I

Con l’estendersi del dominio musulmano sul Marocco, sulla Spagna e infine sulla Sicilia, la metà meridionale del Mediterraneo si trasformò in un lago soggetto all’islam, che offriva nuove, splendide opportunità commerciali. In prima fila, stando ai documenti, troviamo i mercanti ebrei. Se ciò sia dovuto alla casualità delle testimonianze superstiti o alla maggiore abilità mercantile degli ebrei rispetto ai musulmani e ai cristiani copti e siriaci che abitavano il Nordafrica, la Spagna e l’Egitto, non è chiaro. I mercanti non islamici godevano certamente di un preciso vantaggio: i musulmani erano soggetti a norme giuridiche che proibivano loro di vivere e persino di commerciare nei paesi degli infedeli. Nel corso dei secoli, quindi, mentre i governanti delle città islamiche mediterranee aprirono le porte ai commercianti ebrei e cristiani, gli abitanti musulmani di quelle stesse città ben si guardarono dall’avventurarsi in Italia, in Catalogna o in Provenza.

Il motivo per cui abbiamo così tante informazioni sui mercanti ebrei è che la raccolta della Genizah del Cairo ci ha conservato centinaia di loro lettere e di altri documenti concernenti le loro attività. Alla metà del VII secolo gli invasori arabi dell’Egitto fissarono la loro base ad al-Fustat (il Fossato), alla periferia dell’odierna città del Cairo, e soltanto in un secondo tempo trasferirono la capitale nell’area della grande cittadella del Nuovo Cairo.1 Il Vecchio Cairo, o al-Fustat, divenne allora il quartiere della comunità ebraica e di quella copta. Nell’XI secolo un gruppo di ebrei ricostruì la sinagoga di Ben Ezra, inglobandovi, al piano superiore, un magazzino, o Genizah, accessibile solo con una scaletta, all’interno del quale ammucchiarono vecchi documenti e manoscritti. Volevano evitare la distruzione di qualsiasi testo in cui comparisse il nome di Dio, ma poi finirono con il conservare tutto ciò che fosse scritto in caratteri ebraici. Qualcuno ha giustamente osservato che la raccolta della Genizah è «l’esatto contrario di un archivio», perché lo scopo era quello di gettare via il materiale senza distruggerlo, quasi di seppellirlo vivo, e non quello di creare un locale da utilizzare per una consultazione sistematica.2 I manoscritti attirarono l’attenzione degli studiosi nel 1896, allorché due signore scozzesi portarono a Cambridge quello che sembrava essere il testo ebraico del libro biblico del Siracide, o Ecclesiastico, relegato dagli ebrei (e in seguito dai protestanti) fra i testi non canonici e fino allora noto unicamente nella versione greca dei Settanta. Sia che si trattasse dell’originale ebraico andato perduto o di una traduzione in ebraico da un esemplare in greco, era comunque una grande scoperta. Il dottor Solomon Schechter, lettore in talmudica all’università di Cambridge, fu così impressionato dalla scoperta che si recò al Cairo dove trattò l’acquisto del materiale ammassato nel magazzino della sinagoga. Portò via con sé circa tre quarti dei manoscritti, spesso minuscoli lacerti strappati, calpestati, appallottolati, ammassati in un caotico groviglio per dipanare il quale sarebbero poi occorsi cent’anni (altri frammenti erano già stati venduti singolarmente: finiranno sparsi qua e là, da San Pietroburgo a New York).3 La Genizah conteneva un gran numero di lettere commerciali (spesso, purtroppo, senza data), ma anche la corrispondenza personale di molte grandi figure dell’ebraismo medievale, sopra tutti il filosofo spagnolo Mosè Maimonide e il poeta, anch’egli spagnolo, Yehuda Ha-Levi.4

