1. Walter Pater, The Renaissance, Studies in Art and Poetry, 1873, trad. it. Il Rinascimento, a cura di Mario Praz, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1965, pp. 123-124.
2. Margaret Heaton, Leonardo da Vinci and His Work, Adegi Graphics LLC, New York 2011.
3. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di Rosanna Bettarini e Paola Barocchi, voll. VI, Verona 1967-1987, e IV, Verona 1976, p. 19.
4. In Le memorie su Leonardo da Vinci, di Don Ambrogio Mazenta, ripubblicate e illustrate da D. Luigi Gramatica, Alfieri e Lacroix, Milano 1919, p. 11.
1. Antonio de Beatis, Itinerario di Monsignor Reverendissimo et Illustrissimo il cardinale de Aragona mio signore, incominciato da la cità di Ferrara nel anno del Salvatore MDVIIdel mese di maggio et descritto per me Donno Antonio del Beatis clerico Melfictano con ogni possibile diligentia et fede, Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, Ms. X.F.28, f. 77. Il manoscritto fu reso pubblico agli studiosi solo nel 1876, Luigi Volpicella, Il viaggio del cardinale d’Aragona, Archivio Storico per le provincie napoletane, I, 1876, pp. 106-117.
2. Pietro da Novellara, lettera a Isabella d’Este, 3 aprile 1501, Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, E, XXVIII, 3, b. 1103, c. 272. Il riferimento ai due garzoni che «fanno retrati» non va inteso in senso moderno di «ritratto» ma «copia». I due garzoni sono impegnati a fare copia dei dipinti di Leonardo perché nel XVI secolo la parola «ritratto» viene usata molto spesso come sinonimo di «copiato», «tratto da».
3. La notizia è riportata in Luca Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci in ordine cronologico, Fratelli Treves, Milano 1919, p. 148.
1. Lettera datata 1482, riportata in Beltrami, op. cit., p. 10.
2. In Karl Frey, Il Codice Magliabechiano, cl. XVIII. 17 contenente notizie sopra l’arte degli antichi e quella de’ fiorentini da Cimabue a Michelangelo Buonarroti, scritta da Anonimo fiorentino, G. Grote’sche Verlagsbuchhandlung, Berlin 1892, p. 110. Molte delle notizie riportate nel Codice sono riprese da Vasari nelle sue biografie mentre altre vengono tralasciate o trasformate. Riportato in Beltrami, op. cit., pp. 254 sgg.
3. «Era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto. Portava un pitocco rosato, corto sino al ginocchio che allora s’usavano i vestiri lunghi. Haveva sino al mezo in petto una bella capellaia et inanellata et ben composta» (Frey, op. cit., p.115).
4. Il soggiorno romano di Leonardo e il contesto culturale in cui venne a trovarsi l’artista è stato indagato in Domenico Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X, XLIIILettura Vinciana, Giunti, Firenze 2004.
5. Questo il risultato della approfondita indagine riassunta da Fritjof Capra, L’anima di Leonardo, Rizzoli, Milano 2012.
6. Vasari, op. cit., p. 18. Vasari appare molto poco informato su Leonardo, dicendolo nipote di ser Piero da Vinci nell’edizione Torrentiniana (p. 16).
7. Lettera di Andrea Corsali, viaggiatore fiorentino, a Giuliano dei Medici del 6 gennaio 1515, riportata in Beltrami, op. cit., p.145.
8. I documenti della tesoreria francese sono riportati con ampio commento da Bertrand Jestaz, Francois Ier, Salaì et les tableaux de Léonard, in «Revue de l’Art», 126, 1999, pp. 68-72.
9. La testimonianza è in una novella di Matteo Bandello, riportata da Giuseppe Bossi, Del cenacolo di Leonardo da Vinci. Libri quattro di Giuseppe Bossi Pittore, Milano 1810, p. 22 (anche in Beltrami, op. cit., p. 45), ed è molto toccante e sincera, forse uno dei documenti più significativi per capire il rapporto singolarissimo e riflessivo che Leonardo aveva con la pittura.
1. Frank Zöllner, Leonardo da Vinci. The complete Paintings and Drawings, Taschen, Köln 2003, p. 48.
2. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, a cura di Ettore Camesasca, Editori associati, Milano 1995, p. 70.
3. Marin Sanudo, I Diarii, F. Visentini, Venezia 1879-1902, tomo XXIII, p. 486; lettera da Roma dell’ambasciatore Lippomanno in data 17 gennaio 1517. La predica di Egidio da Viterbo fu tenuta in Sant’Agostino alla presenza di tre cardinali. Egidio da Viterbo era stato uno dei più influenti consiglieri culturali di Giulio II e confermò il proprio ruolo anche con Leone X.
4. La lettera è in John Shearman, Raphael In Early Modern Sources, 1483-1602, Yale University Press, New Haven 2003, vol. I, p. 391.
