I. (a. 58). A Cornelio Nepote. – Il «patrono» protegge il «cliente» e le sue cose. Così Minerva (v. 9), protettrice delle biblioteche e particolar mente venerata nel territorio veronese, è chiamata a proteggere il poeta e a dar lunga vita al suo libro.
II. (a. 61). Il passero.
IIa. (a. 58). Il pomo che piacque a Atalanta. – Atalanta si lasciò vincere nella corsa dal giovane Ippòmene. – I miei versi, in corsivo, spiegano in qualche modo il frammento: sostituiscono dunque una lunga nota, e spero che i lettori (siqui forte mearum ineptiarum lectores eritis) me li vogliano perdonare. – Allio è l’amico lodato nell’elegia LXVIII.
III. (a. 61). La morte del Passero.
IV. (a. 56). Il còro bitinico
V. (a. 61). Baci.
VI. (a. 55). Il segreto di Flavio.
VII. (a. 61). Ancora baci. L’oracolo di Giove Ammone era nell’òas; di Siwah; il monumento di Batto, fondatore di Cirene, era nella piazza della città; e Batto si chiamava il padre di Callimaco.
VIII. (a. 60). Povero Catullo.
IX. (a. 60). Il ritorno di Veranio. – Veranio e Fabullo (XIII) avevano fatto la campagna di Lusitania, nel 61 e nel 60, agli ordini di Cesare.
X. (a. 56). L’amica di Varo. – Quintilio Varo, cremonese; la sorella Quintilia fu moglie di Calvo (XCVI). Orazio dedicò a Varo un’ode e ne pianse la morte, nel 23 (carm. 1, 18.24). – Catullo usa qui (vv. 9 segg.) il gergo militare, che non si deve prendere alla lettera. Che poi i giovani a figli di famiglia», che facevano parte del séguito (cohors) del governatore, avessero la mira ai quattrini (da spillare disonestamente ai provinciali), può darsi, come può darsi che quei levantini insegnassero loro l’arte di spenderli. In ogni modo il più disinteressato di quei ragazzi non si sentiva uomo che quando poteva spararle grosse in fatto di soperchierie. Si badi che la provincia di Bitinia e Ponto era una provincia ricca (XLVI 5); ma Memmio era un amministratore che non approvava le creste ai bilanci: cosicché al povero Catullo non restava di che dar la mancia a un facchino, anche se coi soldi del vecchio Valerio poteva comperarsi un còtro da vela e remo (IV). Ciò che veramente scaldava la bile a quei giovani, scapati a parole, ma tutti usciti da famiglie d’avveduti affaristi e abili amministratori, erano i favoritismi, le parzialità usate da qualcuno verso gente meno degna e di bassa estrazione. – Un tempio di Seràpide, molto lontano dal centro, era stato demolito, per ordine del senato, nel 58, e subito ricostruito dalla tenace pietà dei fedeli.
XI. (a. 54). Per Lesbia. – Crasso, novello Alessandro, era in Asia: in Italia si parlava allora di Siria Persia Egitto India; Cesare nel 55 passò il Reno e sbarcò in Britannia, dove tornò nel 54.
XII. (a. 61). Il fazzoletto. – Era una specialità locale di Saetabis (Jativa) che Veranio e Fabullo avevano mandato al poeta. L’Asinio qui nominato era fratello di Gaio Asinio Pollione (76 a. C. – 4 d. C.), allora quindicenne; la famiglia degli Asinii era marrucina (territorio di Chieti), e i Marrucini godevano fama di franchezza e onestà.
XIII. (a. 60). Il ritorno di Fabullo. – Vedi IX. – La povertà di Catullo, da alcuni favoleggiata, è quella del figlio di papà che s’è giocato ’assegno mensile.
XIV. (a. 56). Il regalo tremendo. – Gaio Licinio Calvo (82-48 c.) aveva pronunziato la sua prima requisitoria contro Vatinio nel 58.
XIVa. (a. 58). Ai lettori. – Per i miei versi, in corsivo, mi sono già scusato coi lettori nella nota a Ila.
XV. (a. 55). A Aurelio.
XVI. (a. 55). A Furio e Aurelio. – Allude al XLVIII.
XVII. (a. 59). La sagra del Ponte Lungo. – La colonia è senza dubbio Verona; e il Ponte Lungo è una passerella costruita su un’ «acqua morta», o stagno lasciato da qualche inondazione. – La sodalità romana dei Salii eseguiva due volte all’anno, in marzo e in ottobre, danze rituali in certi luoghi della città, che si chiamavano mansiones Saliorum: una di queste era il ponte Sublicio, tutto di legno e senza ferramenta; con le danze dei Salii era collegata la cerimonia del 15 maggio, quando i sacerdoti gettavano dal ponte Sublicio nel fiume i sexagenarii, o senes depontani, ch’erano fantocci di vimini. – La scure ligure (v. 19) è un modo di dire, come quello che usa, o usava, sull’Appennino tosco-emiliano, la «scure del Tosco» o «del Lombardo». I Liguri allora erano gran boscaioli e carbonai; nella pianura veneta e padana, ancora coperta in gran parte dalla foresta primigenia, squadre di Liguri si saranno trovate un po’ dappertutto, dove si preparavano gli appoderamenti, lungo le vie consolari e i canali. È noto che il padre di Virgilio mise insieme una discreta fortuna diboscando e appoderando.
XVIII-XX. L’antica numerazione, dopo il Seicento, teneva conto di tre carmi, che il Lachmann tolse nel 1829, perché non si leggono nei cdd catulliani.
