Epilogo

Alle armi

Giuliano dei Medici duca di Nemours muore il 17 marzo 1516, lasciando infelici i parenti che vedono sfumare un progetto dinastico arrivato alla soglia della realizzazione. Il figlio illegittimo avuto da Pacifica Brandano nel 1511, Ippolito, viene allevato nel palazzo di Montegiordano tra le cure dei parenti. Di Leone X, in particolare, che amava molto avere il bambino vicino.

Leonardo da Vinci muore il 2 maggio 1519, lasciando pochi rimpianti, perché era stato poco capito e la sua memoria fiorirà principalmente intorno a quei dipinti ai quali tutto sommato non aveva dedicato le energie migliori in vita. La musica in cui eccelleva e le speculazioni scientifiche raccolte in migliaia di pagine dense e incomprensibili saranno per secoli più oggetto di meraviglia che di comprensione vera e propria.

Raffaello Sanzio muore nel 1520, lasciando infelice la corte vaticana, la città di Roma e il mondo intero. I suoi amici più colti ebbero l’impressione che qualcosa fosse finito per sempre. È Baldassarre Castiglione, ancora una volta, a dare voce allo smarrimento di tutti: «Io son sano. Ma non mi par essere a Roma, perché non vi è più el mio poveretto Raphaello: che Dio habbia quell’anima benedetta!».

La vita però continua inesorabile e inesorabile procede la lotta per l’egemonia artistica in Italia. La notte del 6 aprile Raffaello muore, sei giorni dopo, quando non è ancora secca la malta che ne ha sigillato la sepoltura, Sebastiano del Piombo già scrive a Michelangelo per spingerlo a farsi assegnare i lavori lasciati incompiuti dall’artista in Vaticano e sottrarli agli allievi, Giulio Romano e Gianfrancesco Penni. La lotta non conosce soste. Non conosce soste neppure la lotta dei Medici per la propria espansione dinastica. Il concetto del tempo negli uomini del XVI secolo è tale che non ci si può soffermare mai troppo sul vuoto lasciato dai lutti, ma si deve progredire in quel «disegno» di cui ognuno a modo suo si sentiva parte. L’eredità fisica di Giuliano è presto raccolta da suo figlio Ippolito, quella di Raffaello è rivendicata da Sebastiano del Piombo, che aveva tentato di contendere al maestro di Urbino il primato già negli ultimi anni della sua vita. I due, Ippolito e Sebastiano, incroceranno il proprio destino intorno a una donna, meno evanescente ma altrettanto imprendibile di quelle che avevano fatto incontrare i destini di suo padre, di Raffaello e di Leonardo. È una donna che non visse attraverso lo sguardo degli uomini, nonostante avesse una bellezza ancora più stupefacente di quella delle donne che avevano incantato Raffaello e il duca di Nemours, bella al punto di doversi difendere tutta la vita dalla propria bellezza e dagli appetiti che questa suscitò nei potenti.

