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Una città ostile

Sul Belvedere

1513, 1 dicembre. Qui a piè si faranno richordo di tutti i lavori fatti fare da m. Giuliano Lenno in palazzo e altrove, veduti questo di primo di dicembre 1513 per maestro Rinieri da Pisa e m. Bartolomeo Marinari e per me Francesco maguloti. Cose sanno a fare in Belvedere nelle stanze di m. r Lionardo da Vinci. Uno tramezo di tavole d’abete lungo palmi 20 e alto p. 20 sono canne 2 vagliono a K. 20 d. 8.

El solaro lungo palmi 20 e largo p. 10 sono canne 2 vagliono K. 20 d. 4

Per tramutare una finestra e alzarla d. 2

Amatonato sopra detto solaro e fatte 1 finestra et e lungo p. 35 e largo p. 20 cioè ammattonato sono canne 7 vagliono a K. 10 d. 7

Uno tramezo della cucina di tavole d’abete e uno armaro lungo p. 20 e alto p.10 sono canne 2 che vagliono a K. 20 d. 4

Per 5 finestre d. 10… d.10

Per 4 tavole dalbuccio da mangiare con trespoli vaglino d. 6

p. 3 palchetti d.1

p. 1 cassone d. 3

p. 8 sgabelli d. 4

p. 3 panche da sedere d. 3

p. uno cerrignolo d. 1

p. uno tramezzo facto d’asse lungo p. 36 e alto p. 23 vale d. 25

per uno banco da macinare colori d. 1.1

Non è proprio un castello l’appartamento che accoglie Leonardo da Vinci sul Belvedere vaticano. Ci deve vivere con i suoi assistenti, Melzi, Salai, Lorenzo e il Fantoja, con i quali si è messo in cammino da Milano «addi 24 settembre 1513», come annota lui stesso sul Codice Atlantico. Il palmo romano misura circa 22 centimetri e la canna è uguale a 10 palmi. È facile dunque ricostruire le dimensioni dell’alloggio che accoglie l’artista. L’ambiente più grande, certamente il laboratorio, è lungo 8 metri e alto 5, uno stanzone dove prendono posto le casse zeppe di libri che Leonardo si trascina dietro da anni senza riuscire a concluderne nessuno e le sue tre tavole incompiute. Più altri dipinti di cui non conosciamo il soggetto, a cui lavoravano gli assistenti con l’aiuto del maestro. La cucina è alta appena 2,20 metri e non più lunga di 3. L’arredamento è sobrio, le tavole per mangiare con i trespoli, la panca, il cassone e, naturalmente, ciò che ci colpisce e ci incanta è il «banco per macinare i colori». Le intenzioni sono buone, Leonardo arriva con la voglia di finire le sue pitture e dare ai due amati collaboratori Melzi e Salai un’occasione per continuare la loro attività. L’alloggio tuttavia è davvero miserabile, considerato poi che è collocato nella zona più appartata del Vaticano. La stima dei lavori fatta da Giuliano Leno, uno degli appaltatori di fiducia del papa, ci racconta meglio di ogni altro documento la condizione di Leonardo alla corte romana. Il Belvedere, la palazzina costruita da Sisto IV nel punto più alto della collina vaticana, è molto lontano dal centro vivo della città. Qui era stata sistemata la collezione di sculture di Giulio II, che aveva poi chiesto a Bramante di collegare l’edificio «di svago» ai palazzi più a valle adiacenti alla basilica di San Pietro. Bramante aveva concepito il collegamento come una grandiosa quinta teatrale su tre ordini, disegnata in perfetto stile antico per impressionare gli ambasciatori e i pellegrini, subito nota come il «Corridore di Belvedere». La costruzione era appena cominciata all’arrivo di Leonardo e nel 1514 procedeva, lenta ma stupefacente, nella parte orientale del cortile. Da un disegno del Dosio risalente proprio a quegli anni possiamo verificare che il lato meridionale del grande cortile superiore era stato edificato mentre quello settentrionale era ancora aperto sulla collina, dove vigne e giardino dei semplici si alternavano prima di cedere il passo ai boschi di castagno e lecci, che si inoltravano fino ai laghi vulcanici del viterbese e al mare di Civitavecchia.

Gli appartamenti dove alloggia Leonardo sono dunque collocati ai margini della città, in un’area periferica semirurale. Perfetta per la caccia e la uccellagione e per coltivare le nuove specie di piante importate dall’America ormai con una certa regolarità. Quel poco che è stato edificato viene considerato come la prima vera risurrezione dell’architettura «antica» ed è già sufficiente a fare da quinta alle spettacolari rappresentazioni teatrali della corte pontificia. Negli anni successivi il corridoio bramantesco diventa il teatro che ospita tornei cavallereschi, corse di bufali, giostre di abilità e, sembra, perfino battaglie navali. In quell’immenso cantiere erano anche i laboratori di artisti e artigiani, che producevano direttamente per il papa oggetti che non era facile trovare nelle botteghe oltre il Tevere. Documenti più generosi risalenti a trent’anni dopo l’arrivo di Leonardo a Roma, sotto il pontificato di Paolo III Farnese, ci attestano che in Belvedere si confezionavano articoli raffinati come i guanti di feto di vitello e cuscinetti odoriferi di cui la corte papale sembrava non poter fare a meno. Le misure registrate dalla stima rivelano tutta la modestia della casa-laboratorio assegnata a Leonardo, modestia confermata anche dalla sobrietà del mobilio: sgabelli semplici nella cucina, il cassone, le tavole di albuccio per mangiare.

Poi c’è il «banco per macinare i colori», uno strumento che non lascia dubbi sulle speranze di Giuliano dei Medici e sui motivi che lo avevano spinto a chiamare Leonardo a Roma. Benché il vecchio protetto di suo padre sprezzasse la pittura e si dedicasse con molta più passione alla matematica e alla scienza empirica, tutto il mondo voleva solo che lui dipingesse. Il banco per macinare i colori, poi, sembra uno strumento all’altezza di una industriosa bottega piuttosto che di un atelier d’artista del secondo decennio del secolo, quando era più agevole comprare dagli speziali i pigmenti. Dall’inventario dello studio di Sebastiano del Piombo, redatto vent’anni dopo, ricaviamo che questo «banco» era stato sostituito con una semplice pietra di porfido per macinare saltuariamente colori che erano comprati già confezionati dagli speziali. Anche l’attività professionale del pittore si andava velocemente separando dalla bottega medievale, dove venivano approntati i materiali necessari alla pittura. I pigmenti più raffinati venivano importati già pronti e smerciati in alcune città del Nord come Ferrara, dove Michelangelo manda a comprare i lapislazzuli provenienti dall’Oriente. Leonardo si trascinava ancora dietro il «banco» perché anche della pittura amava la sperimentazione formale e materiale, come vedremo.

L’arrivo a Roma con ogni evidenza non si presenta come trionfale. L’appartamento è più che modesto, il luogo appartato, per non dire remoto, e la paga o provvisione che Giuliano fa versare dai suoi banchieri a Leonardo per il mantenimento della sua piccola famiglia non è certo ricchissima, appena trentatré ducati d’oro. Una pensione rispettabile ma non ricca. Non confrontabile certo con i guadagni degli altri artisti alla moda, ma neppure con quelli di un buon pittore, capace di guadagnare in un anno tre volte tanto: tre anni dopo, per una sola tavola dipinta, Sebastiano del Piombo chiederà una somma di mille ducati. Insieme alla richiesta di pitture, testimoniata dal banco per macinare i colori, Giuliano incarica Leonardo di costruire armature per il suo guardaroba o, cosa più certa, di progettare armature che avrebbe dovuto poi realizzare un artigiano tedesco, un certo Giorgio (o Giovanni) degli Specchi, sotto la sua direzione. Una incombenza che provocherà molti fastidi a Leonardo e che ci aiuta a definire il ruolo modesto e gli incarichi tutt’altro che prestigiosi svolti per Giuliano.

Come aveva fatto per il resto della vita, Leonardo si mostra indifferente alle aspettative dei suoi protettori e intraprende immediatamente ricerche che non hanno niente a che fare con la pittura e la metallurgia. I disegni di quegli anni non lasciano dubbi sul fatto che si impegni subito in una serie di esperimenti e di studi molto vari. Ma il vecchio artista, ingegnere, musico, patologo e matematico, per descrivere solo sommariamente le attività che lo impegnano a Roma, si è conquistato ormai una fama di tale eccellenza da poter chiedere una libertà e una condizione ai suoi protettori che sarebbe stata inconcepibile a tutti gli altri.

Lasciando da parte Vasari – che di quel soggiorno restituirà un’immagine quasi offensiva del genio, segnalato a giocare con ramarri trasformati in draghi e vari capricci da saltimbanco –, per capire quali furono gli interessi coltivati da Leonardo in quel periodo bisogna seguire i frammenti di documenti da lui stesso lasciati nel Codice Atlantico e, cosa sempre utilissima, i pettegolezzi che presto lo circondarono. Riprese il sezionamento di cadaveri, suscitando lo sdegno di invidiosi scienziati di corte, che ammorbarono il papa con allarmi sulla liceità di quegli esperimenti. Ma non era la sezione anatomica a preoccupare il papa, perché la pratica era tollerata da decenni in Italia, le sedute di sezione anatomica erano spesso pubbliche e lo stesso Michelangelo ne aveva condotte molte nell’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, guastandosi l’appetito, come ebbe a dire, per sempre. Queste sedute anatomiche degli artisti erano però finalizzate a una migliore resa della rappresentazione del corpo umano in pittura e scultura. Invece Leonardo non sezionava certo con questo fine i cadaveri degli uomini e, fatto molto insolito per un artista, degli animali. Le finalità degli studi anatomici condotti da Leonardo a Roma erano completamente diverse da quelle fatte da chiunque altro in quegli anni e molto allarmanti per l’autorità pontificia. Leonardo cercava nel corpo umano la sede dell’anima, aspettandosi di trovare un sito tra uteri e vesciche, cuori e cervelli, dove collocare l’entità di cui tutti parlavano tra congetture filosofiche e speculazioni teologiche.

Abituato alle corti laiche, dove la curiosità e la scienza empirica erano considerate sicuro veicolo di progresso, il vecchio artista faticava a capire il mondo in cui era approdato alla bella età di sessant’anni e la natura stessa di quella specialissima corte raccolta intorno al successore di Pietro. Vedeva feste tenute dalle cortigiane che governavano Roma come principesse. Lui che aveva amato tanto le feste e ne aveva ideato di memorabili, come quella organizzata nel 1489 a Milano per le nozze di Giangaleazzo Sforza e Isabella d’Aragona, non capiva perché le feste più sfrenate di Roma si tenessero nelle case dei cardinali quando non nello stesso palazzo apostolico. Non capiva come mai le case di questi cardinali fossero arredate con dipinti di esplicito contenuto erotico e perfino, in una stanza da bagno di cui tutti parlavano, trionfava Venere nuda con i suoi amori felici.