XXI. (a. 56). A Aurelio.
XXII. (a. 56). Suffeno. – Per Varo v. X, per Suffeno XIV.
XXIII. (a. 55). A Furio.
XXIV. (a. 55). Giovenzio.
XXV. (a. 61). Tallo. – Rielaborazione letteraria del XII. – La Tinia è la parte nord-occidentale della Bitinia.
XXVI. (a. 55). La villa male esposta.
XXVII. (a. 62). Al coppiere.
XXVIII. (a. 55). Veranio e Fabullo. – Lucio Calpurnio Pisone parti per la provincia Macedonia alla fine del 58 e ne tornò nella primavera del 55, accolto da una terribile invettiva di Cicerone. Nella sua coorte c’erano i due eterni sfortunati, Veranio e Fabullo.
XXIX. (a. 55). A Cesare e Pompeo. – Mamurra, da Formia, fu comandante del genio (praefectus fabrum) di Cesare; la praeda Pontica è quella del 65 (allora Mamurra era stato agli ordini di Pompeo), la Hibera quella del 60 (cfr. X). Pare che Mamurra, ora, si sia tagliate, e mangiate, grosse fette della praeda Gallica e Britannica. Il suocero (v. 24) è Cesare, genero Pompeo.
XXX. (a. 58). Alfeno, l’amico infedele. – Publio Alfeno Varo, un altro cremonese, allora studiava giurisprudenza; una ventina d’anni dopo, Virgilio gli fece l’onore di dedicargli l’ecloga VI. Forse non meritò del tutto né il rimprovero di Catullo né la lode di Virgilio.
XXXI. (a. 56). Sirmione. – Se c’era un Nettuno dei mari, doveva essercene uno anche dei laghi; e un lago come il Benàco meritava il suo Nettuno particolare. – Per la Tinia, vedi XXV
XXXII. (a. 55). Appuntamento.
XXXIII. (a. 55). A Vibennio e figito.
XXXIV. (a. 59). A Diana. – La Diana romana (vv. 21-24) aveva il suo principale santuario, commune Latinorum Dianae templum (VARR., ling., 5, 43), sull’Aventino; il dies natalis del tempio era il 13 agosto. – L’innocenza del coro (vv. 2-3) è rituale; consiste nell’avere ambedue i geniton viventi, così che l’ombra tunesta non nuoce e non toglie efficacia alla preghiera.
XXXV. (a. 56). A Cecilio. – L’amico di Cecilio e di Catullo è naturalmente Catullo stesso (v. 6). – Allude all’Attis (LXIII).
XXXVI. (a. 59). Il voto di Lesbia. – II dio zoppo è Vulcano. – Santuari di Venere: Idalio, Amatunte e Golgi a Cipro, Urii presso Rodi Gargànico (Foggia) e Ancona in Italia, Cnido in Caria, quasi di fronte a Coo, Durazzo in Epiro.
XXXVII. (a. 60). La bèttola del numero nove. – Da1 tempio dei Pilleati Fratres (Càstore e Poilùce) partiva il vicus Tuscus (via di S. Teodoro), quartiere malfamato.
XXXVIII. (a. 58). Cornificio, l’amico tiepido. – Quinto Cornificio, poeta e uomo di parte cesariana; la sorella, Cornifìcia, poetessa anche lei, sposò Camerio (LV).
XXXIX. (a. 60). Il dentifricio d’Egnazio. – Gli Umbri potevano passare per pingues (come vuole la tradizione indiretta del v. 11), cioè «bene in carne», ma il poeta vuol dire ch’erano sparagnini.
XL. (a. 55). Ràvido il temerario. – Ravidus, con la a breve, se viene da avus «roco». Nella pronunzia corrente Ravide poteva sonar raude in due sillabe; oppure il poeta sciolse in due brevi la penultima lunga.
XLI. (a. 59). Ameana. – Ameana è pronunzia rustica di Ammiana. Il «fallito di Formia» è Mamurra.
XLII. (a. 59). L’abbaiata degli endecasillabi. – Ancora Ameana.
XLIII. (a. 59). Confronti con Lesbia. – Sempre Ameana. – La provincia (v. 6), cioè Verona, dove Cesare veniva spesso durante l’inverno e Mamurra aveva i magazzini del suo materiale da ponte e da campo.
XLIV. (a. 56). Il podere tiburtino o sabino. – Tivoli era villeggiatura elegante, la Sabina da gentuccia. Suburbanum (praedium) era il podere che il romano ricco e importante poteva raggiungere dalla città in giornata, e in giornata, all’occorrenza, tornarne: presso Tivoli, ma non oltre. In Sabina uno era tagliato fuori dal mondo: Orazio ci si trovò benissimo. – Publio Sestio, difeso da Calvo (e da Cicerone) nella primavera del 56, e assolto, era sempre impigliato in liti. – Malus liber (v. 21) è il libellus d’un petitor (v. 11), la citazione in ius d’un querelante. Allora, cum malum librum legit, Sestio ha bisogno dell’avvocato, Calvo, e onora anche gli amici dell’avvocato con lauti pranzi, purché s’interessino alle sue beghe. Catullo, per guadagnarsi un invito, ha letto un «esposto» scritto dallo stesso Sestio (v. 11): pensava di far bella figura a mensa, con le sue cognizioni giuridiche, e d’incensare l’ospite. sia pure col rischio di riascoltare l’esposto dalla voce stessa dell’autore. Il TOMMASEO, Sinonimi 3193, pensa al peggio: «Succiarsi, di cosa molesta, non idea o sentimento, ma discorso o altro, ancora più tedioso che doloroso; dice pazienza, per lo meno inutile, non meritoria punto. Succiarsi… una lettura atroce da chi v’invita al déjeuner».
XLV. (a. 54). Settimio e Acmè. – La «geografia» è quella stessa del XI.
XLVI. (a. 56). Ritorno a casa.
XLVII. (a. 55). La doppia mano ladra di Pisone. – Vedi XXVIII. Socration può essere Σωϰρατίων «Socrazione» ο Σωϰράτιον «Socratuccio».
XLVIII. (a. 55). Giovenzio. – Vedi XVI.
XLIX. (a. 56). Cicerone.
L. (a. 58). Gara poetica. – Chiamare uno col gentilizio (Licinio) è un po’ come dargli del lei; Catullo conosce Calvo da poco tempo.
