L’ispezione dei testimoni

Fino alla diffusione della fotografia e del microfilm, antenati delle attuali riproduzioni digitali, accadeva spesso che il filologo non avesse mai avuto davanti uno o più dei testimoni dell’opera che pubblicava. Per quanto allora potesse accadere, cosa oggi impensabile, che il governo prussiano concedesse il prestito a Parigi di un prezioso codice berlinese affinché esso fosse studiato dal grande filologo Gaston Paris, queste erano eccezioni, né tutti i filologi erano trattati con il riguardo che sembrava doveroso con il principe degli studiosi francesi.

Ci si rivolgeva allora a presunti esperti di paleografia che, per arrotondare i propri guadagni, si prestavano a copiare i codici presenti nelle biblioteche in cui lavoravano. Altre volte il futuro editore si contentava di ottenere collazioni: al margine di una edizione precedente o di una copia che egli aveva inviato venivano annotate dal presunto esperto (o spesso da uno studioso amico disponibile sul posto) le varianti presentate dal testimone che veniva collazionato. Ambedue le procedure non erano in genere accompagnate da informazioni se non sommarie sullo stato del codice copiato o collazionato. Ciò non sembrava insufficiente, in quanto il testo veniva allora considerato come una entità astratta, del tutto indipendente dal supporto su cui il caso lo aveva tramandato fino a noi. Solo lentamente, nel corso del Novecento, si è andata costituendo la disciplina che chiamiamo codicologia, che ci ha insegnato a osservare un gran numero di dati che possono essere molto significativi per l’editore di testi.

È l’ispezione dei testimoni che ci permette di spiegare facilmente quello che si verifica a causa dello spostamento involontario di fogli dei codici. Un codice è costituito da fascicoli, ciascuno dei quali è formato da uno o più doppi fogli (più spesso quattro, da cui il termine quaternus; in questo caso il fascicolo ha 16 pagine). Il codice è dunque nella sua struttura del tutto analogo ad un attuale quaderno, salvo che nei nostri quaderni i fascicoli hanno tutti lo stesso numero di doppi fogli, mentre può accadere che la struttura di un codice medievale metta insieme fascicoli di diversa consistenza. C’è però una differenza essenziale: il quaderno che si usa nelle nostre scuole è rilegato quando i fogli sono ancora bianchi, mentre il copista di un testo medievale lavorava su fascicoli non cuciti insieme a formare un codice e che non avevano alcun tipo di cucitura che assicurasse una stabile successione dei doppi fogli che li costituivano[7]. La numerazione dei fogli, che si apponeva in genere in alto a destra, riguardava quasi sempre i fogli e non le pagine, per cui usiamo dire ad esempio f. 73r per riferirci alla pagina anteriore del foglio numerato 73 e f. 73v per riferirci alla pagina retrostante. Poiché tale numerazione si aggiungeva dopo la rilegatura, il pericolo di spostamenti incombeva anche a prescindere da accidenti come la caduta per terra di un fascicolo non legato, che si scompaginava. Per facilitare la successione regolare dei fascicoli, in basso al verso del loro ultimo foglio si scriveva l’ultima parola successiva al testo in esso copiato, il richiamo, che doveva dunque trovare corrispondenza nella prima parola del testo copiato nel fascicolo successivo; chi metteva in successione i fascicoli prima della cucitura poteva così controllare che tra un fascicolo e l’altro il richiamo del primo corrispondesse all’inizio del successivo.

I libri a stampa hanno conservato la struttura per fascicoli che venivano (e vengono) stampati prima della cucitura e rilegatura. La differenza è che un fascicolo è ora costituito da un solo foglio su cui le pagine sono stampate prima da un lato e poi dall’altro; solo con la piegatura del foglio in due, in quattro o in otto, eccetera, si ricompone la successione regolare delle pagine. Poiché c’è una disposizione fissa, e non sequenziale, delle pagine al momento della stampa, è rarissimo che accada di trovare una errata successione del tipo già visto, che può derivare solo da un macroscopico errore di chi mette in macchina un foglio di stampa. Può invece accadere che i fascicoli siano messi in disordine prima della cucitura non solo nel senso che non si succedano nell’ordine corretto (che oggi è indicato da una numerazione che si trova in basso a sinistra della sua prima pagina e che in genere è nascosta dalla cucitura) ma anche in quello che all’interno del fascicolo siano avvenuti spostamenti scorretti tra le pagine.

