Le modalità del testo

È evidente a tutti che le forme del testo, i modi in cui esso è realizzato, ci danno molti elementi essenziali per la sua corretta interpretazione. Buona parte degli studi letterari, fin dai tempi più antichi, riguardano appunto questi aspetti. Basterà ricordare qui qualche problema che a volte passa inavvertito.

Per parecchi secoli ha avuto corso una teoria degli stili che ha origine in riferimento alla letteratura latina ma viene applicata con adattamenti anche a quelle volgari. Essa prescrive un rapporto tra argomento, personaggi e stile, vale a dire tra i dati del contenuto, la condizione sociale dei personaggi e il livello stilistico della scrittura. Gli stili in genere distinti erano tre, a loro volta identificati nelle tre opere di Virgilio: l’Eneide corrispondeva allo stile più alto, le Georgiche a quello mezzano e le Ecloghe a quello umile. A volte si tratta solo della tragedia e della commedia, alle quali non viene più riconosciuta alcuna funzione teatrale. Cito la definizione della tragedia e della commedia nel Liber glossarum di Placido (secolo V o VI), spesso ripetuta nel medioevo:

Tragoedia est genus carminis quo poetae regum casus durissimos et scelera inaudita vel deorum res alto sonitu describunt. Comoedia vero est quae res privatorum et humilium personarum comprehendit, non tam alto ut tragoedia stylo, sed mediocri et dulci[21].

I personaggi tragici devono essere re o divinità, quelli comici le persone modeste; le vicende della tragedia sono di altrettanto rilievo, quelle della commedia, invece, degli avvenimenti qualsiasi; lo stile della tragedia è il più alto e risonante, quello della commedia è mediocre e dolce. Ci sono voluti secoli perché personaggi umili come Renzo e Lucia o i Malavoglia e Mastro Don Gesualdo potessero trovare posto in opere letterarie impegnative.

Il titolo che Dante dà al suo «poema sacro» discende appunto dalla dottrina degli stili, che egli tratta sia nel De vulgari eloquentia che, se è sua, nell’Epistola a Cangrande. Il titolo di Commedia si adatta bene alla prima cantica, ai suoi personaggi della più varia estrazione sociale, alle loro vicende più o meno turpi, e comunque peccaminose, e allo stile che a volte non rifugge dai livelli più bassi. Le due cantiche successive avrebbero consentito un titolo diverso, ma Commedia (anzi Comedìa, perché tale era l’accentazione) si era già imposto. L’esposizione della dottrina degli stili nell’Epistola a Cangrande viene dunque adattata alle circostanze: «Comoedia vero inchoat asperitatem alicuius rei; sed eius materia prospere terminatur» (‘La commedia ha inizio con la durezza di qualcosa; ma la sua materia termina felicemente’); e quanto allo stile, quello della commedia viene definito dagli avverbi remisse et humilter.

Accade dunque che le commedie elegiache mediolatine del secolo XIII siano tali non per la forma drammatica o la destinazione teatrale, che non hanno, ma proprio per il loro argomento, che a sua volta determina la forma del distico elegiaco (un esametro seguito da un pentametro), che non sarebbe adatta alla poesia più elevata: è infatti il metro delle Egloghe virgiliane, non dell’Eneide. La poesia medievale in lingua volgare ha adottato questa teoria letteraria, elaborata nelle scuole per la produzione latina antica e medievale, ma non senza qualche elasticità. Faccio qualche esempio. La poesia ‘comica’ della fine del Duecento italiano, come quella di un Cecco Angiolieri, ha la sua tematica caratteristica (che non va considerata realistica nel senso ottocentesco della parola), ma usa la forma metrica del sonetto, che è una forma nuova e non è esclusiva del genere, tutt’altro. Un genere del tutto nuovo, come il poema epico antico-francese (ad esempio la Chanson de Roland), aveva invece adottato un verso, il decasillabo appunto epico, che ne era diventato una sorta di caratteristica (quasi) esclusiva del genere. Questa opzione non esclude per nulla la presenza di episodi ‘comici’, come avviene nella Chanson de Guillaume e altrove, e non sembra imporre un particolare livello linguistico alto. In un secondo tempo appare una tendenza a sostituire il decasillabo con l’alessandrino (il settenario doppio), la cui scelta è poco chiara. Questo metro lungo in area romanza sembra piuttosto caratterizzare la poesia didattica, ma è presente anche nella poesia narrativa. Non tutti i rapporti sono chiari, ma non c’è dubbio che il poeta medievale decideva allo stesso tempo il tema, la forma metrica e il livello linguistico della sua opera: i tre aspetti erano collegati tra loro e quindi non potevano essere scelti l’uno indipendentemente dall’altro.

Ma ci sono problemi ancor più fondamentali. È ingenua l’idea che la data dei primi testi romanzi coincida, più o meno, con quella delle rispettive lingue, o meglio della coscienza di usare una lingua che non era più il latino. I primi testi vengono alla luce quando si ritiene che le lingue parlate godano di una dignità che magari è assai inferiore a quella del latino, ma comunque ne autorizza l’uso in testi scritti. Fino ad allora (ed è una data che varia da paese a paese) gli unici testi per i quali si considera possibile una stesura scritta sono quelli in latino. Non a caso, la testualizzazione delle lingue parlate ha inizio non nei paesi neolatini, ma là dove tali lingue non discendono dal latino. Le varietà della Germania e dell’Inghilterra ottengono dignità di scrittura ben prima di quelle romanze, fin dall’alto medioevo.

Ciò ci fa intendere che la testualizzazione delle lingue romanze è un fenomeno molto rilevante, perché vale a riconoscere a queste lingue e a questi testi un valore che fino ad allora era stato disconosciuto. Si tratta di una rivoluzione culturale che certamente ne implica una sociale, una diversa coscienza di sé dei ceti che non conoscono il latino. Ne consegue anche che bisogna prestare attenzione ai generi in relazione ai quali avviene tale prima testualizzazione. Non sempre, infatti, si tratta della letteratura. In Sardegna, per esempio, sono gli statuti e i documenti legali i primi per i quali si usa il volgare. In Francia settentrionale, nell’area che chiamiamo di lingua d’oïl, l’uso del francese per i documenti si introduce man mano assai più tardi e ancor più tardi seguono gli statuti. In Francia è invece la poesia narrativa, agiografica, epica, religiosa e poi romanzesca, ad avere la precedenza. Tutto ciò deve avere un senso e va tenuto presente dagli studiosi.

Esiste anche una corrispondenza tra il genere letterario e le forme che i rispettivi testi assumono nei codici in cui sono copiati: come si dice ora con un anglicismo semantico, il loro formato. Nei manoscritti della letteratura antico-francese i poemi epici soltanto nella prima fase sono trascritti su colonna unica; poi diventa normale la copia su due colonne. I romanzi in ottosillabi sono invece impostati su tre colonne, certo anche perché il verso è più breve e le tre colonne non hanno bisogno di uno specchio di pagina eccessivamente grande. Ma questa tipologia in breve tempo diventa standard e quindi individua il genere, e suggerisce anche lo stile che troveremo nel testo. La storiografia in lingua volgare assume come formato normale la pagina a due colonne, che è anche il formato dei testi in prosa latina di argomento religioso, storico, giuridico, scientifico e enciclopedico, purché non necessitino di glosse. Se invece il testo è accompagnato da un cospicuo corredo di glosse, come avviene spesso per la Bibbia e soprattutto quasi sempre per le opere giuridiche, si preferisce trascriverlo in un’unica colonna centrale, con una corona di glosse sui due margini laterali o anche su quelli superiore e inferiore.