LI. (a. 62). A Lesbia.
LII. (a. 55 Che tempi) – Lucio Nonio Asprenate edile curale in quell’anno 55; Publio Vatinio sarà davvero console ne! 47 ma ne è sicuro e ci giura (ossia spergiura, pérjeral) ne’ 55.
LIII. (a. 55). L’eloquenza di Calvo. – È la seconda requisitoria di Calvo contro Vatinio. – La traduzione «toscana» di salapantium, non registrata nei vocabolari, è del Carducci.
LIV. (a. 55). Cesariani di malaffare. – Recoctus è il vecchio che vuole passar per giovane, come Pèlia, il re tèssalo che Medea mise a bollire in un calderone per ringiovanirlo.
LV. (a. 55). L’introvabile Camerio. – Catullo nella sua lunga camminata percorre, per usare i nomi moderni, via Claudia (Campus minor, o Campus Martialis sul Celio), via S Paolo della Croce, via dei Cerchi (Circus maximus), via di S. Teodoro (Vicus Tuscus), via dei Fon (Argiletum, strada delle librerie), Campidoglio, via Botteghe Oscure fino all’angolo di via Paganica (portico di Pompeo).
LVI. (a. 55). Una scena da farsa. – Catone non è né il dottissimo Valerio (100-27 c.) né il severo Marco Porcio (95-46).
LVII. (a. 55). Mamurra e Cesare.
LVIII. (a. 58). A Celio. – Celio è uno degli amici fedeli (C.).
LVIIIa. (a. 55). L’introvabile Camerio. – Talo è il gigante di bronzo, donato da Vulcano a Minosse, che tre volte al giorno fa la ronda, ossia il giro completo di Creta; Pègaso è il cavallo alato; Lada un campione imbattibile del lungo stadio a Olimpia; Pèrseo ebbe da Mercurio i calzari alati per combattere contro Medusa; la bianca pariglia di Reso, re di Tracia, fratello di Ecuba, fu razziata da Ulisse, e Reso ucciso da Diomede.
LIX. (a. 55). La Rossa di Bologna.
LX. (a. 58). Cuore di belva.
LXI. (a. 59). Canto nuziale. – Da Tebe di Beozia chi va nel paese degli Aoni, che comprende il massiccio dell’Elicona (v. 1), arriva prima a Tespie (v. 28), di qui salendo verso il bosco delle Muse, sul versante settentrionale del monte, ha a sinistra la fontana della ninfa Aganippe (v. 30); nella grotta d’Aganippe abita Imenèo, il figlio della musa Urania (v. 2). Il santuario delle Muse presso Aganippe era stato da poco restaurato da Filetèro figlio di Eumene. – La sposa è chiamata Vinia (v. 16) e Aurunculeia (v. 86). Vinia è accostato al gentilizio dello sposo Manlius in maniera che direi ufficiale: il matrimonio è un patto d’alleanza tra due gentes, la Manlia e la Vinia. L’altro nome Aurunculeia è in un passo che esalta la bellezza della giovane donna, forse matre pulchra filia pulchrior; e Aurunculeia può essere stato il nome della madre della sposa. Questo è il più antico esempio noto di doppio gentilizio femminile. – La myrtus Asia (v. 22) cresce nella macchia intorno alla palus Asia celebre per i suoi cigni, nella valle del fiume Caìstro, che sfocia a Efeso. – Talasio (v. 134) è il grido nuziale italico, come hymén il greco: ne sono nati due dèi. – Un severo precettore plautino (Curc. 37-38) ci fa conoscere il codice morale del tempo: dum te abstineas nupta, vidua, virgine, iuventute et pueris liberis (cioè da persone che sono in manu d’altri), ama quid lubet. Queste sono le cose lecite a uno scapolo (vv. 146-147), ma all’uomo sposato non è permesso tenere il concubinus (w. 147-148). Il poeta, dice Catullo un’altra volta (XVI 5-6), il buon poeta (pius), è necessario che sia lui castus (puro, che s’astiene dalle cose quae non licent), ma non è necessario che siano casti i suoi versiculi.
LXII. (a. 59). Contrasto nuziale. – Venere, quando è stella della sera, Vesper (v. 1), tramonta a ponente: dunque adest non è «spunta», ma «appare, si vede », e «ci vede» e «assiste (benevolmente) alla nostra gara». Scende tramontando verso la cresta dei monti, che la nasconderanno tre o quattro ore dopo il tramonto del sole, dunque tollit vale «alto» (come si dice che «il sole è ancora alto»), non già in moto verso l’alto: che anzi è il contrario. L’Olimpo del v. 1 è il cielo, non il monte, distante almeno 150 km.; l’Età (v. 7) chiude la valle dello Sperchio, ch’è la scena del Contrasto: Venere tramonta dietro l’Età. – La tripartita verginità dei vv. 63–64 non è un concetto giuridico, ma un modo di dire, scherzoso, nuziale, e significa: «tu sei sola, e loro, i vecchi, sono due: quindi la decisione spetta a loro».