È Giulia Gonzaga, duchessa di Fondi: scrive, parla e combatte come e meglio di un uomo per difendere le passioni della sua vita. Nata a Sabbioneta nel 1513, a tredici anni va in sposa a Vespasiano Gonzaga, valoroso guerriero della famiglia più nobile d’Italia, ma storpio, vecchio e padre di Isabella, una ragazza dell’età di Giulia, promessa in sposa nel 1528 proprio al giovane Ippolito dei Medici. Il destino, più che prevedibile questa volta, vuole che Ippolito s’innamori della bellissima Giulia, madre adottiva di Isabella e i due, sembra con un reciproco consentimento, stabiliscano un piano quasi perfetto per sfuggire alle costrizioni dinastiche che tentavano di imprigionarli. Si tratta di due ragazzi poco più che ventenni e si fa una certa fatica a immaginarli così scaltri e determinati, ma i documenti non sembrano lasciare troppi dubbi sull’effettiva esistenza di questo piano. Giulia, già celebre per la bellezza e la cultura, non ama gli uomini, non si è fatta toccare dal marito e alla morte di questi è ben decisa a rimanere vergine, a stare lontana dagli uomini e dedicarsi alle sue damigelle, verso le quali nutre un attaccamento che non sfugge agli osservatori più attenti: «Et mi alligò con quanta difficoltà Vostra Signoria si convinca a maritar le sue damigelle, le quali essa ama come si vede poi dagli effetti, da figiuole et giura che non nasce d’avarizia ne da defetto che si trovi in lei altro che da questa maledizione di non aver mai V.S. conosciuto li piaceri del Santo Matrimonio». Giulia è sorda ai richiami di quei piaceri e non intende sposarsi mai più. Il vecchio Vespasiano le ha lasciato in dote il piccolo regno di Fondi a patto che non si risposi e lei intende utilizzare questa possibilità per sottrarsi all’amore degli uomini. Per non rinunciare alla protezione di un uomo, in tempi tanto turbolenti decide di dare in sposa la figliastra Isabella a suo fratello, Luigi Rodomonte Gonzaga, un uomo forte e generoso, al quale è legata da un profondo affetto. Rodomonte potrà provvedere alla difesa del suo piccolo ducato, evitando nello stesso tempo che un eventuale marito di Isabella avanzi pretese sulla sua eredità. Ippolito, da parte sua, si trova in una condizione non meno difficile di Giulia. La leggenda vuole che sua madre avesse provato a sbarazzarsene alla nascita, affogandolo e poi ponendogli sul volto un mattone ma, sopravvissuto a quell’infame delitto, il bambino venne portato da suo padre a Roma per essere educato alla corte vaticana. Anche lui sembra dotato di virtù e passione eccessive come Giulia. È abile nel combattimento, bello, elegante e colto in maniera rara, tanto che non sfugge ai contemporanei il suo tentativo di emulare il nonno Lorenzo dei Medici. Nel 1529 viene nominato cardinale dallo zio Clemente VII che, malato, ha paura di lasciare il giovane senza una posizione rispettabile. Ripresosi dalla malattia, il papa asseconda il giovane nella sua vita sfarzosa e in poco tempo la corte di Ippolito diventa un luogo fantastico intorno al quale ruotano i nobili di tutta Italia, come era stato quello di suo padre Giuliano. Ha una predilezione per i guerrieri orientali e presto il palazzo diventa un crogiuolo di etnie esotiche. Adora i berberi per il modo eccellente di cavalcare e i tartari per come tirano con l’arco. Mostra agli ospiti di riguardo le lotte corpo a corpo dei suoi guerrieri indiani e stupisce tutti con la loro resistenza sott’acqua. Predilige i turchi per la loro ferocia e fedeltà e li sceglie per la propria guardia del corpo. Come se non bastasse, allestisce nel giardino di palazzo uno zoo esotico, dove alloggia il leone donatogli da Francesco I dopo un viaggio a Marsiglia intrapreso per accompagnare lo zio Clemente VII. Ha un orso regalatogli da una nobile marchigiana e cavalli e cani e ogni tipo di animale, con il quale si dedica alle cacce favolose, già passione dell’altro suo zio, Leone X. Come se non bastasse tutto questo a farne un personaggio da favola, Ippolito è abile nella letteratura: i suoi sonetti alla cortigiana Tullia d’Aragona, che governa Roma come Imperia l’aveva governata ai tempi di suo padre, sono ammirati sinceramente dai contemporanei per la loro qualità poetica. Per impietosire Giulia, sorda alle sue preghiere, le traduce e le dedica il secondo libro dell’Iliade e accompagna il dono con una lettera dalla quale traspare tutto il lacerante dolore per l’amore rifiutato:

Non trovando io altro rimedio alla mia pena volsi l’animo mio a l’incendio di Troia e misurando con quello il mio, conobbi senza dubbio nessun male entro a quelle mura esser avvenuto che nel mezzo del mio petto un simile non si senta, lo quale cercando in parte affogare, di quel di Troia dolendomi, ho scoperto il mio. Onde lo mando a voi acciochè egli per vera somiglianza vi mostri gli affanni miei, poi che ne i sospiri ne le lagrime, ne il dolor mio ve l’an potuto mostrar giammai.

