I

La crescente fragilità dell’impero ottomano attirò sul Mediterraneo l’attenzione degli zar. Dalla fine del XVII secolo la Russia cominciò a espandersi in direzione sud, verso il mar d’Azov e il Caucaso. Pietro il Grande sbriciolò l’impero persiano, e gli Ottomani, tra i cui domini c’era la Crimea, si sentirono minacciati.1 Per qualche tempo i russi furono distratti dal conflitto con gli svedesi per l’egemonia nel Baltico, ma Pietro era intenzionato a procurarsi libero accesso anche al mar Nero. In questi piani c’era molto dell’antica Russia che Pietro si era proposto di riformare, ma anche molto della nuova Russia tecnocratica cui egli aveva cercato di dare vita. Sebbene Pietro avesse fondato una nuova capitale sul Baltico, San Pietroburgo, l’idea che lo zar fosse l’erede religioso nonché politico dell’imperatore bizantino – che Mosca fosse la «Terza Roma» – non era affatto venuta meno. Ormai i russi potevano mettere in questione le pretese turche sul mar Nero, schierando centinaia di navi, anche se non erano ancora in grado di allestire una vera e propria flotta militare e se le navi erano mal costruite (malgrado il famoso viaggio compiuto da Pietro il Grande per ispezionare i cantieri dell’Europa occidentale sotto lo pseudonimo di Pëtr Michajlovič). Era, insomma, una flotta «carente nella disciplina, nell’addestramento e nella motivazione, scarsa nel manovrare, male amministrata e male equipaggiata». Un osservatore dell’epoca affermava: «Nulla è gestito peggio della marina imperiale russa»: i magazzini erano a corto persino di canapa, catrame e chiodi. Nel tentativo di creare una struttura di comando moderna, i russi arruolarono ammiragli scozzesi e cominciarono a servirsi nei magazzini navali inglesi; i rapporti si fecero ancora più stretti grazie agli intensi scambi commerciali tra Gran Bretagna e Russia, che andarono intensificandosi per tutto il XVIII secolo con la progressiva atrofizzazione dei traffici inglesi nel Levante (nell’ultimo terzo del Settecento partivano ogni anno per il Levante non più di 27 navi inglesi, contro le 700 che salpavano alla volta della Russia).2 L’economia del mare del Nord, del Baltico e dell’Atlantico era in pieno sviluppo, mentre al confronto il Mediterraneo stava diventando un’area marginale.

images

Nessuna sorpresa, dunque, se l’ingresso delle flotte russe nelle acque del Mediterraneo non fu propiziato da eventi accaduti nel grande mare, e nemmeno nel mar Nero. Nella lontana Europa nordorientale l’imperatrice russa Caterina la Grande si inserì nella contesa per il trono polacco, imponendo un proprio candidato; le incursioni contro gli oppositori del nuovo re sconfinarono in territorio ottomano e nel 1768 innescarono una guerra russo-turca.3 Due anni prima i britannici avevano concluso un trattato commerciale con Caterina, nella convinzione che, se ben gestita, l’imperatrice avrebbe potuto procurare loro non poche soddisfazioni. Il governo britannico era persuaso che l’espansione marittima avrebbe reso la Russia sempre più dipendente dalla Gran Bretagna, perché tale espansione sarebbe stata possibile solo grazie al loro aiuto. Ritenevano, inoltre, che qualora non fossero stati fermati da un efficace intervento militare russo contro i turchi, i mercanti francesi avrebbero finito per fare breccia nel mar Nero. Nella mente dei politici britannici cominciò così a farsi strada l’idea di una guerra per procura, nella quale la flotta russa avrebbe fugato dal Mediterraneo ogni minaccia agli interessi britannici. Charles-François de Broglie, ministro di Luigi XV, inquadrava la questione in termini non troppo diversi, quando sosteneva che una vittoria navale russa contro i turchi avrebbe messo in pericolo i traffici francesi con il Levante.4

L’eventualità che i russi riuscissero effettivamente a farsi largo nel Mediterraneo appariva però remota. La flotta del mar Nero non sarebbe mai riuscita a varcare il Bosforo, doppiando la capitale ottomana, sicché i russi si risolsero a inviare cinque squadre dal Baltico, decisi a penetrare nel Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra. Per riuscire nell’operazione era indispensabile appoggiarsi, sia nel mare del Nord sia nel Mediterraneo, alle strutture navali di una potenza amica, tanto più che molte delle navi russe non erano davvero in condizione di rimanere in mare per troppi mesi (due grandi vascelli dovettero essere urgentemente sottoposti a importanti interventi di riparazione già nel porto inglese di Hull, e uno di essi si arenò sulla costa meridionale dell’Inghilterra). I britannici cercarono di preservare la loro formale neutralità, ma l’ammiragliato ordinò che a Gibilterra e a Minorca fosse consentito alle navi russe di acquistare ciò di cui avessero avuto bisogno. Nel gennaio 1770, quattro navi da guerra dell’imperatrice Caterina trovarono piena assistenza a Mahón, dove i russi fecero console un uomo d’affari greco.5

Mentre i turchi protestavano per l’appoggio britannico alla flotta russa, i russi continuarono la loro avanzata verso est e il 6 luglio 1770 si scontrarono con la marina turca al largo di Çesme, una località nascosta dietro l’isola di Chio. All’inizio della battaglia i russi si trovarono in difficoltà: l’albero in fiamme di un vascello turco si abbatté sul ponte di una delle loro navi, facendola saltare in aria. La fortuna, però, volse dalla loro parte. Un forte vento levatosi da ovest nel canale tra Chio e la costa turca favorì i loro brulotti, e molte navi ottomane finirono in fiamme. L’imperatore Giuseppe II esprimeva così il suo stupore e la sua preoccupazione: «A contenere quella gente non basterebbe l’Europa intera: in confronto i turchi non sono niente».6 Ma nonostante la vittoria e, in un certo senso, l’acquisita padronanza del mare, i russi non avevano alcuna idea di quali passi compiere; crearono, comunque, alcune stazioni di rifornimento e per diversi anni ingaggiarono schermaglie ed effettuarono incursioni nell’Egeo, spingendosi a sud fino a Damietta, dove catturarono il governatore di Damasco. Ciò che realmente contava, come avevano scoperto i britannici con Minorca, era però il possesso di un valido porto in posizione strategica, e in questo i russi erano ancora indietro.

