I

Quelle di Pisa, Genova e Venezia non erano le uniche flotte che solcavano le acque italiane. Nel 1091 Ruggero I, il Gran Conte, completava la conquista della Sicilia. E sotto il dominio normanno l’isola fiorì: Messina attraeva mercanti latini, fungendo da scalo per le rotte commerciali che collegavano Genova e Pisa ad Acri e Alessandria. Ibn Jubayr la chiama «la piazza dei mercanti infedeli, meta di navi da tutto il mondo», non senza spiegare che era anche il grande arsenale in cui si costruiva la flotta siciliana.1 Il sovrano dell’isola riservava a sé la maggior parte del bitume, del ferro e dell’acciaio che si producevano in quelle terre: avere il monopolio delle materie prime necessarie per la fabbricazione delle navi era di vitale importanza.2 Ruggero II, l’implacabile e talentuoso figlio di Ruggero I, acquisì il controllo delle ampie regioni dell’Italia meridionale governate dai suoi cugini e, cosa non meno importante, nel 1130 ottenne la corona di Sicilia, appena istituita dall’antipapa Anacleto. Aveva ambizioni mediterranee e concepiva se stesso come successore dei tiranni greci, negando di essere un usurpatore e dichiarandosi invece restauratore di un antico regno.3 In pubblico indossava l’abito imperiale bizantino o una veste da emiro arabo. Fece decorare la cappella del suo palazzo con mosaici greci di raffinatissima fattura, nonché con uno splendido soffitto ligneo, opera di maestranze arabe. Commissionò a Idrisi, un principe fuggito da Ceuta, una geografia universale, così da essere in grado di esaminare minuziosamente (con l’aiuto della mappa allegata) il Mediterraneo e il resto del mondo.

Alla propaganda accompagnò l’azione. Tra il 1147 e il 1148, durante la seconda crociata, rivolse le sue attenzioni all’impero bizantino. La crociata era stata bandita dal papa nel 1145, in seguito alla conquista musulmana del principato cristiano di Edessa, nella Siria settentrionale. Ruggero mise a disposizione la sua flotta, ma su pressioni del re tedesco Corrado III, suo nemico, l’offerta fu rifiutata. Per le sue navi il sovrano normanno trovò altri impieghi. Nel 1148, approfittando del fatto che l’imperatore Manuele Comneno era distratto dal passaggio degli eserciti crociati sulle terre di Bisanzio, con la flotta occupò Corfù, per poi attaccare Corinto e Atene. Nel frattempo le sue truppe di terra si erano spinte all’interno e a Tebe avevano sequestrato decine di tessitori di seta ebrei, in seguito messi a lavorare negli opifici palatini. Un cronista bizantino commenta eloquentemente il viaggio di ritorno delle galee siciliane:

Chi avesse visto le triremi siciliane cariche di oggetti preziosi al punto da restare sommerse fino ai remi, non avrebbe certo pensato che si trattasse di navi pirata, bensì di mercantili che portavano beni di ogni sorta.4

Come prevedibile, la reazione non si fece attendere. I veneziani, allarmati per il fatto che ora Ruggero controllava l’uscita dall’Adriatico, inviarono aiuti navali a Manuele Comneno, il quale non poté fare altro che rinnovare loro i privilegi commerciali già ritenuti eccessivi. La sua diffidenza verso Venezia si acuì quando gli giunse notizia di come i veneziani passavano il tempo durante l’assedio di Corfù: prendendosi gioco della carnagione scura di Manuele, avevano fatto indossare una veste sontuosa a un africano e lo avevano piazzato su una delle grandi navi imperiali, inscenando una parodia delle solenni cerimonie di corte bizantine.5 Senza volerlo, Ruggero aveva costretto bizantini e veneziani a rendersi conto di quanto poco si stessero simpatici. Se nei suoi attacchi in Grecia non andò oltre l’incursione lampo, il sovrano normanno provò tuttavia a crearsi un durevole impero d’oltremare in Nordafrica.6 Per farlo, sfruttò abilmente un momento di caos politico ed economico prodottosi in quelle regioni: in un periodo di grave carestia, si servì del grano siciliano per farsi via via riconoscere come signore dai vari emiri africani, e nel 1146 inviò le sue navi contro Tripoli, conquistandola senza difficoltà.7 Due anni dopo, quando al-Hasan, emiro di Mahdia, si dimostrò infedele, mandò contro di lui una flotta al comando dell’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, un dinamicissimo e abilissimo cristiano greco che in precedenza aveva servito il sovrano della città tunisina. Al largo di Pantelleria la flotta siciliana incrociò una nave mahdiana e vi trovò a bordo diversi piccioni viaggiatori. Giorgio costrinse il capitano a inviare all’emiro un messaggio in cui si spiegava che una flotta siciliana era effettivamente in mare, ma stava facendo vela verso le terre dell’impero bizantino. Al-Hasan ritenne la cosa alquanto plausibile e quando, all’alba del 22 giugno 1148, vide le navi siciliane profilarsi all’orizzonte, restò atterrito. Fuggito al-Hasan, la città fu conquistata senza difficoltà e Giorgio diede ai suoi uomini il permesso di saccheggiarla per due ore.

