, assumevano il controllo degli scambi commerciali. Come abbiamo visto, una delle reazioni del mondo greco fu il crescente sfruttamento della rotta adriatica che collegava la Grecia alla neonata città di Spina. Dove Massalia perdeva terreno, Spina lo guadagnava. Un’altra risposta fu la creazione da parte di Massalia di una nuova generazione di colonie, fra le quali Agde, lungo la costa della Provenza e della Linguadoca, anche se la propaggine massaliota più famosa, Nicea (Nizza), sarà fondata solo nel III secolo a.C.20
III
Uno dei più notevoli casi di ellenizzazione è quello offerto dalla Spagna. Nella più antica letteratura greca, per esempio nelle opere di Esiodo, le estreme plaghe del Mediterraneo erano dimora di creature fantastiche, come il mostro tricefalo Gerione; in questi territori si trovava anche il giardino delle Esperidi, e sempre qui, alle Colonne d’Ercole, Atlante reggeva la volta celeste.21 I primi a spingersi in queste regioni furono, come si è detto, i fenici, che stabilirono anche un’importante base al di là del Mediterraneo, a Cadice. Tra i greci, il ruolo di pionieri toccò, ancora una volta, ai focei e ai loro vicini, a partire dal navigatore Kolaios di Samo, intorno alla metà del VII secolo a.C.: si tramandava che il re di Tartesso avesse invitato i focei a stabilirsi nelle sue terre.22 Se approdarono in Corsica, fu per errore. Dal VI al IV secolo a.C. la presenza dei greci in Spagna, in qualità di coloni e di mercanti, fu piuttosto modesta in confronto a quella dei cartaginesi, e non è chiaro se questi ultimi fossero considerati concorrenti: con loro i greci di Emporio commerciavano in metalli, e nel IV secolo la città coniava monete il cui repertorio iconografico combinava motivi cartaginesi e sicilioti. È possibile che i cittadini di Emporio assoldassero mercenari per l’esercito cartaginese impegnato contro i sicelioti. Certo è che Emporio non cercò di assoggettare un grande territorio al proprio diretto controllo. La sua ricchezza non dipendeva dalle risorse locali, ma dai contatti con le terre metallifere della Spagna meridionale, mediati dai mercanti cartaginesi.23 Ciononostante, l’influenza culturale dei greci surclassò agevolmente quella di Cartagine. Anche se alcuni dei centri greci in Catalogna continuarono a prosperare, quelli in Andalusia, come Menace, vicino all’odierna Málaga, finirono presto per atrofizzarsi, e la regione tornò nella sfera d’influenza fenicia. È possibile che nel 500 a.C. Tartesso, con tutto il suo argento, avesse ormai superato l’apogeo, ma c’erano altre opportunità, e nel 509 i cartaginesi sfruttarono le vittorie ottenute nel Mediterraneo occidentale per firmare con l’emergente città di Roma un trattato che, in maniera perentoria ma garbata, interdiceva ai romani e ai loro alleati ampi tratti del Mediterraneo occidentale.
Spesso i tentativi di chiudere aree di mare erano controproducenti: infatti, oltre a essere di costosa applicazione, si trasformavano in inviti alla pirateria. Con ogni probabilità prima che i cartaginesi arrivassero a monopolizzare la Spagna, un marinaio greco redasse un manuale di navigazione, o Periplo, che descrive le coste iberiche dalla Galizia allo stretto di Gibilterra, e di qui fino a Massalia, dove probabilmente risiedeva. Senza alcun dubbio, volle registrare la rotta che dava accesso alle miniere di stagno galiziane. Fu un precursore del famoso navigatore massaliota Pitea, l’uomo che nel IV secolo a.C. avrebbe aperto la via marina per la Gran Bretagna.24 Il Periplo del VI secolo a.C. (o forse un po’ più tardo) si conservò e fu incorporato in un goffo poema latino composto da un autore pagano del tardo IV secolo d.C. di nome Avieno,25 il quale non si stanca di ripetere che la sua antica fonte descrive un luogo un tempo fiorente lungo le coste della Spagna e poi andato in rovina; siamo dunque di fronte a una mescolanza tra materiale antico e notazioni di viaggiatori successivi, letti anch’essi da Avieno. L’assenza di alcuni centri, come la colonia greca di Rode, fa pensare che all’epoca della stesura del Periplo non fossero ancora stati fondati, il che confermerebbe la notevole antichità del testo. Avieno si dilunga su Tartesso, che, come si è detto, nel V secolo a.C. aveva passato il culmine, e la identifica senza alcuna esitazione con Cadice, sottolineando che «ora è povera e piccola, abbandonata e ridotta ad un cumulo di rovine».26 Narra di come i tartessi commerciassero con i vicini e di come i cartaginesi si fossero spinti in quelle acque. Parla di un monte rilucente, ricco di stagno, che in quei primi mercanti avrebbe destato enorme interesse.27 Il testo ricorda anche città fenicie della Spagna meridionale ormai decadute, e ciò suggerisce che sul finire del VI secolo a.C. il precursore di Avieno avesse visitato quei posti. Nel poema si fa anche menzione di insediamenti fenici ora abitati da cartaginesi.28 