Prima che le lettere commerciali della Genizah cominciassero a essere esaminate, le informazioni sulla vita economica del mondo islamico medievale dovevano essere desunte dalle annotazioni delle cronache, dagli atti delle cause legali e dalle testimonianze archeologiche. Non meno importante della scoperta e della conservazione del materiale fu dunque la decisione di Shlomo Dov Goitein (vissuto prima in Israele e poi a Princeton) di esplorarlo per cercare di ricostruire la vita economica e sociale di quella che egli ha chiamato «una società mediterranea». Di fronte a questa formula è bene domandarsi quanto gli «ebrei della Genizah» fossero rappresentativi delle società mercantili mediterranee relativamente al periodo cui appartiene la massima parte dei documenti, cioè tra il 950 e il 1150. Non è neppure certo che i membri della sinagoga di Ben Ezra fossero tipici ebrei egiziani. La sinagoga seguiva l’antica liturgia «palestinese», progenitrice di quella adottata dagli ebrei in Italia e in Germania. Un’altra sinagoga serviva i bisogni degli ebrei «babilonesi», gruppo al quale afferivano non solo gli ebrei iracheni, ma tutti quelli che seguivano questa liturgia antagonista, non ultimi gli ebrei sefarditi della penisola iberica. In Egitto vivevano inoltre numerosi caraiti, ebrei che respingevano l’autorità del Talmud, e c’erano anche alcuni samaritani. Con allettanti onori, poi, gli ebrei della Ben Ezra avevano convinto molti ricchi ebrei tunisini di al-Fustat ad aggregarsi alla loro sinagoga; ciò può spiegare perché i documenti della Genizah contengono più informazioni sui legami intermediterranei con la Tunisia e la Sicilia che su quelli con la Spagna o l’Iraq.

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II

I documenti della Genizah non ritraggono solo la vita degli ebrei che abitavano ad al-Fustat. Questi ebrei, infatti, erano in corrispondenza con familiari, amici e operatori commerciali disseminati in una vasta area del Mediterraneo, che abbracciava, fra l’altro, al-Andalus, la Sicilia e Bisanzio (anche se il contatto con le città cristiane d’Occidente era limitato).5 I testi contengono numerosi riferimenti a mercanti islamici, cui spesso venivano affidate le merci inviate via terra (la costa nordafricana era interessata da un intenso traffico terrestre); questo perché molti ebrei erano restii a spostarsi via terra nel giorno del sabbath, cosa difficile da evitare quando ci si trovava al seguito di una carovana. Viaggiare di sabato in mare poneva invece meno problemi, a patto che non si salpasse proprio quel giorno.6 Forse fu questo semplice fatto, la preferenza per i viaggi marittimi dettata da motivi religiosi, a trasformare gli ebrei della Genizah in intraprendenti mercanti sempre pronti ad attraversare il Mediterraneo. La loro divenne una comunità estremamente compatta, con una propria élite e propri costumi, capace di intrecciare legami da una sponda all’altra del grande mare: vi furono alleanze matrimoniali tra famiglie di al-Fustat e famiglie di Palermo, alcuni mercanti arrivarono a possedere non solo svariate case, ma persino svariate mogli, distribuite in diverse città portuali. L’ampiezza di questi contatti è documentata da una lettera spedita da al-Fustat nell’XI secolo, nella quale un certo Ibn Yiju scriveva al fratello Giuseppe, in Sicilia, offrendo la mano della figlia al di lui figlio e comunicandogli che il suo unico figlio maschio aveva perso la vita mentre lui, Ibn Yiju, si trovava nel lontano Yemen.7 Gli ebrei della Genizah erano una società mediterranea con caratteristiche sue proprie, e che guardava anche oltre i confini del grande mare: l’Egitto, infatti, fungeva da ponte tra l’universo commerciale mediterraneo e quello dell’oceano Indiano, cui era collegato da un breve tragitto che via terra conduceva al porto di Aydhab, nel mar Rosso. I suoi mercanti gestivano estese reti commerciali che dal Mediterraneo occidentale arrivavano allo Yemen e all’India, e che attraverso l’Egitto facevano arrivare al Mediterraneo le spezie orientali.

