I

Mentre nel corso della prima guerra mondiale le azioni navali nel Mediterraneo furono essenzialmente circoscritte alla regione orientale e all’Adriatico – alle acque, cioè, che lambivano le rive dei due imperi, quello ottomano e quello asburgico, entrambi in via di disgregazione – tra il 1918 e il 1939 le contrapposizioni interessarono il Mediterraneo nel suo complesso.1 Dall’anno in cui prese in mano le redini dell’Italia, il 1922, al centro della lotta per la supremazia nel grande mare si collocò, con le sue ambizioni, Benito Mussolini. Nel suo atteggiamento verso il Mediterraneo, Mussolini fu oscillante. In certe fasi sognò un impero italiano che si estendesse fino «agli oceani» e assicurasse all’Italia «un posto al sole», e cercò di concretizzare questo sogno invadendo, nel 1935, l’Abissinia, un’operazione che, a parte le difficoltà incontrate sul piano schiettamente militare, si rivelò un disastro politico, togliendo al Duce tutta la considerazione che Gran Bretagna e Francia gli avevano mostrato fino allora. In altri periodi la sua attenzione si rivolse al Mediterraneo stesso: l’Italia, dichiarò, «è un’isola che si immerge nel Mediterraneo», e tale isola, concordò il Gran Consiglio del fascismo, era imprigionata: «Le sbarre di questa prigione sono la Corsica, la Tunisia, Malta, Cipro: le sentinelle di questa prigione sono Gibilterra e Suez».2

Le aspirazioni italiane erano state alimentate dai trattati di pace con cui si era conclusa la prima guerra mondiale. L’Italia aveva conservato il Dodecaneso e allontanato gli austriaci dal proprio territorio nordorientale, cui erano state aggiunte gran parte delle «terre irredente», da Trieste all’Istria alla costa dalmata fino a Zara (oggi Zadar), resa celebre dall’eccellente cherry prodotto dalla famiglia Luxardo. Nel 1919 la città istriana di Fiume (oggi Rijeka) era stata occupata dall’improvvisata milizia personale del poeta nazionalista Gabriele d’Annunzio, che l’aveva proclamata sede della «Reggenza italiana del Carnaro»; nel 1924, nonostante l’opposizione internazionale, l’Italia fascista l’aveva poi annessa alla madrepatria. Una singolare iniziativa che rivela quanta importanza il passato rivestisse per il sogno del regime fascista fu la creazione di istituti per promuovere lo studio rigoroso (e quindi l’«italianità») della storia còrsa, maltese e dalmata. Chiunque percorresse la lunga via cerimoniale ricavata lungo il Foro romano, nel cuore della Roma antica, poteva ammirare in grandi mappe come da un minuscolo insediamento sul Colle Palatino il dominio di Roma si fosse sviluppato fino all’impero di Traiano, quando il territorio romano arrivò a comprendere l’intero Mediterraneo e regioni ancora più lontane. Sotto le mire italiane cadde anche l’Albania, che aveva conquistato una precaria indipendenza nel 1913. La sede centrale della Banca d’Albania era a Roma, e il nuovo re del paese, Zog, aveva un estremo bisogno del sostegno politico e finanziario dell’Italia, una questione che fu sbrigativamente liquidata con l’invasione italiana del «paese delle aquile» nell’aprile 1939. Già prima d’allora gli italiani possedevano un’importante base di sottomarini a Saseno, una piccola isola di fronte alla costa albanese. I sottomarini erano considerati uno strumento fondamentale per assicurare il futuro successo dell’Italia quando sarebbe venuto il momento di sfidare la presenza inglese nel Mediterraneo. Nel 1935 il maresciallo Pietro Badoglio, comandante delle forze armate italiane, dichiarò che l’Italia non aveva bisogno di grandi corazzate, poiché avrebbe ottenuto il dominio sul mare con mezzi più moderni. In realtà, la flotta italiana era insignificante: «Tecnologicamente arretrata, operativamente squilibrata e affidata a un comando poco lungimirante, lasciava a desiderare in ogni suo comparto».3