Se non è la lettera d’amore più bella del Rinascimento, è certo una delle più sincere e originali, perché mette ai piedi della donna una profonda cultura, un grande valore virile e un cuore fragile che i guerrieri sono reticenti a mostrare. Giulia resiste, resisterà fino alla fine e non cederà mai a quell’amore ma non lo respingerà neppure, per calcolo forse, ma è un calcolo legittimo. Giulia cerca una via nuova di restare al mondo padrona di se stessa, dei suoi beni e del suo corpo, dedicandosi a ciò che ama profondamente, la letteratura e la meditazione spirituale. Peccato che la natura le avesse dato un aspetto irresistibile e che tutti volessero appropriarsene. Ippolito troverà la giusta mediazione a quel desiderio possedendola in effigie attraverso un ritratto. Giulia saprà compensarlo del rispetto e della devozione assistendolo nel momento della morte per avvelenamento avvenuta nel 1535 proprio a casa sua a Fondi, dove Ippolito si era fermato prima di imbarcarsi per l’Algeria e raggiungere l’esercito di Carlo V. Paolo Giovio, sempre lui, il «monsignore troppo galante» che da trent’anni assisteva e registrava le fortune dei Medici vivendo accanto a loro e che era stato impietoso con Giulia criticandone la freddezza, ebbe parole bellissime per commentare quella morte, parole più da amico che da cortigiano: «Gli fu men dura la morte per essere vicino a Donna Giulia, la quale gli usò assai virtuose carezze». La straziante storia d’amore tra due giovani così straordinari partorì un ritratto. Attraverso il quale si misura il cambiamento avvenuto nella società italiana in una sola generazione.

La bellezza di Giulia, la sua inaccessibilità ne fecero un mito nell’immaginario maschile di ogni ceto e condizione. Non solo Ippolito le dedicò la sua breve e fulminante esistenza, ma molti altri principi e poeti ne rimasero abbagliati al punto che la fama della sua bellezza arrivò fino all’orecchio del sultano di Istanbul, Solimano il Magnifico. Pensando di dover avere anche Giulia nel suo harem, tentò di rapirla nell’agosto 1534, ma il tentativo fallì grazie alla resistenza della donna, che da quel momento vide arrivare al cielo la sua fama. La sua bellezza, per quanto casta, non poteva non accendere le fantasie erotiche dei cristiani oltre che dell’«infedele» Solimano e il rapimento fu condito di dettagli piccanti. Giulia era stata svegliata da un servitore nella notte e si era calata nuda attraverso una botola fino al giardino. Il servitore le aveva salvato la vita, ma lei non poteva tollerare di essere stata vista nuda e lo fece uccidere, provvedendo poi a mantenere la sua famiglia. Leggende naturalmente, ma la bellezza e il fascino sono nutrite dalle leggende e i maggiori poeti del tempo diedero il loro contributo a creare quella di Giulia. Bernardo Tasso e Francesco Maria Molza la cantarono nelle loro elegie poetiche. Intorno a lei dunque si addensarono desideri e aspettative che rendono addirittura paradossale la sua vicenda esistenziale, divisa tragicamente tra il desiderio che suscitava negli altri, uomini e donne, e il desiderio che aveva lei di dedicarsi alla riflessione spirituale in un modo che non si era ancora visto in Occidente, nuovissimo e inquietante per gli uomini, che cercheranno alla fine di bruciarla sul rogo, lei che era stata l’incarnazione della bellezza. La spiritualità di Giulia non ricalcava per niente quel rassegnato misticismo che aveva portato donne del Medioevo a chiudersi in conventi o sacrificarsi nel servizio per i poveri. Giulia voleva cambiare il mondo e governarlo come gli uomini. Dedicherà l’intera sua esistenza a questo progetto, avendo imparato a usare le armi dell’intelligenza e della volontà, che non deporrà mai fino all’ultimo giorno di vita.