Poi l’ammiraglio estese ai mahdiani la protezione del re, arrivando persino a offrire prestiti ai mercanti locali, in modo che le loro attività potessero riprendere al più presto. Per garantire agli islamici la possibilità di continuare a vivere secondo le loro leggi, furono nominati dei giudici, scelti all’interno della comunità locale. E con l’arrivo dei mercanti stranieri, tornò anche il benessere. Nelle intenzioni di Ruggero, tutte queste conquiste dovevano essere solo il primo passo nella creazione di un «regno d’Africa» almeno in parte restituito alla cristianità, perciò procedette a insediare un gruppo di cristiani a Mahdia dove, nel corso dei cinque secoli precedenti, il cristianesimo era stato a poco a poco sradicato.8 Ma il sovrano normanno aveva anche un piano strategico di più ampio respiro: quello di acquisire il controllo dei mari che circondavano il suo regno. Nel 1127 aveva già rioccupato Malta (che suo padre aveva conquistato una prima volta nel 1090), e ora ambiva a estendere la sua influenza sulle isole Ionie.9 Ponendo questi territori sotto il suo dominio sarebbe stato in grado di cingere il regno con un «cordone sanitario» navale, scongiurando qualsiasi tentativo di invasione da parte delle flotte nemiche, si trattasse di quella veneziana al servizio di Bisanzio o di quella pisana al servizio dell’imperatore tedesco. Cominciò a pianificare campagne navali al largo delle coste spagnole, e al momento della sua morte, nel 1154, era sul punto di creare una grande talassocrazia.10 Ruggero non guidava la sua flotta in prima persona, ma si affidava al suo luogotenente Giorgio d’Antiochia, ora insignito del titolo di «emiro degli emiri». Più tardi, nel 1177, un certo Gualtiero di Modica avrà quello di emiro, o amiratus, «della felice flotta imperiale», e nel XIII secolo questa specifica accezione marinara del termine amiratus, cioè quella di «ammiraglio», sarà d’uso in Francia, in Spagna e altri paesi: in questa parola di derivazione siculo-araba risuonava l’eco della supremazia acquisita dalla marina siciliana nel Mediterraneo centrale nel corso del XII secolo.11

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Dopo il 1154 fu la volta del figlio di Ruggero, Guglielmo I il Malo, che faticò assai più del padre a tenere unita la compagine del regno. Quando Bisanzio, con l’appoggio della flotta veneziana, invase la Puglia, Guglielmo arrivò alla conclusione, probabilmente saggia, che conservare i possedimenti africani era impossibile. Resesi conto delle difficoltà che attanagliavano il re nella madrepatria, le città del Nordafrica legarono le loro fortune al movimento almohade del Marocco, in rapida espansione. A guidare l’assalto a Mahdia, nel 1159, fu il califfo almohade in persona, e nel gennaio 1160 gli Almohadi riuscirono a far breccia nelle mura, imponendo ai cristiani e agli ebrei della città di scegliere tra l’islam e la morte.12 La piena responsabilità di questo grande rovescio di sorti è stata imputata a Guglielmo, il quale tuttavia mostrò una certa capacità nel gestire le relazioni internazionali (forse grazie ai suoi consiglieri). Fermato il tentativo di invasione bizantino, trattò con Manuele Comneno, e per la prima volta un imperatore d’Oriente riconobbe, sia pure obtorto collo, la legittimità del regno normanno.