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L’invasione dell’Albania e l’incessante repressione dei ribelli in Libia dimostravano che i discorsi sull’impero mediterraneo non erano mere spacconate, malgrado agli occhi di molti osservatori Mussolini, con la sua mascella sporgente che profondeva verbosi proclami sulla restaurazione del Mare nostrum, apparisse una figura semicomica. L’acquisizione della Libia aveva creato nel Mediterraneo un asse Nord-Sud e il Nordafrica doveva costituire la «quarta sponda» dell’Italia. Malta, ubicata al centro delle acque che separavano la «quarta sponda» dalla Sicilia, era in mano agli inglesi e rappresentava quindi più di un semplice inconveniente: era un autentico ostacolo. Nel 1937 Mussolini organizzò una trionfale visita a Tripoli, durante la quale fu solennemente inaugurata la prima vera litoranea della costa libica, una strada che si snodava per 1600 chilometri, e fu celebrata la ricostruzione di parti della capitale nello stile di una moderna città europea.4 Ulteriori dimostrazioni del proposito fascista di scalzare con ogni mezzo la Gran Bretagna emersero quando gli italiani assicurarono sostegno finanziario al Gran Muftì di Gerusalemme, un personaggio alquanto controverso che nel 1936 aveva sfruttato le sommosse arabe scoppiate in Palestina per accrescere la propria influenza politica come capo religioso dei sunniti palestinesi. In Egitto furono istituite milizie fasciste – le camicie verdi e le camicie blu (e, ovviamente, i due gruppi non si potevano sopportare) – che si aggiunsero alle numerose camicie nere della comunità italiana di Alessandria.5

Nel 1936, inoltre, gli italiani intervennero a fianco delle forze falangiste spagnole, all’inflessibile comando del poco carismatico ma molto efficace generale Francisco Franco: oltre a 50.000 uomini, l’Italia fascista offrì supporto aereo e navale, giocando un ruolo decisivo nella battaglia per le isole Baleari. Se Mussolini non avanzò pretese sulla Spagna continentale, le isole erano tutt’altra questione. Gli italiani approdarono a Maiorca, da cui nel settembre 1936 cacciarono le ultime forze repubblicane, giustiziando circa 3000 maiorchini accusati di fiancheggiare i comunisti. Nei due anni successivi l’isola servì da base per le pesanti incursioni compiute dall’aeronautica italiana sui principali centri repubblicani, come Valenza e Barcellona. Probabilmente Mussolini avrebbe voluto tenere Maiorca, ma in fondo aveva ottenuto quello che gli interessava: una base operativa nel Mediterraneo occidentale, sufficientemente vicina a Tolone e a Orano per tenere a bada i contingenti navali francesi di stanza in quelle città, anche se la sua vera ossessione continuava a essere la marina inglese. Gli italiani, comunque, non mancarono di far sentire la loro presenza nell’isola: la strada principale di Palma di Maiorca fu ribattezzata «via Roma» e abbellita all’imbocco da statue di giovani con aquile romane appollaiate sulle spalle.6 Dopo quindici secoli il Mare nostrum era tornato a estendersi dall’Italia alle acque della Spagna.