Eppure in questa Roma dai costumi così liberi cominciava a serpeggiare, spinto dal vento del Nord, il fastidio e l’insofferenza per la condotta dei prelati di ogni ordine e grado. Ma nelle vicinanze della basilica di San Pietro nessuno sembrava accorgersene. Ospiti di grande prestigio intellettuale come Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro e Martin Lutero avevano visitato quella incredibile «corte delle corti», rimanendone turbati e ammirati al tempo stesso, e affidando le proprie riflessioni critiche a libelli come l’Elogio della follia, che avevano fatto il giro dell’Europa in pochissimo tempo, attizzando l’incendio della Riforma che comincerà a divampare di lì a poco.

Il 31 marzo 1515, mentre Leonardo risiedeva in Belvedere, Leone X approvò gli accordi finanziari stipulati dall’arcivescovo di Magonza con il banchiere Fugger per la vendita delle indulgenze in Germania. Il ricavato doveva servire alla costruzione della nuova basilica di San Pietro, ma agli occhi di molti serviva anche a mantenere le cacce del papa nella villa della Magliana e il broccato rosso intarsiato d’oro bordato di pelli di lince con il quale il nipote del pontefice, Lorenzo, si era fatto ritrarre da Raffaello Sanzio. L’artista aveva dato in quel ritratto una delle prove più alte dell’arte celebrativa e mondana, restituendo insieme alla forza vitale del giovane un carattere eroico, predisposto al dominio, che stando alle cronache storiche forse il modello non ebbe mai.

Ma questo ai contadini tedeschi interessava poco. Coglievano l’aspetto più inquietante della propaganda papale, faceva scandalo il tenore lussuoso e libertino della corte di Roma e le critiche si articolarono ben presto in una revisione dei fondamenti della devozione cattolica e della sua gestione istituzionale. Il 31 ottobre 1517, ventuno giorni esatti dopo la visita del gaudente cardinale d’Aragona a Leonardo, queste critiche presero corpo sul portone della Schlosskirche di Wittenberg sotto forma delle 95 tesi contro le indulgenze e la Chiesa di Roma, scritte dal monaco agostiniano Martin Lutero. Divampò da quel giorno la lotta sanguinosa che dividerà i cattolici d’Europa. Gli osservatori delle corti europee di stanza a Roma cominciarono presto a criticare il lusso sfrenato di Leone X e di suo fratello Giuliano in particolare, che ricordava troppo da vicino la corte dei Borgia, il cui ricordo era ancora molto vivo in Italia. Il contesto sociale e diplomatico diventato di nuovo sensibilissimo ai comportamenti della corte papale è illuminato dalla critica che l’ambasciatore veneziano a Roma rivolge al tenore di vita esibito dal protettore di Leonardo nei mesi in cui ospita l’artista: Giuliano dei Medici «stà con più corte e pompa lì in Roma che non steva il duca Valentino al tempo di Papa Alessandro».2 E dire che certo non poteva scandalizzarsi troppo facilmente per le pompe eccessive l’ambasciatore di uno Stato come quello di Venezia, che aveva fatto del lusso una regola di vita.

Leonardo, abituato a essere parte di corti sfarzose, non aveva nessuna riserva etica o politica verso i suoi protettori, perché l’unica cosa che davvero lo interessava erano i suoi studi e le sue sperimentazioni, e non si accorse che a Roma, dove il potere era di natura spirituale e non dinastica, quelle stesse sperimentazioni erano destinate a invadere il campo dell’etica, della filosofia e della teologia, che chiedeva con forza alla fisiologia di confermare e non di smentire i principi ricavati dalle Sacre Scritture. Purtroppo per Leonardo, il periodo romano coincide con il momento di massimo interesse dei teologi per la fisiologia e senza troppa prudenza lo scienziato si avvia nell’intricato mistero fisiologico che regola la creazione e la nascita della vita. Il campo minato in cui si avventura è quello della immortalità dell’anima, diventato centrale nelle controversie teologiche e filosofiche proprio in quegli anni. Aristotele aveva stabilito un’immanenza dell’anima legata alla fisiologia del corpo e la sua mortalità con la cessazione delle funzioni organiche. San Tommaso, che aveva formulato autorevolmente un’opposizione alla teoria aristotelica, aveva invece stabilito che l’anima era immortale poiché era Dio a infondere miracolosamente l’anima razionale al nascituro alla fine del processo di sviluppo nel ventre materno. Negli anni romani, quindi, Leonardo si avvicinava troppo pericolosamente a quel ventre materno su cui i teologi pretendevano di avere l’esclusivo e pieno controllo. Si addentrava nello studio del processo di formazione e gestazione del nascituro, arrivando a stabilire che non può esservi vita nel feto separata da quella della madre, perché i polmoni non possono respirare immersi nel liquido amniotico. È la madre a infondere la vita al bambino, con il respiro, alla fine del processo di gestazione. Almeno questo è quanto si ricava dalle note accanto ai disegni che l’artista eseguì per illustrare e scandagliare il meccanismo della vita prenatale, arrivando proprio grazie a quei disegni dove pochissimi, forse nessuno era arrivato prima di lui.

Comparando i feti di neonati morti prematuramente con quelli dei vitelli e degli altri animali, Leonardo si era addentrato molto in profondità nei meccanismi di nutrizione del feto attraverso la placenta materna. Ancora una volta i suoi disegni lasciano allibiti per la precisione e la correttezza dei dettagli, soprattutto quando si pensa che non poteva disporre né di microscopio né di strumenti speciali adatti alla vivisezione degli organi molto complessi. Individuava la struttura dei cotiledoni e dei diversi strati della placenta e cercava di capirne il funzionamento: «Studiando la placenta (l’organo che congiunge il feto alla madre) era giocoforza che Leonardo si occupasse del rapporto tra madre e feto, e non solo del rapporto fisiologico tra i loro due corpi ma anche di quello tra le loro anime».3 Da altre note si ricava anche il sarcastico distacco di Leonardo nei confronti delle verità teologiche, alle quali egli non era interessato in quanto disciplina ma che riteneva non potessero entrare in collisione con l’evidenza mostrata dalle sperimentazioni. Nel foglio W. 19115r Leonardo aggiunge un commento al rapporto tra anima della madre e animo del nascituro: «E il resto della definizione dell’anima lascio nella mente de’ frati, padri de popoli, li quali per ispiritata azione san tutti li segreti».4

Questo tono ironico e insofferente verso le verità teologiche racchiude perfettamente il rapporto che ebbe Leonardo con la teologia nel corso di tutta la sua vita, un rapporto di indifferenza perché non c’era niente da scoprire o da provare in quella disciplina, in quelle verità pomposamente annunziate, mentre lui era attratto soltanto da ciò che poteva essere compreso, svelato e spiegato empiricamente. La teologia era una scatola vuota per Leonardo, si prendeva o lasciava senza aprirla ed egli non l’aprì mai, almeno fino a quando non vi inciampò accidentalmente. Tutto sembrava libero e concesso a Roma e tutto lo era stato fino a quegli anni anche nella filosofia, al punto che alcuni grandi intellettuali si spinsero ad affermare pubblicamente idee di derivazione aristotelica che mettevano seriamente in discussione la teologia di san Tommaso. E questo un uomo come Leone X, che aveva ogni interesse a rafforzare il dominio spirituale della Chiesa per poter rafforzare il dominio materiale della propria famiglia, non poteva permetterlo. E non lo permise. Invece di censurare i costumi a dir poco efferati della corte e dei parenti, censurò con una bolla le eccessive libertà della speculazione filosofica. Nel dicembre 1513 Leone X emanò la Apostolici Regiminis nell’ambito del Concilio Laterano V, con la quale «condannava come “detestabile set abominabiles haereticos et infedele” i filosofi che sostenevano la tesi della mortalità dell’anima e ribadiva, tra l’altro, che l’anima non derivava dalla materia ma era creata da Dio e infusa nel corpo, un argomento che aveva spesso coinvolto, nelle discussioni dei filosofi, l’embriogenesi e la generazione».5 Ce n’era abbastanza perché il rigore scientifico e l’ostinazione di Leonardo diventassero fastidiosi per il suo ospite e lo rendessero vulnerabile alle critiche, che presto lo costrinsero a interrompere questi studi.

Di queste critiche e di queste censure abbiamo una documentazione certa attraverso la lettera che Leonardo indirizza a Giuliano dei Medici per protestare contro la limitazione della sua libertà. Con un candore di vecchio bambino, Leonardo neppure capisce quali interessi le sue ricerche e i suoi esperimenti vadano a intaccare e si lamenta delle censure rivolte dal papa ai suoi studi anatomici. Inizialmente le tratta come una noiosa interferenza al proprio lavoro, al pari della ghiottoneria e dell’avidità, della furbizia di quel maestro tedesco che nel 1515 risultava come suo assistente, pagato da Giuliano dei Medici sette ducati al mese per fabbricare le armi per il guardaroba e che invece a spese di Leonardo fabbricava specchi venduti alle fiere. La teologia e la scienza si mescolano alla lista della spesa, come sempre nella vita di Leonardo, che non riesce a tenere separati gli ambiti delle sue attività, rimanendone continuamente sopraffatto. La lettera è scritta per tre volte in tre diverse versioni sui fogli del Codice Atlantico (f. 671r, f. 768 r)6 e questa circostanza conferma l’importanza che ebbe per il vecchio artista la vicenda, la sofferenza che gli procurò e nello stesso tempo la timidezza che lo prendeva quando si trattava di rivolgersi al protettore. La lettera colpisce per la sua struttura linguistica e logica poco razionale, per la sequenza molto confusa di pensieri, tanto da renderne difficile la comprensione. Sembra incredibile che un uomo abituato ad annotare migliaia e migliaia di pagine da decine di anni trovi così difficile indirizzare una lettera al proprio interlocutore. Se si comparano le lettere che in questi stessi anni (siamo intorno al 1515) scrivono artisti molto meno dediti di Leonardo alla scrittura, come Michelangelo, Sebastiano del Piombo e lo stesso Raffaello, non può non colpire la mancanza di comunicativa e di struttura della missiva. Un carattere sul quale nessuno degli esegeti di Leonardo ha voglia di soffermarsi, ma che pure ha un valore testimoniale enorme per capire la sua complessa struttura mentale, più ancora del senso e della motivazione che la sottendono. Sembra quasi che lo studioso, perennemente immerso nel dialogo interno con se stesso, con un alter ego eletto come interlocutore delle sue riflessioni scientifiche, sia preso dal panico quando deve comunicare una sequenza logica di pensieri a un interlocutore reale. Una forma di disadattamento alla realtà che lo accompagnò per tutta la vita, perché se ne trova traccia in tutte le (rare) lettere che prese a scrivere ai suoi protettori.