L’impressione, a ogni buon conto, era che l’equilibrio delle forze nel Mediterraneo fosse cambiato, assumendo contorni imprevedibili. Il declino della potenza ottomana e la crescente debolezza di Venezia avevano aperto un vuoto, che, come vedremo, avrebbe consentito non solo ai russi, ma anche ai danesi, agli svedesi e infine agli americani di inserirsi nel Mediterraneo, pur conservando il centro dei propri interessi altrove. Uno dei nodi essenziali era proprio questo: tutti, fuorché i veneziani e i ragusei, che in questo erano dei veterani, guardavano al Mediterraneo come a una delle tante sfere politiche e commerciali in cui operare; persino i corsari barbareschi scorrazzavano impunemente per le acque dell’Atlantico. L’inerzia dei francesi, dovuta al timore di contromisure da parte dei britannici, lasciò ai russi campo libero nel Mediterraneo orientale.7 Di fatto, nel 1774 ogni conflitto era pressoché finito, perché i russi, contro ogni previsione, avevano acquisito il pieno controllo delle acque levantine. Non erano però riusciti a impadronirsi delle grandi isole egee che davano l’accesso ai Dardanelli, come Lemno e Imbro, e se il loro unico punto di accesso al Mediterraneo era Gibilterra riusciva alquanto difficile pensare che potessero insediarsi stabilmente nelle acque del grande mare.8 La Russia doveva ancora capire come sfruttare la sua presenza nel Mediterraneo: come apparve chiaro quando i russi, nel 1774, firmarono la pace con i turchi, la supremazia nel Mediterraneo orientale non poteva essere considerata fine a se stessa. Con il trattato di Küçük Kaynarca, la Turchia riconobbe per la prima volta una parziale sovranità russa sulle coste del mar Nero; la Russia strappò anche il diritto di inviare i suoi mercantili nel Mediterraneo attraverso il Bosforo, concessione che sembrava rilanciare le antiche rotte commerciali che collegavano al Mediterraneo le rive settentrionali del mar Nero. Caterina II poteva finalmente farsi carico dei doveri che la Russia ortodossa sentiva verso i cristiani dell’Europa orientale, in particolare quelli della Grecia. Nel 1770 i russi avevano fomentato una violenta, anche se inutile, ribellione nella Morea. Il soccorso alla Grecia ortodossa sotto il giogo ottomano veniva a inserirsi nel quadro di un più grandioso ideale: la riconquista di Costantinopoli alla cristianità ortodossa, la «Grande Idea» che gli zar russi covavano da tempo.9

II

Qualche anno di fortuna nell’Egeo non fece che stuzzicare ulteriormente nella corte russa l’appetito di avventure mediterranee. Tratto costante di queste imprese fu la loro origine extramediterranea. Nel 1780 il governo britannico si trovò impegnato nella guerra contro le colonie americane ribelli, aggravata dall’appoggio che francesi e spagnoli assicuravano agli Stati Uniti. Dal 1779 al 1783 Gibilterra fu sottoposta per l’ennesima volta a un blocco navale e poi a incessanti bombardamenti da parte degli spagnoli, e fu sempre strenuamente difesa dal governatore George Eliott.10 Per fare fronte a tali pressioni la Gran Bretagna doveva trovare alleati, preferibilmente ben provvisti di navi, e la Russia finì per imporsi come la scelta più naturale. L’amicizia, però, era ancora tutta da costruire. Il ministro inglese Stormont cercò di persuadere Caterina II a condurre un attacco congiunto contro Maiorca, affermando che «i benefici che la Russia potrebbe ricavare da un porto ubicato in una simile posizione sono troppo evidenti per avere bisogno di essere illustrati». Stormont insisté sul fatto che «all’idea Pietro il Grande avrebbe aderito immediatamente» e che qualora la Russia fosse riuscita ad acquisire Maiorca, il governo britannico ne sarebbe stato assolutamente felice. Il ministro era turbato da certe voci, secondo cui i nemici dell’Inghilterra stavano cercando di attirare la Russia dalla loro parte con l’offerta di Porto Rico o Trinidad, ma i britannici compresero che, per qualche misteriosa ragione, il mare che attraeva i russi era il Mediterraneo: alle offerte di isole nei Caraibi, fossero avanzate dalla Spagna o dalla Gran Bretagna, i russi reagivano in modo sprezzante. Grigorij Potëmkin, ministro di Caterina II, squadrando dall’alto della sua statura l’inviato britannico a San Pietroburgo, sir James Harris, gli disse: «Donandoci colonie in terre tanto remote fareste la nostra rovina; vedete bene che le nostre navi riescono a stento a uscire dal Baltico: come potete pensare che siano in grado di attraversare l’Atlantico?». Sir James ebbe allora la chiara percezione che «l’unica cessione tale da indurre l’imperatrice a diventare nostra alleata sarebbe stata quella di Minorca», destinata a diventare «un pilastro della sua gloria imperiale». La visione di Potëmkin non era certo intesa a ottenere l’appoggio dei minorchini, che sarebbero stati espulsi in massa dall’isola e sostituiti da coloni greci: Minorca doveva diventare un bastione dell’«ortodossia» nel Mediterraneo occidentale, un avamposto della campagna russa contro gli Ottomani.

Si trattava dell’unica prospettiva per la quale Potëmkin e il suo governo avevano manifestato qualche interesse, e questo per Harris era un problema. Il governo inglese non aveva autorizzato alcuna esplicita offerta in tal senso. Approfittando di un’Europa divisa, i russi avevano colto l’occasione di porsi come mediatori tra le forze in campo. Sebbene fosse effettivamente interessata a Minorca, Caterina sapeva bene che la Gran Bretagna avrebbe voluto in cambio qualcosa di molto consistente: l’appoggio navale russo. Era peraltro consapevole che difendere Minorca da eventuali incursioni spagnole o francesi sarebbe stato problematico. Per il momento si limitò a dichiarare: «Non mi lascerò tentare». Decise che la sua missione sarebbe stata quella di promuovere la pace tra i contendenti, piuttosto che quella di esacerbare il conflitto nell’Atlantico e nel Mediterraneo. Il suo buonsenso pratico aveva finito per prevalere, e in capo a un anno le sue valutazioni trovarono conferma: gli spagnoli, infatti, tornarono a rivolgere la loro attenzione a Minorca e, nel febbraio 1782, strapparono l’isola al controllo britannico.11 Tale atteggiamento nei confronti della zarina sarebbe stato poi commentato da un anonimo osservatore, forse Edmund Burke, con queste parole:

L’Inghilterra aveva avuto tutto il tempo di valutare – e sufficienti motivi per biasimare – quell’assurda, cieca politica sull’onda della quale aveva indotto un alleato malcerto, e amico malfido, a uscire dal fondo del golfo di Botnia per crearsi un impero navale nel Mediterraneo e nell’Arcipelago.12

Il commento fu scritto qualche anno dopo gli eventi, quando il governo britannico stava cominciando a riesaminare l’appoggio precedentemente offerto alla Russia. Ora, nel 1788, ci si chiedeva se Luigi XVI sarebbe stato disponibile ad attuare un blocco congiunto della Manica per impedire ai russi di raggiungere il Mediterraneo.13

A prescindere dal rifiuto opposto da Caterina all’offerta di Minorca, l’avvio stesso di queste trattative, così come il successivo raffreddamento dell’interesse britannico per i russi, rivela che la Russia era riuscita a ritagliarsi nello scenario militare e diplomatico del Mediterraneo un ruolo di tutto rispetto, a cui in seguito avrebbe cercato di non rinunciare più. L’annessione della Crimea nel 1783 e l’espansione del dominio russo lungo le coste del mar Nero (che sarebbe sfociata nella fondazione di Odessa) non fecero che rafforzare le mire della Russia sul Mediterraneo, dal momento che la zarina disponeva ora di una base da cui lanciare iniziative marittime e commerciali in direzione dei Dardanelli. Molto sarebbe dipeso dai turchi. Nel 1789, mentre Caterina era in guerra con la Sublime Porta, corsari greci tormentarono il traffico navale turco nell’Adriatico e nell’Egeo con il favore dei russi e con l’aperto appoggio di Venezia, che, impegnata nelle sue ultime prove di Repubblica indipendente, concesse a un capitano greco, Lambros Katsonis, di fare base a Corfù, inducendo i russi a prendere in considerazione l’isola veneziana come un possibile avamposto strategico nel Mediterraneo. Katsonis diede ai turchi non poco filo da torcere: conquistò il forte di Castelnuovo (Herceg Novi), nella baia di Cattaro, e con le sue scorrerie si spinse fino a Cipro. In quel 1789, tre «squadre semipirata, male organizzate e prive di disciplina» che operavano battendo bandiera russa si rivelarono per gli Ottomani una vera spina nel fianco.14 I loro assalti precipitarono il Mediterraneo nell’instabilità.

La stabilità fu recuperata nel modo più ovvio: le controversie territoriali vennero risolte, almeno temporaneamente, mediante trattati di pace che aprirono il libero passaggio ai mercantili. Così, con la fine delle ostilità nel 1792, il traffico commerciale russo nel Mediterraneo cominciò a espandersi, anche grazie all’ottima posizione di Odessa, al riparo dal ghiaccio e provvista di un buon accesso alle vastità dell’Ucraina e della Polonia meridionale. Nell’anno della sua fondazione, il 1796, Odessa era già in grado di accogliere 49 navi turche, 34 navi russe e 3 navi austriache, nonché di attrarre coloni dalla Grecia, dall’Albania e dalle terre slave del Sud. Vi giungevano mercanti da Corfù, da Napoli, da Genova e da Tripoli. Poco più avanti, tra il 1802 e il 1803, vi arrivavano in gran quantità olio d’oliva, vino, frutta secca e lana, dalla Grecia, dall’Italia e dalla Spagna, prevalentemente a bordo di mercantili greci e italiani che battevano bandiere di comodo turche, russe o austriache. Dai porti russi sul mar Nero venivano esportate, per contro, cospicue partite di grano, il cui valore ammontava a quasi il doppio di quello delle importazioni (nel 1805 le esportazioni di grano raggiunsero l’impressionante cifra di 5 milioni 700.000 rubli).15 Tutto ciò sarebbe stato impossibile senza la libertà di transitare attraverso il Bosforo e i Dardanelli, prerogativa che poteva essere garantita solo da un trattato fra Russia e Turchia o, con una soluzione più inquietante, da una vittoria russa sugli Ottomani coronata dalla conquista di Costantinopoli e dalla sua restituzione agli ortodossi.

A Caterina II succedette, nell’anno della fondazione di Odessa, il figlio Paolo. Le sue ambizioni erano ben più spropositate di quelle della madre, che era stata abbastanza saggia da tener conto dei limiti della potenza russa. Nel lontano 1782 Paolo aveva compiuto un grand tour mediterraneo, sotto il nome fittizio di «conte del Nord», visitando fra l’altro Napoli, Venezia e Genova. L’esperienza aveva insinuato in lui l’idea di procurare alla Russia un punto d’appoggio nella regione.16 Nei cinque anni del suo breve regno proiettò nuovamente l’impero nel cuore del Mediterraneo. I russi erano ancora in cerca di un’isola che potesse fungere da base nel grande mare, ma da Minorca le attenzioni dello zar si spostarono più a est, per cadere su Malta. Ancora una volta a propiziare l’iniziativa russa furono eventi accaduti lontano dal Mediterraneo. Inizialmente lo zar Paolo I si interessò a Malta non per l’isola in sé, ma per i suoi cavalieri, con i quali la Russia aveva antichi legami. Nel 1697 Pietro il Grande aveva inviato nell’isola un suo generale, Boris Šeremetev, con la proposta di una campagna congiunta contro gli Ottomani: le navi russe avrebbero affrontato la marina turca nel mar Nero, mentre la piccola ma potente flotta maltese l’avrebbe attaccata nell’Egeo. Il Gran Maestro non se la sentì di condividere un’impresa con l’ancora semisconosciuto impero russo, che in fin dei conti era pur sempre il bastione della cristianità ortodossa. Šeremetev, tuttavia, destò grande impressione nei cavalieri per l’accesa devozione mostrata verso la reliquia del braccio di san Giovanni Battista portata nella grandiosa Chiesa Conventuale della Valletta durante la messa di Pentecoste, cui, con grande ammirazione dei cavalieri, l’ospite giunto da un altro universo cristiano volle presenziare.17