Gli ebrei della Genizah si trovavano nella migliore posizione per sfruttare a proprio vantaggio la nuova prosperità che andava sviluppandosi sul versante islamico del Mediterraneo. L’Egitto era il motore economico della regione. Alessandria aveva ritrovato la sua vitalità di centro mercantile e marittimo; Il Cairo conobbe una straordinaria espansione, diventando l’anello centrale della catena di collegamento che attraverso il Nilo e il deserto portava da Alessandria al mar Rosso e viceversa. Quando, nel 969, la dinastia dei Fatimidi spostò la base del proprio potere dalla Tunisia a est, Il Cairo assurse anche al rango di capitale. I Fatimidi vi stabilirono un proprio califfato, in aperta sfida alle rivendicazioni accampate dai califfi rivali, gli Abbasidi di Baghdad e gli Omayyadi di Cordova. Pur essendo sciiti, i Fatimidi erano ben consci di regnare su una popolazione a prevalenza sunnita, nonché composta da un gran numero di cristiani copti e di ebrei, nei confronti della quale mostrarono in generale un certo riguardo. Se innalzarono la bandiera sciita, fu per affermarsi, sia nel Mediterraneo sia in Oriente, contro i rivali sunniti. I Fatimidi conquistarono l’egemonia in Medio Oriente convogliando gli scambi commerciali sulla via del mar Rosso attraverso l’Egitto e traendone enorme profitto, come si può constatare dalle loro belle monete d’oro. L’obiettivo fu raggiunto a spese degli Abbasidi i quali, dopo essersi arricchiti grazie alle vie commerciali che attraverso il golfo Persico portavano al Tigri e all’Eufrate, ora, in seguito al calo dei guadagni, vedevano le loro monete d’oro perdere di qualità. Le rotte sfruttate dai mercanti della Genizah per vendere articoli di lusso orientali alla clientela mediterranea furono proprio quelle del mar Rosso.8

Questi mercanti ebrei si specializzarono in alcuni prodotti. Si tennero invece piuttosto discosti dal commercio granario, che pure doveva essere molto vivace, se uno degli effetti più importanti della nascita del mondo islamico fu che le città del Levante e del Nordafrica si rianimarono. Alcune di esse, anzi, sorsero dal nulla: avamposti militari come al-Fustat e Qayrawan, o stazioni portuali come Mahdia (al-Mahdiyyah) e Tunisi, attraverso le quali transitava l’oro del Sahara. Per i generi alimentari di base e per le materie prime necessarie alle loro industrie – come le fibre tessili e i metalli – le folte popolazioni dei centri urbani dipendevano in larga misura da forniture esterne. Nelle città cominciarono a fiorire gruppi di artigiani specializzati, che fabbricavano prodotti per i mercati esteri e acquistavano i propri alimenti in terre lontane. I tunisini cominciarono a dipendere dal grano coltivato in Sicilia, esportando per contro (direttamente o tramite i mercanti della Genizah che operavano su loro mandato) tessuti di lino e di cotone, questi ultimi spesso ricavati da cotone grezzo d’importazione siciliana. Questa simbiosi tra terre separate dal Mediterraneo si ritrova in tutto il bacino del grande mare: la Spagna islamica, per esempio, prendeva il suo grano in Marocco e vendeva ai marocchini i suoi manufatti (tessuti, ceramica, oggetti di metallo). E quando le condizioni lo consentivano, gli egiziani, com’era avvenuto in passato, si rivolgevano ai bizantini di Cipro e dell’Asia Minore per procurarsi quel legname di cui erano disperatamente privi.9