L’interesse inglese per il Mediterraneo era velato da dubbi. Nel 1939, solo il 9 per cento delle importazioni britanniche passava per il canale di Suez, e Malta, malgrado il suo grandioso porto, non costituiva una base di rifornimento particolarmente sfruttata, perché, disponendo di scarse risorse locali (a partire da quelle idriche), doveva essere costantemente riapprovvigionata. Era però un utile punto d’appoggio per i velivoli che attraversavano il Mediterraneo, consentendo il rifornimento di carburante tra Gibilterra e Alessandria. Fuorché per le sue imponenti fortificazioni cinquecentesche, Malta non disponeva di grandi difese. All’inizio della guerra la protezione dell’isola era affidata a tre biplani monomotore, battezzati Faith, Hope e Charity («Fede», «Speranza» e «Carità») e armati con mitragliatrici leggere da 7,7 mm.7 Dal punto di vista strategico, Malta aveva il vantaggio, ma anche lo svantaggio, di trovarsi a pochi minuti di volo dalla Sicilia; era pericolosamente esposta, ma gli inglesi erano tutt’altro che intenzionati a cedere una posizione che dominava le vie marittime del Mediterraneo centrale. Il grosso delle forze navali britanniche schierate sul Mediterraneo si concentrava però ad Alessandria, sebbene la città egiziana offrisse un porto decisamente inferiore a quello della Valletta.8 Quanto agli altri presìdi inglesi nel Mediterraneo, l’isola di Cipro non era stata molto sfruttata come base navale, da quando gli inglesi l’avevano sottratta agli Ottomani, mentre la baia di Haifa conservava un particolare valore strategico come terminale del grande oleodotto iracheno. Nel contesto delle relazioni tra Spagna e Gran Bretagna, poi, Gibilterra pose meno problemi di quanto il governo inglese avesse immaginato, persino dopo lo scoppio della guerra contro i tedeschi: con disappunto di Hitler, infatti, Franco non si lasciò trascinare nel conflitto, non da ultimo per paura che, in caso contrario, gli inglesi avrebbero occupato le Canarie. Tacciandolo di avere sangue giudaico, Hitler accusò il generalissimo di ingratitudine verso coloro che lo avevano appoggiato negli anni della guerra civile.9 A ogni buon conto, ciò che serviva all’Inghilterra era un facile accesso da ovest per raggiungere l’Oriente, e in particolare il canale di Suez.

Anche quando, nel settembre 1939, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania nazista, non c’era motivo di immaginare che un conflitto per difendere la Polonia avrebbe scosso il Mediterraneo. La maggior parte delle potenze coinvolte si aspettavano una riedizione dei duri scontri di terra verificatisi in Fiandra durante la Grande Guerra. Dal canto suo, Mussolini era riluttante a scendere in campo al fianco di Hitler, anche se il suo ministero della Propaganda continuava a lanciare vuote minacce. Il 21 aprile 1940 il portavoce del Duce dichiarava, per esempio, che «l’intero Mediterraneo era sotto il controllo delle forze navali e aeree italiane e che qualora la Gran Bretagna avesse osato cercare lo scontro, sarebbe stata cacciata».10 Mussolini ruppe gli indugi, non senza opportunismo, solo quando la Francia fu sul punto di capitolare, il 10 giugno 1940; in cambio, ottenne una piccola fetta di territorio francese, senza però riuscire a impossessarsi del tanto ambito porto di Nizza.