I superstiti dell’età dell’oro del Rinascimento italiano, cresciuti all’ombra dei lussi di Agostino Chigi e della bellezza di Raffaello, stentavano a capire che, dopo il sacco di Roma del 1527, un’era finiva per sempre e che dal Nord calava una nuova sensibilità sociale, politica e religiosa, destinata a spazzare via quella confusa libertà della corte vaticana in bilico tra la dottrina cristiana e la civiltà greco-romana. Una parte sempre più consistente della società italiana accolse quell’esigenza di rinnovamento e rigenerazione della dottrina e dei costumi. Nacquero centri di rinnovata spiritualità come l’Oratorio del Divino Amore a Roma, nel quale già nel terzo decennio del secolo si incontravano laici e teologi per riflettere sul rinnovamento della fede cattolica. Il rinnovamento progrediva veloce anche nel resto dell’Europa, dove si intrecciava a progetti politici di maggiore autonomia degli Stati e delle popolazioni. Arrivò infine anche in Italia un’istanza radicale di rinnovamento, portata da Juan de Valdés, protonotario dell’imperatore Carlo V e da lui molto amato, al punto che poté svolgere la sua opera di proselitismo soprattutto a Napoli, dove nel 1535 si intrattenne con Giulia in conversazioni ardenti sulla fede e i costumi della Chiesa. Da Valdès, a partire dal 1535, si generò il filone più consistente dell’eresia italiana, combattuto dall’Inquisizione in una battaglia feroce fino all’annientamento alla fine degli anni Sessanta. Per un capriccio del caso, o forse per una naturale evoluzione della storia, tra i primi e più ferventi discepoli di Valdès a Napoli ci fu proprio Giulia, che si occupò in seguito di conservare e divulgare i suoi manoscritti eretici. Attraverso quale percorso la bellissima Giulia, nata in una delle corti più raffinate d’Italia, arrivò a sacrificare l’intera sua vita alla causa di una riforma che sarebbe stata sconfitta e che fu sul punto di mandarla al rogo non si può spiegare. Ma è un fatto che altre donne meno belle ma non meno nobili e potenti seguirono quel percorso fino a costituire un circolo ristretto e attivissimo che un grande eretico apostata come Vergerio salutava come il circolo dei «precipui lumi» che Cristo aveva donato all’Italia in quel tempo di grande confusione per orientare lo spirito dei cristiani. Attraverso questa impegnata militanza eretica, per la prima volta nella storia donne di alta condizione sociale spendono la propria istruzione e il proprio potere non per una causa dinastica né per appoggiare le ambizioni degli uomini, ma per un proprio desiderio intellettuale. L’amica più vicina a Giulia, come lei impegnata in questa generosa battaglia di cambiamento sociale e religioso, la poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, arrivò a concepire un pellegrinaggio in Terra Santa di sole donne. Un progetto che inconsapevolmente sfidava in maniera così sfacciata il potere e l’egemonia maschile che dovette intervenire il papa per dissuaderla.

Giulia, impegnata in questa battaglia, si sentiva distante dai desideri degli uomini, ma forse anche per questo brillava ancora di più ai loro occhi. Così Ippolito, consumato dall’amore per l’irraggiungibile Giulia, volle il suo «ritratto dal naturale», come suo padre vent’anni prima aveva voluto il ritratto della «certa donna fiorentina». Morti Leonardo e Raffaello, ai quali suo padre si era rivolto, rimaneva a Roma, corteggiato da tutti, il rivale che era sopravvissuto, Sebastiano del Piombo, che con la scomparsa di Raffaello non aveva avuto più problemi a egemonizzare il campo della pittura. Soprattutto quello del ritratto, portando ancora più avanti le ricerche di Raffaello e di Leonardo. Non aveva più remore a esplorare le profondità psicologiche messe a punto nel ritratto di Baldassarre Castiglione e nella Velata. Nel 1525 aveva dipinto un ritratto di Andrea Doria che aveva superato la profondità psicologica dei ritratti di Raffaello. Con una sensibilità raffinatissima per l’accordo cromatico, Sebastiano aveva usato una gamma ridotta di toni grigi che davano una solennità e un’eleganza nuove al dipinto. L’ombra, con la quale anche lui si misurava dopo Leonardo, avvolgeva la figura rendendola inafferrabile e concreta al tempo stesso. Non stupisce dunque che Ippolito chiedesse a lui un «ritratto dal naturale» di Giulia.