Quando genovesi, pisani e veneziani assunsero il controllo delle lunghe rotte su cui viaggiavano merci e pellegrini tra Occidente e Oriente, i siciliani acquisirono quello dei cruciali punti di transito che collegavano il Tirreno e l’Adriatico all’Oriente. La supremazia navale siciliana in queste acque pose gli italiani del Nord di fronte a un dilemma. Se non volevano lasciare le loro navi alla mercé della marina siciliana, dovevano stringere amicizia con la corte di Palermo. Ma il loro desiderio di non inquietare l’imperatore bizantino e quello tedesco li spingeva continuamente in altre direzioni. Nel 1156 i genovesi siglarono con re Guglielmo I un trattato, del quale il cronista cittadino scriveva: «Per molto tempo gli uomini assennati di tutto il mondo andarono dicendo che i genovesi avevano ottenuto ben più di quanto avessero dato».13 Re Guglielmo chiese ai genovesi l’impegno a non mettere le loro navi a disposizione dei nemici intenzionati a invadere il suo regno.14 In cambio, Genova ebbe dazi agevolati sui mercantili che da Alessandria e dalla Terra Santa facevano scalo a Messina: l’obiettivo del trattato, infatti, non era solo quello di garantire la sicurezza delle rotte di collegamento con l’Oriente, ma anche quello di mettere le mani su certi prodotti siciliani di cui i genovesi avevano disperato bisogno. La città ligure doveva alimentare la sua espansione, e il grano di Sicilia era più abbondante e più pregiato di quello sardo, che i genovesi, tra l’altro, dovevano contendersi con i pisani. In base al trattato i genovesi potevano acquistare frumento, carne suina sotto sale (dalla Sicilia nordoccidentale, una zona in gran parte cristiana), lana, pelle d’agnello e cotone (principalmente dall’area intorno ad Agrigento).15 Per secoli essi dipenderanno dal grano siciliano, che potranno comprare a buon mercato e trasportare a basso costo nella loro città in grande espansione. Portando grandi quantità di cotone grezzo dalla Sicilia all’Italia settentrionale, inoltre, Genova porrà le basi di un’industria cotoniera che si svilupperà per l’intero arco del Medioevo.16 Parte del cotone della migliore qualità veniva da Malta, all’epoca sotto il dominio del re di Sicilia, e del cotone maltese troviamo traccia nei documenti genovesi già a partire dal 1164.17 A poco a poco il commercio siciliano mutò orientamento, e ai tradizionali, fitti legami con l’Africa settentrionale sostituì quelli con l’Italia settentrionale. Insomma, sotto la dominazione normanna la Sicilia fece il suo ingresso nella rete economica europea, pur restando, almeno per qualche tempo, una terra esotica in cui, oltre al grano, i mercanti potevano trovare lo zucchero e l’indaco, tradizionali prodotti del Mediterraneo islamico che, dopo il 1200, con la diminuzione degli agricoltori musulmani, cadranno in disuso, a ulteriore beneficio della coltivazione granaria. Quando i genovesi, per poter pagare il grano, il cotone e gli altri prodotti siciliani, portarono nell’isola quantitativi sempre più consistenti di lana italiana, e persino fiamminga, i legami tra Nord e Sud si rafforzarono, e tra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale cominciò a svilupparsi un rapporto di complementarità per cui la Sicilia forniva materie prime e derrate alimentari e riceveva dal Nord prodotti finiti. Proprietario di grandi estensioni coltivate a frumento, il re di Sicilia poté trarre grandi ricchezze da questa umile ma decisiva risorsa.18

Sfruttando la disponibilità di una flotta grande e potente, re Guglielmo II il Buono (1166-1189) perseguì una politica mediterranea di ampio respiro. Estese la propria autorità nell’Adriatico, ponendo sotto la sua protezione la città dalmata di Ragusa (oggi Dubrovnik), che si avviava a diventare un importante centro portuale.19 Ma non mancò di guardare anche oltre l’Adriatico: nel 1174 attaccò in forze Alessandria d’Egitto; nel 1182 fece vela alla volta di Maiorca, anche se la sua flotta non approdò a nulla; tre anni dopo prese di mira Bisanzio; e la morte lo colse mentre stava organizzando l’invio di aiuti agli Stati crociati in difficoltà. Guglielmo si sentiva un guerriero al servizio di Cristo contro i musulmani e contro i greci. Con la sua spedizione più ambiziosa, compiuta nel 1185, portò la flotta siciliana nel cuore dell’impero bizantino. Poté confidare nell’aiuto dei mercanti italiani, perché nel 1182, in un brutale accesso di violenza apertamente incoraggiato dal nuovo imperatore Andronico Comneno, la popolazione latina di Costantinopoli era stata massacrata. La notizia si era diffusa quando, nei pressi di capo Malea, una nave veneziana entrata nell’Egeo si era imbattuta in altre navi veneziane, i cui equipaggi avevano gridato: «Che cosa fate qui? Se non ve ne andate verrete tutti uccisi, perché noi e tutti gli altri latini siamo stati cacciati da Costantinopoli!».20 La maggioranza delle vittime era però costituita da pisani e genovesi: impegnati in una delle loro perenni contese con Bisanzio, infatti, i veneziani non erano troppo presenti da quelle parti.

Nel 1185 Guglielmo trovò il pretesto di cui aveva bisogno: un impostore errante si presentò alla sua corte affermando di essere un imperatore deposto. Il re di Sicilia non tardò ad assumere il nobile compito di riportare sul trono imperiale questo personaggio equivoco.21 Quando giunse il momento di agire, la flotta siciliana ripropose lo schema seguito un secolo prima da Roberto il Guiscardo: Durazzo fu conquistata e un intero esercito sbarcò a terra, per spingersi fino a Tessalonica, conquistandola e saccheggiandola con l’aiuto della flotta reale, che nel frattempo aveva circumnavigato il Peloponneso. La caduta della seconda città dell’impero bizantino incitò i greci all’azione.22 I siciliani non riuscirono a conservare il possesso di Tessalonica, e il loro attacco ebbe il solo risultato di esacerbare l’odio bizantino per gli occidentali.23 Pur toccando tutto il Mediterraneo, le ambizioni di Guglielmo non furono sostanziate da un successo durevole. In questo gli italiani del Nord seppero fare molto meglio.