5. Paolo Giovio, Le vite di Leon Xet d’Adriano VIsommi pontefici, et del Cardinale Pompeo Colonna, scritte per mons. Paolo Giovio vescovo di Nocera e tradotte da m. Lodovico Domenichi, Fiorenza 1551, pp. 152 sgg.: «Mentre i vecchi ciascun principalmente attendeva all’interesse proprio, i giovani fecero Papa Giovanni, i quali con un perpetuo consentimento havevano deliberato più tosto dare che ricevere l’imperio della repubblica cristiana […] rotto quel taglio che aveva occupato la sede un puzzo mortifero che come infetto male fu creduto anchora col testimonio de medici che non dovesse vivere molto».
6. Ivi, p. 223: «Ma queste honorate virtù d’animo liberale e grande, erano oscurate dalle lascivie che gli erano apposte […] consiosiachè essendo le porte delle camere sue occupate dalla frequente moltitudine, pochi v’entravano che potessero raffrenare i costumi di questo huomo, perciochè tutti i migliori amici suoi facevano vista di non vedere; e assai volentieri si mescolavano fra i ministri delle lascivie, per non arrischiar la gratia […] Non mancò ancora d’infamia che poco onestamente amasse alcuni suoi camerieri (i quali haveva de più nobili di tutta Italia) e che con esso loro troppo lascivamente e liberamente scherzasse. Ma qual fu mai quello anchora che ottimo e santissimo principe, che in questa corte tanto avvezza a dir male fugisse e punture de gli uomini malvagi».
7. La vicenda del cardinale d’Aragona e dell’assassinio che perpetrò della bellissima sorella fu divulgata da Matteo Bandello nelle Novelle (novella XXVI). Bandello era stato alla corte di Napoli e conosceva bene personaggi e fatti. Il delitto fu ripreso da Webster alla fine del secolo e trasformato in un dramma teatrale The duchess of Malfi, che risulta rappresentato al Blakfriars Theatre già nel 1606, con più certezza nel 1614. Il marito della duchessa, Antonio Beccadelli, fu fatto uccidere dal cardinale d’Aragona a Milano nel 1510. In quella data Leonardo era anch’egli a Milano e, vista l’eco che ebbe questo delitto, è probabile che ne fosse venuto a conoscenza.
8. Giovio, op. cit., p. 142.
9. L’annotazione è riportata sul foglio Windsor XXXVIII, in Beltrami, op. cit., p. 136. La minaccia dell’esercito svizzero alle porte di Milano nel dicembre del 1511 è dettagliatamente raccontata in Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, Garzanti, Milano 1971, vol. II, p. 994: «Erano già in numero sedicimila e si voltorno verso Moncia, la quale non tentato di occupare ma standosi più verso il fiume dell’Adda, davano timore à franzesi di volere tentare di passarlo; però gittavano il ponte a Casciano, epr impedire loro il transito con l’opportunità della terra e del ponte. Dove mentre stanno, venne impetrato prima salvocondotto, uno capitano de’ svizzeri a Milano, il quale dimandò lo stipendio di uno mese per tutti i fanti, offerendo di tornarsene al paese loro; ma partito senza conclusione, per essergli offerta somma molto minore, tornò il seguente dì con dimande più alte, e ancora che gli fussino fatte offerte maggiori che’l di dinanzi, non dimeno, ritornato a’ suoi, rimandò subito indietro uno trombetto a significare che non voleano più la concordia». L’angoscia dei milanesi e di Leonardo, assediati dall’esercito svizzero giunto presso le mura, era aumentata dalla universale considerazione della ferocia e della barbarie di questo esercito, come lo stesso Guicciardini testimonia: «Sono i svizzeri […] per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese più tosto pastori che agricoltori. […] Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l’unione e la gloria dell’armi, con le quali, per la ferocia naturale e per la disciplina dell’ordinanze, non solamente hanno valorosamente difeso il paese loro ma esercitato fuori del paese la milizia con somma laude» (p. 989).
10. Giovio, op. cit., p. 191.
11. Ivi, p. 147.
12. Ivi, p. 155.
13. Le notizie su questa straordinaria festa sono in Fabrizio Cruciani, Il teatro del Campidoglio e le feste romane del 1513, Il Polifilo, Milano 1969, p. 44: «Finalmente più erano le vivande disperse et suppediate che le adoperate et in necessari usi converse». Lo spreco non poteva essere maggiore.
14. Sanudo, op. cit., XXIII, 1516, p. 143. Gli ambasciatori veneziani sono particolarmente severi con il comportamento del pontefice che stigmatizzano continuamente nei loro rapporti al senato veneto. Paolo Giovio mette in tutt’altra luce le abitudini papali nella sua Vita di Leone X, cit., p. 234: «E quasi sempre nello uscir dela estate tosto che l’aria cominciava a farsi temperata per la pioggia e il pestifero caldo per che s’indulciva alquanto col fresco, subito partendo di Roma andava ai bagni di Viterbo, dove attendeva per qualche tempo a uccellare starne e pernici e fagiani, la qual generazione di uccelli con singolare piacere cacciava con sparvieri et astari grandemente addestrati. Di qui partendo andava poi al lago di Bolsena per la piacevolezza del lago […] e quivi pescava nell’isola a all’uscire del fiume di Marta. Ne quali luoghi era reale apparato soleva essere raccolto da Alessandro Farnese cardinale […] Di qui poi cacciando per la contrada di Thoscana a piccioli viaggi scendeva al mare intorno a Montalto et Civitavecchia. Nel quale tratto di via appresso Corneto nel tarquiniese s’apparecchiava una grossissima caccia di cervi e cinghiali, […] appresso calendi di Novembre poi passando da Civitavecchia per Palo e i boschi di Cerveteri ritornava in Roma, e poco di poi ritornava alla Magliana e a fatica di la si poteva ritirare». Immaginiamo che Leonardo non fosse affatto turbato dalle lussuose abitudini del papa, anche se difficilmente capì subito che quelle abitudini non erano considerate legittime dal resto del mondo, essendo il papato un regno fondato sullo spirito diversamente dalle corti guerresche in cui era vissuto tutta la vita.