Ancora un ritratto di una certa signora

Sebastiano scrive a Michelangelo che si recherà a Fondi nel feudo di Giulia per ritrarla nel giugno 1532: «Credo dimane partirmi da Roma et andar insino a Fondi a retrarre una signiora, et credo starò 15 zorni». Quindici giorni per studiare il modello, per redigere disegni dettagliati e forse per abbozzarlo appena sulla tela. Poi il resto del lavoro lo completerà nel suo studio di Roma, perché i colori a olio richiedono tempi lunghi per asciugare e la tecnica meticolosa di Sebastiano, lo sfumato secondo solo a quello di Leonardo, necessita tempi ancora maggiori. I quindici giorni saranno molto fruttuosi, perché Sebastiano dipingerà un ritratto così bello che per molti anni collezionisti e appassionati d’arte gli chiederanno di replicarlo. Un ritratto che diventa tra il 1532 e il 1547 il simbolo della bellezza e dell’eleganza femminile. Nell’inventario redatto alla sua morte, il 27 giugno 1547, risulta nella sua bottega «un quadro ritrato de la Signora Giulia Gonzaga in preda» e un altro ritratto della stessa Giulia risulta nelle proprietà di Fulvio Orsini, questo però in tela: «Quadro scorniciato d’oro, col ritratto di donna Giulia Gonzaga».

Un ritratto di Giulia era stato chiesto a Sebastiano poco prima della sua morte dalla regina Caterina dei Medici, insieme a quello altrettanto celebre di Clemente VII. L’accostamento dei due dipinti nella richiesta della regina è illuminante. Se da un lato Caterina aveva motivi di orgoglio familiare nell’esibire il ritratto dello zio Giulio dei Medici, papa Clemente VII, cosa poteva spingerla a desiderare il ritratto della bella Giulia, che non aveva probabilmente neppure mai conosciuto? I sonetti che avevano dedicato alla donna e al ritratto i maggiori poeti del tempo, Molza e Porrino, avevano diffuso la fama del dipinto e della bellezza di Giulia, portandola alle orecchie di Caterina. O forse voleva comparare la bellezza della donna che aveva amato lo zio, il Magnifico Giuliano, con quella della donna che aveva amato il figlio, suo cugino Ippolito? Caterina vide e ammirò certamente il ritratto di Leonardo comprato dal suocero Francesco I, voleva accostarvi quello di Giulia Gonzaga in una ideale galleria francese di bellezze femminili italiane? Sono ipotesi a cui la storia non può rispondere, ma è suggestivo che il legame tra padre e figlio si replichi attraverso i ritratti delle donne che avevano amato, almeno agli occhi della regina. Purtroppo la celebrità del dipinto non ha aiutato la sua identificazione, perché l’originale andò disperso e lo conosciamo solo attraverso copie non autografe e grazie agli adattamenti che ne fece Sebastiano, prendendo a prestito la bellezza di Giulia per dipingere figure allegoriche variando leggermente i simboli che le caratterizzavano. Sono copie sufficienti a concludere il passaggio che vogliamo segnalare tra i ritratti sensuali, ambigui e ironici delle donne della generazione precedente con quelli severi, contenuti e intellettuali delle donne della generazione successiva, dei quali il ritratto di Giulia Gonzaga è certamente il prototipo più riuscito.