LXIII. (a. 56). Attis. – Senza titolo nei cdd; ma vedi la nota al LXIV. – Attis è un attis, ossia è destinato a essere un attis: e questo è uno dei due nomi tradizionali (l’altro era bataces: PLUT., Mar., 17) dei sacerdoti che governavano il santuario della Grande Madre di Pessinunte e prendevano il nome dal pastore amato dalla dea; ma Attis poi era stato amato da una ninfa, o da una donna mortale, e la dea gli aveva tolto il senno; Attis dissennato si spogliò della virilità, rinsavito cercò la morte, la dea lo mutò in pino. – Il monte Ida (vv. 2. 30. 52. 70) forma un’imponente barriera sul lato settentrionale del golfo di Edremid; era uno dei luoghi dove fioriva il culto della dea; ma il principale santuario era a Pessinunte in Galazia, nell’alta valle del Sangario, ai piedi del Dìndimo. – La religione ellenistica era principalmente costituita dal culto di Iside e Osiride Serapide (X 26) e dai culto della Grande Madre e Attis, nella torma che al primo, per incarico di Tolemeo I, avevano dato i teòlogi Timòteo, greco d’Eleusi, e Manetone, egiziano di Sébennos, e al secondo, per incarico di Lisimaco di Tracia, lo stesso Timòteo. Le testimonianze dei due culti a Verona sono numerose. Tra queste «teologie» orientali e i «riti» pubblici e privati romani non ci fu mai conflitto. – Attis parla alle Galle come a comites (v. 12), però parla di se stesso come dux: la parità è nella condizione di sacerdoti evirati della dea, la differenza nel grado, perché un attis è iniziato a un grado più alto. Le Galle, o Galli, prendevano il nome dalla nazione asiatica che aveva fornito molti adepti, cioè dai Gàlati (così chiamati dai Greci), che erano Galli e parlavano la stessa lingua dei Celti d’Europa. – Pasìtea (v. 43), una delle Grazie, che Giunone promise in moglie al Sonno (Il. 14, 269) e gli Alessandrini fecero moglie del Sonno.
LXIV. (– 54). Arianna. – Senza titolo nei odd (i titoli attestati sono umanistici). Ma gli epillii hanno, nelle citazioni antiche, un titolo, che quasi sempre è il nome della o del protagonista: Lydia di Valerio Catone, Zmyrna di Cinna, Io di Calvo, Glaucus di Cornificio, Ciris dell’Appendice Virgiliana. – L’impresa degli Argonauti si svolge nella seconda età degli «eroi» (w. 22-23a): vi prendono parte i cugini Giasone e Acasto e Nèstore figli dei fratelli Esone e Pèlia e Nèreo, i fratelli Telamone e Pèleo, figli di Èaco, i fratelli Tìdeo e Meleagro, figli di Èneo, Deucalione figlio di Minosse, e poi Ercole, Càstore e Pollùce, Anfiarao, Oìleo, Pirìtoo e qualche altro; non vi compaiono Ègeo e Àtreo, né Pèrseo, che si nomina tra gli avi d’Ercole. Questi domina, insieme con Pèrseo, tutta la terza età. Tèseo. figlio di Ègeo, dopo molte avventure, venne ad Atene, dove suo padre Ègeo, che l’aveva smarrito bambino, lo riconobbe (v. 217). Atene era in lutto, perché Minosse, il re di Creta, per vendicare il figlio Andrògeo ucciso dagli Ateniesi, esigeva il tributo di sette giovani e sette fanciulle (v. 77), che dava in pasto al Minotauro (figlio di Pasìfae, sua moglie, e del toro), chiuso dentro il Labirinto costruito da Dèdalo. Tèseo si sostituiva uno dei sette, innamorò di sé Arianna (figlia di Minosse e Pasifae, e quindi sorella uterina del Minotauro: v. 181), uccise il Minotauro, evase dal Labirinto seguendo il filo dàtogli dalla principessa (vv. 113-115), la rapì e puntò diritto su Dia, un’isola deserta a 20 miglia a nord di Cnosso. La mattina seguente Arianna si ritrovò sola nell’isola; e maledisse Tèseo. Ègeo aveva fatto partire Tèseo con una nave dalle vele scure (v. 227), facendogli promettere che, se fosse tornato sano e salvo coi compagni, avrebbe mutato le vele scure in bianche: Tèseo dimenticò anche questa promessa, e il vecchio, scorgendo le vele funeste, si gettò nel mare che prese da lui il nome di Egèo. Ma Tèseo non aveva dimenticato una terza cosa (che il buon Catullo volle invece dimenticare: v. 118): sulla nave fatale c’era la sorellina d’Arianna, Fedra; Tèseo, diventato re d’Atene, dopo la morte del padre, la sposò: e tutti sanno i guai che nacquero da quel matrimonio. Arianna ebbe miglior fortuna dell’infido amante: atterrò nell’isola Dia un tiaso volante di Bacco, che veniva da Nasso (una trasvolata di cento miglia). Il dio consolò l’abbandonata con un pesante diadema d’oro e col suo amore immortale, e quando, stanco delle terrene peregrinazioni, egli portò con sé Arianna nel cielo, quella corona divenne una splendida costellazione (LXVI 59-61).
Ritorniamo agli Argonauti. Le ninfe marine, figlie di Nèreo e Dòride, nipoti d’Oceano e Teti, salirono dal fondo per ammirare la prima nave; gli eroi ammirarono quelle bellezze «inumane» (v. 14); e il giovinetto Pèleo non ebbe occhi che per la più giovane delle Nereidi, Tètide. Ma difficoltà grandi si frapposero alle nozze, perché anche Giove voleva Tètide. Promèteo, incatenato sulla cima del Caucaso (vv. 294-297), conosceva un oracolo antico, che il figlio di quella ragazza sarebbe stato più forte del padre; lo rivelò a Giove, senza però rivelare il nome della donna. Giove in cambio del nome liberò Promèteo, e rinunziò a Tètide. Pèleo intanto, fuggito dalla patria Egina per aver ucciso in una rissa il fratello Foco, era diventato re in Tessalia, e là, nella reggia di Farsàlo, era distesa la coperta ricamata, che raccontava tutta la recente storia d’Arianna.
La nave Argò fu costruita da Argo, su disegni di Minerva (v. 8), a Pàgase, presso Volo, col legname abbattuto sul vicino Pelio (v. 1). Dallo stesso golfo di Volo era fuggito una volta Frisso, e aveva passato l’Ellesponto sull’ariete dal vello d’oro e sacrificato poi l’ariete e offertone il vello a Eèta, re dei Colchi (v. 3), di cui fu alla fine ospite e genero; la Colchide (ora Mingrelia) è la valle del fiume Fasi. Gli Argonauti andavano a riprendere il vello, per riportarlo a Pèlia, zio di Giasone, che vantava diritti su quel tesoro.