Ciò era ancora più facile nei pliegos sueltos della tipografia iberica, cioè nei fascicoletti di poche pagine con i quali si divulgavano brevi testi poetici di grande diffusione popolare, come i romances. In fondo anche negli altri paesi europei c’erano usi analoghi. In Italia fino a non molti decenni fa i girovaghi che suonavano con gli organini di Barberia le canzoni più popolari dell’epoca avevano in vendita fogli sciolti (non cuciti) con i testi delle canzoni. Bene, uno dei più celebri testi del medioevo spagnolo, le Coplas por la muerte de su padre di Jorge Manrique, ci è stato trasmesso non solo da poco meno di 10 canzonieri manoscritti, ma anche da 6 canzonieri a stampa, da una decina di pliegos sueltos, oltre che da una serie di glosse[8]. Insomma, una tradizione ricca, che ha inizio pochissimo tempo dopo la composizione delle Coplas. Infatti don Rodrigo Manrique morì l’11 novembre 1476, suo figlio Jorge il 24 aprile 1479; l’editio princeps, costituita dalla stampa di Saragozza della Vita Christi di frate Íñigo de Mendoza (cugino di Rodrigo), che include le Coplas, si può datare 1482. Si noti che questa stampa si conserva in due esemplari, uno dei quali ha le Coplas in quattro carte aggiunte alla fine, senza segnature, mentre l’altro le inserisce all’interno, tra i fascicoli con segnature. Si tratta dunque di un pliego suelto, molto anteriore a tutti gli altri conosciuti, costituito da un duerno, cioè un fascicolo di due bifoli, come i primi due dei quattro fogli che nella figura seguente sono denominati A, B, C, D.

Schema A B C D.

Veniamo all’ordine delle strofe del poemetto; esso è costante in tutta la tradizione salvo che nell’editio princeps, che sposta le coplas 25-36 tra la 12 e la 13 della vulgata. Non sono mancati i difensori di questo ordine, finché al congresso di Filologia romanza di Palma de Mallorca del 1980 il filologo palermitano Pietro Palumbo trovò una spiegazione semplicissima. Nella tipografia di Saragozza era stato commesso un errore banale: il bifolio interno del pliego era stato piegato e cucito al contrario, sicché da una successione uguale a quella di tutto il resto della tradizione, vale a dire:

Schema pagine-strofe.

si era passati involontariamente, grazie anche alla mancanza di segnature, a quella

Schema pagine-strofe.

che poteva avere una sua logica, ma era ovviamente errata. Le argomentazioni, pur acute, degli studiosi che avevano difeso l’ordine di successione errato erano dunque senza fondamento.

Per poter studiare bene la storia della tradizione, e per poter proporre una metodologia funzionale al recupero del miglior testo possibile, bisogna dunque conoscere le modalità di trasmissione dei testi nelle fasi storiche che essi hanno attraversato, che nel caso della filologia moderna sono sostanzialmente quelle del codice manoscritto, della stampa a caratteri mobili e poi a linotype, ed infine del computer. Quelle che contano sono soprattutto le prime due.

Per quanto ciò che ho detto sia banale, la maggior parte dei filologi moderni è poco o nulla informata su questo problema. La cosa si spiega con l’abitudine prevalente fino a non molti decenni fa a considerare che la materia di studio del filologo è un testo nella sua esistenza astratta, senza riguardo al suo supporto. Finché non è diventato normale per il filologo viaggiare e recarsi personalmente nelle biblioteche che conservano i codici che egli studia e finché le possibilità di riproduzione erano limitate e/o approssimative (facsimili realizzati a mano o fotografie di modesta qualità, ma più spesso semplici copie manoscritte), accadeva di frequente, come ho già detto, che lo studioso si facesse fare una copia del testo che gli serviva da un volenteroso collaboratore. Anche se il copista era ottimo, il filologo non aveva così alcun contatto diretto con il codice.