Nel ritratto che a mio avviso riflette più fedelmente l’originale di Sebastiano, identificabile forse nel dipinto oggi al Museo de Arte della Catalogna di Barcellona, Giulia è in posa di tre quarti, in piedi contro una finestra aperta su un paesaggio che ricorda da vicino la costa tra Fondi e Sperlonga, dove ancora adesso sorge il castello di Giulia. La mano sinistra tiene fermo un piccolo libro aperto sul tavolo, con la destra si tocca il cuore. L’evocazione del libro dedicatole da Ippolito, che del ritratto è il committente, è più che evidente. Il libro, i tormenti di Troia a cui Ippolito associa i suoi tormenti d’amore, ha toccato il cuore di Giulia. È vestita con il severo abito delle nobildonne del suo tempo, un pesante abito di damasco operato a ricami floreali che nasconde ogni forma sotto le ampie e pesanti pieghe della stoffa. È un vestito semplice, non un abito da cerimonia, un abito che asseconda l’eleganza e l’intimità familiare, resa ancora più pudica dal grande telo bianco che le copre la spalla sinistra. Un velo bianco le copre i capelli, lasciandole però scoperte alcune ciocche, che cadono ribelli sull’orecchio. È l’unico accenno di scomposta natura che si legge nel ritratto, dove il resto è tutto rigidamente controllato. Il seno non si intravede neppure, costretto dal corpetto di damasco e dalla camicia. Un terzo velo, trasparente, sale dal bordo bianco della camicia per alcuni centimetri a coprirle l’attaccatura del seno. Quanto è lontana quella Velata di Raffaello da cui pure il ritratto di Giulia discende. Lì il vestito era tutto aperto su veli trasparenti e sembrava sul punto di cadere, qui tutto è fermo e rigido. Il collo lungo e bianchissimo prepara con una curva slanciata la perfezione del volto. Il collo di Giulia è celebrato dai poeti, come il suo seno, la cui bellezza si presta magnificamente a simboleggiare i doni che nasconde nell’anima. Tanto bello quel collo da sdegnare perle e ogni altro gioiello, e anche quest’assenza di gioielli e di evocazioni mondane separa la Velata dal ritratto di Giulia, che deve esaltare le virtù intellettuali piuttosto che la magnificenza delle pietre preziose: «E di si bella spoglia indi l’ornasti, che bisogno non ha di perle o d’ostro, com’anco non è d’altro monile, Per far più vago il bel collo gentile». I gioielli della Velata esaltavano troppo la sua sensualità e scompaiono del tutto nel ritratto di Giulia. La celebrazione dell’intelligenza, della castità e della severità di Giulia evocano come nume tutelare Pallade piuttosto che Venere. È detto con chiarezza anche questo nel lungo componimento poetico che Molza, per conto di Ippolito, dedica a questo ritratto.

La bellezza di Giulia è perfetta e severa al tempo stesso. Non è più ideale universale come quella del ritratto di Leonardo ma neppure evocativa di una felice antichità come quella di Raffaello. Giulia guarda severa la complessità del mondo di fronte a lei, un mondo che ha imparato a conoscere e dal quale vuole difendersi. Sebastiano registra fedelmente la bellezza di Giulia e ne comprende la natura. L’arco sopraccigliare è perfetto ed è molto rilevato nel contrasto scuro delle sopracciglia con la pelle diafana, perfetto l’ovale allungato del volto e la linea del naso, quasi un canone nel profilo dritto, regolare e sottile. Gli occhi nerissimi e grandi fissano l’osservatore ma senza passione, concentrati più verso uno sguardo interno e pensoso che verso l’esterno. Questo sentimento introspettivo viene esaltato dalla presenza dei libri sul tavolo, i libri erano stati lungamente un attributo simbolico maschile, ora entrano a far parte del panorama quotidiano delle donne: la rivoluzione iniziata nel salotto di Urbino trent’anni prima è compiuta. Anche questo è un modo per imporre la nuova dimensione intellettuale raggiunta dalle donne. Il ritratto più celebre che metteva in relazione il modello con un libro fu quello che Raffaello dipinse per Leone X. Anche lì il papa posava l’indice sul Vangelo aperto, stabilendo una consonanza tra sé e il testo religioso. Giulia stabilisce una consonanza altrettanto stretta con i libri sul tavolo, che prendono il posto dei costosi ninnoli che ancora occupano il tavolo nel ritratto coevo di Eleonora Gonzaga, amica carissima di Giulia e sodale nella pericolosa battaglia che combatteranno in futuro per il rinnovamento religioso. Ma Eleonora nel ritratto di Tiziano è ancora prigioniera della sua condizione dinastica, mentre Giulia è liberata dall’amore di Ippolito e dall’amore per se stessa. Di fronte all’evidenza intellettuale del sentimento, la bellezza deve arretrare e assecondare la purezza dello spirito. Il candore della donna si presta a celebrare il candore del sentimento poetico e gli occhi sembrano enormi nel viso pallido appena velato di rosa. «A quella bocca che perle e rubini avanza di vaghezza e di colore», così Bernardo Tasso scriveva guardando il ritratto, e la piccola bocca carnosa e rossa è serrata in una espressione severa. Non vediamo più niente della donna, se non la sua severità. Nessuna concessione alla sensuale bellezza della Velata o della Gioconda, per non parlare della Fornarina, che scopriva le spalle e il seno compiaciuta delle proprie forme. Giulia accetta di farsi ritrarre senza concedere niente della sua sensualità, governando perfettamente l’immagine che attraverso il pittore sta consegnando non solo all’innamorato Ippolito ma all’Italia tutta, sempre avida di ritratti importanti.