Il Penèo sbocca in mare tra l’Olimpo e l’Ossa; tra questi due massicci sono le Tempe, una deliziosa valle lunga otto chilometri. Prima d’imboccare le Tempe il Penèo tocca Larissa; e prima d’entrare nella pianura di Larissa, riceve da destra cinque grandi affluenti, che irrigano la Tessalia interna, ai piedi del Pindo: Cìeros è nel centro di questa pianura interna, Crannòne è nella pianura di Larissa, all’orlo dei monti che la separano dall’interna, Farsàlo è ai piedi del monte Kassidiaris: tra il Kassidiaris e l’Otris s’allargava l’alta valle dell’Enìpeo, il maggiore dei cinque affluenti: e queste sono le Tempe della Ftiotide (v. 35).
Ericina è la Venere di Èrice (Monte S. Giuliano, vicino a Trapani): v. 72. – La cultura minoica ebbe i suoi maggiori centri a Festo e Gortina, a sud dell’Ida di Creta, e a Cnosso (Candia). La tradizione seguita da Catullo faceva sbarcare Tèseo a Cnosso e collocava a Gortina la reggia e il Labirinto di Minosse (v. 75). — Cècrope fu il fondatore e il primo re d’Atene, Erètteo il sesto, Ègeo il nono, Tèseo il decimo (v. 83). — Europa, madre di Minosse, aveva un santuario presso Festo, dove le si dedicavano corone di mortella (v. 89). – Le lunghe catene del Tauro limitano a nord la Cilicia (v. 105). – I monti di Idomeneo (Catullo trascrisse il genitivo omerico Ἰδομενεῦς) sono i monti a sud di Cnosso. L’eroe Idomeneo, da cui prendono il nome, non è l’Idomeneo che guerreggiò a Troia, ma uno più antico (v. 174). – Il porto erettèo è il porto d’Atene (il Pirèo), così denominato dal sesto re (cfr. v. 83). –
La ferrugo Hibera (v. 227; cfr. VERG., Aen., 9, 582) è una porpora molto scura, fabbricata nelle fattorie fenicie della costa iberica, di color ferrugigno, di ruggine. – Itòno è il nome di due località, una in Tessalia e l’altra in Beozia, famose l’una e l’altra, ma più la beotica, per il culto di Minerva (v. 228). – Riano e altri dottissimi alessandrini raccontavano che Cloro il Pelasgo era stato padre di Emone, e questi di Tèssalo: di qui il nome della Tessalia e l’altro suo nome di Emonia. La parte della Tessalia in cui sorgevano Larissa e Crannòne, percorsa dal Pèneo prima delle Tempe, si chiamava Pelasgiotide. Le ninfe Λειμώνες (pratelline; il nome non è attestato altrove; SOFOCLE, Phil., 1454 νύμφαι Λειμωνιάδες) sono le più adatte a danzare le arcaiche danze del venturiero pelasgo sui verdissimi prati delle Tempe (v. 287). – Ècate (l’Artèmide che dà la morte di lontano) era particolarmente venerata in Caria: quivi era una città chiamata Idrias e soprannominata Hecatesia. Appare da Catullo (v. 300) che la montagna vicina (ora Shaban Dagh) si chiamasse Idros.
Emathia è propriamente il nome della pianura formata dal Vardar e dalla Vistritza (Axius e Haliacmon degli antichi); di là s’estese alla parte settentrionale della Tessalia. Il figlio d’Opi è Giove (v. 324). – A Pèlope (che aveva corrotto con la promessa d’un premio l’auriga d’Enomao, per vincerlo, e poi l’aveva pagato gettandolo in mare) era successo Àtreo, a costui il fratello Tieste e quindi il figlio Agamennone (v. 346). – Achille, invaghito di Polissena, la chiese a Priamo, promettendo in cambio la pace. Una saetta di Paride, guidata da Apollo, ferì Achille mentre si recava a firmare il patto. Achille, prima di morire, ordinò al figlio Pirro di sacrificare Polissena sul suo tumulo, quando gli Achei avessero preso Troia; Pirro ubbidì (v. 362).
La religione apollinea, di cui Delfi (nella Fòcide, ai piedi del Parnaso) fu il centro principale, accolse riti orgiastici di Bacco. Tìadi «le invasate (dal dio)» è un altro nome delle Mènadi o Baccanti (v. 390). – Il torrente Trìton si versava nella palude Copàide in Beozia. La dama del Trìton s’identificò con Pallade, nata dalla testa di Giove, perché un termine eolico τριτ ώ significava «capo». A Ramnunte in Attica presso Maratona, c’era una famosa statua di Nèmesi, la dea vendicatrice della tracotanza (L 20); la statua fu scolpita in un blocco di marmo pario, che i Persiani avevano portato con sé per farne un monumento alla loro vittoria (v. 395). – I divi Parentes sono gli spiriti degli avi, che a Roma erano onorati nei Parentalia. A Verona fioriva un culto locale dei di Parentes, attestato da numerose iscrizioni. Pare evidente che il culto romano si sia confuso a Verona col culto di dèi indigeni, che non avevano una sostanza teologica molto diversa dalle divinità romane (v. 404).
