Se è vero che la filologia non si risolve in ecdotica, vale a dire nella sistemazione del testo, non per questo l’ecdotica non ne rimane una parte estremamente rilevante. La sistemazione critica del testo è infatti preliminare alla sua interpretazione. Si dice di solito che il fine della critica testuale sia il ristabilimento del testo secondo l’ultima volontà dell’autore. Ma questa formulazione non mi sembra soddisfacente. Intanto, non sempre quel che ci interessa è, in senso stretto, l’ultima volontà dell’autore. Se così fosse, nel caso del poema di Torquato Tasso dovremmo trascurare come secondario il testo della Gerusalemme liberata ed optare senz’altro per la conquistata, che il poeta voleva fosse considerata la versione definitiva. A mio avviso le due opere si devono considerare come distinte e naturalmente la Gerusalemme liberata ha pienamente diritto, più ancora del poema successivo, alle più attente cure editoriali. Il caso che l’ultima volontà dell’autore non sia, per diverse ragioni, quello che più interessa lo studioso di letteratura è meno raro di quanto si potrebbe pensare. Altre volte, invece, si può dubitare se ci sia stata effettivamente una ultima volontà dell’autore e comunque, assai di frequente, questo fine – sia pure idealmente giustificato – non è praticamente realizzabile, in ragione dello stato della tradizione.
Mi sembra dunque più conveniente adottare un atteggiamento più realistico, e tenere presenti fattori troppo spesso dimenticati, come quelli richiamati abbastanza di recente da Francisco Rico, ottimo filologo spagnolo, il quale scrive:
Una vera edizione di un capolavoro, una edizione che trascenda semplici fini commerciali o la mera copia, è sempre un compromesso tra le esigenze dell’autore, il testo e il lettore, ed ha un significato particolare nella prospettiva di ciascuno di loro.
Rico formula in questo modo i requisiti fondamentali dell’editore:
l’approfondita critica delle fonti, il dubbio perpetuo (l’‘animus suspicax’, diceva il grande Bentley) dinanzi a ciascuna delle loro lezioni e la tenace volontà di capire il testo lettera per lettera e punto per punto[6].
In questo modo, dunque, Rico ci avverte che non esiste una formula buona per tutte le edizioni, perché bisogna tener conto dello stato della tradizione («le fonti») e perché ogni edizione deve prendere in considerazione quali siano i suoi destinatari. Non è infatti lo stesso che si prepari una edizione per un pubblico generico, come potrebbe essere in Italia quello che compra gli Oscar Mondadori o il volumi della Bur (e non voglio affatto negare che si tratti di edizioni in genere benemerite) oppure per un pubblico di studiosi, come chi si serve dei volumi della collezione di classici diretta da Cesare Segre per Einaudi o della Collezione bolognese di opere inedite e rare, di fondazione addirittura ottocentesca. Nel secondo caso è non solo opportuno ma indispensabile che l’editore procuri di applicare tutte le risorse della filologia testuale, a cominciare dal reperimento e dallo studio di tutti i testimoni di cui sia nota l’esistenza. Il suo testo non può essere la ristampa passiva di un testo preparato da altri, neppure nel caso in cui si tratti di un testo curato dal suo stesso autore. L’impresa richiede capacità, esperienza e tempo, spesso anni; essa è estranea, per tempi e costi (umani ed economici), all’editoria commerciale.
Del tutto diverso è il caso di edizioni destinate ad un pubblico generico, al quale dovrà sempre essere fornito un testo affidabile, ma potrà trattarsi di riprendere, semplificandola, un’edizione propriamente critica o di ristampare tal quale una buona edizione precedente, eliminandone soltanto gli eventuali errori di stampa.
Forse non è inutile avvertire che in Italia, dove abbiamo visto che la filologia, e perfino l’edizione critica, godono di un qualche prestigio, vengono a volte passate come critiche edizioni che non risultano affatto da un lavoro filologico come lo descriverò tra poco. Il loro curatore prende in mano una edizione precedente (ed è sperabile che almeno la scelga bene), ricorre qua e là al confronto con qualche altra edizione o con uno o due manoscritti che può facilmente avere sotto mano e adotta da queste fonti alcune varianti che a suo giudizio sono da preferirsi. Purtroppo questo suo giudizio, quand’anche non sia ingiustificato, è formulato caso per caso, senza alcuna ragione sistematica: come nessun giudice esperto confiderebbe caso per caso nelle dichiarazioni dei testimoni senza una loro valutazione di insieme, così è dilettantesco procedere con un metodo del genere.