Il processo attraverso il quale Raffaello aveva usato le modelle per raggiungere un suo ideale di bellezza e Leonardo per raggiungere un suo ideale di fusione atmosferica è bloccato dalla perfezione di questi lineamenti. La modella governa severamente l’immagine che il pittore sta ritraendo. Il corpo sembra più una barriera che una porta aperta sulla via dell’anima. Così come già Raffaello aveva fatto utilizzando le modelle più belle per i propri dipinti sacri, Sebastiano usa la bellezza di Giulia Gonzaga in una serie di dipinti dal carattere simbolico, il più riuscito dei quali è il Ritratto di donna nella collezione del duca Harewood a Leeds e la rievoca in alcune madonne come la Madonna del velo al Museo di Capodimonte. Ma anche in questi dipinti la bellezza severa di Giulia prevale sul tema occasionale e lo imprigiona. Per Sebastiano, per la società tormentata dalle battaglie religiose e dai mutamenti sociali successivi al sacco di Roma, la bellezza può essere soltanto severa e rigidamente composta. In questo nuovo passaggio dall’età dell’oro, delle cacce, delle favole e della spensieratezza erotica dei primi decenni alla tormentata età della riforma, le donne si riavvicinano agli uomini nella compostezza dei ritratti. Dopo la parentesi di libertà dei primi decenni del secolo, gli slanci si chiudono, si irrigidiscono. Ancora una volta sono i ritratti femminili a registrare per primi i mutamenti sociali, in questo caso irrigidimento e, forse, la malinconia preoccupata per un futuro diventato incerto dopo le devastazioni portate in tutta l’Italia dalla discesa dei lanzichenecchi. Il sorriso sulle labbra delle donne si spegne, Leonardo e Raffaello avevano fatto appena in tempo a fermarlo nei loro memorabili dipinti perché è il sorriso di un’epoca rara, che non tornerà se non dopo secoli. Anche quando le donne compaiono nelle rappresentazioni erotiche più spinte, nei dipinti allegorici di Tiziano, in forma di Venere e di Danae disponibili e sottomesse ai desideri maschili, nude e provocanti, non sarà più la psicologia femminile a esser esibita ma il corpo, il suo candore, la nudità e la bellezza.

La storia del ritratto di Giulia Gonzaga, così conosciuto, copiato, celebrato, ci mette di fronte a un evento sociale importante quanto il fatto artistico. Il ritratto sembra recuperare da un lato la rigidità dei ritratti borghesi di fine Quattrocento e dall’altra la complessità psicologica che avevano sperimentato Leonardo e Raffaello. Ma Giulia, pure bellissima nei lineamenti, ha perso la provocante sensualità femminile, avvicinandosi alla severità maschile. Il progenitore di questo tipo di ritratto sembra il Doppio ritratto di Raffaello, oggi alla Galleria Doria Pamphilj di Roma, nel quale due uomini in nero, forse due letterati, guardavano intensamente il pittore senza esibire niente del proprio corpo se non l’acume dello sguardo penetrante. Sembra questo, insieme al ritratto della Velata, il precedente più vicino al ritratto di Giulia Gonzaga. La sua forza di volontà e la sua passione intellettuale, provate fino alla crudezza dalle carte inquisitoriali, sembrano imporsi come credenziali di carattere accanto alla bellezza, che non promette nulla ma sostiene l’intelligenza e la forza.