LXV. (a. 58). A Òrtalo. – Quinto Ortensio Òrtalo (114-50; console nel 69); vedi la nota al XCV. – A Dàulide nella Fòcide, a oriente del Parnaso, Tèreo portò Procne, che fu chiamata la «sposa di Dàulide»; poi Tèreo sforzò la cognata Filomela e le mozzò la lingua, per non essere accusato; Procne vendicò il tradimento di Tèreo, facendogli mangiare il figlio Iti (che Omero chiama Ìtilo, in una storia simile), quindi fu mutata in usignolo (v. 14). – L’elegia del Battiade (Callimaco di Cirene: vedi la nota al VII), tradotta da Catullo (LXVI), è la XVII del libro IV nell’edizione alessandrina degli Αἴτια. Alla fine del libro c’era l’elegia «Aconzio e Cidippe», che raccontava una storia dell’isola di Ceo. Aconzio, innamorato di Cidippe ch’è promessa a un altro meno gradito, incide su una mela ìa frase che, letta, costituisce un giuramento «Per Artèmide, sposerò Aconzio» (l’incontro era avvenuto a una festa d’Artèmide). Cidippe raccoglie il frutto, gettatole apposta da Aconzio, legge la promessa e si ritiene im pegnata. Nasconde il frutto in seno, rientra in casa turbata, siede a pensare; all’entrare della madre, balza in piedi e la mela rotola per terra. Alla fine i due si sposano. Da questa elegia di Callimaco viene la similitudine che chiude l’elegia a Òrtalo (v. 16).
LXVI. (a. 58). Un’elegia di Callìmaco’ La chioma di Berenice. – Berenice I, figlia d’Antìpatro e moglie d’un Filippo, da cui aveva avuto un figlio Magas, fu mandata dalla natia Macedonia in Egitto a sposarvi, vedova o separata che fosse, Tolemeo I figlio di Lago e fondatore della dinastia dei Làgidi, satrapo d’Egitto dal 323 a. C. e re dal 306. Da Tolemeo I ebbe Tolemeo II Filadelfo e Arsìnoe I. Intanto Magas, fatto re di Cirene, sposava Àpame figlia d’Antioco I di Siria, e ne aveva un’unica figlia, Berenice II, nata nel 273. E Tolemeo II Filadelfo sposava Arsìnoe II figlia di Lisimaco di Tracia, il quale a sua volta aveva sposato Arsìnoe I, nel 299 circa. Tolemeo II ebbe da Arsìnoe tre figli: Tolemeo III Evèrgete (che gli successe nel 247), Lisimaco II e Berenice III. Ma, rimasta vedova Arsìnoe I nel 281, Tolemeo II ripudiò la prima moglie (Arsìnoe II) e sposò la propria sorella (cioè Arsìnoe I, ch’era stata matrigna della prima moglie). Arsìnoe I morì senza figli, fu divinizzata col nome di Arsìnoe Afrodite, ebbe un tempio sul promontorio Zefirio a Canòpo (Abu Qir), in un quartiere abitato da Locri Epizefirii: costoro venivano da Locri d’Italia (Gerace), antica colonia dei Locresi di Grecia (regione di Lèpanto), fondata a nord d’un altro promontorio Zefirio (Capo Bruzzano); perciò Arsinoe I fu chiamata la Zefirìtide e la Locrese (v. 57).
Magas, non avendo figli maschi, voleva dare Berenice II in moglie a Tolomeo III Evèrgete. Àpame non era d’accordo, e, quando il marito morì nel 258, assunse la reggenza e promise la figlia a Demetrio il Bello figlio del Poliorcète; il Bello scese a Cirene e diventò l’amante della futura suocera. L’ardita Berenice II fece uccidere Demetrio, risparmiò la vita alla madre, e, per renderla innocua, sposò nel 246 l’Evèrgete, portandogli in dote ii regno di Cirene. Intanto Berenice III, che aveva sposato Antioco II di Siria, rimasta vedova, era spodestata e assassinata da un figliastro. L’Evèrgete, subito dopo le nozze con Berenice II, accorse a vendicare la sorella e si spinse vittorioso oltre l’Eufrate (v. 36). La novella sposa, al suo ritorno (dopo quattro anni), sciolse il voto che aveva fatto, di dedicare un suo ricciolo ad Arsìnoe Afrodite. Il giorno dopo, il ricciolo non c’era più. La situazione imbarazzante fu salvata dall’astronomo Conone di Samo; il quale nella carta celeste, che gli astronomi del Museo d’Alessandria tenevano aggiornata, trovò un ciuffetto di stelle al centro quasi dell’immenso quadrilatero formato dall’Orsa Maggiore, dal Bifolco o Boòte, dalla Vergine e dal Leone (vv. 65-68); benché qualcuno le aggregasse al Leone quelle stelline ne erano però così lontane e potevano benissimo staccarsi dalla grande costellazione, com’era stata staccata la Corona d’Arianna (vv. 59-61) dall’altra parte del Bifolco. Così avvenne che Conone segnò sulla carta il nome del nuovo asterismo e pregò l’amico Callimaco di spiegare ai sovrani com’erano andate le cose. Spiegò anche al poeta che, quando il grande quadrilatero s’abbassa verso l’orizzonte, la Vergine è la prima a tramontare, poi la Chioma, poi Boote, restando sempre l’Orsa, com’è noto, sopra l’orizzonte.
Allora Callimaco raccontò che il ricciolo, lavato e allisciato, era stato deposto nel tempio della Zefirìtide: quando, per ordine della dea, venne giù dal cielo, nella notte, il suo famiglio Zèfìro, in forma di cavallo alato (v. 54), prese il ricciolo ancora umido e lo portò sù alla sua signora; questa lo distese sulla volta del firmamento, dove gli dèi posano le loro sante vestigia (v. 69). Il ricciolo non è però contento del suo nuovo stato; vorrebbe ancora essere attaccato al caro capo della regina, abbeverarsi dei raffinati profumi che ora s’addicono alla dignità della donna maritata, lui che s’era accontentato fino a poco prima dei semplici unguenti adatti alle ragazze (v. 78); prega anzi la regina d’ottenere da Arsìnoe Afrodite la grazia di tornare sul suo capo; non capisce il gusto che hanno gli astronomi e gli dèi d’accrescere il numero delle costellazioni (v. 93); di tutta la luminosa famiglia e dei complicati rapporti astrali non gliene importa niente: per conto suo Orione (che tramonta quando la Chioma è allo zènit) e l’Aquario (che sorge quando la Chioma è vicina al tramonto), distantissime tra loro, possono anche toccarsi e fare una costellazione sola (v. 94).