II

Il primo problema dell’Inghilterra nel Mediterraneo non era l’Italia, ma la Francia. La maggior parte degli ufficiali francesi, sconvolti dalla sconfitta, vedeva la salvezza nell’umiliante accordo concluso dal maresciallo Pétain con Hitler e mascherava il senso di vergogna con un esasperato patriottismo, rivolto più contro la Gran Bretagna che contro la Germania: l’Inghilterra aveva schierato a fianco della Francia troppo pochi uomini, esponendo così la Patrie a un’immeritata disfatta! Prima di fare i conti con gli italiani, che stavano iniziando a minacciare i convogli inglesi, la marina britannica doveva definire i suoi rapporti con la flotta francese, parte della quale si trovava ad Alessandria d’Egitto sotto il nome di «Forza X». Là, in quello che di fatto era territorio inglese, i francesi si rifiutarono di cedere le loro navi alla Gran Bretagna, ma accettarono di tenerle inattive, cosa che causò qualche malumore, nonostante la dichiarata lealtà dei marinai francesi a Pétain e al regime di Vichy.11 L’orgoglio della flotta francese si trovava però a Orano, principalmente nel porto di Mers el-Kebir, e comprendeva due dei meglio attrezzati incrociatori da battaglia del mondo, la Dunkerque e la Strasbourg. François Darlan, l’ammiraglio, si rivelò un appassionato difensore di quelli che riteneva essere gli interessi francesi, e per far vacillare la sua fedeltà nei confronti di Vichy occorsero anni. Gli inglesi offrirono a Darlan una serie di opzioni, dall’integrazione della sua flotta nella marina britannica al trasferimento delle sue navi nei lontani Caraibi, dove sarebbero rimaste inerti per il resto della guerra. Per Darlan, tuttavia, le navi erano francesi e francesi dovevano restare. In tal caso, chiarirono gli inglesi, alla Royal Navy non rimaneva altra scelta che attaccarle. Il 3 luglio 1940 i britannici passarono, implacabilmente, all’azione. La Strasbourg riuscì a fuggire, ma gli inglesi centrarono il fondamentale obiettivo strategico di infliggere pesanti danni alle navi francesi e ai loro equipaggi (1300 vittime).12 La Gran Bretagna dovette peraltro accusare le conseguenze politiche dell’operazione, subendo la rottura delle incipienti relazioni diplomatiche con la Francia di Vichy. Il disprezzo di Darlan per gli inglesi trovò ampia conferma. Ora Hitler poteva essere certo che in Nordafrica e nella Siria francese la marina e l’esercito di Vichy erano guidati da uomini decisi a mantenersi tenacemente fedeli al regime di Pétain, circostanza che poteva essere di qualche utilità contro gli inglesi; entro quali limiti, tuttavia, era alquanto nebuloso, dato che la Francia si considerava fuori dal conflitto. Mers el-Kebir confermò in Hitler l’orientamento a concentrare gli sforzi bellici nell’Europa settentrionale. Mussolini poteva prendersi i brandelli di Mediterraneo che gli interessavano, purché non toccasse la Tunisia: per i tedeschi era più sicuro che il Nordafrica restasse nelle mani della compiacente Francia di Vichy, e le pretese avanzate dal ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, su Nizza, la Corsica, Malta, la Tunisia e parte dell’Algeria furono accolte con ilarità.13

Nel Mediterraneo gli inglesi dovettero quindi vedersela con gli italiani, che occuparono, sia pure per poco tempo, Sidi Barrani, all’estremità occidentale dell’Egitto. Nel novembre 1940 i britannici riuscirono a farsi onore a Taranto, dove un attacco aereo lanciato dai ponti della portaerei Illustrious colpì la migliore nave italiana, la Littorio, e affondò la corazzata Cavour.14 Questa facile e tempestiva vittoria dissuase gli italiani dall’idea di cercare lo scontro in mare e, cosa ancora più importante, confermò che anche una modesta capacità aerea era in grado di sopraffare il meglio di una flotta nemica. Si trattava adesso di capire se con le incursioni aeree si potesse conquistare un’isola. Gli attacchi aerei italiani su Malta erano praticamente iniziati nel momento in cui Italia e Gran Bretagna erano entrate in conflitto, anche se con l’aiuto di una nuova invenzione, il radar, i piccoli biplani Faith, Hope e Charity tennero sorprendentemente a bada la Regia Aeronautica italiana fino a quando non giunse a potenziare le difese aeree dell’isola una squadriglia di moderni monoplani Hurricane. All’inizio del 1941, apparecchi tedeschi e italiani crivellarono, mentre faceva rotta a est da Gibilterra, la Illustrious, che tuttavia riuscì a trascinarsi fino a Grand Harbour, il porto di Malta.15 I bombardamenti sull’isola si fecero più intensi, e le incursioni quotidiane dei velivoli tedeschi devastarono La Valletta e le Tre Città, di fronte a Grand Harbour, mietendo centinaia di vittime tra i civili maltesi che condividevano con le truppe britanniche dell’isola la penuria di cibo e di altri beni di prima necessità. La situazione peggiorò ulteriormente dopo il dicembre 1941, quando i tedeschi avevano ormai preso il Mediterraneo più seriamente. Il comando delle operazioni nello scacchiere Sud fu affidato al fanatico Albert Kesselring, che organizzò azioni concertate per distruggere i convogli inglesi diretti a Malta. Di pari passo con la presenza tedesca crebbero anche le pressioni su altri fronti, con la Germania nazista in guerra contro l’Unione Sovietica. Nell’autunno del 1941 gli inglesi si misero in condizione di rispondere bombardando la Sicilia e il Nordafrica, e le navi italiane e tedesche che portavano rifornimenti alle forze dell’Asse nell’Africa settentrionale entrarono nel mirino dei sottomarini inglesi. Tedeschi e italiani furono così contrariati che consultarono la terza grande potenza dell’Asse, il Giappone, circa il modo migliore per conquistare un’isola, alla luce dell’esperienza giapponese nel Pacifico: uno dei metodi che venne loro suggerito fu quello di prendere l’isola per fame.16