Cosa provoca a Roma l’arrivo di quel ritratto nel cuore di Ippolito dei Medici? Il suo palazzo lussuoso, il viavai delle cortigiane che ancora governano Roma, le tracce che suo padre attraverso Raffaello e Leonardo aveva lasciato di un mondo in rapida trasformazione come si conciliano con questo nuovo traguardo dell’arte e della società rinascimentale? Suo padre Giuliano aveva chiesto a Leonardo di ritrarre una «certa donna fiorentina» che amava o ammirava e quel dipinto era stato certamente il frutto del desiderio del committente e del desiderio dell’artista, che aveva trasformato l’occasione nell’ennesima possibilità di esplorare il mondo naturale e sentimentale con la pittura. Per non parlare dei ritratti di Raffaello, che avevano fatto affiorare quella bellezza interiore delle donne in una esplosiva miscela di intelligenza e sensualità, che erano a ogni modo il frutto del suo sguardo prima che dei tratti del carattere delle modelle. Nella generazione successiva, con il ritratto fatto a Giulia da Sebastiano del Piombo, l’influenza del committente è cancellata, rimane del pittore la capacità di assecondare con il suo talento la volontà inflessibile della modella. E tutto questo sarebbe meno eclatante se non ruotasse intorno a una bellezza leggendaria che muove guerre, come era stata la bellezza di Elena, e si nega in quanto tale, visto che Giulia non riconosce più nella bellezza uno strumento di definizione del proprio essere (anche se è difficile credere che nell’entusiasmo di Valdés per Giulia, un entusiasmo che lo muove a dedicarle e comporre per lei una delle sue opere più significative, non sia entrata una fascinazione per quella perfetta bellezza). Come cantavano Molza e Parrino, la straordinaria bellezza di Giulia era doppiamente divina, perché provava la perfezione della creazione e perché muoveva non a turpi desideri ma ad altissime considerazioni virtuose.

Appena nella generazione precedente, una donna di indubbia intelligenza quale fu Isabella d’Este non poteva rinunciare alla seduzione della propria bellezza e alla vanità di vederla immortalata da un pittore come Leonardo. Invano insegue per anni l’artista sperando che voglia tradurre in pittura quel ritratto disegnato nel quale lei appare comunque ampiamente scollata con un vestito di foggia arditamente cortigiana. Si consuma di invidia per la bella Cecilia, che aveva avuto l’onore di un ritratto di Leonardo, e forse è la prima in Italia e in Europa a capire chiaramente che quel ritratto conferirà alla semplice amante del duca di Milano un’immortalità negata alle principesse di sangue reale. E non è fantasia la preminenza affidata da Isabella all’eleganza e alla bellezza. Le lettere scambiate con la cognata Eleonora sono piene di considerazioni sull’eleganza e piene del sicuro affidamento che le donne fanno sul proprio gusto estetico.

Ironia della sorte, tocca a una sua nipote cancellare tutto questo dall’orizzonte intellettuale italiano. Giulia Gonzaga, sostenuta in seguito da Vittoria Colonna e Renata di Francia e dalla figlia di Isabella, Eleonora, è pronta a fare un falò di tutta la vanità femminile, ma non per punire le donne come aveva fatto Girolamo Savonarola, ma per liberarne l’intelligenza e lo spirito, qualità molto più affidabili della bellezza. Forse la chiave del fascino di Giulia era proprio questa, la negazione del valore di una dote che aveva ricevuto in eccesso agli occhi di tutti gli uomini, l’idea che hanno queste coltissime e potentissime donne del proprio ruolo sociale impone agli uomini una visione nuova e gli artisti, che degli uomini sono l’avanguardia, la colgono immediatamente. Se Sebastiano è pronto a utilizzare la lezione raffaellesca per congelare in un puro sentimento di pudore e intelligenza la bellezza carnale di Giulia Gonzaga, Michelangelo Buonarroti, pochissimi anni dopo è pronto a materializzare con il suo sovrannaturale talento le visioni delle due amiche più care a Giulia, Vittoria Colonna ed Eleonora Gonzaga, con lei impegnate nella pericolosa riforma della religione cattolica in Italia.1