Anche durante il regno di Caterina la corte russa aveva avuto a che fare con i Cavalieri di Malta, a causa di un complesso edilizio donato da un nobiluomo polacco e trasformatosi in priorato ospitaliere in una zona della Polonia sotto il controllo russo.18 Con il proposito di usare i cavalieri contro i suoi avversari in Polonia, nel 1769 Caterina accolse a corte il cavaliere di Malta italiano Michele Sagramoso, sua vecchia conoscenza, pur sapendo che egli avrebbe portato dei messaggi del Gran Maestro e del papa, chiaramente desideroso di attestare istituzioni cattoliche all’interno dell’impero russo. Alcuni problemi di carattere religioso vennero però alla luce quando l’imperatrice inviò in veste di fiduciario a Malta un suo ambiguo protetto italiano, il farsesco marchese di Cavalcabò. Le cose iniziarono subito male: i cavalieri dichiararono di non gradire la presenza di uno chargé d’affaires nominato da una potenza non cattolica, e Cavalcabò era un personaggio inaffidabile, sospettato di tramare con il forte partito filofrancese che esisteva in seno all’Ordine Ospitaliero (molti cavalieri erano francesi e l’ordine aveva in Francia vaste proprietà).19 L’obiettivo di Cavalcabò era quello di ottenere accesso a Malta per la flotta russa, che all’epoca andava ancora vagando per il Mediterraneo orientale. Nel 1775 l’agente imperiale, avvilito, complottò con l’antica nobiltà maltese, che da tempo i cavalieri avevano emarginato, nella vana speranza di indurla a guidare una rivolta contro i suoi tirannici padroni e a consegnare l’isola nelle mani dell’imperatrice. L’irritazione dei cavalieri per lo strano comportamento del fiduciario di Caterina andò crescendo. Quando si risolsero a perquisirne l’abitazione a Floriana, un sobborgo della Valletta, la trovarono piena di armi. Espulso, Cavalcabò finì i suoi giorni in disgrazia, dopo essersi stabilito in Francia per il timore di essere arrestato per frode.20

L’interesse dello zar Paolo per i Cavalieri di Malta, dunque, non era del tutto una sorpresa.21 In gioventù Paolo aveva studiato la loro storia e aveva dell’ordine una concezione romantica, ritenendolo un potenziale baluardo contro la rivoluzione: un’unione di nobili della più scelta aristocrazia che, nel segno dello zelo cristiano, superavano le meschine rivalità tra i vari Stati europei del tempo. Per nulla disturbato dall’identità cattolica dei cavalieri, lo zar non aveva alcun dubbio di poter collaborare a fondo con loro, nella sua qualità di principale sovrano ortodosso.22 Riteneva che l’ordine lo avrebbe sostenuto su un duplice fronte: un priorato russo-polacco avrebbe contribuito con uomini e denaro alla battaglia contro i turchi nell’Europa continentale dell’Est, mentre i cavalieri di stanza a Malta avrebbero aiutato le squadre navali russe a cacciare i turchi dal Mediterraneo. Di lì a breve, insomma, le antiche terre di Bisanzio sarebbero tornate al credo dell’ortodossia. A questo grande sogno, però, si sarebbe opposto un ostacolo insormontabile: Napoleone Bonaparte.

III

Le guerre rivoluzionarie, e poi le guerre napoleoniche, sconvolsero l’intero Mediterraneo. Nel 1793, non molto tempo dopo che il governo rivoluzionario francese ebbe dichiarato guerra alla Gran Bretagna, la flotta britannica parve per qualche istante in grado di impedire alla marina francese qualsiasi attività in acque mediterranee. Mentre la guerra tra la Francia e i suoi vicini si inaspriva, accompagnata dall’implacabile repressione di chi si opponeva al giacobinismo più radicale, nelle province francesi scoppiò la rivolta. I cittadini di Tolone cacciarono i giacobini al potere e chiesero ai britannici di salvare la loro città dalle truppe rivoluzionarie che stavano marciando verso sud. I profughi arrivavano a frotte e le scorte alimentari erano insufficienti. Le navi britanniche, al comando di lord Samuel Hood, tenevano già Tolone sotto embargo, ma questo non faceva che aumentare le difficoltà di approvvigionamento all’interno della città. Il 23 agosto Hood accettò di difendere Tolone, a patto che gli abitanti riconoscessero l’erede al trono di Francia in re Luigi XVII. La popolazione bevve l’amaro calice, accettando le condizioni. Lo scarso entusiasmo per la monarchia era infatti compensato dalla paura dei giacobini. Con l’occupazione, circa metà della flotta francese finì sotto il controllo dei britannici. Hood aveva però poche forze di terra, e quando l’esercito rivoluzionario, comandato da Napoleone, si impadronì della fortezza all’ingresso del porto, nota come «la piccola Gibilterra» (17 dicembre 1793), Hood capì che la posizione inglese non era più difendibile. Prima di ritirarsi i britannici distrussero 9 vascelli e 3 fregate francesi, e fecero saltare in aria le scorte di legname da cui dipendeva il futuro della flotta nemica. Inoltre portarono via a rimorchio 12 navi, che entrarono in servizio nella flotta britannica e in quella spagnola.23

Fu uno dei colpi più duri inferti alla marina francese nel corso dell’intero conflitto, non inferiore alla devastazione seminata a Trafalgar. Ma, a dispetto di ciò, la perdita di Tolone fu per gli inglesi fonte di enormi problemi. Finché Napoleone rimase in campo, non ci fu comandante inglese nel Mediterraneo che non avesse l’ansia di Tolone.24 Si trattava di escogitare qualche nuova via per contrastare la flotta francese nella regione. Una delle soluzioni adottate fu la riconquista di Minorca, che, ripresa nel 1798, servì da postazione avanzata nei riguardi della Francia meridionale. Ma prima ancora si era profilata un’altra interessante possibilità. Nel 1768 la Corona francese era entrata in possesso della Corsica, sottraendola ai genovesi, che in ogni caso ne avevano perso il controllo a beneficio delle forze nazionaliste capeggiate dal carismatico ed eloquente Pasquale Paoli. Successivamente, prima che la Francia dichiarasse guerra alla Gran Bretagna, a Livorno si era diffusa la notizia che il governo rivoluzionario non aveva alcun interesse per la Corsica e che l’isola sarebbe stata messa in vendita. Era circolata la voce che i russi fossero pronti a finanziare un’offerta del governo genovese, intenzionato a riacquisire l’isola, per ricavarne una base navale nel Mediterraneo occidentale.25 Queste voci avevano attirato alla Corsica l’interesse della Gran Bretagna, che dopo lo scoppio della guerra contro la Francia si era fatto più acuto.