La lettera documenta anche il disagio di Leonardo alla corte romana e la sua emarginazione sociale, una solitudine che rappresenta una condizione psicologica costante nella sua vita. La sequenza di accuse contro questo molesto assistente oscilla tra il misero rimprovero di piccole furbizie e truffe sul lavoro e la denuncia delle invidie sollevate dai suoi studi. Leggendo le diverse stesure, si fa molta fatica ad accostare un tale artigiano di bassissima condizione all’artista adorato di lì a un anno dal re di Francia. I mondi di Leonardo e degli artigiani appaiono oggi ai nostri occhi distanti e separati, ma il documento suggerisce il contrario, attesta una condizione sociale e materiale al limite della sopportabilità. Secondo Leonardo, questo «ingannatore tedesco»

andava a mangiare colla guardia dove oltre allo star due o tre ore a tavola ispessissime volte il rimanente del giorno era consumato coll’andare collo scoppietto ammazzando uccelli per queste anticaglie… Vedendo io costui rare volte stare a botteghe e che consumava assai, io li feci dire che se li piacea, che i’ farei co’ lui mercato di ciascuna cosa che lui facesse, e a stima e a tanto li darei quanto noi fussimo d’accordo. Elli si consigliò col vicino e lasciolli la stanza vendendo ogni cosa e venne a trovare… Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col papa biasimandola e così allo spedale, e empiè di botteghe da specchi tutto questo Belvedere o lavoranti, e così ha fatto nella stanza di maestro Giorgio… Non posso per via di costui far cosa segreta, perché, quell’altro li è sempre alle spalli. Perché l’una stanza riesce nell’altra.7

Il documento ha una brutalità perfino iconoclasta nel tratteggiare l’immagine del genio alle prese con le miserie di una vita in comune con artigiani e lestofanti che passano il loro tempo a caccia di uccelli «per queste anticaglie». Il tono apertamente dispregiativo verso le vestigia romane segnala la differenza tra la considerazione che generalmente i contemporanei mostravano verso quella civiltà che tentavano di far rinascere, puntando in questa rinascita tutti i loro sforzi, e Leonardo, che puntava i suoi dove i romani non erano ancora arrivati. Una indifferenza al mondo antico già segnalata dai grandi studiosi ottocenteschi dell’artista. La descrizione che Leonardo fa delle proprie difficoltà adombra una condizione insopportabile per lui, spiato e infine costretto a interrompere le sue ricerche anatomiche senza che se ne capisca bene il motivo, senza che lui capisca perché sia circondato da tanta ostilità. I laboratori e le officine della corte vaticana sono angusti e privi di discrezione e gli artigiani sono obbligati al controllo reciproco. Ma è possibile che Leonardo dovesse condividere una tale condizione? Dovesse convivere con fabbricanti di specchi e guanti in una promiscuità così volgare? Risulta evidente la mancanza di considerazione e di rispetto per il talento del genio, soprattutto se lo confrontiamo alla condizione dell’artista principe della città, Raffaello, che stava già costruendosi un palazzo tutto per sé e per la sua corte. Per quanto la nostra ottica sia alterata da due secoli di esaltazione mitica dell’artista, i documenti non lasciano via di scampo al riconoscimento di una realtà che smentisce ogni leggenda: la condizione in cui vive Leonardo a Roma è una condizione di marginalità, conseguente al fatto che i suoi servigi risultavano inessenziali alla corte. Lo stesso Giuliano sembra più sopportare che stimolare i suoi studi, confermando l’ipotesi che dal vecchio artista si aspettasse soprattutto un dipinto e non le ricerche sull’embriologia.

Se la lettera, quindi, non si può confrontare con quelle che scrivevano nello stesso anno Michelangelo e Raffaello, ancor meno si possono confrontare le loro condizioni esistenziali. La distanza tra l’efficacia comunicativa dei primi due e quella di Leonardo corrisponde alla loro distanza sociale. Coinvolti in imprese gigantesche e piene di ricadute sull’economia e la storia della città, non riusciamo ad avvicinare Raffaello e Michelangelo alle lamentele indirizzate da Leonardo a Giuliano. Questa incomunicabilità di Leonardo – o forse solo la sua indifferenza alle ragioni della mondanità e della socialità, che hanno un ruolo importantissimo nelle professioni artistiche del Cinquecento – spiega la sua estraneità al mondo circostante e lo scarso riconoscimento tributatogli da quel mondo. Lo stipendio così basso percepito da Leonardo non corrisponde tanto a una sottovalutazione del suo talento, quanto forse alla mancanza di aspettativa per i servigi che poteva rendere a un principe. Finché la guerra si era combattuta in un certo modo, le invenzioni di Leonardo erano sembrate fruttuose a principi come Ludovico il Moro, ma – forse per l’inconcludenza delle tante promesse e dei tanti progetti, forse per i cambiamenti apportati in quel decennio alle strategie militari – quel tipo di servigi non interessava la corte romana dei Medici. Nello stesso tempo, invece, gli studi che coltivava da anni sull’embriologia erano arrivati a un livello di approfondimento tale da far deragliare Leonardo dalla strada sempre più stretta della filosofia naturale, spingendolo su un versante che poteva facilmente farlo accusare di eresia. Quell’idea dell’anima del nascituro che è così strettamente congiunta a quella della madre non poteva fare felice nessuno a Roma e le sue sedute anatomiche, i suoi studi diventano minacciosi.

Leonardo si trova ad affrontare così la situazione fino ad allora sconosciuta della censura. Il compare di «Giorgio tedesco», quel Giovanni degli Specchi che si dilettava con ogni probabilità anche lui di alchimia, lo denuncia al papa: «Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col papa biasimandola e così allo spedale». Un colpo durissimo per il vecchio scienziato. Mai si era trovato in quella situazione, mai aveva dovuto avere a che fare con una corte tanto singolare come quella del papa: per la prima volta nella vita viveva in una corte che non misurava le idee per le strade che aprivano al futuro degli uomini, ma le misurava per la distanza che tracciavano dalla strada, già segnata dal papato, per quel futuro. Non poteva esserci nessuna mediazione tra la filosofia naturale di Leonardo e la filosofia della Chiesa. Era l’uomo sbagliato al posto sbagliato. Non sappiamo neppure se inviò mai quella lettera a Giuliano. Noi ci limitiamo a segnalare che il grande inavvicinabile Leonardo, agli occhi del papa, ebbe per nemico un fabbricatore di specchi che riuscì a impedirgli di continuare i suoi studi anatomici. Il resto non lo conosciamo, almeno per adesso.

Vasari documenta in altro modo il fastidio di Leone X verso Leonardo, attribuendogli una sferzante ironia sull’inconcludenza dell’artista. Il papa aveva chiesto a Leonardo un piccolo dipinto e Leonardo si era entusiasmato, mettendosi subito a distillare vernici trasparenti, ma il papa ebbe una reazione insofferente a quello strano principio: «Oimè, costui non è per far nulla, che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera».8 Seppure traslata, l’informazione di Vasari come ogni leggenda mitica ha un fondo di verità: il rapporto tra Leone e Leonardo non fu facile e, tornando sul piano più concreto degli eventi documentati, possiamo immaginare il fastidio di Giuliano di fronte alle rimostranze dell’artista. Il gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, alla vigilia di un matrimonio che avrebbe cambiato per sempre le sorti della famiglia Medici, fu messo di fronte al litigio di Leonardo con gli scrocconi e le spie della comunità di artigiani di Belvedere, e non facciamo nessuna fatica a comprendere quanto quella questione potesse essere lontana dai suoi interessi. Il futuro duca di Nemours aveva portato Leonardo a Roma per fargli fare quello che indiscutibilmente Leonardo sapeva fare meglio di chiunque altro, una pittura, benché l’artista si rifiutasse, come si era sempre ostinatamente rifiutato, di focalizzare troppe energie sulla pittura, considerandola quasi un diletto per se stesso più che una professione. Certamente negli ultimi trent’anni non si era considerato un pittore, i suoi interminabili dipinti continuavano ad avere una vita così manifesta, un’anima tanto evidente almeno quanto era poco evidente l’anima fisiologica ricercata nella struttura della placenta.

Giuliano, Baldassarre Castiglione e Isabella d’Este, i maggiori conoscitori d’arte della penisola, sapevano più di Leonardo quanto valesse la sua pittura. È probabile che Leonardo fosse venuto a Roma principalmente per avere la libertà di continuare le sue ricerche scientifiche. È probabile. È sicuro che di quelle ricerche non interessava niente a nessuno a Roma, certamente non interessavano a Giuliano, che gli chiese un ritratto della sua innamorata, una richiesta banale ma del tutto consona ai costumi del tempo e alla condizione del protettore.

La ribalta romana

«L’attività artistica di Leonardo a Roma è un argomento vastissimo e allo stesso tempo sfuggente.»9 Tutti gli studiosi concordano sulle difficoltà incontrate nell’inquadrare la vita dell’artista in questa fase. Difficoltà tanto più inspiegabili se si considera che la città registra scrupolosamente, in questi anni, i movimenti e le opere di quasi tutti i protagonisti della scena artistica. Leonardo rimane un’ombra indistinta su una ribalta ben illuminata. Sciogliere il mistero di quel soggiorno è come mettere in ordine i suoi caotici appunti, trovare un senso compiuto al succedersi di schizzi, pensieri e ricordi che intrecciano osservazioni sull’architettura antica, problemi matematici e sezioni anatomiche. Questa evanescenza del vecchio maestro sulla ribalta romana è di per sé un’attestazione di estraneità alla competizione artistica che vedeva impegnati tutti gli altri. Un modo per sottolineare la diversità della propria condizione rispetto a quella degli altri pittori. Gli indizi che sono seminati tra le pagine del Codice Atlantico databili a questi anni non fanno che confermare questa impressione, perché i nomi che emergono, rari per la verità, tra i pensieri fermati sulla carta, sono piuttosto nomi di medici, di alchimisti e di fisiologi piuttosto che di artisti, come ci si potrebbe aspettare.

Leonardo sceglie consapevolmente di mantenere una considerevole distanza tra sé e il mondo dei pittori, quasi che la condizione appartata del Belvedere rispondesse alla condizione appartata della sua mente. I gesti blandi di una necessaria integrazione sono compiuti tutti, come quello molto significativo dell’iscrizione presso la Confraternita di San Giovanni dei Fiorentini nel 1514. La chiesa di San Giovanni, posta di fronte a Castel Sant’Angelo, era il centro di riferimento della nazione toscana a Roma ed era a pochi passi dalla strada dei Banchi, dove i maggiori banchieri fiorentini e toscani prestavano soldi e costruivano palazzi signorili nelle forme rinnovate dall’imitazione dell’antico. L’iscrizione alla confraternita rappresenta una forma di adesione alla vita pubblica dei toscani a Roma che Leonardo intraprende in vista di un soggiorno che ritiene destinato a essere lungo, forse addirittura di una naturalizzazione romana. Sta di fatto che a introdurre Leonardo nella confraternita non è un pittore, come ci saremmo aspettati, ma è un medico, un «Gaiacquo medico» che lo accompagna oltre il Tevere a presentarsi ai compaesani, nella speranza di poter partecipare alla vita sociale degli emigrati, cresciuti a dismisura con l’insediamento di un toscano al soglio pontificio. In quei mesi si sta progettando un ingrandimento della chiesa e ci si sarebbe aspettati che la commissione fosse proposta a Leonardo, il più celebre dei fiorentini a Roma. Ma questo non accade, Leonardo non è ritenuto all’altezza di un tale compito dalla comunità fiorentina di Roma.

