Passiamo al secondo problema, quello della datazione di un testo. Prendiamo un esempio relativamente semplice, quello di un diario. Esso dovrebbe essere stato redatto giorno per giorno, ma possono esserci state annotazioni marginali, aggiunte o correzioni, che risalgono a date posteriori, anche di molto, al giorno accanto al quale sono state inserite. Se il diario è stato ricopiato più tardi, tali modifiche possono essere state integrate nel testo. Non è raro il caso che l’autore del diario, per ragioni sue personali, abbia modificato con il senno di poi alcune notizie o sue osservazioni o suoi giudizi. Tutto ciò deve essere chiarito in sede di edizione, sicché il problema della datazione non è lineare neppure in questo caso.
Non molto diversa è la situazione in cui si trova l’editore di una cronaca. È ovvio che essa debba essere stata completata dopo l’ultimo avvenimento che vi è registrato. Ma la cosa non è così semplice. Le frasi in questione possono essere un’aggiunta posteriore alla redazione del corpo del testo, che nel suo complesso risale più addietro. Dobbiamo dunque preliminarmente stabilire se il testo ha avuto revisioni e integrazioni, perché allora ogni sua parte va datata per conto proprio. In tal caso soltanto il testo completo può essere considerato posteriore all’ultimo avvenimento registrato; alcune sue parti possono essere poco o molto anteriori.
Di solito gli editori di cronache o diari non datati fanno un riepilogo degli avvenimenti più recenti che in essi sono registrati e ne traggono un termine post quem. Non sempre tali riferimenti sono però sicuri. Ad esempio, il IV libro delle cronache di Jean Froissart, che ho già citato, è stato considerato posteriore al 1404 perché vi si legge questo passo, che si è ritenuto implicasse che Alberto di Baviera fosse già morto, e che quindi Froissart le scrivesse dopo il 14 dicembre 1404:
Et en parlay à mes chiers seigneurs, qui pour le tamps regnoient, monseigneur le duc Aubert de Baiviere, conte de Hainnaut, de Holland et de Zellande et sire de Frise, et à monseigneur Guilleme son filz, pour ces jours conte d’Ostrevan, et à ma tres chiere dame et honnouree, madame Jehenne, la ducesse de Brabant et de Luxembourg, et à mon tres chier et grant seigneur, monseigneur Engueran, seigneur de Coucy, et aussi à ce gentil chevallier, monseigneur de Gomegnies[19].
Ma questo passaggio dice soltanto che al momento in cui avvengono i fatti che il cronista sta narrando tutti questi signori erano in vita ed esercitavano i rispettivi poteri; non dice affatto che al momento in cui egli li scrive essi siano morti. E infatti il signore di Coucy morirà poco dopo (1397) in Anatolia, ma la duchessa di Brabante e il re di Francia Carlo VI moriranno parecchi anni dopo lo stesso Froissart. Se il ragionamento che è stato fatto per dedurne una datazione dell’opera fosse corretto, il termine post quem della cronaca dovrebbe dunque essere spostato molto più avanti, addirittura dopo il 1420.
Chi deve datare una cronaca osserva, come è ovvio, i fatti più evidenti, come la morte di un sovrano. Però sono molto più rivelatori gli avvenimenti secondari, quelli che non balzano agli occhi di nessuno. Nel caso che ci interessa, Froissart racconta a suo luogo che nel 1396 il duca Giovanni di Lancaster, zio del re e primo nella gerarchia dell’aristocrazia inglese, rimasto vedovo, sposò una donna di bassa estrazione, Caterina di Ruet, che a lungo era stata la sua amante e da cui aveva avuto figli che gli erano molto cari e che voleva legittimare. Questo matrimonio suscitò le più severe critiche tra le grandi dame della corte inglese, che dovevano così cedere il passo ad una donna che consideravano molto inferiore a loro. Malgrado tutto, scrive il cronista, Caterina di Ruet rimase, «finché visse, duchessa di Lancaster». Queste parole possono fare sospettare che il cronista sapesse, quando le scrisse, che Caterina era morta. Orbene, il decesso avvenne il 10 maggio 1404. Questa data è coerente con altri indizi fornitici dalla tradizione del testo. Ma si può dubitare che il senso sia invece più semplicemente: «nessuno tolse mai alla donna, anche dopo la morte del duca (nel 1399), il titolo di duchessa». Ci si deve del resto chiedere quanto tempo ci sia voluto perché la notizia della sua morte giungesse dall’Inghilterra in continente.
Per questo tipo di datazioni si ricorre spesso ad argomenti come «Se avesse scritto dopo la data X, l’autore non avrebbe potuto non sapere che era accaduto tale o tale fatto». Nel nostro caso, come avrebbe potuto Froissart non menzionare in qualche modo la morte, avvenuta il 27 aprile 1404, di uno dei protagonisti delle vicende da lui narrate, il duca Filippo l’Ardito di Borgogna, che spesso aveva governato anche il regno di Francia? Filippo non può essere annoverato tra i protettori di Froissart, ma si trattava del più potente personaggio di Francia, anche più del re (il povero malato Carlo VI), e per di più viveva non lontano dall’Hainaut del cronista. La sua morte fece sì che diventasse duca di Borgogna il figlio, il conte di Nevers, vale a dire il futuro Giovanni Senza Paura, di cui Froissart aveva a lungo narrato le infauste vicende nei Balcani e in Turchia.