Nel novilunio dicevano che la Luna se ne stava sul monte Latmo in Caria col pastore Endimione (v. 5). – La progenie di Tia (la Titanide, moglie d’Iperione), ossia il suo discendente o nipote, è Bòrea, come bene ha letto il Pfeiffer nella Suda (v. 44). – Catullo ha opportunamente lasciato fuori «l’obelisco di tua madre Arsinoe» del testo greco. L’obelisco è la lunga penisola del monte Athos, che apparteneva al regno di Tracia, di cui Arsìnoe I era stata regina nel 299, al tempo del suo primo matrimonio con Lisimaco di Tracia. Arsìnoe è et «madre» di Berenice, ossia suocera, in quanto seconda moglie di Tolemeo II Filadelfo, padre dell’Evèrgete e quindi suocero di Berenice. Il canale alla base della penisola fu scavato da Serse nel 480 (v. 45). – I Càlibi passavano per inventori della siderurgia, che una volta avevano esercitato in qualche parte del Ponto (v. 48). – Zèfiro era figlio dell’Aurora, come Mèmnone, di padre diverso (v. 53). – Callistò, figlia di Licàone, compagna di Diana, fu amata da Giove e quindi mutata da Diana in orsa e da Giove collocata nel firmamento (v. 66). – La canuta Teti (la Titànide, moglie d’Oceano) è il mare, in cui si nascondono le stelle durante il giorno, tra il loro tramonto e il loro riapparire (v. 70). – I vv. 79-88 mancano nell’edizione degli Aϊἵια. Callimaco li aveva scritti, si crede, per una precedente raccolta d’elegie, anteriore alla tormazione dei quattro libri degli Aἵτια. È probabile che Catullo abbia tradotto quei versi dalla redazione più antica.
LXVII. (a. 60). Dialogo del viandante e della porta. – Ghinea (v. 32) è la lezione dei cdd; Cycnea è congettura dei vecchi umanisti bresciani: senza spiegazione quella, senza fondamento questa. – Il Mella ora passa a ovest della città, ch’è traversata dal Garza; però il Garza, a 13 km. da Brescia, passa per Bagnolo Mella (denominazione non molto antica). È probabile che l’uno e l’altro fossero anticamente chiamati con lo stesso nome di Mella. Brescia fu capoluogo dei Galli Cenòmani, nel cui territorio fu compresa anche per qualche tempo Verona: dal punto di vista del Cenòmani bresciani, Brescia era «madre» di Verona. Il viandante veronese fa un complimento alla porta bresciana.
LXVIII. (a. 58). A Allio (vv. 1–40). L’elegia di Venere e delle Muse (vv. 41–160). – Sono due elegie in una. – Allio ora è sconvolto da un discidium, che l’ha separato (per poco) dalla sua donna (vv. 1-6. 27-29. 155). – Le Muse e Venere sogliono offrire al poeta i loro munera, o presenti, ch’egli può donare agli amici; accade che il poeta dica o confidi alle Muse qualcosa, e queste trasformino la confidenza in un munus, ch’è un canto, destinato a molti e a vivere sempre (vv. 10. 32. 45. 149). Altrove il poeta, di certi argomenti, allegri e gentili, parla a Venere (VI 17; XLV 20), che ne gode; ed egli li «chiama al cielo». S’intende che quanto si dice alle Muse si dice a Venere, e che le Muse ascoltano ciò che a Venere si dice. – La catena dell’Eta si prolunga a formare la costa meridionale del golfo Maliaco; nel punto più stretto, tra il monte e il mare, ci sono le Porte Calde, ossia Termòpile, così chiamate dalle sorgenti d’acqua calda, che là sgorgano numerose (v. 54). – Laodamia, figlia d’Acasto, uno degli Argonauti, e Protesilao, anch’egli tèssalo e re di Fìlace, dovevano sposarsi, quando Protesilao fu chiamato in Aulide, sulla costa beotica di fronte all’Eubea, di dove gli Achei s’apprestavano a partire per la Troade. L’ardente passione di Laodamia volle consumate le nozze prima che tutti i riti e i sacrifici fossero compiuti (v. 79). Protesilao partì (come Tolemeo Evèrgete: LXVT 13–14) la mattina dopo la prima notte, ma avendo avversi gli dèi: fu infatti il primo caduto, per mano d’Ettore, sotto Troia. Protesilao ottenne di tornare dagl’Inferi alla sua casa per poche ore; quando dovette tornare laggiù, Laodamia lo volle seguire (v. 74). – Lo sterminio degli uccelli antropofaghi di Stinfàlo, una palude in Arcadia a sud del monte Cillène, fu la quinta delle fatiche d’Ercole, il creduto figlio d’Anfitrione; la palude presso Fineo (che forse è la stessa palude stinfalia) fu prosciugata da Ercole con giganteschi scavi di drenaggio (v. 109). – Themis è la giustizia; vuol dire che il torto ricevuto da Allio sarà riparato (v. 153).
LXIX. (a. 55). Il primo fetente.
LXX. (a. 58). Parole al vento.
LXXI. (a. 55). Il secondo fetente.
LXXII. (a. 58). Ora ti conosco.
LXXIII. (a. 58). Far del bene è far niente.
LXXIV. (a. 58). Gellio. – Arpòcrate (egiz. Har-pe-xret «Hor il bambino»), figlio d’Osiride (Serapide) e Iside, nel sistema teologico di Manetone (si veda la nota al LXIII); era rappresentato come un fanciullo che porta alle labbra l’indice destro.
LXXV. (a. 58). Voler bene e amare.
LXXVI. (a. 58). Agli dèi.
LXXVII. (a. 58). Rufo, l’amico nemico.
LXXVIII. (a. 58). Lo zio imprudente.
LXXVIIIa. (a. 58). Gellio.