Dopo che Tolone era finita in mano britannica, Pasquale Paoli aveva accarezzato con crescente entusiasmo la prospettiva di un’alleanza tra còrsi e britannici. E quando questi ultimi avevano perso Tolone, la portata dell’evento non gli era sfuggita: «La caduta di Tolone» aveva commentato «è una fortuna: costringerà gli inglesi a liberarci». Paoli, però, sopravvalutava l’utilità della Corsica. Se in questo libro l’isola è citata assai meno della Sardegna, di Maiorca, di Creta o di Cipro, è solo perché offriva meno strutture d’appoggio ai trasporti transmediterranei e meno prodotti locali. La Balagna – un’area settentrionale sfruttata fin dal XII secolo, quando l’isola era in mano ai pisani – aveva da offrire un po’ di grano. Ma quella còrsa era una società chiusa, isolata, conservatrice, e penetrare all’interno dell’isola era tutt’altro che facile. Nessuna meraviglia che dopo numerosi tentativi i genovesi avessero rinunciato a conservare il possesso dell’isola.26 Gli inglesi, comunque, cominciarono a supporre che la Corsica avesse qualche potenziale, non ancora sfruttato, come base navale. Forse, azzardò qualcuno, Ajaccio poteva diventare un porto capace di fare concorrenza a Livorno e la Corsica trasformarsi nella «piazza di riferimento per tutti i mercati del Mediterraneo e del Levante». Nel 1794 la marina britannica attaccò San Fiorenzo (Saint-Florent), nella Balagna, e nel volgere di qualche settimana un Parlamento còrso votò in favore dell’unione con la Gran Bretagna: l’isola sarebbe diventata una comunità autonoma sotto l’autorità sovrana di re Giorgio III. Ai còrsi veniva garantita una bandiera in cui accanto alle insegne reali avrebbe fatto mostra di sé una testa di moro, con il motto: «Amici e non di ventura».27

I rapporti tra i britannici e i còrsi, però, si guastarono: Paoli dovette ricredersi e l’iniziativa passò ai comitati rivoluzionari, sempre più attivi grazie ad agenti infiltrati da Napoleone nell’isola natale. Nel 1796 il governo di William Pitt concluse che la posizione britannica in Corsica era insostenibile: l’unione anglo-còrsa cessò e le truppe inglesi si ritirarono. Le speranze riposte nell’utilità dell’isola erano rapidamente sfumate. Pitt si chiese se Caterina la Grande sarebbe stata interessata a rilevare la Corsica, in cambio dell’impegno ad assicurare un accesso privilegiato alle navi britanniche: pensò di farle credere che l’isola potesse essere controllata con soli 6000 soldati e che il Parlamento còrso fosse decisamente ben disposto. Ma la zarina morì prima che le giungesse la proposta. All’epoca l’idea dei britannici era che i russi nel Mediterraneo potessero fungere da utili idioti cui affidare mansioni secondarie mentre la Gran Bretagna era impegnata, militarmente ed economicamente, nella guerra contro la Francia rivoluzionaria e, poi, contro Napoleone.

Il compito di scongiurare l’egemonia francese nel Mediterraneo fu affidato a Horatio Nelson e ai suoi abilissimi colleghi, tra cui Hood, Collingwood e Troubridge. Uno dei principali obiettivi era quello di evitare che Napoleone si procurasse una base in Egitto: da lì avrebbe infatti potuto interferire con i piani espansionistici dell’impero britannico, che guardava più a est, verso l’India, dove aveva cominciato ad attestarsi fin dalla metà del XVIII secolo. Ecco come una lettera francese intercettata esponeva i moventi della campagna napoleonica in Egitto:

Il governo ha puntato gli occhi sull’Egitto e sulla Siria, paesi che per il loro clima e per la qualità e la fertilità del loro suolo possono trasformarsi nei granai del commercio francese, nella nostra riserva d’abbondanza e, con il tempo, nel deposito in cui riporre le ricchezze attinte in India. È quasi certo che quando entreremo in possesso di questi paesi e li organizzeremo correttamente, potremo guardare ancora più lontano, e infine smantellare a nostro vantaggio le attività commerciali inglesi nelle Indie, facendoci padroni anche di esse, dell’Africa e dell’Asia. L’insieme di tutte queste considerazioni ha indotto il nostro governo a tentare la spedizione in Egitto.28

Nelson era un comandante dalle doti eccezionali, ma a portare lo scontro tra Francia e Gran Bretagna nel cuore del Mediterraneo era stato il suo avversario, Napoleone. E, ancora una volta, un modo efficace, ancorché poco ortodosso, per inquadrare il corso degli eventi è quello di considerarli dalla prospettiva di Malta e da quella della Russia.

Bonaparte aveva capito subito che Malta era un bottino molto appetibile. Nel 1797, quando era ancora al servizio del Direttorio rivoluzionario, scriveva ai suoi superiori: «L’isola di Malta è per noi di grande interesse», e aggiungeva che alla Francia serviva un Gran Maestro ben disposto, obiettivo per raggiungere il quale occorreva almeno mezzo milione di franchi. Il Gran Maestro in carica si era ammalato improvvisamente e non si era più ripreso, e si riteneva che gli sarebbe succeduto il tedesco Ferdinand von Hompesch:

La Valletta ha 37.000 abitanti, ben disposti nei confronti dei francesi; nel Mediterraneo non c’è più un inglese; che cosa impedisce che la nostra flotta, o quella spagnola, vadano a occupare la Valletta, dove i cavalieri sono solo 500 e dove il reggimento dell’ordine conta appena 600 uomini? Se non saremo noi a prendere l’iniziativa, Malta finirà nelle mani del re di Napoli. Questa piccola isola non ha prezzo per noi.29

Erano osservazioni molto acute, anche se sovrastimavano il valore di Malta come stazione di rifornimento, data la penuria di legno e di acqua che affliggeva l’isola. Le splendide fortificazioni della Valletta erano un paravento che nascondeva una compagine di difensori inadeguata, fatta da uomini che in molti casi si erano lasciati sedurre dalla bella vita: gli ideali capaci di entusiasmare fino al fanatismo gli antichi Ospitalieri si erano molto annacquati, anche se la guerra contro il Turco infedele restava l’obiettivo dichiarato dei corsari maltesi.30 Il rischio che a impadronirsi di Malta fossero i napoletani, poi, assumeva un’importanza tutt’altro che confinata alla sfera locale: il «re delle Due Sicilie» aveva stretti legami con Nelson e l’Inghilterra, e la sua storica rivendicazione del ruolo di sovrano dell’arcipelago maltese trovava conferma nel fatto che ogni anno il Gran Maestro gli donava in segno di tributo un falco.