Posso fare qualche esempio delle conseguenze cui si andava incontro. Il primo riguarda un filologo che ho avuto la fortuna di conoscere e per il quale ho una grande venerazione, lo spagnolo Ramón Menéndez Pidal (1869-1968), il maggior filologo, linguista e storico del suo paese. Tra i suoi tanti studi, ce n’è uno che avanza l’ipotesi che del Libro de buen amor di Juan Ruiz, il capolavoro del Trecento castigliano, il poeta avesse fatto due redazioni successive. Il Libro, come abbiamo osservato nel capitolo precedente, ha una tradizione molto limitata che, a parte alcuni frammenti, conta solo tre codici, due (siglati G e T) molto incompleti, mentre S sembra integro ed è firmato dal copista Alfonso de Paradinas verso il 1415. Ciò che resta di G e T raramente coincide e quindi assai limitatamente possiamo studiare il testo su tutti e tre i testimoni insieme. Di norma abbiamo S e G oppure S e T, e neppure sempre, in quanto una buona parte del testo, tra cui il prologo in prosa (l’opera è in quartine de arte mayor[9]), è conservata solo da S.

Orbene, nel 1901 Menéndez Pidal osservò che in una zona del testo per cui disponiamo di S e G, quest’ultimo omette, oltre a cose minori, una Cántica de loores de Santa María e due episodi narrativi (coplas 910-949 e 1318-1331) e ne dedusse che il testo tràdito da questo codice corrispondesse ad una prima redazione del Libro databile al 1338, mentre S conterrebbe una seconda redazione del 1343. Se ciò fosse stato vero, gli editori del Libro non avrebbero dovuto contaminare il testo di S con quello di G (e con quello di T, che conserverebbe pure la prima redazione), in quanto si tratterebbe di testi diversi; invece continuarono tranquillamente a farlo.

Per fortuna i tre codici sono stati pubblicati in edizione diplomatica, prima da Jean Ducamin (1901) mettendo a testo S e dando le varianti di G e T, e poi da Manuel Criado de Val e Eric W. Naylor (1965 e 1972), dando a fronte i tre testimoni. In queste edizioni si dà conto dei resti delle numerazioni antiche di G sicché, anche senza avere in mano il codice, è possibile ricostruire la struttura originale dei suoi fascicoli e misurare con precisione le sue lacune. In questo modo mi fu possibile accertare che la mancanza dei due episodi in G si spiega molto semplicemente con la perdita meccanica dei fogli in cui essi erano copiati; il caso e la struttura molto frammentata del Libro hanno voluto che i luoghi in cui le lacune cominciano e finiscono potessero sembrare incipit ed explicit di episodi a sé stanti. La verifica autoptica che ho poi fatto sul manoscritto ha confermato pienamente la conclusione. Non c’è dunque nessuna prova che siano esistite due redazioni del Libro, la cui edizione può dunque lecitamente tener conto di tutti e tre i testimoni. Anche un filologo della dottrina di Menéndez Pidal poteva essere tratto in inganno dal non considerare la materialità dei codici che trasmettono i testi.

C’è almeno un’ulteriore informazione codicologica che l’editore di testi deve conoscere. In molti casi la produzione di un codice manoscritto, anche letterario, era una operazione puramente artigianale, che veniva fatta una volta sola o su commissione o per arricchire la biblioteca della propria istituzione (monastero, capitolo, università) o per il desiderio del copista di possedere l’opera inclusa nel codice. Ma poteva accadere che l’operazione divenisse, sia pure in forme incipienti, industriale, nel senso che la richiesta fosse abbastanza sostenuta da indurre alla produzione di più copie nel più breve tempo possibile. Ciò accadeva con i libri devozionali, come i libri d’ore del tardo medioevo.

I modi per accelerare la produzione del libro manoscritto non erano molto vari: si trattava di mettere all’opera più copisti contemporaneamente, magari chiedendo aiuto ad altri ateliers vicini (anche i librai, come tutti gli artigiani, nel medioevo si aggruppavano nelle stesse strade). Se due copisti lavoravano alla stessa opera i tempi erano dimezzati (o, che è lo stesso, il prodotto era raddoppiato). Ma ciascun copista doveva avere davanti, per il suo lavoro, il manoscritto da cui copiare, che noi chiamiamo antigrafo[10], e già non era facile che un atelier ne avesse anche solo uno. Se però quest’unico antigrafo non era cucito, esso poteva essere copiato contemporaneamente da tanti copisti quanti erano i suoi fascicoli, in quanto i suoi (mettiamo) 6 fascicoli potevano essere distribuiti a 6 diversi copisti. Alla fine del lavoro ne risultavano 36 fascicoli, cioè 6 copie per ogni fascicolo dell’antigrafo. Naturalmente perché il risultato fosse decente tutti i copisti dovevano mantenere la stessa impostazione di pagina ed usare grafie molto simili; inoltre le pagine dovevano cominciare e finire sempre allo stesso punto, in modo che fosse indifferente che i sei codici che risultavano dall’operazione provenissero interamente dalla penna dello stesso copista.