Così come non si penserà a Leonardo nell’estate 1516 per la costruzione della facciata di San Lorenzo a Firenze, la chiesa di famiglia dei Medici a due passi dal palazzo più vecchio che avevano avuto in città. Nonostante il rapporto strettissimo dell’artista con la casa Medici, la commissione di Firenze sarà affidata a Michelangelo, superando per l’occasione il fortissimo contrasto politico e la diffidenza umana che opponeva il Buonarroti alla famiglia papale. Che ragioni ci sono per non coinvolgere Leonardo in questi progetti, se non una radicale disistima da parte della famiglia papale verso le reali possibilità dell’artista di concludere un progetto?

Il patrocinio di un medico all’iscrizione presso la comunità cittadina è senza dubbio una chiara testimonianza del contrasto di Leonardo con gli altri artisti presenti in città, quasi che volesse sottolineare con quel gesto di non appartenere alla comunità degli artisti ma a quella dei medici. Sono medici i conoscenti che frequenta saltuariamente e dei quali annota gli indirizzi, uno vive accanto a palazzo Farnese e un altro opera presso l’ospedale della Consolazione ai piedi del Campidoglio, dove si tengono sedute di sezione anatomica e dove, con ogni probabilità, Leonardo perfeziona gli studi di embriologia. Sono medici anche quelli contro i quali Leonardo si scaglia con commenti caustici, dimostrando di avere una polemica distanza da quelli che si ritenevano a torto suoi eguali, un altro segno della solitudine dell’uomo e dello scienziato: «E insegnati a conservare la sanità la qual cosa tanto più ti riuscirà quanto più da fisici ti guarderai perché le sue composizioni son di spezie d’alchimia, della qual non è men numero di libri ch’esista di medicina».10

Lui sapeva perfettamente come conservarsi bene, incentrando quasi tutte le aspettative di salute sulla rigorosa dieta vegetariana e su altri semplici precetti ricavati dagli insegnamenti della scuola medica salernitana, riassunti in un sonetto composto durante il soggiorno romano e che ci aiuta a immaginare il suo stile di vita in quegli anni. Il sonetto è scritto accanto a uno schizzo della villa di Belvedere di Innocenzo VIII vista dai palazzi vaticani, o più esattamente dal grande corridore bramantesco in costruzione. L’aria aperta, la visione dei boschi e della magnifica architettura rurale ispira a Leonardo un sonetto ironico e allegro, che ci introduce con immediatezza nel cuore delle sue giornate romane:

Se voi star sano osserva questa norma
non mangiar sanza voglia e cena leve
mastica bene e quel che in te riceve
sia ben cotto e di semplice forma.

Chi medicina piglia da mal s’informa.
guarti dall’ira e fuggi l’aria grieve;
su diritto sta quando da mensa leve
di mezzogiorno fa che tu non dorma.

El vin sia temperato, poco e spesso
non for di pasto né a stomaco voto
non aspettare né indugiare il cesso.

Se fai esercizio sia di picciol moto.
Col ventre resupino e col capo depresso
non star e sta coperto ben di notte;

el capo ti posa e tien la mente lieta.
fuggi lussuria e attienti alla dieta.11

Inaspettatamente Leonardo sembra condividere con il suo antagonista antico, Michelangelo, la paura per gli effetti devastanti della sessualità, dal momento che anche Michelangelo nel dettare le sue note biografiche al giovane Ascanio Condivi, quarant’anni dopo, suggerisce di evitare il coito per preservare la salute. Per il resto Leonardo sembra aver individuato comportamenti del tutto condivisibili e che ci aiutano a dare sostanza a quell’ombra che inseguiamo tra i ruderi di Roma, gli ospedali dove seziona cadaveri e il Vaticano dove ingaggia liti.

La polemica con gli artigiani tedeschi non sembra infatti placarsi e troviamo negli appunti di Leonardo un commento giustamente interpretato dagli studiosi come un caustico riferimento al cinismo dei suoi protettori, i Medici, che non sembrano accontentarlo nelle sue aspirazioni, almeno non quanto lui vorrebbe: «Li medici mi creorono e destrussero».12 Anche questo, come il sonetto, rivela lo stato d’animo dell’artista a Roma e soprattutto rivela un conflitto che, a leggere i documenti, è testimoniato benissimo dalla mancanza di commesse di rilievo in una città che ferveva di incarichi, attribuiti però tutti ai suoi antagonisti. Un tale conflitto era senz’altro molto logorante per lui, che non aveva altri riferimenti a Roma se non i Medici e che non era abituato a vivere commerciando i propri dipinti come invece tutti gli altri avevano imparato a fare.

A completare il quadro di indizi sul soggiorno romano di Leonardo dobbiamo sottolineare la mancanza di interesse manifestata per l’architettura antica. È anche questa una condizione di unicità, che separa Leonardo da tutti gli altri artisti italiani del tempo. Roma era soprattutto la scuola del mondo per gli architetti, che venivano appena potevano anche senza soldi per rilevare, misurare e studiare i monumenti antichi. È la città che in quegli anni compie su se stessa una sistematica vivisezione grazie al lavoro di decine di artisti. Nessuno sembra essersi sottratto a questa pratica, nessuno eccetto Leonardo, che durante il suo soggiorno ci lascia lo schizzo della palazzina di Innocenzo VIII, disegnata più per motivi biografici che altro, e un disegno piuttosto dettagliato della basilica di San Lorenzo fuori le mura. Se si pensa che negli stessi mesi Raffaello stava rilevando la pianta di Roma antica, la distanza tra gli interessi dei due artisti appare sbalorditiva. L’interesse di Leonardo, unico nella sua generazione, non è tanto per l’antico quanto per la matematica applicata all’ingegneria, per il computo delle aree complanari ed equipollenti, un tema al quale si era affacciato anche l’altro grandissimo ingegnere presente a Roma in quegli anni, Bramante da Urbino e il suo maestro fra’ Giocondo, dei quali però non compare traccia tra gli appunti di Leonardo. Eppure i due architetti e ingegneri erano in quel momento i due maggiori ingegni che un uomo curioso come Leonardo avesse potuto augurarsi di incrociare in Italia. Li trova a Roma e li ignora.

L’ultimo indizio da focalizzare è l’incarico di geografo e urbanista che l’artista svolge per il papa e che lo distrae certamente dalla sua attività di pittore. O, come sembra legittimo supporre, l’incarico che esaudiva i desideri di Leonardo frustrando quelli dei suoi committenti. Non è certo che l’artista seguisse Leone X nel suo trionfale viaggio di «restaurazione» a Firenze nel 1515, ma è molto probabile che Leonardo si recasse a Parma e Piacenza nel settembre 1514, poco prima che le due città fossero date a Giuliano dei Medici (febbraio 1515). Alcuni appunti sul Codice Atlantico lo confermerebbero. Sempre al servizio di Giuliano, compie questa spedizione per valutare le difese militari del luogo, visto che Leone X stava accarezzando il sogno di creare lì uno Stato per il fratello Giuliano, progetto che fallirà, ma sarà ripreso con più successo da Paolo III Farnese, che vi insedierà il figlio Pierluigi.

Leonardo, considerato esperto di difese militari, segue Giuliano in questa spedizione nel 1514 passando per Firenze, dove potrebbe aver ritratto «dal naturale» quella donna fiorentina che inizia a dipingere al suo ritorno a Roma, mostrandola poi al cardinale tre anni dopo ad Amboise. I documenti confermano che Giuliano dei Medici compie una spedizione militare a Parma nel settembre 1514 e gli appunti di Leonardo confermano che anche lui fu a Parma nello stesso periodo, con Giuliano dunque.13 Nel viaggio di andata o di ritorno i due si fermano a Firenze, dove può nascere la lunga storia del dipinto che oggi è al Louvre. Al ritorno a Roma, però, a distogliere l’artista dal lavoro sul ritratto c’è almeno un altro impegno per conto del suo protettore, la bonifica della pianura pontina. Un disegno a mano di Leonardo a alla Royal Library di Windsor Castle (RL12684r) mostra una veduta aerea della costa a nord di Terracina. Il disegno è così straordinario e accurato che stupisce come, in mancanza di aerei, Leonardo fosse riuscito a rilevarlo. Ogni dettaglio è perfettamente collocato, dal promontorio di Terracina ai paesi di Sezze e Sermoneta a est fino al golfo di Anzio, passando per il promontorio del Circeo. Un lavoro per niente semplice, che dovette impegnare per mesi Leonardo e che lo tenne lontano dal suo studio di Belvedere e da quel banco per macinare i colori sul quale tante aspettative si erano concentrate.

Estraneità, solitudine e un senso di polemica indifferenza separano dunque Leonardo dagli altri artisti presenti a Roma e ne fanno un caso molto singolare. Ma una volta ricostruito, seppure per sommi capi, questo scenario, è necessario tentare di stabilire quali furono, al contrario, i punti di contatto dell’artista con gli altri pittori, che se non altro lo influenzarono attraverso la committenza. Ingegnere e medico, geografo e matematico, Leonardo non poteva sottrarsi al contatto con la città e la comunità che la abitava, perché i codici che governavano la scena romana anche nel campo artistico passavano per la civiltà della politica e la raffinatezza delle relazioni, come aveva capito benissimo Raffaello, che aveva ai suoi piedi l’intera corte. Leonardo era troppo vecchio ormai per imparare e rimaneva nell’ombra delle feste abbaglianti insieme al suo antico rivale Michelangelo. Questo non gli impedì di incontrare Raffaello, l’uomo al quale i Medici avevano affidato la propaganda celebrativa, commissionandogli in quegli stessi mesi tanto i ritratti pubblici dei familiari quanto i dipinti da mandare in Francia in regalo al re e al popolo francese. Invece di servirsi di ambasciatori mai abbastanza intelligenti, i Medici si servirono dei pennelli di Raffaello, quelli sì insuperabili e seducenti come nessun diplomatico avrebbe mai potuto essere. Un San Michele arcangelo che vince il demonio e una Sacra famiglia ritratta in una dolcissima intimità furono imbarcate sulle navi per Lione e mandate a spianare la strada alle ambizioni della casa Medici, appena ritornata in possesso della Toscana. Raffaello era più importante di un ministro nella strategia politica della famiglia papale. Per il resto dei cittadini dell’Urbe, per quelli più colti, era un principe, un fenomeno sovrannaturale. Per Leonardo, a giudicare dai riflessi che leggiamo nella sua produzione romana, Raffaello era l’unico artista al quale valeva la pena di guardare e, perché no, l’unico da cui farsi influenzare. Senza quel giovane e lucente astro, gli ultimi giorni di Leonardo non sarebbero stati gli stessi.