II

Gli ultimi anni del XII secolo e i primi del XIII furono segnati da una serie di rivolgimenti che mutarono profondamente la geografia politica del Mediterraneo, anche se le repubbliche marinare italiane seppero sfruttarli per rafforzare ulteriormente la propria supremazia sulle rotte mediterranee. Compiendo un grossolano errore di calcolo, nel 1169 il re di Gerusalemme Amalrico I strinse un’alleanza con Manuele Comneno allo scopo di attaccare l’Egitto fatimida. Manuele si impegnava a fornire una poderosa flotta, il che dimostra come i bizantini, quando volevano, potessero ancora disporre di una cospicua forza navale. Da parte sua, Amalrico sarebbe sceso in campo con l’esercito franco, che insieme alle forze di Bisanzio avrebbe dato battaglia sul delta del Nilo e al Cairo. Alla fine un contingente franco raggiunse effettivamente la capitale egiziana, ma i tentativi di istituirvi un governo fantoccio innescarono una rivolta popolare. I Fatimidi furono rovesciati e l’Egitto, anziché trasformarsi in un alleato sottomesso, diventò il fulcro dell’opposizione al regno latino.24 Di lì a breve un nuovo sultano, Saladino, un ayyubide sunnita di origine curda, vide nella lotta per la terza città sacra dell’islam la causa sotto l’egida della quale coalizzare i musulmani del Medio Oriente contro i franchi.25 La minaccia alla Gerusalemme franca ne risultò decisamente rafforzata, perché Saladino unì al dominio della Siria islamica quello dell’Egitto, vanificando la tradizionale strategia franca che giocava sulla contrapposizione tra i re siriani e i Fatimidi. La tremenda sconfitta subita nel 1187 dal mal guidato esercito franco ai Corni di Hattin, nei pressi di Tiberiade, portò alla caduta di Gerusalemme e all’occupazione islamica della costa palestinese, compreso il grande porto di Acri. Solo Tiro riuscì a resistere.

La reazione degli occidentali fu risoluta, ma non ottenne gli esiti sperati. La terza crociata, bandita nel 1189, fu in larga misura affidata alle forze di mare. Navi marsigliesi aiutarono Riccardo I, re d’Inghilterra e duca di Normandia, a trasportare in Oriente il suo esercito, ma durante il passaggio delle truppe in Sicilia l’ingerenza del sovrano (legata a meschini tentativi di recuperare la dote della sorella, un tempo sposa del defunto Guglielmo II) scatenò sommosse e scontri tra i greci e i latini di Messina. Riccardo riuscì a conquistare Cipro, allora nelle mani di un membro ribelle della dinastia comnena, e alla fine fu recuperata anche Acri, insieme a una striscia di terra lungo l’odierno litorale libano-israeliano. Gerusalemme, però, rimase al nemico. Le vie di Acri presero a pullulare più che mai di mercanti e marinai italiani: il disperato bisogno di appoggio navale spinse i governatori franchi a elargire, sia ad Acri sia a Tiro, privilegi commerciali ai mercanti stranieri. Tra questi ultimi, quelli di Marsiglia, Montpellier e Barcellona si videro concedere l’esenzione dai dazi doganali, nonché un edificio a Tiro, il Palazzo Verde, in cui poterono stabilire la loro base.26

Acri divenne una città con molti padroni, ciascuno dei quali accampava con forza i propri diritti: nei pressi del porto c’erano quartieri ad amministrazione autonoma veneziana e pisana, e dietro queste enclave c’era un grande settore genovese. Verso la metà del XIII secolo il quartiere veneziano, cinto di mura, conteneva fra l’altro chiese dedicate a san Marco e san Demetrio, un palazzo per il governatore (o bailli) della comunità, una cisterna, un fondaco con sedici negozi al pianterreno, magazzini a tre piani e alloggi per il prete della chiesa di San Marco. I quartieri italiani erano alquanto affollati: quello genovese doveva comprendere una sessantina di case.27 A volte, tra le varie comunità scoppiavano scontri armati, come la guerra di San Saba (1256-1261), iniziata con una lite tra genovesi e veneziani sul confine dei rispettivi distretti e inaspritasi al punto che i primi furono costretti a lasciare Acri e trasferirsi a Tiro, e i secondi, fino ad allora predominanti in quest’ultima città, a concentrarsi maggiormente su Acri. La rivalità tra le due repubbliche raggiunse un tale livello che né l’una né l’altra parevano curarsi della costante minaccia costituita dai nemici islamici del regno latino, anche se sotto questo profilo non si discostavano poi molto dalla rissosa nobiltà franca d’Oriente. Pure l’ordine cavalleresco dei Templari e quello degli Ospitalieri (o di San Giovanni) avevano grandi quartieri ad Acri, e anch’essi rivendicavano la propria autonomia politica.28 Senza considerare le terre in mano al patriarca di Gerusalemme e ad altri signori, in città per il re franco non rimaneva granché; poteva però contare sulla vertiginosa crescita delle entrate fiscali dovuta al commercio: i mercanti beneficiati dall’esenzione concludevano affari con i mercanti dell’entroterra, che pagavano, loro sì, tutte le tasse previste, compresa un’imposta ordinaria fissata al singolare tasso di 11 × 5/24 per cento. I sovrani del Mediterraneo medievale avevano capito perfettamente che abbassare l’imposizione fiscale significava stimolare il commercio, incrementando così le entrate.29