I mercanti della Genizah seppero sfruttare appieno le opportunità offerte dall’espansione economica. Insoddisfatti dei metodi commerciali previsti dalla legge ebraica, seguirono di norma la prassi commerciale musulmana, che, al contrario di quanto prescritto dai rabbini, accollava il rischio d’impresa al titolare rimasto in patria anziché al suo agente partito in viaggio.10 Ciò permetteva ai mercanti più giovani di fare carriera come agenti o commissionari di imprese avviate, senza dover temere la completa rovina qualora la loro iniziativa non fosse andata a buon fine.11 Per trasferire i pagamenti da un capo all’altro del Mediterraneo c’erano sistemi sofisticati: vari tipi di nota di credito, cambiali, assegni, tutti strumenti di vitale importanza quando i mercanti viaggiatori dovevano ripianare debiti, acquistare merci e coprire spese.12 I mercanti della Genizah trattavano in particolare lino e seta; non di rado le pezze di seta erano trattate come una forma di investimento, stipate in un cassetto fino a quando non fosse giunto il momento di cavarne qualche soldo. Il lino veniva esportato dall’Egitto in Sicilia e in Tunisia, mentre la seta veniva talvolta importata dalla Spagna o dalla Sicilia. In Sicilia si fabbricavano imitazioni delle sete persiane: la pratica di imitare prodotti originali era comune nel mondo islamico, ma più che di contraffazione si trattava di un segno di rispetto.13 I mercanti della Genizah erano maestri nel distinguere tra le diverse qualità di seta e sapevano bene che al porto egiziano d’entrata la migliore seta spagnola poteva valere 33 dinari a libbra, mentre la seta siciliana, di bassa qualità, poteva valere meno di 2 dinari.14 Il commercio del lino, sia filato che non filato, aveva proporzioni molto più ampie. C’era anche uno speciale tipo di tessuto, solo in parte di lino, che prendeva nome da al-Fustat, il «fustagno», termine adottato dai mercanti italiani per indicare la tela di lino e cotone quale che fosse il suo luogo di fabbricazione (anche la Germania) e poi trasmesso alle moderne lingue europee.

Il mondo della Genizah arrivava a lambire i margini occidentali del globo conosciuto. Benché al-Andalus, la Spagna musulmana, non costituisse un centro di primaria importanza nel giro d’affari di questi mercanti, i documenti della Genizah abbondano di riferimenti a colleghi di origine spagnola; alcuni di loro, indicati con il termine al-Andalusi o ha-Sefardi, «lo Spagnolo», giravano il Mediterraneo, come la famiglia di Jacob al-Andalusi, che, intorno alla metà dell’XI secolo, visse in Sicilia, in Tunisia e in Egitto.15 Il grande mercante Halfon ben Nethanel dimorò in Spagna dal 1128 al 1130, in India dal 1132 al 1134, e poi di nuovo in al-Andalus a partire dal 1138-1139.16 Uno dei nodi in cui si articolava la rete della Genizah era la Sicilia. Quando gli islamici conquistarono l’isola, nel IX secolo, la prima città a soccombere all’invasione fu Mazara, sulla costa occidentale, che diventò il grande terminale delle merci spedite dall’Egitto, traghettate con piccole imbarcazioni da Mahdia e altri porti tunisini. Una volta giunte nella città siciliana, le merci venivano caricate su navi più grandi, che prendevano la via dell’Est. Alcuni dei bastimenti che navigavano tra al-Andalus, la Sicilia e l’Egitto erano davvero enormi: intorno al 1050 giunsero a Palermo da Alessandria dieci grandi navi, ciascuna con circa 500 passeggeri a bordo. A Mazara c’era un famoso mercato per lo smercio del lino egiziano, e in Egitto i mercanti attendevano con ansia notizie sui prezzi spuntati, in modo da calcolare quanto lino spedire verso occidente. Nella direzione opposta viaggiava la seta, che trovava ampio impiego nei corredi delle spose egiziane e in molti altri prodotti tessili pregiati: cuscini, copriletti, tappeti e un velo nuziale chiamato mandil, o «mantiglia».17 Ampie aree della Sicilia erano adibite a pascolo: nessuna sorpresa, quindi, se il pellame di alta qualità, a volte arricchito con dorature, e il formaggio ovino prodotti nell’isola erano tra gli articoli d’esportazione più richiesti.18 Il pecorino siciliano, anche quello non stagionato, giungeva addirittura nel lontano Egitto.