Ci possono essere mille ragioni per le quali un cronista non menziona un avvenimento, e quindi questa procedura di datazione non è priva di pericoli, perché sarebbe doveroso escludere che l’autore abbia avuto una qualche ragione per non menzionare gli avvenimenti che a noi invece sembrano d’importanza capitale. E la cosa non è facile.
Va pure tenuto conto che tra un avvenimento, pur rilevantissimo, e la sua conoscenza da parte del pubblico può intercorrere un lasso sensibile di tempo. Non mi riferisco qui al fatto, che a volte si riscontra, di avvenimenti che per una ragione o per l’altra vengono tenuti nascosti per qualche tempo ma alla circostanza, che per noi va diventando sempre meno ovvia, che una notizia si diffondeva in passato con velocità che sono ben lontane dalla attuale abitudine ai notiziari televisivi che ci danno informazioni in tempo reale di ciò che accade in qualsiasi parte del mondo.
Un caso interessante di queste sfasature temporali cui non siamo più abituati ci è fornito proprio da Froissart. Il 16 settembre 1394 morì ad Avignone il papa Clemente VII, il primo pontefice che decedesse dopo lo scisma avvenuto nella Chiesa a causa della elezione di due papi in concorrenza, uno a Roma e l’altro appunto ad Avignone. La notizia arrivò poco dopo a Parigi, al re Carlo VI. Il re ed i suoi consiglieri sperarono che ciò permettesse di superare la divisione della Chiesa e si affrettarono ad inviare ad Avignone, con la maggiore velocità possibile, messaggeri che pregassero i cardinali avignonesi di soprassedere all’elezione di un successore del defunto, lasciando il tempo di cercare una composizione con il papa di Roma. Ma i cardinali erano immediatamente entrati in conclave ed il 28 settembre 1394 avevano eletto il cardinale Pedro de Luna, che assunse il nome di Benedetto XIII. Può darsi che la fretta del sacro collegio non fosse del tutto innocente e che essi volessero proprio evitare di essere fermati dal re di Francia. Resta il fatto che tra la morte di Clemente VII, l’arrivo della relativa notizia a Parigi e l’arrivo ad Avignone dei messaggeri del re intercorsero più di 12 giorni e ciò ebbe come conseguenza il fallimento del tentativo di chiudere lo scisma, che si protrarrà ancora per alcuni decenni.
Non è questo il solo caso in cui abbiamo prova della lentezza con cui si diffondeva allora una notizia pur di grandissima rilevanza e pur su una distanza relativamente ridotta, come quella tra Avignone e Parigi. Assai maggiore era tale scarto se si trattava di un avvenimento, pure esso molto importante, che si era prodotto addirittura nei lontani Balcani. La disastrosa sconfitta dei cristiani a Nicopoli, sulle rive oggi bulgare del Danubio, da parte del sultano turco Bayezed, avvenuta il 28 settembre 1396, fu conosciuta a Parigi la vigilia del Natale successivo, poco meno di tre mesi dopo.
Vi chiederete perché sia opportuno conoscere quando un testo sia stato composto. Il fatto è che in molti casi questa informazione è molto significativa anche per la sua interpretazione. Ho già fatto l’esempio di un diario: una cosa è se esso è stato redatto giorno per giorno, tutt’altra se esso è stato ricostruito o modificato a posteriori: nel secondo caso non solo possono esserci stati involontari equivoci (ad esempio sulla data di alcuni avvenimenti), ma la conoscenza di ciò che è accaduto dopo può avere indotto a narrare le cose in modo diverso. Ma ciò è vero anche in altri casi. Si è discusso accanitamente se il Passero solitario di Giacomo Leopardi, che appare a stampa tra i Canti solo nell’edizione del 1835, sia stato composto attorno al 1818, come ritengono molti, oppure poco prima del 1835, come pensava Domenico De Robertis. Ognuna delle due ipotesi ha importanti conseguenze per la storia della poesia leopardiana. Se il Passero è stato scritto negli stessi anni degli altri idilli, cui si avvicina molto, bisogna spiegare perché il poeta lo abbia escluso dalle stampe, che per i suoi idilli cominciano nel 1826, fino ad una data molto più tarda. Se invece esso risale al 1835 circa ci si chiede come mai, in anni in cui la poesia di Giacomo aveva temi e toni affatto diversi, egli sia tornato a modalità che risalivano ad un quindicennio prima.
La datazione della fine del IV libro di Froissart (e della sua morte, dato che il libro rimase incompleto) ha importanti conseguenze sulla valutazione storiografica della sua opera o almeno del racconto che egli fa delle vicende più recenti. Se fosse vero che il cronista sia morto attorno al 1410, egli avrebbe avuto tutto il tempo per informarsi meglio su tali vicende, per meditare sulle loro ragioni e sul loro significato e per narrarle con cura. Io credo di aver dimostrato che Froissart in realtà morì nella primavera del 1404, il che riduce alla metà la sua distanza cronologica dagli avvenimenti inglesi del 1399, la deposizione di Riccardo II e l’usurpazione di Enrico IV. Si consideri anche che il nuovo sovrano, che non voleva restituire al re di Francia la giovanissima vedova di Riccardo, che era sua figlia, ed ancor meno la ricca dote di lei, bloccò per un tempo consistente ogni comunicazione con la Francia e perfino la corte di Parigi rimase in dubbio su molti particolari di quanto era accaduto. Se è così, non solo non si può accusare Froissart di essere poco e male informato, quando anche Carlo VI non sapeva che fine avesse fatto sua figlia, ma addirittura dobbiamo ammirare la sua capacità di capire gli avvenimenti e di dare una non superficiale interpretazione della vicenda.