Saladino era desideroso di incoraggiare l’arrivo degli italiani non meno di quanto lo fossero i suoi nemici franchi. Gli italiani, infatti, erano una straordinaria fonte di proventi e, occultamente, di armi.30 L’Egitto stava acquistando sempre più prodotti europei, soprattutto abiti pregiati di provenienza lombarda e fiamminga. Ad alimentare la domanda non era semplicemente il desiderio di abbigliarsi con vesti sfarzose e – per un egiziano – esotiche, spesso prodotte con la più raffinata e soffice lana inglese e colorate con il costoso indaco orientale o la grana spagnola, un colorante rosso simile alla cocciniglia. Gli opifici del Medio Oriente erano in declino. Il perché non è chiaro: il Mediterraneo islamico era ancora un’area fortemente urbanizzata e molte delle sue città, come Il Cairo, Damasco e Alessandria, erano vere metropoli. Ciò che invece è certo è che gli italiani seppero cogliere l’occasione.

Pisa fungeva da via d’accesso per gli altri commercianti toscani, cui era consentito di vivere nei quartieri pisani d’oltremare, a patto che riconoscessero l’autorità dei loro giudici e pagassero le tasse richieste ai residenti locali; così facendo venivano considerati pisani anch’essi e potevano godere di tutte le esenzioni che i vari governi avevano concesso alla città marinara toscana. Uno dei centri che sfruttò al meglio la possibilità di vendere la sua merce in Oriente fu la turrita San Gimignano, nell’entroterra toscano, il principale centro occidentale di produzione dello zafferano. Quest’ultimo, ricavato dai fragili stami di una varietà di croco, era uno dei pochi esempi di spezia prodotta con esiti migliori in Occidente che in Oriente. Era utilizzato come colorante, condimento e farmaco, e la sua produzione molto laboriosa lo rendeva assai costoso.31 Da San Gimignano lo zafferano arrivava ad Acri, quindi entrava in territorio musulmano, giungendo fino ad Aleppo. La rivoluzione commerciale avviata da Genova, Pisa e Venezia stava cominciando a coinvolgere gli abitanti di altre città, lontane dalla costa mediterranea. Anche Firenze se la cavava assai bene: i suoi mercanti praticavano il commercio ambulante vendendo eleganti capi in tessuto francese o fiammingo rifiniti nei loro opifici, e in seguito impararono a realizzarne eccellenti imitazioni. Grazie alle loro attività commerciali a Tunisi, ad Acri e in altri luoghi – non circoscritte al commercio di tessuti, ma estese allo scambio di oro contro argento, più adatto a effettuare pagamenti di media entità ma alquanto scarso nell’Occidente islamico – gli uomini d’affari fiorentini cominciarono ad accumulare grandi quantitativi d’oro. Nel 1252, sia i genovesi sia i fiorentini potevano contare su riserve auree sufficienti per iniziare a battere monete d’oro, le prime coniate in Europa occidentale (a eccezione della Sicilia, dell’Italia meridionale e di parte della Spagna) dai tempi di Carlomagno.32 Nel 1300 la presenza del fiorino di Firenze in ogni angolo del Mediterraneo dimostrava il primato degli italiani e la crescente integrazione del grande mare in un’unica area commerciale.

III

Ancora più drammatico della caduta dei Fatimidi fu il collasso del regno di Sicilia. Mentre Saladino riuscì a tenere in vita il vecchio sistema di governo, con i suoi lucrativi monopoli, nell’ultimo decennio del XII secolo la Sicilia e l’Italia meridionale finirono in balìa di baroni rapaci, determinando nel Mediterraneo centrale una situazione di profonda instabilità. Di fronte all’aspra opposizione della maggior parte dei baroni siciliani, l’imperatore tedesco Enrico VI di Hohenstaufen invase il regno, rivendicando il diritto al trono in nome della moglie (figlia postuma di Ruggero II) e ricevendo l’opportunistico appoggio delle flotte di Pisa e Genova.33 Poté godere della sua conquista solo tre anni, tra il 1194 e il 1197, passando il tempo a pianificare una crociata e una guerra per la conquista di Costantinopoli. In seguito la sua vedova, Costanza, nell’anno di vita che ancora le rimase, tentò di riportare la Sicilia all’antico equilibrio, ma il processo di disintegrazione era ormai iniziato: nella parte occidentale dell’isola i musulmani erano in rivolta e avrebbero continuato a esserlo per un quarto di secolo. Alla sua morte, il figlioletto Federico divenne il giocattolo delle avverse fazioni di Palermo, e i baroni e i vescovi dell’Italia meridionale ne approfittarono per appropriarsi, quasi incontrastati, delle terre della Corona.