Qual locho è più degno al mondo che Roma?

Carissimo in locho de patre. Ho ricevuto una vostra, a me carissima per intendare che voi non site corociato con mecho, ché in vero averiste torto, considerando quanto è fastidioso lo scrivere quando non importa. Adesso importandomi ve rispondo per dirvi intieramente quanto io posso fare ad intendare. Prima circa a tor donna ve rispondo che quella che voi mi volisti dare prima, ne son contentissimo, e ringratione Dio del continuo, di non haver tolta né quella né altra, et in questo son stato più savio di voi, che me la volevi dare. Son certo che adesso lo conoscete ancora voi, ch’io non saria in loco dove io son, chè fin in questo dì mi trovo havere roba in Roma per tre mila ducati d’oro, e d’entrata cinquanta scudi d’oro, perché la Santità di Nostro Signore mi ha dato, perché io attenda alla fabbrica de Santo Petro, trecento ducati d’oro di provisione, li quali non mi sono mai per mancare sinchè io vivo, e sono certo haverne degl’altri. E poi sono pagato di quello io lavoro quanto mi pare a me, et ho cominciato un’altra stantia per S. S.tà a dipignare che montarà mille ducento ducati d’oro, si che, carissimo zio, vi fò honore a voi et a tutti li parenti et alla patria, ma non resta che sempre non vi habbia in mezo al chore, e quando vi sento nominare, che non mi paia di sentir nominare un mio patre. […] Sono uscito dal proposito della moglie, ma per ritornare vi rispondo, che voi sapete che Santa Maria in Portico me vol dare una sua parente, e con licenza del zio prete e vostra li promesi di fare quanto sua R.ma Signoria voleva. Non posso mancar di fede, simo più che mai alle strette, e presto vi avvisarò del tutto. Habiate patienza che questa cosa si risolva così bona, e poi farò, non si facendo questa, quello voi vorite. E sapia che se Francesco Buffa ha delli partiti che ancor io ne ho, ch’io trovo in Roma una mamola bella, secondo ho inteso di bonissima fama lei e li loro, che mi vol dare tre mila scudi d’oro in docta, e sono in casa in Roma che vale più cento ducati qui che ducento là siatene certo. Circa a star in Roma: non posso star altrove più per tempo alcuno, per amore della fabrica di Santo Petro, ché sono in locho di Bramante. Ma qual locho è più degno al mondo che Roma, qual impresa è più degna di Santo Petro, ch’è il primo tempio del mondo, e che questa è la più gran fabbrica che sia mai vista, che montarà un milione d’oro?14

Nessun documento potrebbe aiutarci meglio a entrare nella Roma che accoglie Leonardo della lettera scritta da Raffaello Sanzio a suo zio Battista Ciarla, il 1° luglio 1514. Mettere a fuoco i luoghi, le imprese e i personaggi richiamati nella lettera basta a comprendere l’entusiasmo di Raffaello e di molti altri intellettuali per lo splendido momento vissuto dall’Urbe in quegli anni. Meglio ancora, poi, la lettera chiarisce il ruolo di assoluta preminenza che aveva Raffaello sulla scena artistica della città nel suo periodo di massimo splendore, a scapito di due altri grandissimi artisti che nella lettera non compaiono, ma che sono lì a pochi passi da lui e contro di lui ingaggiano una battaglia per l’egemonia che si concluderà solo con la morte dell’urbinate, Sebastiano del Piombo e Michelangelo Buonarroti, uomini senza i quali la Roma nel 1514 non sarebbe stata mai il luogo più degno al mondo.

L’incarico appena ricevuto da Raffaello per la costruzione del nuovo San Pietro lo riempie di gioia, e a ragione. È l’incarico superlativo per eccellenza, il più redditizio e il più impegnativo della cristianità. Sarà formalizzato di lì a poco da Leone X con una bolla, che sancisce nello stesso momento l’altissima considerazione in cui era tenuto Raffaello dalla corte di Roma come pittore e come architetto. All’incarico più ambito della cristianità Raffaello era arrivato in soli cinque anni grazie alla straordinaria prova che aveva dato nella decorazione delle Stanze vaticane. Dopo la rappresentazione della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene, l’opinione generale era che nessun altro artista potesse «raccontare» in pittura come Raffaello. La grazia delle attitudini immaginate per i protagonisti delle sue storie, la bellezza dei volti e dei corpi e la morbidezza delle loro carni folgoravano i commentatori lasciandoli senza parole. Raffaello aveva unito a tutto questo una rappresentazione dello spazio centrata sulla perfetta gradazione delle luci e delle proporzioni. Una costruzione veridica, che dava l’impressione di sentire l’aria muoversi intorno ai suoi personaggi. Nella Stanza di Eliodoro era riuscito a fermare un angelo in volo e un cavallo al galoppo: una istantanea così verosimile di un sogno non era mai apparsa sulla terra. La stanza che si apprestava a dipingere per il papa era quella dell’Incendio di Borgo, nella quale celebrava i poteri miracolosi di un altro Leone papa, che fermò con un solo gesto l’incendio che minacciava i palazzi intorno a San Pietro. Era un’occasione per dimostrare la raffinata cultura antiquaria di cui si andava impossessando con i suoi allievi giovani e pieni di talento e per esaltare le torsioni anatomiche, in aperta competizione con quelle irraggiungibili che Michelangelo aveva appena finito di dipingere nell’immensa volta della Cappella Sistina.

Ugualmente illuminanti sono gli accenni della lettera alle vicende personali di Raffaello, la sua reticenza al matrimonio e l’eventualità di sposare la nipote del cardinale di Santa Maria in Portico, al secolo Bernardo Dovizi da Bibbiena. L’ironia con la quale Raffaello parla delle possibili ragazze da marito, la «bella mamola» che può trovare a Roma fornita di un’ottima dote, rivela la leggerezza e la libertà con la quale in quel momento nell’Urbe si trattavano le questioni sentimentali, amorose ed erotiche. Questioni relegate quasi fuori dalla sfera mondana per secoli e improvvisamente impostesi come centrali nella vita dell’uomo di ogni ceto sociale. Il campione di questa rivoluzione era diventato Agostino Chigi, il banchiere dei papi che, al pari di Leone X e Giulio II, può considerarsi uno dei principali artefici dell’età dell’oro del Rinascimento italiano a Roma, non solo perché aveva commissionato capolavori artistici e aveva dato le feste più sontuose della città, ma anche perché aveva sposato la sua giovane amante. A celebrare questa favola che diventa la vera favola morale di quegli anni è naturalmente Raffaello, che sembra spinto a Roma proprio da un destino favorevole al trionfo dell’amore, perché niente più del suo talento nel rappresentare la bellezza femminile avrebbe mai potuto giovare al trionfo di Venere. Del resto la sua fortuna era iniziata sotto la protezione di una donna, Giovanna di Montefeltro, che scrive per lui una calda lettera di raccomandazione alla signoria di Firenze, aprendogli le porte dell’importante committenza pubblica dell’Italia centrale.

Il trionfo di questa nuova seducente femminilità si era visto nell’immagine della ninfa Galatea affrescata intorno al 1512-13 nella loggia d’inverno di Agostino Chigi. La favola dipinta celebrava allegoricamente l’amore del vecchio banchiere per la giovane veneziana che aveva rapito e portato a Roma, pensando inizialmente di farne una mantenuta e alloggiandola in un convento, come era costume allora. Con il tempo però il vecchio banchiere si era innamorato sinceramente della ragazza e aveva rinunciato a un matrimonio conveniente con la figlia illegittima di Francesco Gonzaga, che avrebbe dato a lui, ricco ma di origine borghese, il lustro della nobiltà di sangue. La scelta del banchiere fu a suo modo una rivoluzione, che sovvertì le regole sociali del tempo. Il denaro e il carattere volitivo di Agostino diedero a quella scelta un valore straordinario, perché il matrimonio fu infine celebrato, dopo la nascita di quattro figli, alla presenza dell’intera corte pontificia. La cornice dell’evento molto rimarchevole per la storia sociale d’Europa fu la villa nella quale si erano tenute le feste più eleganti dell’ultimo decennio e dove ogni dettaglio, dalle lesene di Baldassarre Peruzzi ai dipinti di Raffaello, Sebastiano e Sodoma, celebrava la bellezza e la forza della mitologia amorosa dell’antichità. L’unica cornice che poteva aiutare il papa, il banchiere e la corte a oltrepassare i limiti delle convenzioni sociali era l’arte di Raffaello, capace di ricreare un mondo libero e talmente bello da disintegrare ogni vincolo conservatore. Almeno per quanto riguardava l’amore.

Ma certo con il tempo anche quella rivoluzione sarebbe stata dimenticata dalla disinvolta società romana, se Raffaello non l’avesse celebrata con la sua pittura facendone il manifesto di una nuova era pittorica e sentimentale. Nelle due campate nord della loggia d’inverno del palazzo della Farnesina furono rappresentati il vecchio Polifemo che guarda pieno di desiderio la giovane ninfa Galatea e il suo corteggio di creature marine, tritoni, ninfe e delfini. La ninfa, avvolta da un manto rosso amaranto, appare seminuda in una dinamica posa di tre quarti su una conchiglia che solca il mare, trascinata da due delfini aggiogati. Il vento le spinge indietro i capelli, dando alla scena l’impressione di un vero movimento. Il muro si spalanca all’improvviso sul mare di Sicilia e sui suoi mitici abitanti. La loggia di Agostino Chigi diventa la prima riuscita macchina del tempo del Rinascimento. Al di là dei richiami mitologici e dei significati simbolici legati alla rappresentazione, la figura di Galatea è così bella e irresistibile che tutti gli osservatori se ne innamorano e la giovane donna immortalata sulla parete diventa di fatto l’apparizione di una nuova dea nell’Olimpo. A lei prontamente viene dedicato un culto devoto dai cittadini più sensibili di Roma.

La Galatea era di una tale bellezza che molti, a cominciare da Baldassarre Castiglione, si chiesero come Raffaello avesse potuto concepire e rappresentare una simile seducente figura di donna. La risposta di Raffaello fu evasiva e modesta; aveva messo insieme parti di diverse bellissime ragazze, creandone una con i pregi di tutte. La verità di quella risposta modesta fu subito compresa: Raffaello aveva creato una figura ideale in grado di esprimere concretamene il fascino che emanava dalle tante, seducenti donne che occupavano la scena sociale romana.