Volgendo in versi latini un testo greco e aggiungendo materiale attinto da fonti tarde, Avieno creò una specie di palinsesto, i cui strati sono assai difficili da districare.29 Si sofferma sugli importanti centri indigeni di Tarragona e di Valenza, nota a lui come Tyris (il toponimo sopravvive nel nome del fiume Turia, che fino a non molto tempo fa attraversava il centro di Valenza), ma quando evoca Barcellona, nome di origine cartaginese, chiama in causa una città di fondazione ben più tarda. Parla dei feroci popoli che abitavano coste spagnole cibandosi di latte e formaggio, e che conducevano una vita «simile a quella delle bestie», riunendo sotto la designazione di iberi un’eterogenea molteplicità di popoli; i dati archeologici, del resto, confermano che non esisteva una singola «nazione» iberica, ma un coacervo di tribù e staterelli.30
L’interscambio di greci e cartaginesi con i popoli iberici fu piuttosto intenso. Ne scaturì una civiltà che raggiunse un elevato livello artistico, edificò città di discrete dimensioni e apprese l’arte della scrittura. Fuori dalla Spagna la civiltà iberica ha ricevuto poca attenzione, eppure fra i popoli indigeni del Mediterraneo occidentale gli iberi, per il grado di sofisticazione della loro cultura, furono secondi solo agli etruschi.31 La loro civiltà offre anch’essa un esempio di come la cultura greca e quella fenicia, attraverso lunge rotte commerciali e migratorie, riuscirono a penetrare in Occidente, e testimonia altresì l’osmosi di quelle influenze culturali con il talento nativo per l’arte di scolpire la pietra e lavorare i metalli. Tuttavia, ancor più che per gli etruschi – i quali svilupparono un solidale spirito di popolo e diedero a se stessi il nome di Rasna –, assegnare un’identità agli iberi non è facile. Tra gli iberi dell’Andalusia, quelli del litorale valenziano e quelli della Catalogna c’erano nette differenze culturali. Erano, insomma, una pluralità di tribù senza unità politica. Non è nemmeno certo che parlassero la stessa lingua o idiomi fra loro simili, anche se le lingue moderne più probabilmente imparentate con gli antichi idiomi iberici sono il basco e il berbero. Nell’entroterra, poi, queste tribù si mescolarono con altre popolazioni, solitamente classificate – non solo dagli studiosi moderni, ma anche da Avieno – come celtiche (termine vago, che tuttavia contraddistingue una cultura di tradizione continentale anziché mediterranea).32 Il nome «iberi» risponde quindi a una generalizzazione e va riferito a un insieme di popoli stanziati nella penisola tra il VII e il II secolo a.C., in un quadro instabile che vide i cartaginesi, i greci e infine i romani imporsi come mercanti e poi come conquistatori.
Come in Sicilia e in Italia meridionale, diversi insediamenti greci in terra iberica, per esempio Emporio, cercarono di preservarsi dalla contaminazione con gli indigeni; ma in seguito ai matrimoni misti e ad altre forme di contatto, con il tempo la loro popolazione dovette diventare piuttosto eterogenea. Non lontano da Emporio, a Ullastret, sorse per esempio un importante centro iberico, che su una bella pianta a quattro ingressi raggiunse, nel IV secolo a.C., i 40 chilometri quadrati di superficie. I rapporti tra indigeni e coloni, a ogni modo, non devono essere letti come intrinsecamente ostili. Basteranno pochi esempi per mostrare come gli iberi seppero combinare la lezione appresa dai greci e da altri popoli con la propria individualità espressiva. Malgrado qualche variante nella Spagna sudorientale, le forme di scrittura adottate dagli iberi presentano una sostanziale omogeneità, e la derivazione greca – non fenicia – di molti dei loro caratteri è indiscutibile. Stranamente, dopo avere acquisito un alfabeto, gli iberi vi aggiunsero una serie di simboli sillabici: ba, be, bi, bo, bu, e lo stesso fecero per le lettere «c» e «d». Dopodiché, cosa ancora più curiosa, la loro inventiva venne meno. All’influsso dei greci sugli iberi si devono anche due elementi fondamentali della Spagna moderna: sia la vite sia l’ulivo ebbero una crescente diffusione, anche se il poeta latino Marziale lamentava la scarsa qualità dei vini catalani. Gli iberi, in effetti, avevano una tradizionale predilezione per la birra, e spesso importavano vini di qualità superiore dall’Etruria.33