Per lavori veramente di tipo pre-industriale, quando si trattava di riprodurre testi molto richiesti, come la Bibbia o la Divina Commedia, e quando lo scriptorium (la bottega) che faceva questo lavoro era sufficientemente grande ed attrezzato, i copisti potevano essere parecchi (dopotutto copiare opere come queste richiedeva mesi) e conveniva disporre di più di un antigrafo, sempre costituito da fascicoli non cuciti. Ogni giorno il singolo copista prendeva il fascicolo che gli toccava copiare, senza curarsi che fosse lo stesso che aveva usato il giorno precedente. I fascicoli completati finivano in tanti mucchietti quanti erano i fascicoli dell’antigrafo e quanti sarebbero stati quelli delle nuove copie. Quando, alla fine, si passava alla cucitura e alla rilegatura delle copie, si faceva attenzione a che ci fossero il fascicolo 1°, poi il 2°, il 3° e così via fino alla fine, ma nessuno prestava attenzione a che finissero insieme i fascicoli realizzati da uno stesso copista né era possibile stabilire se questi fascicoli fossero stati copiati tutti dallo stesso antigrafo. Che importanza poteva avere ciò, se tutti erano uguali?

Uguali sì, ma fino ad un certo punto. Tutti i copisti sbagliano ed hanno sempre sbagliato, per fortuna dei filologi, che riescono a capire qualcosa proprio grazie ai loro errori. Oltre alle sviste di copia vere e proprie, nel procedimento che ho descritto sinteticamente poteva accadere, per esempio, che un copista distrattamente omettesse parole o righe intere e quindi si trovasse, alla fine della pagina o del fascicolo, con meno testo di quanto era necessario (né poteva rovinare anche il fascicolo seguente, anticipandone qualcosa). Le soluzioni possibili erano o quella di allargare lo spazio tra le parole o, peggio, tra le righe (soluzione pessima se il testo era su due o più colonne) o semplicemente di inventare un breve testo riempitivo che rimettesse a posto le cose. Quale che fosse il danno e il tentativo di sanarlo, a questo punto la singola copia in cui esso era avvenuto divergeva dalle altre, come peraltro accadeva in tutti i casi di errori più banali o di semplici varianti indifferenti. Mescolando i fascicoli le corruttele di un copista si mescolavano con quelle degli altri e, beninteso, le corruttele ereditate da un antigrafo con quelle ereditate da un altro.

Questa deve essere una delle più gravi cause della contaminazione[11], e si sa che la contaminazione ostacola gravemente la ricostruzione della storia della tradizione (un po’ come i rapporti extra-coniugali confondono le strade dell’eredità genetica). Un fenomeno già grave diventa però catastrofico quando il filologo ritiene di poter fare a meno dello studio del testo intero di ciascuno dei testimoni, o deve farne a meno per circostanze pratiche (ciò mi è accaduto quando mi sono reso conto che non avrei mai potuto copiare o anche solo collazionare per intero la ventina di testimoni del lunghissimo Libro IV delle Chroniques di Froissart). Più di una volta l’editore, che per i testi moderni dispone di pochi casi di errore manifesto (il copista quasi contemporaneo all’autore è in grado di nascondere le corruttele), si aggrappa a pochissimi casi vistosi in un testo anche molto lungo. Perfino per la Divina Commedia le principali famiglie in cui la tradizione sarebbe divisa sono individuate dai filologi grazie a pochissimi errori comuni. Così ci si espone al gravissimo pericolo che i pochi errori prescelti siano sì molto significativi, ma solo per il fascicolo in cui sono inclusi, mentre il filologo ne estende indebitamente il significato a tutto il testo, costruendovi sopra lo stemma codicum. Questo rischio si può ridurre solo accertando che le famiglie di testimoni che costruiamo presentino in comune non solo uno o due errori congiuntivi[12] ma anche un’ampia costellazione di lezioni caratteristiche ma indifferenti (dette anche adiafore) che coprano l’intera estensione del testo, confermando che i rapporti tra i codici in questione rimangono stabili da un capo all’altro dell’opera.