Nel luglio 1797 von Hompesch fu eletto, secondo le previsioni, Gran Maestro. Ai suoi occhi lo zar era un alleato che poteva aiutare l’ordine a risollevare le proprie sorti grazie a un priorato russo-polacco. Von Hompesch sperava altresì nel sostegno dell’imperatore Francesco II, nei cui domini aveva visto la luce, e in quello dei cavalieri francesi, esterrefatti da quanto stava accadendo in Francia, dove – come detto – l’ordine possedeva molte terre.31 Era giustamente convinto che le mire di Napoleone fossero altrove. Dal canto suo, però, Bonaparte era persuaso che per raggiungere i suoi obiettivi nel Mediterraneo orientale fosse indispensabile mettere le mani su Malta. Quando, nel 1798, un’imponente flotta francese salpò da Tolone per raggiungere l’Egitto passando da Malta, il Gran Maestro seguitò a confidare nei russi e negli austriaci, come se potessero realmente intervenire in suo aiuto. Pierre Jean Doublet, il segretario del suo predecessore, avrebbe poi osservato che «mai Malta aveva visto nelle sue acque una flotta così sterminata», mentre i capi della comunità maltese meditarono sul paradosso per cui la marina che si accingeva a sottrarre l’isola all’Ordine Ospitaliero non era quella turca, ma quella di un paese dell’Europa occidentale.32 Quando la flotta francese giunse a Malta, von Hompesch ebbe la cautela di consentire l’ingresso nel porto a non più di quattro navi per volta. L’emissario di Napoleone protestò: «Ma non occorrerà un’infinità di tempo perché 500 o 600 navi riescano a procurarsi l’acqua e le altre cose di cui hanno urgente bisogno?». Fece anche notare che nel recente passato ai britannici era stato riservato ben altro trattamento.33 Napoleone, però, aveva avuto la reazione che gli serviva: ora aveva un ottimo pretesto per sbarcare i suoi 15.000 uomini e impadronirsi dell’isola. Von Hompesch capì che di fronte a una forza così smisuratamente superiore ogni resistenza sarebbe stata vana e consegnò Malta. Il 13 giugno Napoleone espulse i cavalieri. Fece fondere grandi quantitativi di piatti d’argento e confiscò gli archivi dell’ordine, non per leggerne i documenti ma perché in genere l’involucro delle munizioni era confezionato con la carta. I cavalieri venivano così privati della loro identità e lasciati alla mercé delle potenze cristiane, come già accaduto alla caduta di Acri e di Rodi. Ancora una volta la sopravvivenza dell’ordine era in pericolo.

La presa di Malta non fece che rafforzare la determinazione dello zar a riportare la marina russa nel Mediterraneo. Che Paolo sopravvalutasse l’utilità dell’isola come fonte di legno e di acqua è fuori questione. Ma certo egli pensava a Malta come una base da cui lanciarsi in conquiste più sostanziose.34 La sua prima mossa era stata quella di convincere il priorato russo dell’ordine a dichiarare von Hompesch deposto e a eleggere in veste di Gran Maestro lo stesso zar (novembre 1797).35 Aveva quindi proceduto a nominare Cavalieri di Malta un gran numero di esponenti dell’aristocrazia russa, non senza indossare quotidianamente il suo abito di Gran Maestro, mostrando di provare per quella (contestata) posizione non meno orgoglio che per il titolo di imperatore russo. Era convinto di essere un fulgido esempio di cavalleria. «In questo momento» osservava un ministro austriaco «l’unica preoccupazione dello zar è Malta.»36

Una delle tante sorprese che Paolo riservò ai suoi contemporanei fu l’alleanza con gli Ottomani. Il patto ebbe luogo dopo la grande vittoria riportata nel 1798 da Nelson sulla flotta di Napoleone non lontano da Alessandria d’Egitto, nella baia di Abukir (la battaglia del Nilo). Dopo quello scontro i britannici riuscirono a cacciare le truppe francesi dal suolo egiziano, anche se nel frattempo Napoleone aveva spogliato il paese di gran parte delle sue antichità.37 Benché la Sublime Porta fosse felicemente alleata della Francia fin dal XVI secolo, la prospettiva di un’espansione francese nell’Egitto ottomano non poteva essere tollerata. Tanto più che nei Balcani c’erano turbolenti personaggi dai pericolosi sentimenti filofrancesi, in particolare il gran governatore albanese ‘Ali Pascià, signore di Giannina. Per il sultano era ormai venuto il tempo di schierarsi contro la Francia, che nel Levante si era mostrata più ambiziosa di quanto gli Ottomani potessero consentire, risultando nel contempo più vulnerabile di quanto si sarebbe potuto immaginare vedendo la flotta e l’esercito di Napoleone. La parte più importante dell’alleanza russo-turca fu l’accordo preliminare, firmato poche settimane dopo la battaglia di Abukir, in base al quale si riconosceva alla marina russa il permesso di accedere al Mediterraneo attraverso il Bosforo.38 Per loro fortuna russi e turchi riuscirono a convenire su un comune obiettivo: le isole Ionie, che Napoleone, dopo avere conquistato Venezia nel maggio 1797, aveva da poco occupato nella sua opera di smantellamento dell’impero veneziano. I turchi temevano che Ancona potesse essere usata come base per lanciare un’invasione francese dei Balcani e ritenevano il controllo di Corfù e delle isole limitrofe un passo indispensabile per chiudere l’Adriatico. Ciascuno dei due interlocutori riuscì ad accantonare la diffidenza nel nuovo alleato. Il comandante della marina russa, il rude, monolingue, ammiraglio Fëdor Ušakov, riservò tutto il suo astio per Nelson, cui non voleva che andasse tutta la gloria di una vittoria. Nelson, da parte sua, era deciso a tenere questi improbabili alleati nel Mediterraneo orientale e a conquistare sia Malta sia Corfù alla Gran Bretagna. «Ho in odio i russi» scriveva, definendo Ušakov «un mascalzone».39 I turchi avevano un’ottima flotta di moderne navi francesi, ma i suoi marinai, molti in realtà greci, erano poco disciplinati. Dal canto loro, i cantieri navali russi del mar Nero non erano in grado di fabbricare navi sufficientemente robuste da sostenere una lunga guerra lontano dalla madrepatria.40 Malgrado ciò, agli inizi del marzo 1799 le forze combinate di Russia e Turchia riuscirono a impadronirsi delle isole Ionie. Naturalmente, ricompensando Ušakov lo zar si ricordò dell’ordine di San Giovanni, nominando l’ammiraglio cavaliere di Malta. Lo statuto elaborato per il governo della nuova conquista fu molto particolare: le sette isole Ionie avrebbero costituito un’aristocratica «Repubblica settinsulare» sotto sovranità turca; la Russia, però, avrebbe esercitato una speciale influenza in veste di potenza protettrice.41