Un altro esempio di prestito culturale è offerto dalle tombe: gli iberi avevano una netta preferenza per la cremazione. Le sepolture scoperte a Tútugi, in Andalusia, databili a partire dal V secolo a.C., vanno da semplici urne deposte nel terreno a sontuosi tumuli contenenti stanze e passaggi, con tracce di pitture parietali. Tra i motivi architettonici vi sono colonne di sostegno in stile ionico. Le tombe più grandi, evidentemente destinate ad accogliere le spoglie degli aristocratici, ricordano quelle etrusche, rivelando influssi italici. Anche qui, come in Italia e in parte del Mediterraneo orientale, era diffusa la pratica di seppellire i personaggi ricchi e famosi con un impressionante corredo di oggetti: a Toya, in una tomba a tripla camera, sono stati rinvenuti bacili bronzei, pietre preziose e un carro.34 Un terzo esempio della mescolanza di elementi indigeni e influenze esterne si può riscontrare nella scultura. Modellando la pietra calcarea, gli artisti iberici crearono impressionanti effigi a forma di toro, cavallo e cervo a dimensione pressoché naturale, riproducendo con precisione le principali caratteristiche dell’animale. La loro preferenza andava all’alto rilievo, e molte delle loro opere scultoree giunte fino a noi fungevano probabilmente da decorazioni esterne per templi e altri edifici di culto.35 L’influsso dei modelli greci fu graduale e diede luogo a uno stile che non appare mai completamente privo di originalità. Ciò vale ancora nel IV secolo a.C., periodo a cui va probabilmente ascritta la più celebre scultura iberica, la «Dama di Elche», busto di una sacerdotessa o dea ornata con vistosi gioielli. Benché il viso debba indubbiamente molto ai modelli della Grecia classica, il resto della figura presenta strette relazioni con altre statue femminili a grandezza naturale rinvenute in Spagna,36 mentre i gioielli risentono forse dei modelli cartaginesi.37 Il trattamento del panneggio, sia nel busto di Elche sia in altre sculture analoghe, risponde tuttavia a canoni iberici. A differenza dei greci e degli etruschi, gli iberi non amavano ritrarre corpi nudi: l’immagine di un uomo senz’abiti compare su un solo vaso iberico, trovato peraltro a Emporio dove dominava la cultura greca.38
Oltre a fornire informazioni sui legami commerciali, le ceramiche – nella fattispecie quelle dipinte – rivelano le influenze culturali, espresse tanto nell’iconografia quanto nell’interesse dei popoli indigeni per le divinità e gli eroi greci. A differenza dei popoli italici, gli iberi non si fecero conquistare dalle concezioni religiose greche o fenicie, anche se lungo le coste della Spagna non mancano indizi di culti comuni dedicati a Demetra, Astarte o ad altre divinità straniere: per esempio, una statuetta d’alabastro rinvenuta in una tomba di Tútugi raffigura in modo inequivocabile una dea fenicia.39 Gli iberi espressero particolare originalità nel campo della pittura vascolare, non limitandosi a copiare i modelli greci, come spesso fecero gli etruschi. I vasi a figure nere trovati a Liria, vicino a Valenza, ritraggono scene di danza e di guerra; la figura umana vi è tratteggiata in un fluido stile semiastratto caratterizzato da un’immediata impressione di dinamismo, mentre gli spazi liberi sono riempiti con riccioli, spirali, motivi floreali e qualsiasi altro riempitivo che possa evitare l’horror vacui.40 Adatti a soddisfare i gusti degli acquirenti iberici – il loro amore per gli uccelli e gli altri animali, nonché per le piante –, in Andalusia i disegni geometrici riconducibili a matrici greche del VI secolo a.C. rimasero in auge fino al IV secolo a.C. Insomma, non possiamo parlare di un vero e proprio «stile iberico», giacché gli iberi attingevano dai greci le idee fondamentali e adattavano quanto giungeva loro dal Mediterraneo orientale a bordo delle navi greche e fenicie.
Se arrivarono a procurarsi una certa fama al di fuori delle terre di Spagna non fu per qualche attitudine commerciale, ma per il loro straordinario valore militare. Nel 480 a.C. furono reclutati dal tiranno di Imera, in Sicilia, ma alla fine del V secolo combatterono anche contro le città siceliote, nelle file dei cartaginesi. E quando, nel 395 a.C., il tiranno di Siracusa ebbe ragione di Cartagine, molti di essi entrarono al suo servizio. Proprio in quell’epoca si faceva menzione di loro persino in una delle commedie di Aristofane, che ne irrideva i corpi pelosi. Le loro famose spade falcate derivavano da modelli greci ed etruschi che avevano imparato a maneggiare prestando servizio come mercenari.41 Probabilmente le paghe e i bottini ottenuti combattendo nei conflitti stranieri costituirono più di un patrimonio nella madrepatria, il che aiuterebbe a spiegare lo sfarzo di alcune tombe iberiche. La vera fonte di tanta prosperità va comunque cercata in primo luogo nelle risorse naturali della Spagna, in particolare nei suoi metalli. Gli iberi si trovavano nella posizione ideale per trarre vantaggio dal traffico che dall’entroterra spagnolo si dirigeva verso la costa, o da quello che da Cadice e da altri porti atlantici procedeva attraverso Gibilterra lungo la rotta descritta da Avieno. Ormai le navi greche, etrusche e cartaginesi solcavano l’intero Mediterraneo. E mentre ad Atene i popoli del lontano Occidente erano oggetto delle salacità di Aristofane, quegli stessi popoli guardavano alla Grecia (prima a Corinto e successivamente ad Atene) come al centro dello stile e del gusto.