1. Misura e stima dei lavori fatti agli appartamenti di Belvedere per ospitare Leonardo nel 1513 (in Beltrami, op. cit., p. 137). Secondo la pratica corrente, veniva annotato sul registro contabile il lavoro precedentemente eseguito per poter essere saldato. Dalla data di annotazione si deduce che i lavori sono stati fatti nell’estate-autunno e che l’arrivo di Leonardo a Roma nell’alloggio per lui ristrutturato può essere collocato tra fine settembre e i primi di ottobre 1513. Giuliano Leno e Francesco Magalotti sono due imprenditori che lavorano frequentemente alle fabbriche papali nel secondo-terzo decennio del secolo.
2. Sanudo, op. cit., vol. XX, p. 110. Nello stesso volume sono raccolti i dispacci che raccontano l’entrata trionfale di Giuliano il Magnifico e della moglie Filiberta di Savoia a Roma di ritorno da Torino, dove aveva avuto luogo il matrimonio (aprile 1515): «Il magnifico introe a di ultimo il Sabato dill’Olivo con la moglie; fu molto honorato, ma niun cardinal li andò contra […] sol con S. Maria in Portico ch’è il Bibbiena, Medici et Cybo soi parenti zermani andorno a Hostia a visitarli è stà bel spectaculo a veder intrar 1000 cavalli. Alozò in caxa Orsina in Monte Jordano poi andò di longo a palazo dal papa et la sera tornò a caxa. Erano con lei donne ben vestite di panno d’oro et di seda, cussini, coriege, tapezzarie per famegli, saioni, calze e tutte le galanterie del mondo» (pp. 101 e 103). Il Magnifico e sua moglie si rappresentano dunque come una coppia regale agli occhi della città e di questo bisogna tener conto anche nel valutare la scelta di Giuliano di farsi fare un ritratto dell’amante da Leonardo.
3. In Laurenza, op. cit., p. 12.
4. «Le mie conclusioni sono quindi che le accuse ricevute da Leonardo, e da lui stesso riportate nella bozza di lettera a Giuliano de’ Medici, dovettero riguardare proprio le componenti più filosofiche dei suoi studi embriologici e anatomici» (IVI, p. 18).
5. Ivi, p. 17.
6. La lettera commentata ampiamente da Laurenza (in op. cit., pp. 43 sgg.) è riportata anche in Beltrami (op. cit., pp. 223 sgg) nelle tre diverse versioni. Il fatto che Leonardo riscrivesse più volte questa lettera testimonia della sua difficoltà a comunicare ai suoi potenti protettori le proprie esigenze. L’episodio, poi, ha almeno un precedente conosciuto nella tormentata minuta di lettera indirizzata intorno al 1496-98 a una eccellenza di Milano alla quale l’artista si rivolge per chiedere soldi (in Beltrami, op. cit., p. 57). L’incertezza linguistica sembra un segno piuttosto evidente della difficoltà di Leonardo a comunicare con il mondo esterno.
7. Laurenza, op. cit., pp. 43 sgg.
8. Vasari, op. cit., p. 35. L’interesse di Leonardo per le vernici è menzionato anche nella biografia dell’Anonimo Gaddiano: «Fece per dipignere nella Sala grande del Consiglio del palazo di Firenze… il quale cominciò a mettere in opera in detto luogho, come ancora hoggi si vede et con vernice» (in Frey, op. cit., p. 112). L’interesse di Leonardo per l’uso della vernice in pittura si spiega con la sua ricerca di una trasparenza totale delle velature e di una loro profondità ottica, elementi che caratterizzano la vernice naturale ottenuta con la resina vegetale e che veniva applicata alle pitture a olio in fase finale proprio per ottenere l’effetto profondo e tridimensionale del colore: «Et di Plinio cavò quello stuccho, con il quale coloriva, ma non l’intese bene. Et la prima volta lo provò in uno quadro nella sala del papa che in tal luogho lavorava et davanti ad esso, che l’aveva appoggiato al muro, accese un gran fuoco di carboni dove poi per il gran calore di detti carboni…» (ivi, p. 114). In un altro passo delle Vite, Vasari fa riferimento esplicito al «concetto eretico» che Leonardo si era fatto con le sue ricerche, un passo che agilmente possiamo mettere in relazione con gli studi sulla generazione e sull’anima. Questo passo fu nell’Ottocento alla base della leggenda trasgressiva costruita intorno a Leonardo.