Accantonando i suoi ragionevoli dubbi sul valore della flotta russa e del suo comandante, Nelson scrisse a Ušakov per proporgli un attacco congiunto a Malta, prospettiva resa più concreta dall’avanzata di un contingente di terra russo, messosi in marcia da Torino verso sud. Nelson temeva che l’impresa si trasformasse in un’invasione russa con l’appoggio britannico. «Sebbene una potenza possa avere nell’isola qualche uomo in più dell’altra» dichiarò «non dovrà esservi però alcuna preponderanza. Nel momento in cui verrà abbattuta la bandiera francese, dovranno essere inalberati i colori dell’ordine, e di nessun altro.»42 A giudizio di uno storico, «le prospettive russe nel Mediterraneo non erano mai state così promettenti come in quell’ottobre 1799». Ne era consapevole anche Ušakov, il quale rimase esterrefatto quando, nel dicembre di quell’anno, si vide comunicare da un ukaz imperiale che lo zar aveva cambiato idea: l’ordine era quello di lasciare immediatamente il Mediterraneo e ritirarsi con l’intera flotta nel mar Nero; le postazioni russe a Corfù dovevano essere consegnate direttamente ai turchi, nella speranza che il gesto avrebbe indotto il sultano a concedere il passaggio di una flotta russa dall’Egeo al mar Nero. Il rientro, tuttavia, non era prematuro. L’intervento russo nelle isole Ionie rischiava di interferire con il controllo dell’Adriatico da parte degli Asburgo, che si stavano abituando al possesso di Venezia, ceduta loro da Napoleone come un dolce regalo. I calcoli di Paolo erano fuori della realtà: lo zar arrivò a offrire pomposamente al sacro romano imperatore la scelta tra Venezia e i Paesi Bassi, fantasticando di un’Europa postrivoluzionaria da spartirsi tra i riottosi membri della coalizione antinapoleonica.43

Fino a che punto le ambizioni dello zar fossero fuori della realtà si rivelò ulteriormente quando Ušakov trovò impossibile portare la sua fatiscente flotta nel Mediterraneo orientale e fu costretto a svernare a Corfù. I russi assistettero impotenti all’assedio di Malta da parte dei britannici, riuscendo a salpare da Corfù per il mar Nero solo nel luglio 1800. Napoleone non poteva sperare di tenere Malta, così, «per gettare un pomo della discordia tra i miei nemici», la offrì in dono a Paolo. Lo zar cadde nel tranello e accettò l’offerta, solo per apprendere, nel novembre 1800, che era in mano britannica da un paio di mesi.44 I britannici decisero di dimenticare che la loro intenzione dichiarata era la restituzione dell’isola ai cavalieri, né si preoccuparono di innalzare sulla Valletta conquistata le bandiere di qualche alleato: non quella dello zar con funzioni di Gran Maestro, non quella dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni e nemmeno quella del re di Napoli, l’antico signore dell’isola. A Londra il Foreign Office, nel suo tipico stile, mugugnò circa l’irregolarità, esprimendo vaghi timori sull’offesa arrecata allo zar in quanto «riconosciuto Gran Maestro» (un’esagerazione). Ma sul posto, a Malta, da parte dell’esercito e della marina britannici non ci fu alcun timore.45 Per oltre un secolo e mezzo a sventolare sull’isola sarebbe stata la bandiera britannica. Ciò che accadde in seguito fu per Napoleone nient’altro che un sogno: lo zar, infatti, diede vita a una «neutralità armata del Nord», con il contributo di Danimarca, Svezia e Prussia, e pose sotto embargo le navi britanniche. Dopodiché il sogno di Napoleone si trasformò in un incubo: nel Baltico e nel mare del Nord scoppiò la guerra. Benché tecnicamente comandante in seconda, Nelson si mise ancora una volta in luce con la brillante vittoria di Copenaghen, nell’aprile 1801, quando la flotta danese fu letteralmente fatta a pezzi.46 Una settimana prima un gruppo di ufficiali russi insoddisfatti era riuscito a irrompere nella camera dello zar e a strangolarlo. La notizia della sorte toccata a quell’imprevedibile alleato fu appresa dai britannici con sollievo. Napoleone, riconoscendo in lui un altro megalomane, fu profondamente scosso e si convinse che dietro l’assassinio c’era una congiura britannica. Paolo, però, era stato il suo più acerrimo nemico.