Grand Harbour era ormai pieno di rottami, cadaveri dei marinai periti in mare e combustibile delle navi affondate (che rischiava di prendere fuoco). Grazie all’impegno dei suoi difensori, però, l’isola continuava a fungere da base per aerei e sottomarini in grado di tormentare il nemico e di ostacolarne il dispiegamento di forze e la fornitura di approvvigionamenti nel Nordafrica. Non sorprende, quindi, che nella coscienza dei maltesi la memoria di questo secondo grande assedio di Malta sia non meno profonda di quella del grande assedio del 1565.17 Churchill temeva che la situazione dell’isola fosse talmente compromessa da renderne pleonastica l’invasione da parte del nemico: Malta sarebbe stata costretta a capitolare a suon di bombe. Nelle acque a sud di Maiorca i convogli inglesi erano insistentemente incalzati dai sottomarini e, al passaggio di Tunisi, dagli incrociatori italiani e dagli aerei italiani e tedeschi: nell’agosto 1942 un convoglio di 14 navi partito da Gibilterra per Malta giunse a destinazione con appena cinque unità.18 Fortunatamente i tedeschi erano in dubbio se conquistare l’isola o no, specie in considerazione del fatto che per farlo avrebbero dovuto cooperare con l’esercito italiano, messo ai loro occhi in pessima luce dalle recenti esperienze nordafricane; tanto più che Mussolini dava per scontato che, quando la Gran Bretagna fosse stata costretta ad arrendersi su tutti i fronti, Malta sarebbe spettata a lui.19 E fortunatamente l’avanzata di Rommel su Tobruk, a est, spostò sempre più l’attenzione dei tedeschi sul Nordafrica, lasciando dal maggio 1942 Malta ai margini. Le potenze dell’Asse erano convinte che la guerra nel Mediterraneo sarebbe stata vinta sulla terraferma, non con la conquista di un’oscura isoletta. Del resto, anche il comando inglese pensava che fosse «meglio perdere Malta che l’Egitto».20 Ma a salvare Malta fu indubbiamente la tenacia opposta dagli isolani ai costanti bombardamenti e a mesi e mesi di assoluta miseria, una fermezza che Giorgio VI avrebbe poi premiato conferendo all’intera isola la Croce di re Giorgio. La medaglia campeggia ancora oggi sulla bandiera maltese, in ricordo dell’eroica resistenza dell’isola: 30.000 edifici danneggiati o distrutti e 1300 civili morti a causa dei bombardamenti.21