LXXIX. (a. 58). Lesbio. – Lucio Claudio Pulcro, nato nel 93, adottato da Publio Fonteio, prese il nome di P. Clodio Pulcro; tribuno nel 58, ucciso da Milone nel 52; fu accusato d’incesto con la sorella Clodia (Claudia II, nata nel 94), che fu la Lesbia di Catullo. Clodia fu la quarta figlia e Clodio il quinto figlio, dei sei che Appio Claudio Pulcro (console nel 79) ebbe da Cecilia Metella.
LXXX. (a. 58). Gellio.
LXXXI. (a. 55). Giovenzio.
LXXXII. (a. 55). A Quinzio.
LXXXIII. (a. 60). La prova che m’ha in cuore.
LXXXIV. (a. 55). La pronunzia d’Arrio. – Quinto Arrio era un arrampicatore sociale; avvocato di secondo ordine, si guadagnò la fiducia di Crasso (CIC., Brut., 242), e partì con lui per la Siria. Sapeva che aspirare certe parole «faceva fino», e aspirava a sproposito; e quando volle dire, con aristocratico grecismo, che i flutti ’IóÌιοι (Ionii) erano stati χιόνεοι «tempestosi», combinò un pasticcio che non era più né greco né latino.
LXXXV. (a. 58). Odio e amo.
LXXXVI. (a. 59). Confronti con Lesbia.
LXXXVII. (a. 59). Fedeltà e amore.
LXXXVIII. – XCI (a. 58). Gellio. – I matrimoni tra consanguinei, genitori e figli, fratelli e sorelle, erano ammessi dai Magi, sacerdoti mazdei, secondo l’idea che se ne facevano gli occidentali; dall’unione di Gellio con sua madre non può nascere, dice Catullo (XC), che un magus, o, come dicono ora, un mòbed.
XCII. (a. 60). La prova che m’ama.
XCIII. (a. 55). A Cesare.
XCIV. (a. 55). Il ganzo si fa la ganza. – Per il soprannome di Mamurra vedi XXIX 13.
XCV. (a. 56). La Zmyrna di Cinna. – Nell’88 a. C. tre giovani, Lucullo (il futuro generale), Ortensio (il futuro oratore) e Sisenna (il futuro storico), ventisei anni per ciascuno, fecero scommessa che avrebbero steso, seduta stante e senza interrompersi, la storia della guerra màrsica, in verso o in prosa, in greco o in latino, a sorte di dadi: la prosa in greco toccò a Lucullo, la prosa in latino a Sisenna, i versi in latino a Ortensio (PLUT., Luc., 1, 5; VELL., 2, 16, 3; Ov., trist., 2, 441). – Secondo Catullo, Volusio si contrappone a Cinna, come al delicato e dotto Fileta il tronfio Antimaco: che può essere quello di Teo, poeta «ciclico», o quello di Colofone, autore d’una Tebaide in ventiquattro libri e precursore dell’elegia alessandrina col poema elegiaco intitolato Lide. – Catullo, in estetica, era, credeva d’essere, un «progressista», alla moda alessandrina di tre secoli innanzi: il suo populus (v. 10) è della razza dei Telchini di Callimaco, dei Philister del Heine e degli studenti tedeschi del Settecento, del borghese moderno.
XCVI. (a. 55). Le elegie di Calvo. – Calvo aveva pubblicato un libro di elegie erudite, dedicandolo alla memoria della moglie Quintilia (nota al X); in quel tempo anche Partenio, vedovo da poco, pubblicò in greco un’opera dello stesso genere.
XCVII. (a. 55). Il terzo fetente
XCVIII. (a. 55). Il quarto fetente.
XCIX. (a. 55). Giovenzio.
C. (a. 55). Auguri a Celio.
CI. (a. 56). Al fratello.
CII. (a. 66). Segreto. – Vedi nota al CVIII.
CIII. (a. 55). Silone.
CIV. (a. 59). Tu con quel Buffone.
CV. (a. 55). Bischero monta il monte. – Pimpla o Pipla era un borgo e una fonte sulle pendici meridionali dell’Olimpo, nella Piena macedone; le Muse avevano là una delle loro sedi.
CVI. (a. 55). Il ragazzo e il banditore.
CVII. (a. 59). Tu ritorni a me.
CVIII. (a. 65). A Cominio. – Gaio Cornelio, tribuno nel 66, era stato accusato de maiestate (turbamento dell’ordine pubblico) da un Publio Cominio, spoletino, cavaliere romano e oratore di parte conservatrice; Cornelio pagò una squadra di specialisti in dimostrazioni popolari «spontanee», che il giorno del processo minacciarono di morte l’accusatore; inoltre pagò l’accusatore perché lasciasse cadere l’accusa. L’ingenuo Catullo, in mezzo a questi maneggi, venne a conoscere qualcosa che l’amico Cornelio gli raccomandò di non rivelare; Catullo rassicurò l’amico con due distici (CII), i più antichi dei versi conservati nel Libro. L’anno dopo Cominio ripresentò l’accusa; e questa volta il progressista Cornelio ricorse al miglior avvocato del tempo, Cicerone, conservatore ma avvocato, che lo difese e lo fece assolvere. Catullo, indignato contro Cominio, gli augurò quel linciaggio a cui era sfuggito la prima volta (CVIII); Cominio, oratore dei boni, ossia dei conservatori, accettò con buona grazia l’opposizione di Cicerone, ma senza dubbio rimase sbalordito quando lesse nei versi del ragazzo veronese che la sua lingua era definita inimica bonorum. Le idee politiche di Catullo erano deplorevolmente confuse.
CIX. (a. 59). Amore eterno.
CXII. (a. 55). Nasone.
CXIII. (a. 55). Semenza feconda. – Mucia, moglie nel 70 del console Pompeo, aveva allora due amanti (uno era Cinna); ora ne ha duemila (e quindici anni di più).
CXIV. (a. 55). La ricca tenuta del povero Bischero.
CXV. (a. 55). Bischero grandissimo proprietario.
CXVI. (a. 58). Gellio. – Il Battìade, Callìmaco: vedi la nota.