Questo scenario non deve far pensare che nella Sicilia musulmana regnasse la calma. Oltre agli attacchi bizantini nella parte orientale dell’isola (l’imperatore era deciso a restituire questo gioiello a Costantinopoli), c’erano le faide tra gli emiri rivali. Una toccante lettera inviata in Egitto nell’XI secolo descrive le traversie passate da un certo Joseph ben Samuel in un periodo in cui l’offensiva bizantina aveva ripreso vigore. Joseph era nato in Tunisia, ma viveva in Egitto, dove si era sposato, e possedeva anche una casa a Palermo. Un naufragio lo scaraventò sulle rive nordafricane, nudo e senza un soldo. Per sua fortuna si imbatté in un ebreo di Tripoli suo debitore, da cui ebbe un po’ di denaro; poté così comprarsi degli abiti e ripartire alla volta della sua dimora palermitana. Giunto a destinazione, scoprì però che la casa era stata abbattuta da un vicino. Pur lamentandosi di non avere le risorse economiche per trascinare l’uomo in tribunale, riuscì a spedire in Egitto 10 libbre di seta e una manciata di monete d’oro. Era pronto a sfidare la flotta bizantina per tornare in Egitto, prelevare la moglie e il figlio e trasferirsi con loro a Palermo, ma si chiedeva se la donna avrebbe assecondato il suo volere o se invece sarebbe stato costretto a divorziare da lei. I mercanti viaggiatori erano soliti sottoscrivere una dichiarazione di divorzio condizionata, da far valere nel caso in cui fossero deceduti in assenza di testimoni, lasciando la moglie nell’impossibilità di risposarsi secondo i dettami della legge ebraica. Se la consorte lo avesse voluto, Joseph l’avrebbe autorizzata ad avvalersi di tale accordo; ma lui l’amava, e aveva sottoscritto la dichiarazione solo per timore di Dio e della cattiva sorte che avrebbe potuto incontrare all’estero. Nella sua lamentosa lettera aggiunge:

E mio Dio, mio Dio, Signore mio, il bambino! Abbi cura di lui, secondo la tua pia osservanza, a me ben nota. E quando sarà più grande, fa’ che abbia al suo fianco un maestro.19

I documenti della Genizah abbondano di informazioni sulle spedizioni marittime. Gli armatori erano in massima parte musulmani. Era buona norma imbarcarsi presto e tenere sott’occhio il proprio carico finché la nave non fosse salpata, nonché trascorrere la notte prima della partenza assorti in preghiera e scrivere lettere con le ultime disposizioni. Pianificare i tempi, naturalmente, era inconcepibile: le navi potevano essere costrette a trattenersi nel porto per qualche tempesta, perché avvisate della presenza di pirati o addirittura per un intervento governativo, come quando una nave in procinto di far vela per la Spagna dal porto di Palermo al termine della stagione di navigazione fu fermata dalle autorità e tutti i passeggeri furono costretti a passare l’inverno a terra: uno di loro si lagnava di essere rimasto bloccato a Palermo «con le mani e i piedi tagliati» (espressione da non intendere, ovviamente, in senso letterale). Imprevedibile era anche la durata del viaggio: nel 1062 una nave percorse la distanza da Alessandria a Mazara in diciassette giorni; ma un’altra lettera racconta di un’intera settimana trascorsa in brevi tappe da un mercante di nome Perahya Yiju nel tentativo di recarsi da Palermo a Messina (che poi trovò sudicia e non gli piacque). Se per raggiungere Almería da Alessandria una piccola nave impiegò più di due mesi, per arrivare a Palermo un’altra ci mise cinquanta giorni (laddove potevano bastarne anche tredici).20 I passeggeri dovevano provvedere in prima persona a lenzuola, posate e stoviglie, e a volte dormivano in cima al proprio carico, cosa che, quando si trattava di lino, non doveva essere eccessivamente scomoda. Le cabine non esistevano e si viaggiava stando sul ponte. Pochi ragguagli abbiamo invece sul cibo, probabilmente molto semplice.21 Goitein ritiene che i naufragi non fossero frequenti e che gli storici vi abbiano insistito solo perché i racconti che li riguardano sono inevitabilmente vividi. Le navi, insomma, arrivavano a destinazione e la gente della Genizah non aveva paura del mare. Avventurarsi sull’acqua non doveva essere più pericoloso che spostarsi via terra. Quando navigavano lungo le coste nordafricane i comandanti delle navi cercavano di tenere in vista la terraferma, dove c’erano torri di vedetta che sorvegliavano il traffico marittimo, evidentemente non solo per questioni doganali ma anche per la sicurezza delle navi. Le informazioni sui movimenti via mare venivano inviate ad Alessandria: gli uomini d’affari erano così in grado di sapere se le loro spedizioni stavano viaggiando senza intoppi.22