Malta non cedette, ma nel 1941 gli inglesi uscirono sconfitti dalla battaglia per il possesso di Creta, sebbene il valore strategico dell’isola non fosse pienamente compreso dai tedeschi.22 L’Alto Comando tedesco mancava di una visione organica dell’importanza del Mediterraneo e considerava il Mittelmeer in chiave balcanica: chi a lungo termine ne avrebbe controllato le vie marittime era ritenuta una questione da lasciar sbrogliare a Italia e Gran Bretagna. Con l’impegno militare delle forze tedesche al fianco degli italiani nel Nordafrica, per le potenze dell’Asse diventava però importante assicurarsi i rifornimenti via mare sulla rotta nord-sud. Ma il modo in cui il Führer decise di farlo fu controverso. Quando Hitler ordinò di inviare gli U-Boot nel Mediterraneo – una mossa non priva di rischi, dal momento che occorreva oltrepassare Gibilterra – l’ammiraglio Raeder fece notare con disappunto che ciò avrebbe danneggiato lo sforzo bellico tedesco nell’Atlantico. Alle potenze dell’Asse era ben chiaro che il Mediterraneo, attraverso il canale di Suez, dava accesso al petrolio del Medio Oriente, ma pensare di aprirsi quella via in tempi rapidi era irrealistico. Le scorte petrolifere dell’Asse stavano tuttavia per esaurirsi; nell’estate del 1942 la flotta italiana rimase senza carburante e i tedeschi, in considerazione dei loro impegni su altri fronti, rifiutarono di fornirne. Per reperire petrolio Hitler puntò su un’altra strada, quella che attraverso le vaste pianure russe giungeva in Persia, soluzione che con l’inizio delle ostilità russo-tedesche, nel 1941, gli sembrò più sensata. L’esercito tedesco si spinse perciò fino a Stalingrado, dove però rimase intrappolato, finendo per subire una rovinosa disfatta. La crescente importanza del Mediterraneo, che colse di sorpresa i tedeschi, divenne molto più chiara quando, nel novembre 1942, gli Alleati – compresi, ora, gli americani – sbarcarono sulle stesse sponde da cui nel 1830 i francesi avevano lanciato l’invasione dell’Algeria.23

L’attacco in Algeria (operazione «Torch») fu accompagnato da sbarchi in Marocco e da un’offensiva a est, verso la Tunisia. E nello stesso novembre i tedeschi, già messi a dura prova nel luglio precedente a El Alamein, furono definitivamente costretti ad arretrare dai «Topi del deserto» del generale Montgomery. D’altra parte, la presenza degli ufficiali di Vichy in Nordafrica, in particolare di Darlan, complicava non poco la situazione. In realtà, l’unico interesse di Darlan era quello di appoggiare la parte vittoriosa. Si riteneva l’erede in pectore di Pétain ed era disposto a trattare con gli Alleati, nonostante questi lo considerassero alla stregua di un vile traditore; ma desiderava anche non esporsi alle accuse di doppiogiochismo che gli sarebbero state rivolte qualora gli Alleati fossero stati sconfitti. Nel novembre 1942 il generale Eisenhower incontrò Darlan ad Algeri, dove l’ammiraglio conduceva una vita più che lussuosa. Eisenhower sperava di convincerlo a trasferire in Nordafrica la flotta francese di Tolone e a schierarla in appoggio all’offensiva americana. Darlan diede cenni di assenso, pur sapendo che l’ammiraglio a capo della flotta di Tolone, un suo vecchio rivale, non si sarebbe mai sognato di prendere una simile iniziativa e che persino le navi francesi stanziate ad Alessandria avrebbero esitato, nonostante i buoni rapporti tra il loro equipaggio e gli inglesi. Un fumoso compromesso permise però a Darlan di restare il vicario di Pétain in Nordafrica, per lo sdegno di inglesi e americani, che puntarono il dito contro il collaborazionismo e l’antisemitismo dell’ammiraglio; Ed Murrow, celebre giornalista dell’emittente CBS, domandò: «Vogliamo combattere i nazisti o dormire con loro?». Il caso Darlan giunse all’epilogo quando, la vigilia di Natale, un estremista monarchico insinuatosi nel palazzo del governo di Algeri attese che l’arrogante ammiraglio rientrasse da un gradevole pranzo e gli sparò, uccidendolo.24