Colte, eleganti e bellissime cortigiane si erano imposte sulla scena mondana e giravano per Roma vestite come matrone nobili, incuranti del fastidio provocato nei benpensanti, che non riuscivano più a controllare i recinti sociali. Uomini di mondo non sapevano più distinguere tra donne onorate e donne leggere, quando si muovevano sul palcoscenico delle strade romane. L’ambasciatore di Isabella d’Este manifestò in una lettera del 1512 alla sua padrona il fastidio e la confusione che le strade di Roma provocavano dentro di lui: «Et me par che sia faticha in Roma a conoscere una dona da bene da una cortessana; usano anchora lor di portar quella tella in dreto che portano le done romane da bene, et me par che tuta Roma ne sia pieno».15 La sfacciata libertà conquistata dalle cortigiane si manifesta nel fatto che molte si vestono addirittura da uomini e cavalcano muli, incuranti dei giudizi. Queste cortigiane, prostitute di rango sociale molto elevato, che tenevano veri e propri circoli nelle loro case, non assolvono solo a funzioni di mero servizio sessuale, non prostituiscono il proprio corpo, come da sempre avveniva a Roma e in ogni altro luogo d’Italia, ma assolvono una più complessa funzione sociale, ospitando feste, incarnando un ideale di libertà erotica che investe e destruttura i rigidi schemi sociali ereditati dal Medioevo. Le bellissime donne che vengono a cercare fortuna a Roma affiancano nel loro lavoro di trasformazione dei costumi gli artisti, non solo ospitando le feste dei cardinali, i banchetti nei quali si gioca alla reinvenzione dell’antico, ma offrendo se stesse come modelli e interpreti di quel mondo.

Raffaello è il più svelto e attivo in questa collaborazione, come non può fare a meno di sottolineare Vasari: «Ritrasse Beatrice Ferrarese et altre donne, e particolarmente quella sua, et altre infinite. Era Raffaello persona moto amorosa et affezionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro; la qual cosa fu cagione che, continuando i diletti carnali, era egli con rispetto dà suoi grandissimi amici osservato per essere persona molto sicura».16 Beatrice Ferrarese era una prostituta, elevata alla gloria dei pennelli di Raffaello grazie alla propria bellezza, come alcuni dottori furono elevati alla gloria delle cariche ecclesiastiche dalla sapienza. Non c’era più vergogna nell’amore e nella vita erotica, e il giovane Raffaello sembra smentire clamorosamente le convinzioni di Leonardo sulla salute del corpo e sulla continenza, precetti ai quali, è doveroso sottolineare, Leonardo era arrivato alla veneranda età di sessant’anni, mentre nella sua giovinezza non sembra essersi preoccupato di fuggire troppo il sesso e la lussuria. Per arte e per indole Raffaello assume un ruolo di sacerdote in questa nuova religione dell’amore e lo incrociamo in ogni importante evento mondano. Gli allievi e gli altri artisti tentavano di stargli dietro, di emulare la sua fantasia e il suo talento, impegnandosi anche loro nello sforzo collettivo di fondere realtà e sogno per ricreare a Roma la nuova età dell’oro. Così, sulle tavole dipinte e sui muri delle residenze eleganti, i limiti che avevano segnato il lecito e l’illecito per quasi mille anni venivano disgregandosi come muri di sale sotto la pioggia.

L’importanza assunta da Raffaello a Roma nel 1514 si misura dagli obiettivi che si pone e che sarebbero stati impensabili per un artista della generazione precedente: sposare la nipote del cardinale Bibbiena o diventare lui stesso cardinale. Entrambe queste possibilità sanciscono definitivamente il rango altissimo al quale si era elevato il giovane, con un’arte che appena un decennio prima era considerata artigiana e che molti principi in Italia continuano a considerare tale. L’unione matrimoniale con la nipote di Bibbiena non era una cosa da poco, considerando il ruolo di primo piano che il cardinale ebbe sotto il pontificato di Leone X. In un dispaccio molto secco, l’ambasciatore veneziano avverte il Senato della Serenissima che il cardinale Bibbiena è la vera anima della politica vaticana, essendo il papa troppo preso dalle sue cacce e dalle sue feste. Bibbiena non rischia però di intristire con gli affari di governo: anche lui chiede a Raffaello di aiutarlo a sognare dipingendogli, con l’aiuto dei migliori intellettuali di corte, un ciclo di affreschi erotici nella stufa da bagno del suo appartamento vaticano. Raffaello impegna in quest’opera un rigore da filologo, resuscitando anche negli stucchi di marmo, nei riquadri con amorini che cavalcano animali fantastici, un perfetto ambiente di gusto erotico all’antica. Venere, dopo avere espugnato la casa del ricco banchiere, sempre grazie ai pennelli di Raffaello espugna le solide mura vaticane e s’insedia nell’appartamento di uno degli uomini più potenti della corte. Il cardinale che ad Amboise discuterà dei progressi dell’arte romana con Francesco I e che forse aveva ispirato a Leonardo quel San Giovanni adolescente e seduttivo. Anche i santi pensieri del cardiale per raccogliersi debbono avere il sostegno delle favole antiche.

Ma c’è ancora una rivoluzione che Raffaello, con o senza consapevolezza, porta avanti e impone al mondo. Raffaello inverte il rapporto tra l’immagine femminile «sacra» e quella «laica». I ritratti di donna e in generale l’immagine femminile che si era affermata nella pittura italiana a partire dalla metà del Quattrocento muovono dalla rappresentazione della Madonna e delle sante, con il loro rigido portamento e la loro severa immagine di castità e contenutezza sensuale. Lentamente l’immagine femminile si affranca da questo modello fino a rappresentare la donna reale, con le sue caratteristiche sociali e più lentamente con una sua specifica identità psicologica e sensuale. Da un certo momento in poi, a partire dal soggiorno romano di Raffaello, l’immagine della donna reale, della madre e dell’amante, s’impone su quella della Madonna e delle sante. Questo è chiaramente leggibile in un gruppo di opere posteriori al 1510. Il gesto conturbante della Galatea viene riproposto da Raffaello nel gesto della Santa Caterina d’Alessandria, o viceversa, a seconda di come si intenda datare il dipinto devozionale. Le madonne per diventare irresistibili devono prendere le sembianze delle donne reali e così accade alla più celebre delle madonne di Raffaello, la Madonna Sistina del 1514, che prende le sembianze della Velata (1514-16), una donna amata da Raffaello nella quale si potrebbe addirittura riconoscere la Beatrice Ferrarese di cui parla Vasari. Stabilire l’identità certa di queste donne non ha alcuna importanza. Di importanza capitale è il processo messo in atto da Raffaello, che vivifica l’iconografia sacra attingendo all’umanità femminile, e in questo modo raggiunge il più alto grado di coinvolgimento nelle rappresentazioni sacre. Gli uomini si innamoravano delle madonne guardando le donne che erano state messe in posa dal pittore. È un raffinatissimo processo psicologico prima che formale, Raffaello libera e mette a disposizione del colto pubblico che lo segue come un profeta l’immenso serbatoio della femminilità, declinandone ogni aspetto attraverso il filtro del proprio amore per le donne. Perfino la più celebre e fortunata Madonna di Raffaello, quella della Seggiola, deve il suo fascino alla naturalezza del volto femminile, che ha creato la leggenda di un ritratto dal vero fatto dall’artista alla figlia di un bottaio che si prende cura sull’aia del proprio bambino. La tenerezza materna e tutta umana di quella scena irrompe nella rigidità fredda e astratta delle maternità rappresentate per secoli dai pittori e nutre con nuove emozioni la devozione popolare.

La società intorno a lui percorreva a grandi passi lo stesso tragitto, liberando l’intelligenza femminile e restituendole una visibilità negatale nei secoli precedenti. Raffaello, come sempre nella storia accade agli artisti, coglie e rende visibile a molti ciò che fermentava nell’inconscio collettivo. Tutto quel parlare di sguardi e atteggiamenti appropriati nei salotti di Urbino, e trascritto nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione, finisce per delineare un nuovo tipo femminile, che s’impone sulla ribalta dei teatri, delle feste e degli altari. L’umanità delle donne va in soccorso all’umanità delle sante e delle madonne. Un concetto che può sembrare radicale e trasgressivo, ma che sul piano delle immagini non trova smentita. Non è solo Raffaello a farsi interprete di questo passaggio. Un dipinto come il Martirio di Sant’Agata di Sebastiano del Piombo, realizzato per il cardinale Rangone nel 1519, tocca il punto più estremo e conturbante di questa umanizzazione della divinità e di questa assunzione di sensualità da parte delle figure femminili del Pantheon cattolico. Una giovane donna viene trascinata da due uomini posti ai lati, i suoi carnefici, che ne mostrano per mortificarla il corpo completamente nudo. Il contrasto tra la nudità e fragilità di quel bellissimo corpo femminile e la prepotente forza degli uomini protetti dai loro vestiti e dalle loro armi crea un effetto conturbante nell’osservatore. Il dipinto è così carico di sensualità che i critici ancora stentano ad accettare che il cardinale Rangone potesse averlo esposto nella chiesa di Sant’Agata di cui fu titolare.

Il processo di ridefinizione dell’immagine femminile, dunque, nasce dalla collaborazione dei migliori intellettuali presenti nell’Italia centrale nel secondo decennio del Cinquecento e trova in Roma e in Raffaello il suo centro propulsore. Si tratta di trasformazioni radicali dell’universo visivo, concesse ad artisti che avevano conseguito ormai una posizione sociale di prima grandezza nella città. Nessuno stupore quindi che, in questo clima, a Raffaello sia promessa la nipote del cardinale, perché Raffaello è diventato a quella data un vero e proprio principe di una nobiltà nuova, quella conferita dal talento artistico. Non era solo però in quei mesi a governare la scena artistica romana, almeno altri due grandissimi talenti gli contendevano la scena e Leonardo dovette certamente fare i conti anche con loro.

Sebastiano contro Raffaello

Agostino Chigi nel 1510 era l’arbitro del gusto a Roma. Una sua committenza decideva in quegli anni la fortuna dell’artista prescelto. In questa sua selezione, diretta a celebrare se stesso come arbitro dell’eleganza e della scena artistica, Agostino alimenta non pochi conflitti tra coloro che aspiravano a lavorare per lui. Il conflitto più violento e meglio documentato tra quelli alimentati, forse senza intenzione, da Agostino fu quello che contrappose tra il 1514 e il 1517, gli anni nei quali Leonardo risiedeva a Roma, Raffaello a Sebastiano del Piombo. Uno scontro pubblico, che non rifuggiva i mezzi sotterranei più infamanti, come la calunnia e il discredito sussurrato alle orecchie dei potenti, per sconfiggere il nemico. Le lettere sopravvissute di Sebastiano a Michelangelo illuminano i termini brutali di questo conflitto guerreggiato in città mentre l’ombra sublime e indifferente di Leonardo ne attraversava le vie.