Ampiamente documentata è anche la circolazione di libri e di studiosi (nella fattispecie ebrei), il che dimostra come sulle rotte commerciali non viaggiassero soltanto tessuti, ma anche idee. Intorno al 1007, per esempio, un quesito di argomento religioso fu inoltrato a Baghdad dal Marocco attraverso una carovana cammellata di mercanti musulmani diretti a est.23 Ciò che era possibile agli ebrei era tanto più facile per i musulmani, e così, passando per la Spagna meridionale, opere di medici e filosofi greci raggiungevano ogni parte del Mediterraneo. È anche vero, però, che nessuno era in grado di comprendere gli scritti medici di Dioscoride quando, nel X secolo, arrivarono a Cordova, anche se, a quanto sembra, il medico del califfo, l’ebreo Hasday ibn Shaprut, ne allestì, in collaborazione con un monaco greco, una versione in arabo. Lungo la linea che collega la Spagna all’Egitto e alla Siria si era raggiunta una certa unità economica, culturale e religiosa. Le terre dell’islam interagivano commercialmente e culturalmente tra loro, a dispetto della divisione settaria tra sciiti e sunniti e delle divisioni politiche tra Omayyadi, Fatimidi e Abbasidi. L’interscambio fu favorito dal costante movimento dei pellegrini islamici del Mediterraneo diretti alla Mecca, così come dalle attività dei mercanti di varia fede religiosa. Fuori da questo quadro rimasero solo gli abitanti dell’Europa occidentale cristiana. Ancora nei secoli X e XI i mercanti latini d’Italia e di Provenza si avventuravano in quelle acque con cautela. Sapendo che il segreto del successo stava nella collaborazione con il nemico islamico, le città cristiane che inviavano le proprie navi in acque musulmane erano ben poche. Una di esse era Venezia, sui cui albori ci siamo già intrattenuti. Un’altra era nientemeno che il centro portuale di Amalfi, con la sua incredibile posizione, arroccata sui monti della penisola sorrentina.

III

Amalfi è uno dei grandi misteri della storia mediterranea. Se a sud di Roma c’era una città con le caratteristiche per imporsi come grande centro mercantile italiano, questa era senz’altro l’animatissima Napoli, per le sue industrie di lino, per i suoi collegamenti con l’entroterra o anche solo per le sue dimensioni. Napoli, inoltre, aveva alle spalle un’ininterrotta storia commerciale, segnata, nel VI e nel VII secolo, da una recessione, ma non da un collasso. Eppure, negli anni della sua fioritura, all’incirca tra l’850 e il 1100, pur essendo una città senza storia, cresciuta intorno a una torre di vedetta tra il VI e il VII secolo, Amalfi divenne un centro di scambi internazionali ben più importante di Napoli.24 Attraversata da un’unica grande via, che s’inerpica verso la montagna, e da un groviglio di vicoli che si intrecciano ai piedi degli edifici, Amalfi ha l’aspetto di un’improbabile rivale di Venezia.25 Al mattino il vento è quasi assente, circostanza che doveva limitare non poco la navigazione.26 Ciò ha indotto alcuni storici a parlare di «mito di Amalfi» e a respingere il ritratto unanime, elaborato dagli autori cristiani, ebrei e soprattutto musulmani, che la presentano come uno dei grandi porti franchi d’Occidente nel X e nell’XI secolo. Uno storico italiano ha descritto Amalfi come una città «senza mercanti», sui cui rocciosi pendii si coltivavano orti e vigneti, e per la quale il commercio costituiva soltanto una fonte di proventi supplementare.27 Eppure, la costruzione di navi capaci di raggiungere altre terre era un’impresa non poco onerosa, destinata a dare impulso a un’espansione commerciale.