Prima ancora che questo tipo di fenomeni si evidenziasse per tradizioni manoscritte, esso era venuto alla luce per le stampe. Il caso classico è quello dei Promessi sposi del 1840, la cui stampa fu seguita personalmente da Alessandro Manzoni, che si recava in tipografia a rivedere i fogli (non le pagine, la cui separazione, come ho detto, avviene in un secondo tempo) man mano che ne avveniva la tiratura, che con le macchine dell’epoca richiedeva un certo tempo. Manzoni prendeva a caso una copia del foglio che si stava stampando, notava un errore e ne segnava la correzione; il tipografo fermava la macchina e correggeva i piombi; poi riprendeva la stampa. I fogli già tirati con l’errore non erano distrutti: la carta costa e il tempo non si può buttar via. Alla fine, se lo scrittore aveva apportato, poniamo, 5 correzioni ad ogni foglio, su una tiratura di 1000 fogli, alcuni avevano l’errore e altri la correzione. Nel foglio successivo la proporzione poteva essere simile o diversa, e così via. Ma all’atto della cucitura e rilegatura i fogli erano presi a casaccio, sicché ci potevano essere copie che avevano tutte le correzioni dell’autore, copie che non ne avevano nessuna e copie che ne avevano un certo numero, diverso da un caso all’altro. Il risultato è che le copie della stessa tiratura dell’edizione 1840 non sono identiche tra di loro. L’editore critico non può usare a caso una qualsiasi delle copie giunte fino a noi: egli deve procedere a studiare ogni foglio sul maggior numero di copie diverse (potenzialmente su tutte), in modo da individuare la stratificazione delle correzioni d’autore e determinare quale fosse la volontà finale del Manzoni. È quello il testo da stampare nell’edizione critica.

Per sottrarsi a tutti questi pericoli il filologo deve avere una competenza sia codicologica sia delle procedure di stampa, a seconda che si occupi di tradizioni manoscritte o appunto a stampa. Ma è indispensabile che abbia anche una competenza paleografica, in modo che sia in grado di leggere correttamente e rapidamente ciò che nel codice è stato scritto. Parlo di codici perché con le stampe il problema si riduce a saper leggere i caratteri gotici usati dagli incunaboli (ed ancora dai tipografi tedeschi fino ai primi decenni del Novecento) e a rendersi conto che è stata a lungo in uso la s a modulo astato (più o meno ): pare piccola cosa, ma accade spesso di vedere edizioni in cui l’abbondanza di fia per sia risulta spuria quando si trova disinvoltamente trascritto fapere o cafa invece di sapere e casa, e possiamo dunque chiederci se qualche fia non sia altro che sia letto male. Ma torniamo alla paleografia, che è sempre stata considerata una scienza ausiliare (della storia più che della filologia!) ed affidata a volte a persone di dubbia competenza (non che siano mancati o manchino, anche in Italia, paleografi eccellenti).

Per via della sua origine come disciplina ancillare degli studi storici sul medioevo, ed in specie sui suoi primi secoli, la paleografia latina (che è quella che qui ci interessa) si è concentrata sullo studio delle scritture antiche e del primo medioevo, come la beneventana e simili. La carolina, che imita le limpide scritture di età romana imperiale, e soprattutto la gotica rimangono al margine dei manuali, dei quali occupano le pagine finali, con qualche sommarietà. Così accade nei manuali italiani di Giulio Battelli e di Giorgio Cencetti, peraltro ottimi, e, sia pure in grado minore, in quello tedesco di Bernhard Bischoff, tradotto in varie lingue tra cui l’italiano, che si dilunga di più sulla gotica. Purtroppo la totalità dei testi romanzi è in una delle diverse forme di gotica che si sono largamente differenziate nel tempo e nello spazio. Lo studente universitario che segue un corso di paleografia rischia di non apprendere nulla o quasi su quanto gli serve per il lavoro filologico. Che il problema sia reale e grave lo mostra il fatto che solo da qualche anno disponiamo in inglese di un manuale adeguato per queste grafie tarde, ad opera del paleografo belga Albert Derolez.

Si dà ancora per scontato che le grafie in uso dal 1500 in poi non rendano necessario alcuno studio, ed infatti non ne conosco nessun manuale. Eppure, molte volte si tratta di grafie assai difficili, spesso caratteristiche di un’epoca o di una regione, talvolta di una singola persona.