Lo scontro per l’egemonia nel Mediterraneo si stava inasprendo, e il successo alleato era tutt’altro che certo. Nel dicembre 1942 il comandante di Vichy in Tunisia consegnò alle potenze dell’Asse l’attrezzatissima base navale francese di Biserta. Intanto, nel corso di novembre, Hitler aveva deciso di porre fine alla bipartizione della Francia, occupando anche la zona sotto il controllo di Vichy. Mussolini poté finalmente ottenere Nizza e a ogni buon conto mandò diverse squadre navali in Corsica, dove fu innalzata la bandiera italiana. Nel contesto bellico e politico del Mediterraneo i capi di Vichy ebbero un ruolo opaco, sfruttando il loro status indeterminato di rappresentanti di un paese non ufficialmente coinvolto nelle ostilità per oscillare tra i due schieramenti. Quando gli Alleati imbarcarono segretamente su un loro sommergibile, che dalla Francia di Vichy avrebbe raggiunto Algeri, un poco noto generale francese, Henri Giraud, scoprirono che l’uomo aveva tutto l’orgoglio e tutti i pregiudizi di Darlan: non voleva diventare un cagnetto al guinzaglio delle forze alleate, non era per nulla interessato alla rimozione delle leggi antisemite e seguitava ad arrestare i «soliti sospettati» e a deportarli in campi di concentramento lontani dagli occhi degli Alleati. La sua grande speranza era quella di guidare un attacco in forze per liberare la madrepatria dall’umiliante occupazione tedesca.25 Il confine tra gli opposti schieramenti fu molto più chiaro nell’Atlantico e nel Pacifico che nel Mediterraneo.

III

La confusione politica nel Mediterraneo aumentò ulteriormente nel 1943. In marzo i tedeschi furono duramente sconfitti dalle forze alleate a Medenina, in Tunisia, e le truppe di Rommel lasciarono il suolo tunisino. L’8 maggio Tunisi e Biserta caddero in mano agli Alleati, insieme a 250.000 soldati, tra italiani e tedeschi. Con la caduta della Tunisia, per le navi alleate il Mediterraneo divenne più sicuro, e ora potevano transitare da Malta sia in direzione di Gibilterra che di Alessandria persino convogli da 100 navi. L’unità di gran parte del Mediterraneo sotto il controllo degli inglesi era, se non proprio ripristinata, perlomeno alle viste. Nel giugno 1943 re Giorgio VI giunse via mare da Tripoli a Malta, dove una gran folla di maltesi lo accolse tra grida di acclamazione. Il suo intento non era soltanto quello di sollevare il morale della popolazione dell’isola, ma anche quello di mostrare a tutto l’impero che l’Inghilterra stava avanzando a grandi passi verso la vittoria finale.26