Le piccole dimensioni di Amalfi sono soltanto uno degli aspetti in gioco. La qualifica di «amalfitano» veniva genericamente assegnata a un insieme di mercanti e marinai provenienti da tutta l’Italia meridionale, in particolare ai cittadini dei numerosi paesini abbarbicati alla parte alta della penisola di Sorrento. Sopra Amalfi, privi di un proprio porto, c’erano Ravello e Scala, i cui mercanti si imbarcavano sulle navi amalfitane. A cinque minuti di cammino da Amalfi, separata da uno sperone roccioso, c’è Atrani, mentre Maiori e Minori sorgono sul breve tratto di costa che conduce a Salerno. C’è poi Cetara, che divenne la base di una flotta da pesca. In poche parole, «Amalfi» era tutta la sponda meridionale della penisola sorrentina, da Positano al grande monastero della Santissima Trinità, fondato nel 1025 a La Cava. L’analogia con Venezia e le sue paludi è più stringente di quanto possa sembrare. Venezia era nata come una congerie di piccole comunità, separate dall’acqua marina anziché da monti scoscesi e da profondi dirupi, caratteristiche che, nell’insieme, crearono un senso di inespugnabilità. Entrambe le città ritenevano di essere sorte come sacro rifugio per gente in fuga da invasori barbari. Sotto i suoi duchi, che come il doge tributavano alla remota autorità bizantina un blandissimo riconoscimento, Amalfi era una città sparsa e frammentata. Al tempo delle incursioni saracene dal Nordafrica, tale dispersione offriva vantaggi paragonabili alla disseminazione dei veneziani nella laguna.

I primi indizi che gli amalfitani erano in grado di armare una flotta risalgono al lontano 812, quando insieme ai marinai di Gaeta, un’altra città che si era lanciata negli scambi commerciali mediterranei, furono incaricati dal governatore bizantino della Sicilia di respingere le incursioni musulmane, ormai giunte alle lontane isole di Ischia e Ponza. Il pericolo si fece più immediato quando gli islamici invasero la Sicilia con le loro truppe e spinsero impudentemente le loro navi fino a Roma, saccheggiando la basilica di San Pietro e la chiesa di San Paolo fuori le mura. Tre anni dopo, una flotta dell’Italia meridionale riuscì, sia pure con difficoltà, a sconfiggere il nemico in una battaglia navale nei pressi di Ostia, e per diversi secoli l’evento sarebbe stato ricordato come la salvezza di Roma: è commemorato anche in uno degli affreschi realizzati da Raffaello nelle Stanze Vaticane per il suo protettore, Leone X, omonimo del papa regnante all’epoca della vittoria, Leone IV.28 Nel tentativo di convincere Amalfi a schierarsi dalla sua parte, il pontefice concesse alle navi della città libero accesso ai porti di Roma. Ma quale utilità poteva mai avere il commercio con Roma – dovettero chiedersi i mercanti amalfitani –, quando la priorità era semmai penetrare in Sicilia, in Tunisia e oltre, per procurarsi gli articoli di lusso che la corte papale continuava ad apprezzare tanto? Fu così che, malgrado le minacce di scomunica da parte del pontefice, amalfitani e gaetani strinsero un accordo con gli islamici, optando per la salvezza materiale piuttosto che per quella spirituale. Nel 906 il console di Gaeta possedeva monete d’oro, d’argento e di bronzo, gioielli, seta e finiture in marmo per abbellire una chiesa, oltre a terreni e bestiame, come rivela il suo testamento.29 Gli amalfitani consegnarono forniture alla grande abbazia di Montecassino, sede centrale dell’ordine benedettino, situata nell’entroterra dell’Italia meridionale, attivandosi come suoi agenti persino nella lontana Gerusalemme. Si fecero anche protettori di un monastero benedettino sul monte Athos, all’epoca in cui la Chiesa greca e quella latina avevano ancora rapporti apparentemente amichevoli.