Il controllo delle acque siciliane passò nelle mani dei pirati del Norditalia. Genovesi e pisani decisero di tradurre in realtà alcune delle generose promesse fatte dall’imperatore Enrico per garantirsi la loro alleanza. Ai genovesi, per esempio, era stato promesso il dominio di Siracusa, e così nel 1204 un pirata genovese, Alamanno da Costa, vi si insediò con il titolo di «conte di Siracusa». In acque siciliane i mercantili di Pisa divennero oggetto di costanti abbordaggi da parte dei pirati genovesi, che operavano con l’approvazione delle autorità della città ligure.34 Intanto un amico genovese di Alamanno, Enrico Pescatore, si insediò come conte di Malta. Enrico, con la sua flottiglia e le sue smisurate ambizioni, fu uno dei più pericolosi corsari d’alto mare: nel 1205 inviò due galee e 300 marinai genovesi e maltesi a effettuare scorrerie nelle acque greche, dove la sua squadra catturò due mercanti veneziani diretti a Costantinopoli con un carico di denaro, armi e 200 balle di stoffa europea. Dopo avere provocato un incidente internazionale, il gruppo si spinse fino a Tripoli, ponendola sotto assedio finché il conte cristiano della città libanese non scese a patti, promettendo ai genovesi diritti commerciali in cambio di aiuto contro i musulmani di Siria.35 Le imprese di Enrico furono celebrate in versi dal grande trovatore Peire Vidal, che fu attivo presso la sua corte:

È un generoso e intrepido cavaliere, l’astro di Genova, che fa tremare ogni nemico, in terra e in mare … Il mio diletto figlio, il conte Enrico, ha distrutto tutti gli avversari, ed è per i suoi amici un tal baluardo che chiunque lo desideri può giungere e partirsi senza nulla temere.36

Pur perseguendo ambizioni personali, i pirati genovesi cercavano quindi di arrecare benefici alla madrepatria, che difficilmente li abbandonava se riteneva che il loro operato facesse gli interessi della repubblica.

La successiva avventura di Enrico, il tentativo di conquistare Creta, seguì il crollo di un’altra grande potenza del Mediterraneo. Dopo la morte di Manuele I Comneno, nel 1180, le dispute per la successione logorarono le forze dell’aristocrazia bizantina, già fiaccate quattro anni prima dalla grande vittoria militare turca di Miriocefalo, in Asia Minore, in cui Manuele era riuscito a salvarsi fortunosamente.37 I pirati italiani posero basi nell’Egeo. Corfù cadde nelle mani di un pirata genovese, che poté così attaccare i mercantili veneziani in transito allo sbocco dell’Adriatico.38 Pisani e genovesi ardevano dal desiderio di vendicarsi dei greci per il già citato massacro subìto dai loro concittadini a Costantinopoli nel 1182.39 Una delle peggiori malefatte fu commessa dal pirata genovese Guglielmo Grasso, che agiva di concerto con un pirata pisano di nome Fortis. Nel 1187, dopo aver saccheggiato impunemente Rodi, attaccarono una nave veneziana inviata da Saladino all’imperatore d’Oriente Isacco Angelo: oltre agli ambasciatori del sultano, a bordo c’erano bestie feroci, legname pregiato, metalli preziosi e, dono speciale di Saladino, un pezzo della «Vera Croce». I pirati uccisero tutti gli occupanti della nave, fuorché qualche mercante pisano e genovese, e Fortis si impadronì della reliquia, che portò attraversando il Mediterraneo alla piazzaforte di Bonifacio, nella Corsica meridionale, all’epoca sotto il dominio di Pisa. Convinti di avere più diritto di quest’ultima alla Vera Croce, i genovesi saccheggiarono Bonifacio, impadronendosi sia della reliquia sia della piazzaforte, che da allora tennero saldamente e sfruttarono come base per le loro operazioni commerciali nella Sardegna settentrionale.40 In Occidente l’attacco agli inviati di Saladino non generò grandi sensi di colpa: la missione fu infatti vista come la prova che bizantini e Ayyubidi si erano alleati contro il regno di Gerusalemme.