Sebastiano del Piombo era stato portato da Venezia a Roma da Agostino Chigi insieme alla giovane amante Francesca Ordeaschi nell’estate del 1511. Due prede che il banchiere aveva disinvoltamente prelevato nella città che gli era debitrice di immense ricchezze. Talmente debitrice che Agostino una mattina dell’estate 1511 si era recato con i commissari della Serenissima a visionare il Tesoro di San Marco nell’eventualità di sequestrarlo a risarcimento delle somme imprestate alla città. Le cose che Agostino amava in egual misura erano i soldi e la bellezza. Sebastiano e Francesca promettevano in maniera diversa di soddisfare la sua sete di bellezza, dei soldi Agostino non aveva bisogno, essendo l’uomo più ricco d’Europa. Sebastiano era considerato a Venezia uno dei pittori più abili, soprattutto nei ritratti. Aveva uno stile morbido e sfumato e un gusto per il colore che faceva onore alle tradizioni cittadine. Anche lui concentrato sulla dolcezza delle attitudini, immergeva le sue figure in una nebbia di colore, in uno sfumato atmosferico che aveva molti punti di contatto sia con la pittura di Raffaello sia con quella di Leonardo, almeno nella sottigliezza con la quale stemperava le ombre sui corpi e la profondità con la quale indagava i moti dell’anima. La sua lotta contro Raffaello era diventata feroce da quando Agostino aveva scelto di affidare a quest’ultimo la continuazione della decorazione della sua loggia alla Farnesina, mortificando Sebastiano agli occhi di tutta la comunità artistica romana. I due contendenti furono messi direttamente in competizione di nuovo nel 1516 dal cardinale Giulio dei Medici, cugino del papa e di Giuliano. Con un gusto per la sfida che non arretrava davanti a niente, Giulio ordinò a Sebastiano una Resurrezione di Lazzaro e a Raffaello una Trasfigurazione, per mandare poi i dipinti in regalo alla cattedrale di Narbonne in Francia.

Ma prima di stupire i fedeli francesi, ignari di quanto fosse crudele la competizione artistica in Italia, i due dipinti avrebbero strabiliato i romani e gli ambasciatori di tutta Europa che vi risiedevano. Ogni dipinto dei grandi maestri veniva pubblicamente esposto e commentato per dar luogo a una competizione impietosa alla quale non c’era modo di sottrarsi.

Sebastiano non aspettava altro, convinto com’era che nella pittura a olio non avrebbe avuto difficoltà a umiliare Raffaello. Accolse l’incarico come una benedizione e si mise subito al lavoro. Intorno a lui gli amici lo sostenevano ma soprattutto lo sostenevano i nemici di Raffaello, e non erano pochi. Tutti desiderosi di vendicarsi di quell’odioso e gentile ragazzo che era arrivato a Roma otto anni prima e dominava la scena con i suoi assistenti e la sua corte di intellettuali ben inseriti. Neppure la politica restò estranea alla competizione e l’ambasciatore veneto avvisò la Serenissima dei progressi del concittadino, dei successi pubblici raccolti a ogni esposizione delle sue splendide pale dipinte. Ma il sostegno che più rincuorava Sebastiano nella lotta contro Raffaello era quello offertogli da Michelangelo, anche lui finito a contrapporsi senza chiari motivi a Raffaello. Se Sebastiano aveva avuto ragione di risentirsi contro l’urbinate per la scelta di Agostino Chigi di assegnare a lui la continuazione della decorazione della loggia, Michelangelo trionfava con la scultura in maniera incontrastata e, da quando aveva rivelato il suo genio pittorico con lo svelamento della Volta Sistina, la contesa con Raffaello rimaneva aperta anche sul piano pittorico. Ma i percorsi mentali di Michelangelo seguivano strade troppo tortuose per poterle interpretare con semplicità. Benché non sia provato nessun rapporto diretto tra Sebastiano e Leonardo durante il soggiorno romano del secondo (e neppure durante il suo soggiorno veneziano del 1500) è probabile che i due si fossero incontrati tanto a Venezia quanto a Roma. Sebastiano non poteva rimanere indifferente alla presenza di Leonardo in città, tanto più che entrambi condividevano oltre alla pittura la passione per la musica, che faceva di Sebastiano un ricercato compagno di convivi.

L’orso dei Fori

L’altro gigante che avrebbe potuto condizionare l’ultimazione delle meravigliose tavole di Leonardo approdate nell’alloggio di Belvedere era Michelangelo, che aveva avuto influenza su Leonardo (l’aveva sfidato apertamente) dieci anni prima a Firenze. Durante l’intero soggiorno romano, Michelangelo non ebbe voglia di incontrarlo. Stando ai documenti, i due pittori toscani non ebbero nessun contatto diretto, e questa circostanza non può essere casuale, denuncia un contrasto insanabile tra i due. Né si può immaginare che un eventuale incontro sarebbe passato inosservato nella piccola comunità artistica romana.

Quando Leonardo arriva a Roma, Michelangelo vi soggiorna da nove anni, ma vive in una casa ancora più appartata e modesta di quella assegnata a Leonardo. È situata anch’essa lontano dal centro mondano e commerciale della città, nel vicolo del Macello dei Corvi adiacente alla Colonna Traiana, nell’area degli antichi Fori. La città si mescola alla campagna in questo sobborgo, da qui iniziano le vigne che s’inoltrano fino al recinto delle mura e vi abitano muratori, contadini e prostitute di poca fortuna. I campi che seppelliscono in parte i basamenti degli archi imperiali, del Colosseo e delle immense terme di Caracalla diventano spesso il pascolo urbano delle greggi e dei bovini e si coprono di capanne e accampamenti di fortuna.

Quella casa-officina, provvista di un orto con la piccola stalla per il suo adorato cavallino, una fucina per temprare ferri, una cucina, una stanza da letto piccolissima al primo piano e uno stanzone al pianterreno dove si accumulavano i marmi per le sculture, gli era stata concessa da Giulio II per lavorarvi le sculture della propria tomba. A partire dal 1505, l’anno in cui ricevette la commissione e la casa, Michelangelo ne aveva fatto la propria abitazione, nonostante la modestia non degna della sua posizione sociale. Due camere arredate con meno mobili di quella di Leonardo. Un letto con pagliericcio, un cassone, un tavolo, un credenzone, nel quale troveranno alla sua morte vestiti logori e frusti che aveva indossato tutta la vita, basteranno al più ricco e potente degli artisti rinascimentali per i sessant’anni che trascorrerà nella Città Eterna, mentre Leonardo non resisteva alla bellezza delle stoffe sontuose, degli abiti eleganti, dei gioielli e della musica.

Sebbene le due case, quella di Michelangelo arroccata nei Fori e quella di Leonardo arrampicata sul Belvedere, si assomiglino come due gocce d’acqua nella loro sobrietà, gli abitanti che le occupano non potrebbero essere più diversi per aspirazione. La semplicità monacale della casa di Leonardo sembra un segno della sua disavventura esistenziale. Mai avrebbe scelto per sé quella vita severa lui che amava il lusso, la comodità e le maniere eleganti al punto da sostenere la preminenza della pittura sulla scultura anche in base alla minore volgarità fisica di un’arte rispetto all’altra. Al contrario la scarna semplicità della casa di Michelangelo, infinitamente più ricco di Leonardo, è una presa di posizione sociale, intellettuale e potremmo dire emotiva, perché Michelangelo teorizzava l’asocialità come condizione essenziale per la creatività, collocandosi agli antipodi di Leonardo. I due erano perfettamente consapevoli della diversità e del conflitto che questa diversità sottendeva, e non c’è dubbio che in un passo illuminante dei suoi scritti sull’arte Leonardo sembri ironizzare sul suo scorbutico contendente:

Lo scultore nel fare la sua opera fa per forza di braccia e di percussione a consumare il marmo od altra pietra soverchia, ch’eccede la figura che dentro a quella si rinchiude, con esercizio meccanico, accompagnato spesse volte da gran sudore composto di polvere e convertito in fango, con la faccia impastata, e tutto infarinato di polvere di marmo che pare un fornaio, e coperto di minute scaglie, che pare gli sia fioccato addosso, e l’abitazione imbrattata e piena di scaglie e di polvere di pietre. Il che tutto al contrario avviene al pittore, parlando di pittori e scultori eccellenti, imperocchè il pittore con grande agio siede dinanzi alla sua opera ben vestito e muove il lievissimo pennello co’ vaghi colori, ed ornato di vestimenti come a lui piace; ed è l’abitazione sua piena di vaghe pitture, e pulita ed accompagnata spesse volte di musiche, o lettori di varie belle opere le quali senza strepito di martelli od altro rumore misto sono con gran piacere udite.17

È più che evidente che Leonardo, mettendo giù queste ironiche notazioni, pensasse a Michelangelo, perché tutte le fonti, e sono molte, che ci descrivono il Buonarroti al lavoro ce lo descrivono esattamente come fa Leonardo: un orso ingrugnito che aggredisce in maniera selvaggia e violenta il blocco, facendo schizzare schegge di marmo da tutte le parti e mettendo a rischio l’incolumità dei visitatori. È indiscutibile che lo scultore affaticato, impastato e sofferente nella propria casa invasa dalle schegge e dalla polvere di marmo sia il ritratto più veritiero di Michelangelo. Lui stesso ironizzò in alcuni sonetti sulla condizione di abbrutimento in cui era capace di ridursi. In più, Michelangelo riusciva a storpiare il suo fisico e a sanguinare di stenti anche quando dipingeva, e l’impresa della Volta Sistina gli procurò gravi danni al fisico, minandone la salute per molti anni. Sia che pensasse proprio a Michelangelo (come molto probabile) sia che volesse ritrarre una condizione generale dello scultore, il passo di Leonardo chiarisce le posizioni contrapposte dei due artisti e definisce il contesto conflittuale nel quale i due vengono a trovarsi all’arrivo del più anziano a Roma.

Appartato e diffidente, chiuso a suo modo alla città ma mai invisibile, per il vortice di passioni e interessi che gli girava intorno, l’altro gigante che faceva di Roma in quegli anni il «locho più degno al mondo» aveva appena terminato la decorazione della Cappella Sistina, suscitando grandissima meraviglia in tutta l’Italia. I conoscitori e gli ammiratori, ma in realtà l’intera cittadinanza, sempre avida di partecipare alle contese artistiche, si erano divisi tra i sostenitori della dolce pittura di Raffaello nelle Stanze vaticane e quelli della potente e terribile di Michelangelo nella Volta Sistina. Ora, a complicare la situazione, arrivava in città l’artista che da decenni si incontrava e scontrava con Michelangelo, come se i due fossero obbligati dal destino a guardarsi in uno specchio che rovesciava le loro identità. Bello ed elegante ancora a sessantadue anni, Leonardo suscitava l’ammirazione sincera di chi lo incontrava con il suo fisico asciutto e statuario. Michelangelo invece intimoriva chi lo incontrava e spesso aggrediva chi gli rivolgeva con leggerezza la parola. Vestiva sempre con i panni logori da lavoro, quasi sempre incolori e di stoffa economica, era di statura molto bassa e i lineamenti marcati erano stati deturpati dal pugno di un altro artista, Pietro Torrigiano, che lo aveva aggredito sentendosi provocato dalla sua insolenza. La fronte e il labbro inferiore prominenti peggioravano ulteriormente il profilo. Le ciglia poco folte e gli occhi stretti, vivaci ma non proprio bellissimi completavano la figura di un uomo che sarebbe passato inosservato se non fosse stato circondato dalla grandissima ammirazione suscitata dal talento. A Roma Michelangelo occupava la posizione preminente nella comunità fiorentina e la sua autorità era riconosciuta non solo dagli artisti, ma dai banchieri e dalla corte pontificia, che tuttavia lo considerava intrattabile. Non c’era possibilità che i due fossero costretti a incontrarsi: seppure Leonardo avesse frequentato i palazzi alla moda, certamente non vi avrebbe incontrato Michelangelo.