IV

Il successore di Paolo, Alessandro I, iniziò il suo periodo di regno con maggiore circospezione. Quando i negoziati paneuropei di pace del 1801 proposero la Russia come garante dell’autonomia di una Malta restituita al governo dei cavalieri, lo zar si schermì garbatamente: chi se non il re delle Due Sicilie, con le sue prerogative di sovrano dell’isola, poteva costituirsene garante?47 Alessandro era peraltro ansioso di riaffermare l’interesse della Russia per le isole Ionie, tanto più che l’impero ottomano sembrava vacillare (e avrebbe vacillato a lungo). Il consigliere imperiale Adam Czartoryski definì la Turchia «piena di cancrena e putredine negli organi vitali e principali».48 Qualora l’impero ottomano si fosse dissolto, Czartoryski preconizzava una spartizione dei possedimenti turchi in Europa tra i Romanov e gli Asburgo, con alcune quote per l’Inghilterra e per la Francia nell’Egeo, nell’Asia Minore e nel Nordafrica, nonché l’indipendenza per la Grecia. L’imperatore Francesco II avrebbe ottenuto la costa dalmata, compresa Ragusa, mentre la Russia avrebbe messo le mani su Cattaro e su Corfù, oltre che sulla stessa Costantinopoli. Furono prese iniziative concrete: la difesa delle isole Ionie fu rafforzata per fare fronte a una minaccia francese dall’Italia meridionale, e in città come Cattaro furono inviati dei consoli, nella speranza che riuscissero a guadagnare simpatie alla Russia.49 Nel 1803, però, la pace siglata con la Francia ad Amiens fu violata (anche per il rifiuto dei britannici di cedere Malta) e Napoleone, che di lì a breve si incoronerà imperatore di Francia, tornò a mostrare i muscoli all’Europa continentale.50 Tali eventi indussero lo zar a riportare la sua flotta nel Mediterraneo. La missione fu agevolata dalla «gloriosa vittoria» riportata da lord Nelson a Trafalgar, poco fuori del Mediterraneo, il 21 ottobre 1805.51 Per le flotte antifrancesi il Mediterraneo era ora più sicuro, ma Nelson, morto eroicamente, non avrebbe più potuto dispensare i suoi ammonimenti sull’inaffidabilità dei russi, che si erano dati non poco da fare per migliorare la capacità di navigazione della loro flotta.

Durante il regno di Alessandro – come peraltro durante quelli dei suoi predecessori – gli interessi della Russia nel Mediterraneo erano strettamente legati al sentimento di fratellanza nei riguardi degli slavi ortodossi, ai quali lo zar contava di estendere la sua protezione. A tale scopo i russi inviarono le loro navi nella baia di Cattaro, che dava accesso al principato ortodosso del Montenegro, chiuso tra le montagne, una regione che i turchi non si erano mai dati pena di assoggettare fino in fondo. L’importanza del Montenegro agli occhi dei russi non era di natura pratica bensì ideologica, anche se pare che Cattaro disponesse di 400 navi mercantili (contando però anche le piccole imbarcazioni).52 La questione religiosa venne in primo piano anche nei rapporti dei russi con Ragusa. Per timore dei serbi, tradizionalmente i ragusei avevano scoraggiato la presenza della Chiesa ortodossa nei loro modesti territori, e nel 1803 il Senato era arrivato a chiudere la cappella del consolato russo. Nel marzo 1806, di fronte all’avanzata dell’esercito francese lungo la costa dalmata, il governo di Ragusa si vide costretto a chiedere che, qualora i francesi fossero entrati in territorio raguseo, le difese della città fossero affidate a soldati russi. Alla fine di maggio, però, quando i francesi entrarono effettivamente in territorio raguseo, il Senato decretò che la cattolica Francia era preferibile alla Russia ortodossa, innescando così sopra la propria testa uno scontro tra le truppe francesi e quelle russe, queste ultime sostenute dagli slavi del Montenegro. I russi riuscirono per qualche tempo a espandere la loro influenza lungo la costa dalmata, ma Ragusa restò una base francese, e nel 1808 il suo governo repubblicano fece la fine della Repubblica di Venezia, quasi senza un sussulto. Un rappresentante del comandante francese Auguste de Marmont dichiarò: «Signori, la Repubblica di Ragusa e il suo governo sono sciolti. Viene insediata una nuova amministrazione». Ragusa fu messa sotto l’autorità dell’Italia napoleonica e successivamente sotto quella della nuova provincia di Illiria. Marmont venne ricompensato con il titolo di «duc de Raguse», creato per l’occasione.53 Il crollo della città dalmata non fu solamente politico: se nel 1806 Ragusa contava 277 navi, nel 1810 ne erano rimaste soltanto 49.54 La Repubblica si era lasciata coinvolgere in guerre che non rientravano in alcun modo nei suoi interessi. L’affievolirsi della potenza ottomana aveva privato i ragusei della tutela che la Sublime Porta tradizionalmente accordava alla loro sicurezza e alla loro neutralità. Un tentativo di ottenere l’appoggio dei turchi si rivelò infruttuoso: ormai gli Ottomani erano troppo in debito con i francesi.55 Fu una fine ingloriosa per una Repubblica che si era scelta l’ottimistico motto LIBERTAS.

Fu però l’inizio della fine anche per l’impegno della Russia nel Mediterraneo. Gestire le operazioni dalla lontana San Pietroburgo era ancora abbastanza difficile e, quando alla fine del 1806 l’intesa russo-turca venne meno a causa di profonde divergenze sugli affari di Valacchia, nell’attuale Romania, russi e turchi si trovarono in guerra, non senza stupore. Pur con qualche riserva, l’Inghilterra appoggiò i russi, ma ad affrontare una delle grandi battaglie navali delle guerre napoleoniche, nei pressi del Monte Athos tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 1807, fu la flotta russa, decisa ad aprirsi il passaggio dei Dardanelli.56 Sulla carta furono i russi a vincere, ma in realtà la flotta turca non perse la capacità di bloccare i Dardanelli, e in ogni caso lo zar ne aveva avuto abbastanza. Durante il conflitto i remunerativi flussi commerciali dal mar Nero al Mediterraneo si erano interrotti. E all’indomani dei rovesci subiti in Europa, nel 1807 lo zar firmò la pace con la Francia, a Tilsit, abbandonando ogni ambizione mediterranea. Abbandonò anche la sua flotta mediterranea, che rimase bloccata nel grande mare: alcune navi russe cercarono di guadagnare l’Atlantico, ma furono facilmente catturate dagli inglesi; diverse altre approdarono a Trieste, Venezia e Corfù, dove, nella totale assenza di supporto, furono consegnate, abbandonate o persino affondate; altre ancora raggiunsero Tolone e si unirono alla marina francese: tra i benefici che Napoleone aveva sperato dalla pace con lo zar c’era l’acquisizione della flotta russa. Gli ufficiali francesi si precipitarono su Corfù, dove al posto della bandiera russa issarono quella francese.57 Alla Russia l’avventura nel Mediterraneo era costata una montagna di denaro, senza procurare alcun vantaggio permanente.