Intanto Bisanzio era attanagliata dalla crisi su tutti i fronti. Nell’Europa sudorientale la potenza bizantina venne messa a dura prova dai condottieri bulgari e serbi. I membri della famiglia Comneno, che aveva perso il controllo della Corona imperiale, avevano creato Stati autonomi a Trebisonda, sul mar Nero, e a Cipro. Bisanzio, insomma, era in frantumi ben prima della sua caduta. Quando fu bandita la nuova crociata in terra d’Oriente, nel 1202, l’obiettivo dichiarato era la base del potere economico di Saladino, Alessandria. Una volta conquistata, sarebbe stato possibile scambiarla con le città perdute del regno di Gerusalemme, o usarla come avamposto per annientare la potenza ayyubide. Le vicende della quarta crociata sono assai note: i crociati si servirono di navi veneziane, ma non disponendo della somma richiesta furono convinti dai veneziani a contraccambiare aiutandoli a conquistare Zara, sulla costa dalmata; convennero quindi di puntare su Costantinopoli, nella speranza di insediare al trono imperiale il loro protetto, Alessio IV Angelo; nel 1203, con la crescente ostilità dei greci verso il nuovo imperatore, le relazioni in campo crociato, in particolare tra veneziani e greci, si fecero tese; Alessio IV fu rovesciato e i crociati risposero dando l’assalto a Costantinopoli; e infine, nell’aprile 1204, le grandi mura di Bisanzio furono superate e la città, fino allora inespugnabile, fu conquistata e saccheggiata per giorni.41 I veneziani arricchirono il tesoro della chiesa di San Marco con coppe tempestate di gemme, brocche in cristallo di rocca, copertine di libri adorne di oro e smalti, reliquie di santi e tutti gli altri pezzi dello splendido bottino sottratto al palazzo imperiale e alle grandi chiese della capitale d’Oriente. Molti di questi oggetti fanno ancora bella mostra di sé nella basilica veneziana, come i cavalli in bronzo a grandezza naturale sottratti all’ippodromo di Costantinopoli. Oltre a essere la nuova Alessandria, la città di San Marco era ora la nuova Costantinopoli.42

Ad avvantaggiarsi maggiormente della caduta di Bisanzio furono senz’altro i veneziani, che assunsero il controllo delle vie commerciali bizantine, escludendone a piacere i rivali. L’impero fu smembrato: Tessalonica e il diritto alla signoria su Creta furono assegnati a uno dei capi crociati, il nobile Bonifacio di Monferrato, mentre la corona di Costantinopoli andò a Baldovino, conte delle Fiandre. La resistenza dei principi greci continuò in Asia Minore, a Nicea, e nei Balcani occidentali, in Epiro, tanto che l’imperatore Baldovino dovette impegnare molto del suo tempo e delle sue limitate risorse nella lotta contro i bulgari. Gli Stati greci superstiti combatterono con tenacia per riconquistare l’entroterra bizantino, e l’impero latino di Costantinopoli, ormai allo stremo, fu infine abbattuto da Michele Paleologo, signore di Nicea, che riconquistò la capitale nel 1261.43 Venezia, dal canto suo, si proclamò «dominatrice di un quarto e mezzo dell’impero di Romania» (cioè dell’impero bizantino). E la parte veneziana crebbe ulteriormente, almeno in teoria, quando Bonifacio, non meno in difficoltà dell’imperatore Baldovino, pensò di procurarsi 1000 marchi d’argento vendendo Creta alla repubblica. In realtà, Bonifacio non aveva il controllo dell’isola, e Venezia avrebbe dovuto impadronirsene da sé. Le ragioni per farlo non mancavano, perché l’isola si trovava lungo le rotte per l’Oriente ed era un’ottima fonte di grano, olio e vino, come i mercanti veneziani sapevano bene.

Prima che i veneziani passassero all’azione, tuttavia, Enrico conte di Malta sferrò contro Creta un ambizioso attacco navale, nell’intento di proclamarsi re dell’isola; e i genovesi, esclusi dalle spartizioni della quarta crociata, tacitamente lo appoggiarono. Nel 1206 Enrico occupò Candia (Iraklion) e quattordici forti dell’isola, dopodiché inviò un messo a papa Innocenzo III per chiedere di essere costituito re di Creta. Il papa, però, esitò. A partire dal 1208 Genova cessò di dissimulare il proprio coinvolgimento nella grande impresa di Enrico e cominciò a intervenire in modo diretto, fornendogli navi, uomini e viveri, per riceverne in cambio la sollecita promessa di magazzini, forni, bagni e chiese nelle città dell’isola. Dopo un lento avvio, i veneziani risposero inviando uomini e armi. Un membro della grande famiglia Tiepolo fu nominato duca di Creta, titolo che avrebbe poi spesso preluso all’assunzione della carica di doge di Venezia. Nel 1212 i genovesi, tutt’altro che ansiosi di imbarcarsi in un lungo conflitto con la Serenissima, firmarono un trattato, ma occorsero altri sei anni per porre fine agli atti di pirateria dei conti genovesi di Malta e Siracusa.44 In seguito Enrico offrì allegramente i suoi servigi al re di Sicilia e (dal 1220) al sacro romano imperatore Federico, del quale diventò ammiraglio. Il bracconiere era diventato guardiacaccia.