Diversi nell’aspetto fisico, opposti per vocazione e ambizione, i due artisti toscani erano continuamente spinti l’uno sulla strada dell’altro dalla condanna a primeggiare nell’arte. Leonardo aveva lasciato la corte di Lorenzo nel 1482, quando Michelangelo era appena un ragazzo di sette anni e stava per entrarvi, accolto da Lorenzo nello stesso giardino e nelle stesse stanze che avevano accolto e affinato Leonardo. Il ragazzo, dotato di una memoria di ferro, che manteneva intatti i ricordi della prima infanzia, aveva fatto in tempo a vedere il bellissimo ed elegante trentenne attraversare la città con il suo «pitocco rosa alle ginocchia», le calze colorate che fasciavano le gambe slanciate e muscolose e i capelli inanellati. Quel ricordo fu forse alla base dell’antipatia che gli manifestò per tutta la vita a ogni incontro. Leonardo era avvolto da un alone di sofisticata eleganza e ammirazione, nonostante il processo per sodomia subito nel 1476, dal quale era uscito comunque indenne. Protetto dai Medici era partito per Milano, dove aveva vissuto fino al 1500 senza mai interrompere la relazione strettissima con la potente famiglia fiorentina. Nel 1500 i due si erano di nuovo incontrati a Firenze ed erano stati spinti l’uno contro l’altro in una competizione, voluta questa volta dalla signoria repubblicana di Pier Soderini. Michelangelo aveva venticinque anni e l’altro quarantotto, due uomini maturi pronti a sfidarsi per il primato sotto gli occhi di una intera città feroce e competitiva, che raccoglieva tra le sue mura un numero di artisti e di talenti maggiore di quanti ne raccogliesse tutto il resto dell’Italia. Il campo della contesa furono le mura del Palazzo Vecchio, dove a ognuno venne dato incarico di rappresentare una battaglia memorabile per la storia repubblicana, ma entrambi abbandonarono l’impresa senza ultimarla, inseguendo ambizioni opposte in direzioni contrarie. Leonardo diretto a nord, a Milano, in cerca di una rafforzata signoria ducale, e Michelangelo a sud, nella città dei papi, avendo capito per tempo che in quella corte si concentrava ormai più potere che in qualsiasi altra signoria italiana. La sfida lasciata aperta a Firenze dieci anni prima rischiava di riunirli ora a Roma e di metterli di nuovo l’uno contro l’altro. Ma mentre a Firenze il potere politico era stato neutrale, a Roma i rapporti di forza favorivano Leonardo. L’altro aveva fatto errori che doveva ancora espiare nei confronti dei Medici. Allevato anche lui da Lorenzo, Michelangelo aveva rapidamente abbandonato il figlio Piero al momento del rovescio del 1494, scappando dalla città e andando - a servire i principali nemici della famiglia, prima il cardinale Riario e poi la repubblica di Pier Soderini. Il tradimento della famiglia non era stato mai perdonato a Michelangelo, che vide rovesciate le sue fortune con l’elezione di Leone X, venuto a succedere a quel Giulio II che lo aveva capito e protetto, perfino da se stesso. E così, dalla posizione di predominio della scena artistica romana, alla morte del papa nel febbraio 1513 vide in pochi giorni rovesciarsi le sue fortune. A partire da quel momento, quali che fossero le sue ambizioni in città, tutto gli venne negato e dato a Raffaello, incluso l’incarico per il nuovo San Pietro. A lui rimase l’esecuzione della tomba di Giulio II, per la quale il papa aveva lasciato una ingente somma di denaro. La città diventò ostile seguendo gli umori della corte e la contrapposizione con Raffaello, alimentata da un carattere tanto scorbutico e intrattabile quanto quello del rivale era amabile e socievole, lo confinò in un angolo avvelenandogli i giorni.

Ed ecco completarsi la disgrazia con Leonardo, portato dal potente fratello del papa, e lo spazio di quella immensa e vuota città restringersi ancora di più, ricacciarlo nello stanzone affacciato sugli orti dei Fori e nella camera con il letto singolo e il pagliericcio, dove l’unica consolazione era un crocifisso di legno menzionato dal notaio che inventariò i beni alla sua morte. Stando alla testimonianza di Vasari, «era sdegno grandissimo fra Michele Angelo Buonarroti e lui»,18 ma il biografo non precisò mai i motivi di questo sdegno. Durante il soggiorno fiorentino dei due artisti, tra il 1500 e il 1504, Michelangelo aveva pubblicamente aggredito Leonardo nel corso di una innocente discussione pubblica tenuta sui sedili di un palazzo. Lo aveva accusato di irresolutezza per non essere riuscito a fondere il gigantesco cavallo di bronzo progettato per Ludovico il Moro. I motivi dell’odio di Michelangelo sono oscuri, caratteriali, ma comunque ben evidenti alla colonia fiorentina insediata a Roma. Le premesse per una radicale ostilità tra Leonardo e Michelangelo ci sono tutte, considerando che tra il 1513 e il 1516 Michelangelo mobilita l’intero clan per ricucire i rapporti con i Medici e la presenza di Leonardo non può che ostacolare il suo disegno. Leonardo è stipendiato da Giuliano e vive molto vicino al papa, ma della sua presenza non è rimasta traccia, neppure un vago riferimento nei ricordi e nelle corrispondenze di Michelangelo. Possiamo solo interpretare questo ostinato silenzio, questo vistoso ignorarsi di due geni concittadini, alloggiati a meno di mille metri l’uno dall’altro in una città di poche decine di migliaia di abitanti, come prova di una ostilità irriducibile. Un conflitto che ebbe un certo peso nella decisione di Leonardo di lasciare Roma poco dopo la morte di Giuliano. Eppure all’arrivo di Leonardo a Roma, Michelangelo non è coinvolto in nessun progetto che avrebbe potuto suscitare l’invidia del nuovo arrivato, né pittorico né architettonico. Michelangelo era rintanato nella sua casa a scolpire le statue per la tomba di Giulio II. In particolare i due Prigioni oggi al Louvre, nei quali la grazia muscolare dei nudi che reggevano i festoni della Volta Sistina si era trasformata in un tormento onirico, adatto a esprimere il dissidio interiore che divorava lo scultore per le frustrazioni impostegli dai Medici trionfanti.

Questa marginalità di Michelangelo nella scena romana ai tempi dell’arrivo di Leonardo in città dovette consolare molto il vecchio artista. La contesa che li aveva opposti e che nasceva, secondo Michelangelo, dall’inconcludenza pratica del più anziano rivale era destinata a rinnovarsi a Roma, secondo quanto filtra dai ricordi raccolti da Vasari. Non c’è solo l’irritazione di Leone X per l’artista che inizia a lavorare a un dipinto partendo dalla distillazione delle vernici finali, ma c’è anche la notizia di un dipinto realizzato per il datario del papa Baldassare Turini da Pescia, nel quale l’ostinato Leonardo riprende le sperimentazioni tecniche che dieci anni prima avevano provocato il disastro della Battaglia di Anghiari, scioltasi sul muro di Palazzo Vecchio.19 Se ci fosse un fondamento di verità in queste notizie di Vasari o si tratti di pura leggenda non è stato ancora accertato, ma i documenti scoperti di recente sembrano confermare che il soggiorno romano fu un fallimento per Leonardo da molti punti di vista. Michelangelo poteva rinverdire i suoi rancori contro il vecchio rivale che si perdeva ancora in niente. Senza neppure doverlo affrontare, Michelangelo poteva annichilire l’inconcludenza di Leonardo con la monumentale, concreta evidenza di quella volta immensa, vicinissima agli alloggi di Leonardo, dove migliaia di figure volavano, morivano e nascevano come in un mondo reinventato da capo, sterminato quanto nessuna altra pittura conosciuta. La sfida lasciata in sospeso a Firenze era definitivamente vinta a Roma.

Leonardo non si era mosso di un passo da quella occasione mancata. Non si conosce un dipinto, un disegno o una scultura realizzata tra l’abbandono della Battaglia di Anghiari e l’arrivo a Roma. Cosa aveva fatto in quegli anni Leonardo? Riempito codici, aperto placente e sezionato muscoli. Ma chi poteva interessarsi a quell’attività? Che spazio c’era nella Roma infuocata dalla competizione artistica per le speculazioni del vecchio Leonardo? Agli occhi del papa e di Michelangelo, l’ombra che vagava per Roma era senza futuro, non poteva minacciare nessun primato. Michelangelo scalpellava il marmo e disegnava la propria rivincita nella facciata di San Lorenzo a Firenze. Doveva solo temere i giudizi che l’altro poteva sussurrare all’orecchio dei Medici. Per questo non fu comunque contento della presenza a Roma del vecchio rivale: sebbene questi non potesse nuocergli con l’arte, avrebbe potuto nuocergli con i cattivi consigli, almeno così immaginò lo scultore. Rimaneva poi lo stile di vita di Leonardo a criticare quello di Michelangelo. Il primo era arrivato a Roma con tre giovani assistenti che lo amavano e lo seguivano da vent’anni, allietandogli la vita di tutti i giorni. Il secondo era solo e nessuno resisteva accanto a lui per più di qualche mese. Non sopportava a casa neppure un giovane garzone, preoccupato di doverlo mantenere e accudire.

Michelangelo si sentiva così superiore ai contemporanei da non voler entrare direttamente nelle sfide artistiche di quei mesi. Ma desiderava umiliare Raffaello, a cui non perdonava il successo e le ricchezze che andava accumulando, ed entrò nella sfida lanciata dal cardinale Giulio dei Medici in maniera indiretta, offrendo a Sebastiano del Piombo schizzi e disegni per la Resurrezione di Lazzaro. È più che probabile che di quella sfida Leonardo non si accorgesse nemmeno. Le sue sfide riguardavano la natura e non la pittura. La competizione coinvolgeva Michelangelo, Raffaello, Sebastiano, l’ambasciatore veneto e i banchieri fiorentini, oltre a intellettuali di prima grandezza che gravitavano intorno a Raffaello come Bembo, Castiglione e Navagero. Coinvolgeva l’intera città, un evento tra i più significativi dell’agonismo creativo della Roma del pieno Rinascimento. Leonardo non fu nemmeno sfiorato da questo clima, il Belvedere era più lontano della luna.