9. Laurenza, op. cit., p. 32. La scarsa letteratura prodotta sul periodo romano di Leonardo è in parte dovuta alla carenza di documenti e in parte al pregiudizio con il quale la critica si è avvicinata a questo periodo, cercando unicamente le tracce dell’influsso leonardesco nell’opera degli altri artisti romani, tracce che sembrano inesistenti, se si eccettua la produzione del Sodoma, che sembra aver visto e meditato profondamente sull’opera di Leonardo, soprattutto in relazione alla dolcezza delle fisionomie maschili e alla morbidezza dello sfumato. A parte questa consonanza stilistica e la consonanza innegabile dell’orientamento sessuale tra i due, non risulta altra traccia di una loro frequentazione.
10. Ivi, p. 29, n. 131.
11. Ivi, p. 29, n. 129. Il sonetto è ai margini di un foglio del Codice Atlantico f. 213v.
12. Ivi, p. 29.
13. «A Parma alla Campana a di 25 di settembre 1514», annotazione nel Ms E, f. 80r, riportato in Beltrami op. cit., p. 139 e commentato in Laurenza, op. cit., p. 25, n. 373.
14. Shearman, op. cit., vol. I, p. 180.
15. Lettera dell’ambasciatore di Isabella d’Este a Roma alla duchessa a Mantova del 12 febbraio 1512 riportata in Alessandro Luzio, Federico Gonzaga, ostaggio alla Corte di Giulio II, Archivio della Reale Società di Storia Patria, Roma 1886, p. 534. La lettera è messa in relazione ai dipinti di Raffaello e commentata ampiamente in Antonio Forcellino, Raffaello. Una vita felice, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 226 sgg.
16. Vasari, op. cit., p. 199.
17. Leonardo da Vinci, op. cit., p. 33.
18. Vasari, op. cit., p. 35. Ancora più interessante è l’aneddoto riportato dall’Anonimo Gaddiano (in Frey, op. cit., p. 115): «Et passando ditto Lionardo insieme col Giovanni da Gavine da Santa Trinita, dalla pancaccia delli Spini, dove era una ragunata d’huomini da bene, et dove si disputava un passo di Dante, chiamero detto Lionardo, dicendogli che dichiarassi loro quel passo. Et a caso apunto passo di qui Michele Agnolo, et chiamato da uno di loro rispose Lionardo; Michele Agnolo ve lo dichiarerà egli. Di che parendo a Michelagnolo l’havessi detto per sbeffarlo, con ira gli rispose: Dichiaralo pur tu, che facesti un disegno di uno cavallo per gittarlo di bronzo et non lo potesti gittare et per vergogna lo lasciasti stare. Et detto questo voltò loro le rene et andò via dove rimase Lionardo, che per le dette parole diventò rosso […] E anchora Michele Agnolo volendo mordere Lionardo gli disse: et che t’era creduto da què caponi de’ Milanesi». La testimonianza è molto affidabile, perché l’anonimo estensore di queste note risulta molto meglio informato del Vasari su molte questioni della vita di Leonardo, come per esempio la cifra lasciata ai fratelli e l’eredità a Salai e altri collaboratori e, infine, egli risulta informato anche della realizzazione della Sant’Anna e della sua andata in Francia.
19. La notizia è in Vasari, op. cit., p. 35. Vasari offre anche in questo caso informazioni del tutto erronee, mettendo in relazione la partenza di Leonardo per la Francia con l’allogazione a Michelangelo della facciata di San Lorenzo a Firenze. La facciata fu allogata a Michelangelo nel giugno 1516, quando Leonardo seguiva trionfalmente Giuliano dei Medici nel suo ritorno a Roma.
1. Rogito notarile per l’acquisto di un palazzo in Borgo, in Shearmann, op. cit., p. 213.
2. Ivi, p. 441.
3. Ivi, p. 379.
4. Ivi, p. 240.
5. Lettera di Cecilia Gallerani a Isabella d’Este del 29 aprile 1498 (in Beltrami, op. cit., p. 51).
6. Cfr. Zöllner, op. cit., p. 94 e Carlo Pedretti, Leonardo, Capitol, Bologna, 1979, pp. 36 sgg. Ancora Carlo Pedretti, Leonardo. Il ritratto, in «Art Dossier», 138, pp. 26 sgg.
7. Vasari, op. cit., pp. 204-05. Nell’edizione del 1550 il biografo è molto meno insistente sull’influenza di Leonardo su Raffaello mentre nella seconda edizione perfeziona (sempre più lontano dai fatti e dalle opere) una compiuta teoria dell’influenza del pittore toscano su quello umbro, sviando la futura lettura critica dei rapporti tra i due segnati come altre vicende della storia dell’arte dalla propaganda vasariana assunta a documento certo. Il disaccordo degli altri pittori riguardo al primato di Leonardo su Raffaello è benissimo espresso da Federico Zuccari nelle postille riportate in Shearman, op. cit., vol, II, p. 1161. Ivi sono commentate anche altre postille di vari autori cinquecenteschi, dalle quali emerge sempre che nel giudizio dei contemporanei fu ritenuto maggiore Raffaello di Leonardo.
8. Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Walter Barberis, Einaudi, Torino 1998, p. 729.
9. Shearman, op. cit., p. 379.
10. Annotazione di Leonardo sul Ms G (Institut de France, Parigi), riportato e commentato in Laurenza, op.cit., p. 24, n. 105.
11. Sanudo, op. cit., xx, p. 22.
12. Castiglione, op. cit., p. 87. Importante sottolineare che nel passo la semplicità della bellezza venga esaltata come purezza d’animo, introducendo un importante parallelismo tra aspetto fisico e valore spirituale. In questo equilibrio tra doti estetiche e valore psicologico è il fondamento dei ritratti coevi di Raffaello, che si legge ugualmente nella Gioconda di Leonardo, anch’essa apparecchiata affinché «non sia così bianca né così rossa, ma col suo color nativo palli detta e talor per vergogna o per altro accidente tinta d’un ingenuo rossore, coi capelli a caso inornati e mal composti e coi gesti simplici e naturali, senza mostrar industria né studio d’esser bella». I ritratti femminili dei due artisti non si possono capire se non alla luce di questa ricerca intellettuale sofisticata e profonda.
13. Sul ritratto cfr. Forcellino, Raffaello. Una vita felice, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 223 sgg. Per la storia del dipinto vedi Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, Electa, Milano 1984, pp. 174 sgg.
14. Il sonetto datato dopo il 1510 è in Shearman, op. cit., p. 131 e sgg. La datazione si deduce dalla stesura del sonetto sopra alcuni fogli con disegni della Disputa e del Parnaso che furono dipinti intorno al 1510-11, ma queste date costituiscono unicamente date post quem, dal momento che Raffaello potrebbe aver scritto i sonetti anche anni dopo aver utilizzato i fogli per gli schizzi. Credibilmente i sonetti risalgono al 1512-13, una stagione nella quale Raffaello aveva consolidato la sua posizione a Roma ed era molto inserito nell’elegante società urbana.
1. Del dipinto in questione si sono occupati D. Brown e K. Oberhuber, Monna Vanna and Fornarina. Leonardo and Raphael in Roma, in S. Bertelli e G. Romakus, Essays Presented to Myron P. Gilmore, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 26-31. I due autori invertono il rapporto tra la Fornarina di Raffaello e questo progetto di dipinto di Leonardo, ritenendo che fu Leonardo a ideare la tipologia del quadro con la donna nuda di tre quarti. La tesi è insostenibile sia dal punto di vista filologico sia da quello stilistico. Mentre il percorso creativo di Raffaello e il suo interesse per lo sviluppo di una ritrattistica erotica è perfettamente documentabile e documentato, non lo è per niente nella produzione di Leonardo, tanto che sia il disegno sia le copie della composizione leonardesca mostrano quanto lontana (e scadente) sia la versione della bottega leonardesca rispetto al dipinto di Raffaello, pienamente riuscito. Per confermare la tesi di un’influenza di Leonardo su Raffaello (per confermare in definitiva Vasari) Oberhuber colloca su base puramente stilistica il dipinto della Fornarina dopo il 1517, per poter dimostrare in questo modo che Raffaello dipinse il ritratto dopo il soggiorno di Leonardo a Roma. Il dipinto della Fornarina stilisticamente non può datarsi che prima del 1515, perché sia nella composizione sia nel ductus pittorico è ancora vicino ai ritratti eseguiti da Raffaello nel primo decennio del XVI secolo. I contorni sono netti e calligrafici, il colore corposo e i toni compatti. Il cespuglio di alloro e il paesaggio nello sfondo sono un residuo quattrocentesco. Tutto questo sparirà nei ritratti a partire dal 1515, con il Ritratto di Baldassarre Castiglione databile con sicurezza al 1515, che segna una svolta importante nella tipologia della ritrattistica raffaellesca. Il fondo scompare per dare maggiore evidenza al clima psicologico, il colore svanisce quasi del tutto nell’impasto profondo e in una spazialità interna che non si registra fino a quella data. Il chiaroscuro diventa più morbido e più contrastato nei massimi toni e la spazialità interna alla figura è più profonda. Perfino la morbidezza delle fisionomie, l’evidenza delle stoffe è diversa in questi dipinti. Stilisticamente si può seguire un’evoluzione pittorica che parte dalla Maddalena Doni, procede nella Fornarina e poi nella Velata e Castiglione trova intorno al 1515 il suo assetto più maturo. Infine, a testimoniare una datazione della Fornarina prima del 1515 (prima dunque del soggiorno romano di Leonardo) è la vicinanza stilistica e fisiognomica della donna ritratta con la Madonna di Dresda e della Seggiola, tutt’e due databili agli anni 1513-14. In tutto questo gruppo di dipinti, la parte in ombra del viso delle donne è ancora ben colorita e irradiata da una luce indiretta, mentre a partire dalla Velata e dal Castiglione la parte in ombra del viso tende a sparire, inghiottita dalla profondità e ambiguità dello sfondo. Non mi sembra ci possano essere dubbi sul fatto che la Monna Vanna discenda dalla Fornarina e che in definitiva con le sue forme mascoline e il sorriso inconcludente sia un tentativo fallito della scuola di Leonardo di inseguire le ricerche più ardite di Raffaello. Che ruolo ebbe Leonardo in questa vicenda è difficile da stabilire, poiché anche i disegni pervenuti sono copie di un suo disegno e non permettono di rintracciare alcuna autografia. La Fornarina riflette l’apice del clima amoroso in cui si immerge Raffaello a Roma e il sonetto che evoca candori di neve e profumi di rose è credibilmente da mettere in relazione con questo dipinto e con questa donna.