L’importanza di questo breve conflitto non dev’essere sottovalutata. Si trattò, infatti, del primo grande scontro fra Genova e Venezia. Le due città inizieranno a contendersi le rotte per Acri dove, come si è visto, tra il 1256 e il 1261 si daranno feroce battaglia. I genovesi mal sopportavano il fatto che Venezia controllasse gli scambi commerciali con l’ex impero bizantino; nessuna meraviglia, perciò, se quando Michele Paleologo riconquistò Costantinopoli, nel 1261, gli offrirono il loro appoggio navale in cambio di un trattamento privilegiato. Dopo il 1212, comunque, Creta passò nelle mani di Venezia, che si trovò a governare su una popolazione greca non particolarmente entusiasta della repubblica (nel 1363 ci sarà una violenta sommossa). D’altro canto, però, i veneziani avevano messo al sicuro i propri canali di rifornimento nel Mediterraneo orientale. E a poco a poco greci e veneziani impararono a collaborare, dando luogo sull’isola a una cultura mista, con matrimoni tra la popolazione autoctona e i nuovi arrivati e una sempre più sfumata distinzione tra ortodossi e cattolici.45

IV

Nonostante le interazioni locali nell’isola di Creta, misurare il ruolo delle comunità italiane nello sviluppo culturale dell’Oriente latino e dell’intero Mediterraneo è tutt’altro che semplice. Sono stati individuati numerosi manoscritti miniati del XIII secolo riconducibili al regno di Gerusalemme, prova che gli artisti orientali attingevano al repertorio figurativo bizantino in modo analogo a quelli attivi in Toscana e in Sicilia. La caduta di Costantinopoli nel 1204 portò nel mondo occidentale una gran quantità di oggetti bizantini, rafforzando l’influsso di Bisanzio sull’arte italiana e offrendo ai veneziani interessati ai testi classici l’opportunità di studiarli.46 Quanto ai motivi decorativi islamici, essi venivano riproposti sia negli edifici veneziani sia in quelli dell’Italia meridionale, ma la curiosità per la cultura che li aveva generati restò alquanto limitata. D’altronde l’interesse per le culture orientali era in gran parte di natura pratica. Nella Costantinopoli del XII secolo c’erano uno o due interpreti pisani, i cui tentativi di tradurre le opere dei filosofi greci rappresentano un impegno secondario rispetto a quello che doveva essere il loro compito principale, tradurre in latino o dal latino la corrispondenza ufficiale con l’Occidente. Jacopo Pisano lavorava nel 1194 come interprete per l’imperatore Isacco Angelo.47 Il pisano Maimone, figlio di tale Guglielmo, il cui nome fa pensare a un’origine meticcia, diede il suo contributo nelle trattative con gli Almohadi del Nordafrica; scribi pisani corrispondevano con gli Almohadi in arabo. Dal Nordafrica i pisani appresero anche qualche utile lezione in materia di contabilità: all’inizio del XIII secolo un loro mercante, Leonardo Fibonacci, vissuto per qualche tempo a Bugia, scrisse un celebre trattato sui numerali arabi;48 ma per il radicato conservatorismo dei notai le operazioni di calcolo continuarono a essere effettuate con gli assai meno pratici numerali latini.

Attraverso le rotte commerciali del Mediterraneo giunse forse anche un complesso di idee destinato a infiammare la Francia per decenni, dopo il 1209. Durante l’XI secolo gli imperatori bizantini si erano adoperati per soffocare l’eresia dei bogomili, che predicava una concezione dualista dell’universo nella quale un Dio buono, signore del regno spirituale, combatteva contro Satana, signore del mondo carnale. Alcuni storici hanno ipotizzato che combattenti della prima e della seconda crociata di passaggio da Costantinopoli, o mercanti italiani di Pisa e altre città, fossero entrati in contatto con i bogomili e ne avessero esportate le dottrine in Europa, dove avrebbero dato vita all’eresia catara diffusasi nel XII secolo in Linguadoca.49 I catari italiani, generalmente più moderati, subirono probabilmente l’influsso di eretici dei Balcani, che da Ragusa e dai centri circostanti avevano portato le loro idee sull’altra sponda dell’Adriatico. Tuttavia, contro la tesi che queste dottrine abbiano raggiunto l’Europa occidentale attraverso le principali rotte marittime depone la loro assenza nelle città portuali: Montpellier, un importante centro mercantile del Mediterraneo, era considerata essenzialmente priva di eretici; e trovare qualche cataro tra i genovesi era molto difficile. Che genovesi e veneziani pensassero di diventare catari era altamente improbabile. I primi, in particolare, erano troppo occupati ad arricchirsi, immersi fino al collo nel mondo materiale: Genuensis, ergo mercator, si usava dire: «genovese, quindi mercante».