Conviene forse dire a questo proposito che una differenza profonda tra la filologia classica e quella moderna è la considerazione che, dalle due parti, si ha per le congetture. Intendo per congettura l’operare una correzione al testo tràdito ope ingenii, come si dice, vale a dire in base ad una intuizione esplicitamente ragionata del filologo, che può giungere a giudicare scorretto anche un testo che non presenti nessun difetto evidente. Per antica tradizione i filologi classici considerano la congettura come la forma più raffinata di restauro del testo, mentre i filologi moderni non senza ragione ne diffidano e non vi ricorrono se non in casi estremi. La ragione di questa differenza risiede senza dubbio nella diversa condizione in cui si trovano le tradizioni manoscritte degli editori di testi greci e latini e quelle dei testi volgari medievali e moderni (ne riparleremo). Quando la tradizione è di secoli posteriore alla data del testo e costituita da copie di scribi della cui competenza della lingua antica si ha ragione di dubitare, si giustifica che il filologo possa ritenersi più capace di intendere l’autore antico di quanto non fosse il copista medievale. Questo non avviene quando un copista medievale copia un testo in una lingua che gli è familiare. Ma pesa anche il fatto che, a differenza di quanto accade con i testi antichi, ai filologi moderni è capitato più di una volta di poter misurare le congetture degli editori con gli originali d’autore di cui i precedenti studiosi non disponevano ancora, ma che poi sono venuti alla luce. In questi casi si è potuto costatare quanto sia raro che le congetture colgano nel segno. Non escludo che i filologi moderni siano meno capaci dei loro colleghi classicisti, ma la prudenza non è mai troppa: anch’io penso – come la maggior parte dei miei colleghi – che il testo tràdito vada difeso in tutti i casi in cui la sua corruttela non sia sicuramente manifesta.
S’intende che questa è una ragione ulteriore per evitare le correzioni casuali di testi che il precedente editore critico ha stabilito in base a criteri ragionevoli ed espliciti. Ritengo dunque che le edizioni destinate al pubblico generico non dovrebbero pretendere di fare concorrenza alle edizioni scientifiche ma servirsene in maniera seria, tanto più che in Italia, a differenza di altri paesi, il diritto d’autore non protegge il lavoro dell’editore critico, che può essere liberamente ripreso da chiunque.
Molto più grave è un’osservazione fatta recentemente con finezza e acume da Michel Zink, il ben noto studioso francese di letteratura medievale. Riflettendo sulla sofisticazione cui spesso giungono le edizioni critiche fatte in Italia, Zink nota che quanto più raffinate sono le edizioni critiche tanto più si riduce il numero dei loro utenti, fino al limite paradossale di un’edizione perfetta per la quale però non esiste più il lettore. Il filologo impegna anni e fatiche, nonché spese, per maturare un risultato al quale non è interessato nessun altro se non il suo recensore o il giudice del suo concorso.
Questo ironico paradosso ci riporta alla necessità di considerare l’edizione, come scriveva Rico, come un compromesso tra esigenze diverse e perfino opposte, un compromesso che deve essere quanto più alto possibile, ma che non può essere abbandonato a favore di un perfezionismo auto-distruttivo. Zink avrebbe potuto ricordare i casi, che pure esistono, di filologi italiani che hanno lavorato per anni ad una edizione, l’hanno portata a termine, l’hanno pure stampata, ma poi hanno preferito distruggerla perché non soddisfatti della sua qualità. Tra fine Ottocento e primo Novecento così fece più di una volta il grande Salomone Morpurgo, tra l’altro a proposito delle Rime di Franco Sacchetti, di cui pure aveva individuato l’autografo; Morpurgo giunse al punto da preferire di affrontare una causa per danni con l’editore Zanichelli piuttosto che mettere in circolazione la propria edizione già stampata. In anni meno lontani Salvatore Gentile ha portato fino alla stampa opere medievali di provenienza meridionale, come la traduzione di Plinio di Giovanni Brancati, salvo poi vietarne la diffusione e condannare le copie stampate alla distruzione. Di queste opere rimangono pochissime copie, fortunosamente sopravvissute alla distruzione, vere rarità filologiche, ma anche monito sui pericoli del perfezionismo.
In conclusione, mi sembrano ragionevoli le esigenze che Michael Reeve riassume così:
Da un’edizione ... mi aspetto cinque cose: un regesto dei testimoni disponibili, le ragioni per usarne alcuni e non altri, una collazione accurata, una guida alla differenza tra il miglior testo che può essere ricavato dai testimoni e ciò che sembra probabile che l’autore abbia scritto, e progressi sostanziali almeno in uno dei quattro punti precedenti. Idealmente i primi due dovrebbero essere combinati in un resoconto storico, perché il valore dei testimoni dipende dai fini, dalle risorse e dall’abilità di chi li ha prodotti.