La lontana Costantinopoli si contentava di redigere ampollose lettere con cui conferiva al duca e ai notabili di Amalfi titoli quali protospatarius (teoricamente, un comandante militare).30 Una famiglia, i Pantaleoni, riuscì però a guadagnarsi le attenzioni dell’imperatore. Nel corso dell’XI secolo uno dei Pantaleoni fece arrivare all’abbazia di Montecassino, alla cattedrale di Amalfi e a San Paolo fuori le mura una serie di splendidi portali in bronzo.31 Furono solo i più grandiosi tra gli svariati oggetti preziosi che i Pantaleoni portarono da oriente. Gli amalfitani cercavano di agevolare la propria attività commerciale con basi d’appoggio in terra bizantina, e fin dal X secolo possedevano pontili e magazzini a Costantinopoli.32 Sulle sponde adriatiche erano, insieme ai veneziani, i principali abitanti della munitissima piazzaforte bizantina di Durazzo (all’epoca Dyrrachion).33 Sia i mercanti veneziani sia quelli amalfitani miravano a sfruttare la grande via che da Durazzo portava a Costantinopoli passando per Tessalonica.

Amalfi lasciò un’impronta duratura più a est, in territorio fatimida. Ad amalfitani si deve la costruzione di un ospizio a Gerusalemme, città che non aveva da offrire particolari attrattive commerciali, a parte il traffico di reliquie sempre più inverosimili. Come agenti dell’abbazia di Montecassino, misero i monaci benedettini in condizione di provvedere alla cura dei pellegrini che sempre numerosi affluivano in Terra Santa dall’Europa, spesso proprio passando dai porti dell’Italia meridionale. Fin da subito l’ospizio diede origine all’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, i cui monaci guerrieri difenderanno, più tardi, Rodi e Malta dai turchi. Prese così a snodarsi l’ininterrotto lignaggio che dall’XI secolo conduce al Sovrano Militare Ordine di Malta, oggi con sede a Roma.34 Una leggenda vuole che gli amalfitani si trovassero dentro le mura di Gerusalemme quando la città fu assediata dall’esercito della prima crociata, nel 1099: ricevuto dai musulmani l’ordine di scagliare pietre contro le schiere dei crociati, si videro costretti a obbedire, ma a mezz’aria le pietre si trasformarono miracolosamente in pagnotte, a beneficio dell’affamato esercito cristiano. La realtà è, ovviamente, che gli amalfitani riuscivano a prosperare quando nei conflitti tra cristiani e musulmani evitavano di schierarsi.

Nel X secolo esisteva una colonia amalfitana ad al-Fustat, dove nel 996 i suoi membri furono accusati di avere appiccato il fuoco ai cantieri navali dei califfi fatimidi, e nei disordini che seguirono vennero uccisi 160 mercanti italiani.35 Gli amalfitani di al-Fustat strinsero relazioni con i commercianti ebrei, e nelle lettere provenienti dalla Genizah ricorre con frequenza una località chiamata «Malf» dove i mercanti ebrei di al-Fustat si recavano a vendere pepe. Malgrado il massacro, i legami con i Fatimidi fecero la fortuna degli amalfitani, mettendoli in condizione di coniare monete d’oro con i proventi dei loro commerci con l’Africa.36

Il Mediterraneo occidentale era in via di ripresa e stava generando profitti a chi, come gli amalfitani, era disposto a trattare con il nemico islamico. Nel frattempo, però, due altre città italiane, Genova e Pisa, si accingevano a dimostrare che con una politica più aggressiva era possibile ottenere frutti ancora più ragguardevoli.