2. La lettera di Pietro da Novellara a Isabella d’Este è datata 3 aprile 1501, è riprodotta e commentata ampiamente in Vincent Delieuvin (a cura di), La Sainte Anne: L’ultime chef-d’oeuvre de Léonard de Vinci, Officina Libraria, Milano 2012, p. 77.
3. Vasari, op. cit., pp. 29 sgg.
4. La particolare condizione di lavoro della bottega di Leonardo era già desumibile dai documenti e principalmente dalla lettera di Novellara a Isabella d’Este del 3 aprile 1501, ma le recenti indagini diagnostiche hanno permesso di appurare senza ombra di dubbio che nello studio dell’artista procedevano contemporaneamente tanto i suoi originali quanto le copie degli allievi che seguivano i mutamenti via via apportati dall’artista. Una pratica diversa da quella di altri artisti, che facevano fare copie agli allievi solo dopo che avevano finito il proprio originale. Una testimonianza precisa di questo iter si trova in Delieuvin, op. cit., e in Martin Kemp, Leonardo da Vinci. The Madonna of the Yarnwinder, con Thereza Crowe, National Gallery of Scotland, London 2011.
5. Delieuvin, op. cit., pp. 23 sgg.
6. Francesco Guicciardini, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di Alessandro Montevecchi, BUR, Milano 1998, p. 342.
7. Il documento di Agostino Vespucci, collaboratore di Machiavelli alla cancelleria fiorentina dal 1493 al 1530, è una annotazione dell’ottobre 1503 posta a margine di una epistola di Cicerone, riportata e commentata in Delieuvin, op.cit., p. 120.
8. Guicciardini, Storie fiorentine, cit., p. 424.
9. Documento riportato in Beltrami, op. cit., p. 112.
10. Il tentativo di Leonardo di indurire la mestica con l’uso dei bracieri posti alla base del muro è testimoniato dall’Anonimo Gaddiano (in Frey, op. cit.).
11. Riportato in Beltrami, op. cit., p. 72.
12. Guicciardini, Storia d’Italia, cit., p. 502.
13. In Beltrami, op. cit., p. 72.
14. Cfr. supra, n. 5. cap. 6: «Nunc ut Apelles Veneris caput e summa pecotris politissima arte perfecit: reliquam partem corporis incohata reliquit: sic quidam homines in capite meo solum elaborarunt: reliquum corpus imperfectus ac rude reliquerunt.» Accanto a questo passo di Cicerone, Vespucci annota il suo ironico parallelo con Leonardo: «Ita Leonardus Vincius facit in omnibus picturis suis. Ut est Caput Lisae del Giocondo, et Annae matris Virginis. Videbimus quid faciet de aula Magni Consilii, de qua re convenit iam cum vexillifero».
15. Beltrami, op. cit., p. 84.
16. Ivi, p. 90.
17. Ivi, p. 124.
18. Ivi, p. 95.
19. Ivi, pp. 114 sgg, lettera dell’ambasciatore Pandolfini alla signoria di Firenze del 12 gennaio 1507.
20. Breve di Giulio II ai Priori della Libertà e al Gonfaloniere di Giustizia del Popolo Fiorentino, in Raccolta di lettere sulla pittura, scultura, ed architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVIe XVIIpubblicata da M. Gio. Bottari e continuata fino ai nostri giorni da Stefano Ticozzi, Silvestri, Milano 1822-25, vol. III, p. 472.
21. Beltrami, op. cit., p. 119, lettera del 26 luglio 1507. Leonardo non ebbe buoni rapporti con i fratelli e li denunciò dopo la morte del padre perché si sentì espropriato dell’eredità. Questo conflitto familiare spiega anche il suo investimento affettivo nella piccola corte costituita dai suoi allievi, ai quali lascerà come vedremo quasi interamente i suoi beni, un atteggiamento molto singolare per i tempi. Soprattutto in Toscana il valore dei rapporti familiari e patrimoniali era molto sentito e quella di Leonardo appare una scelta molto trasgressiva, che destò scalpore a Firenze dal momento che l’Anonimo Gaddiano registra nella sua breve vita di Leonardo le vicende ereditarie dell’artista (in Frey, op. cit.): «Et lasciò a Batista da Viani suo servitore la metà d’uno suo giardino che haveva fuori di Milano et l’altra metà a Salai suo discepolo. Et lasciò 400 ducati a’ sua fratelli, che haveva in deposito a Firenze nello Spedale di Santa Maria Nuova, dove dopo la sua morte da loro non fu trovato più di 300 ducati». La correttezza di un’informazione così privata testimonia l’attendibilità dell’Anonimo sulle informazioni relative all’artista.