Per le potenze dell’Asse, però, le brutte notizie non erano finite. In Grecia era scoppiata la guerra civile e in Iugoslavia si stava organizzando la resistenza.27 In seno all’Asse si fece strada il sospetto che gli Alleati avessero scelto di confluire sulla Sardegna per poi invadere in forze l’Europa continentale a partire dal Sud della Francia. A pagare duramente il prezzo di questo depistaggio fu Cagliari, dove i segni dei bombardamenti alleati sono ancora visibili. Tuttavia, la vera questione era se il «ventre molle» dell’Asse in Europa (per usare l’espressione di Churchill) fosse la Francia o l’Italia. Nel giugno 1943 gli Alleati conquistarono il loro primo lembo d’Italia, la piccola ma strategicamente ben ubicata isola di Pantelleria, a ovest di Malta, dove 12.000 soldati italiani con il morale a terra dovettero cedere all’intenso bombardamento nemico.28 Quando, in luglio, gli Alleati tradirono le attese dell’Asse sbarcando in Sicilia, una riunione straordinaria del Gran Consiglio fascista sfiduciò Mussolini. All’udienza a Villa Savoia (oggi Villa Ada) che ne seguì, re Vittorio Emanuele non chiese al Duce di dimettersi, ma lo informò di averlo già sostituito con il maresciallo Badoglio; e all’uscita, Mussolini fu fatto salire su un’autoambulanza e messo agli arresti. Benché non fosse ancora chiaro in quale direzione si sarebbe incamminato il governo Badoglio, i tedeschi presero subito a rafforzare le loro posizioni in Italia, in vista del giorno nel quale le forze alleate sarebbero sbarcate nella penisola. Il 22 luglio gli americani, al comando del generale Patton, occuparono Palermo e quando poi giunsero a Messina, il 17 agosto, trovarono la città ridotta a un cumulo di macerie: 60.000 soldati tedeschi e 75.000 soldati italiani erano battuti in ritirata. Le truppe italiane erano ormai stanche di combattere, e il loro umore era condiviso dall’intero paese. Ai primi di settembre Badoglio venne convinto a firmare un armistizio con gli Alleati. Quando i bombardieri tedeschi si avventarono sulla corazzata italiana Roma, causando un gran numero di vittime, la marina italiana fece riparare il meglio della sua flotta a Malta e consegnò le navi agli inglesi. Il grande porto di Taranto fu anch’esso ceduto agli Alleati. Nelle isole mediterranee si produsse una situazione alquanto confusa. Gli inglesi riuscirono a occupare le isole minori del Dodecaneso; a Cefalonia i tedeschi assassinarono proditoriamente 6000 soldati italiani; in Corsica regnava il caos più totale, con i tedeschi, gli italiani, gli uomini di France libre e quelli della resistenza còrsa che assumevano il controllo di parti dell’isola.29 La capitolazione dell’Italia aggiunse allo scenario mediterraneo nuovi elementi di incertezza.

Ai primi tentativi di guadagnare un punto d’appoggio per gli Alleati in Italia, sul finire del 1943, seguì lo sbarco a sorpresa di un robusto contingente alleato ad Anzio, poco a sud di Roma. Da quel momento gli Alleati dovettero aprirsi la strada con le armi nel resto della penisola. La situazione politica italiana fu complicata dalla liberazione di Mussolini, che accettò di dar vita alla «Repubblica sociale italiana», nel Nord del paese, sotto il controllo nazista. Malgrado la lentezza dei progressi, gli americani e (come prevedibile) gli uomini di France libre erano decisi a portare avanti gli sbarchi nella Francia meridionale, per controbilanciare gli sbarchi effettuati dalle forze alleate in Normandia nel giugno 1944: il 26 agosto, ben prima di quanto avessero immaginato, gli Alleati presero Tolone, cosa che lasciò libere altre forze per attaccare e conquistare, il 28 agosto, Marsiglia.30

Di lì a breve cominciarono le riflessioni sul futuro del Mediterraneo dopo la sconfitta tedesca, che sembrava ormai imminente. Tra le questioni più calde c’erano la Palestina, la Iugoslavia e la Grecia, dove le forze insurrezionali comuniste stavano cominciando a lacerare il paese. Nell’ottobre 1944 Churchill si recò a Mosca per chiarire a Stalin la posizione inglese: la Gran Bretagna «dev’essere la prima potenza mediterranea». Stalin ne prese atto, esprimendo la sua solidarietà per le difficoltà sperimentate dagli inglesi quando i tedeschi avevano insidiato loro le vie del Mediterraneo; giunse persino ad assicurare Churchill che si sarebbe astenuto dal creare problemi in Italia. La sua principale preoccupazione era quella di ottenere l’acquiescenza britannica all’egemonia dell’Unione Sovietica nell’Europa slava, a partire dalla Serbia.31 Per i russi non era ancora venuto il momento di riaffermare la propria aspirazione al ruolo di potenza mediterranea.