22. Ivi, p. 120, lettera del 15 agosto 1507 con la quale si concede a Leonardo un breve viaggio a Firenze per seguire la controversia ereditaria che lo oppone ai fratelli. Nella lettera si sottolinea anche la richiesta di non trattenere Leonardo a Firenze. Di fatto l’artista è diventato un ostaggio politico, a cui deve rinunciare la signoria fiorentina, che non riuscirà a imporgli di portare a termine la decorazione già appaltatagli e pagatagli del salone di Palazzo Vecchio.
23. Ivi, p. 128. Annotazione nel Codice a Windsor del 28 aprile 1509. Dall’annotazione si deduce anche il carattere solenne che Leonardo conferisce a queste scoperte, perché si premura di annotare esattamente l’ora e la data della soluzione a cui è pervenuto evidentemente dopo molti sforzi e molta fatica: «Avendo io lungo tempo cercho du quadrare l’angolo di due lati curvi cioè l’angolo e il quale à due lati curvi di eguale curvità, cioè curvità nata di un medesimo cerchio; al presenta la vigilia di calendimaggio nel 1509 io ho trovato il proposito a ore 22 in domenica». Nel continuo dialogo interno, Leonardo sottolinea a se stesso i momenti fondamentali delle sue tappe scientifiche.
24. Ivi, p. 131.
25. Ivi, p. 134. Anche in questo caso Leonardo ripete più volte la lettera, cercando faticosamente di calibrare le richieste e la forma giusta della comunicazione. L’artista denuncia in questo modo la sua difficoltà nella relazione con i committenti, una difficoltà che ritorna pochi anni dopo nella relazione con Giuliano dei Medici, anche in quel caso testimoniata dalla stesura di più bozze della lettera di lamento.
26. Ivi, p. 135. Nella seconda stesura della lettera, Leonardo sfuma l’offerta dei quadri scrivendo che sono «cominciate» laddove nella stesura precedente egli sosteneva che le madonne «son fatte». Quali fossero questi due quadri non si è riusciti a capire. Una probabilmente la Madonna dei Fusi che aveva iniziato nel 1501 per Robertet, secondo Novellara, ma l’altra non si può identificare. Anche questa seconda Madonna potrebbe essere un progetto poi abbandonato, come potrebbe essere un progetto abbandonato la stessa Gioconda di cui nel 1503 parla Vespucci e che Leonardo potrebbe aver trasformato in una Madonna successivamente abbandonata. Anche questo aspetto della produzione di Leonardo rende difficile l’identificazione delle sue opere, pochi altri artisti abbandonano i progetti iniziati come invece continuamente fa Leonardo.
27. Ivi, p. 135, annotazione del 2 gennaio 1511.
1. Zöllner, op. cit., p. 240.
2. Vasari, op. cit., pp. 34 sgg.
3. Ivi, pp. 30 sgg.
4. In Shearman, op. cit., p. 165.
5. In Capra, op. cit., pp. 170 e 172. Il lavoro di Capra ha il grande merito di avvicinare e analizzare le ricerche scientifiche di Leonardo alla luce della scienza contemporanea e metterne dunque in risalto l’originalità e la profonda concretezza.
6. Ivi, p. 97.
7. Ivi, p. 121. Il fatto che Leonardo avesse ricostruito visivamente la scoperta a cui è arrivato con l’osservazione geologica è molto importante, perché riconferma il valore scientifico che la pittura ha nelle ricerche di Leonardo per penetrare i segreti della natura e nello stesso tempo sottolinea anche la consapevolezza che l’artista aveva dei traguardi della sua ricerca. In un contesto ancora così poco sistematico quale era quello della scienza rinascimentale, le restituzioni grafiche che Leonardo faceva delle sue scoperte (riguardo ai diagrammi sulle correnti cfr. ancora Capra, op. cit., pp. 78-84) diventano un’«affermazione di verità» che l’artista faceva di fronte al mondo, forse solo inconsciamente, confidando però che prima o poi quelle scoperte così difficili da comunicare e sistematizzare sarebbero state apprezzate e capite. In questo senso i dipinti di Leonardo dopo il 1510 rappresentano nient’altro che il grado più raffinato dei suoi appunti scientifici.
8. In Delieuvin, op. cit., p. 234 è riportato l’inventario del 1686: «Autre panneau de toirs pieds de haut, d’une tete de femme souriante, original de la main del Leonard de Avinci».
9. Cfr. la lettera del Novellara citata sopra.
10. Kemp, op. cit. La ricerca di Kemp analizza dettagliatamente la vicenda dei due dipinti che furono realizzati nello studio di Leonardo e sui quali, partendo da un disegno comune, furono apportate successivamente le stesse modifiche fino ad avere poi conclusioni pittoriche alquanto differenti. La redazione finale dei due dipinti si deve ai due diversi allievi che li portarono a compimento dopo che Leonardo lasciò a loro l’esecuzione.
11. Cfr. la scheda di Ana González Mozo in Delieuvin, op. cit., p. 234.
12. Ibidem. La presenza della montagna disegnata la prima volta da Leonardo nello schizzo di Windsor Castle sembra confermare che il dipinto fu iniziato dopo il 1510, perché il disegno fu riportato nella fase iniziale del dipinto e non in una sua successiva trasformazione. È questo un caso molto significativo nel quale le indagini scientifiche (in questo caso la riflettografia) aiutano a datare concretamente un dipinto e a escludere che esso potesse essere iniziato nel 1503, come sarebbe se la donna ritratta dovesse identificarsi con Monna Lisa del Giocondo.
13. La cronaca del 23 marzo 1515 è in Sanudo, op. cit., XX, p. 105. In Bernard Jestaz, op. cit., p. 69.
14. «Havemo dimandà 4 cosse al Re et di niuna semo stà compiaciuti, zoè che Parma e Piacenza restino a la Chiexia e el donassimo e governo dil Magnifico nostro fratello… che dagi intrada in Franza al Magnifico» (ivi, p. 307).
1. L’inventario dei beni appartenuti a Salai è in Janice Shell e Grazioso Sironi, Salai and Leonardo’s legacy, in «The Burlington Magazine», 133, 1991, pp. 47-66. Gli autori sembrano prendere seriamente in considerazione l’idea che i dipinti trovati in possesso di Salai potessero essere autografi di Leonardo, ma il riscontro economico con le stime dei dipinti di maestri italiani in quegli anni esclude categoricamente che tra essi potesse esservi un autografo di Leonardo. Sulla particolare bellezza di Salai, cfr. Vasari op. cit., p. 28: «Prese in Milano Salai Milanese per suoc reato, il quale era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo begli capelli, ricci et inanellati, dè quali Lionardo si dilettò molto». Sul valore degli abiti e le loro caratteristiche cfr. Maria Giuseppina Muzzarelli, Guardaroba medievale, vesti e società dal XIIIal XVIsecolo, Il Mulino, Bologna 1999.
2. Elenco riportato in Shell e Sironi, op. cit. Si fa riferimento alla versione «extensa» dell’inventario riportata a p. 96, dove compare il prezzo di 100 scudi e 505 soldi accanto al quadro della «dona aretrata». La cifra scompare poi nell’imbreviatura e nella trascrizione degli autori.
3. Cfr. supra, n. 14 cap. 6 «Ita Leonardus Vincius facit in omnibus picturis suis. Ut est Caput Lisae del Giocondo, et Annae matris Virginis. Videbimus quid faciet de aula Magni Consilii, de qua re convenit iam cum vexillifero». Il passo sembra riferirsi a una testa di sant’Anna e non al dipinto con sant’Anna, Maria e il bambino. Nell’un caso (Vespucci) e nell’altro (inv. Salai) difficilmente un osservatore cinquecentesco avrebbe sintetizzato in «S. Anna» una tavola complessa con tre figure e paesaggio, come fanno fede le centinaia di lettere e inventari che descrivono sempre esaustivamente il numero delle figure.
4. Sulla vicenda dei dipinti tratti da cartoni di Michelangelo cfr. la vicenda delle lettere di Cornelia Colonnelli a Michelangelo per avere copie dei suoi dipinti, tratte però dai cartoni ancora in possesso di Michelangelo, discussa in Antonio Forcellino 1545. Gli ultimi giorni del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 243, n. 2. Sullo stesso argomento cfr. Maria Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”, Viella, Roma 2009.
5. «Ritrasse dal naturale Piero Francesco del Giocondo» (Frey, op. cit., p. 111). Davvero inspiegabile questo transumare d’identità a proposito del ritratto che Leonardo sicuramente iniziò ai primi del Cinquecento a Firenze. La vaghezza delle informazioni anche in una fonte per il resto così attendibile, qual è certamente l’Anonimo Gaddiano, fa pensare che Leonardo non avanzò molto nella realizzazione del quadro e che nessuno lo vide se non agli inizi del suo abbozzo. La perspicacia critica che conferma l’attendibilità della fonte magliabechiana si rivela in un altro passo del codice, nel quale l’Anonimo Gaddiano commenta quello che fu agli occhi di tutti i fiorentini il più famoso e riuscito ritratto di donna di Leonardo, quello di Ginevra Benci: «Ritrasse in Firenze dal naturale la Ginevra d’Amerigo Benci, la quale tanto bene fini, che non il ritratto, ma la propria Ginevra pareva». Il topos letterario della verosimiglianza miracolosa attraversa tutta la critica cinquecentesca per finire sulle pagine del Vasari, che a ogni modo su Leonardo da Vinci appare molto meno informato dell’Anonimo Gaddiano.
6. Vasari, op. cit., p. 31.
1. Su Giulia Gonzaga si veda la biografia di Bruto Amante, Giulia Gonzaga contessa di Fondi e il movimento religioso femminile nel secolo VI, Bologna 1896, ancora oggi un testo fondamentale sull’argomento. Per i rapporti di Giulia con l’Inquisizione cfr. Massimo Firpo e Dario Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), vol. II, Il processo sotto Pio V (1566-1567), Archivio Segreto Vaticano, 2000. Per Sebastiano del Piombo cfr. Michael Hirst, Sebastiano del Piombo, Oxford University Press, Oxford 1981, p. 115.