All’inizio del i millennio d.C., la Cina e Roma erano ancora gli imperi più grandi e potenti del mondo. Ciascuna dominava circa 60 milioni di persone. La potenza di Roma ruotava attorno al controllo del commercio e dell’agricoltura nel Mediterraneo; la sua difesa era l’espansione, raggiungendo a sud il Sahara, a est la Mesopotamia e a nord le coste del Mar Nero, il Danubio, il Reno e il limitare delle Highlands scozzesi. La coesione dell’impero era assicurata dalla superiore organizzazione e mobilità delle sue forze armate, di mare e di terra, oltre che dalle immense attrattive del commercio. L’Italia, cuore dell’impero, attraversava un periodo di stabilità senza precedenti, detto Pax romana.
Nel corso dei due secoli successivi all’inizio dell’impero con Augusto (27 a.C.-14 d.C.) furono solo otto gli anni in cui la città di Roma subì episodi di violenza particolarmente gravi. A quei tempi, stranieri provenienti da ogni angolo dell’impero vi si recavano per versare i propri tributi mentre Roma non si faceva scrupoli a pretendere dalle sue province cibo, oro e beni di lusso. Il mondo romano era tripartito: la città capitale, l’impero e il barbaricum, ovvero le aree non civilizzate che si stendevano al di là dei suoi confini. Sembrava che Roma potesse solo crescere, proprio come le scene di vittoria che istoriano la Colonna traiana sembrano avvolgerla in un’infinita spirale ascendente. Secondo gli autori della Roma antica, fu proprio questo successo a portare alla decadenza e al declino morale dell’impero. Nel iii secolo, infatti, mentre la difesa dei confini imperiali era sempre più spesso affidata ai foederati barbari e, all’interno, la società era scossa dal malcontento: la pace e la prosperità della Città eterna si stavano avviando alla fine.
La situazione era simile in Cina. Dopo un periodo di guerra civile, l’imperatore Guangwudi Han (25-57) aveva portato un secolo di pace nella Pianura della Cina del Nord. Insieme ai suoi immediati successori, smilitarizzò l’impero, abolì la schiavitù e introdusse una serie di riforme molto bene accolte dalla popolazione. Un secolo che coincise con l’indebolimento della minaccia rappresentata dai nomadi; ma quando questi barbari ripresero forza, l’età dell’oro terminò. Gli imperatori Han scelsero di trincerarsi verso il centro dell’impero, si ritirarono da alcuni avamposti lungo la Via della Seta e ricorsero a delegati appositi, simili ai foederati di Roma, per difendere le frontiere. Nel frattempo, alcuni membri della corte avevano acquisito tanto potere che giunsero a controllare gran parte dei terreni coltivati della Cina. Ne nacquero violente ribellioni. Nel 220, l’ultimo imperatore della dinastia Han fu deposto e l’impero andò in frantumi.
All’ombra di Roma e della Cina Han, le potenze minori cercarono di organizzarsi in molti modi diversi. A volte tentarono di convivere in pace con i vicini imperiali, altre volte opposero una resistenza tenace. Lungo le vaste distese dell’Eurasia che si trovavano fra Roma e la Cina scoppiò una contesa per il controllo del corridoio commerciale fra l’Oriente e l’Occidente: la Via della Seta. Una contesa che vide scontrarsi ordinamenti politici come l’Impero Kushana e l’Impero partico e federazioni come quella degli xiongnu in nome di valli fertili e snodi commerciali, e di tanto in tanto qualcuno chiamava in soccorso la Cina e Roma.
Il padrone dell’asino
Nel 13 d.C., l’imperatore Augusto tornò a Roma all’indomani di una campagna militare in Spagna e in Gallia, e il senato decise di festeggiare il suo arrivo costruendo l’Ara Pacis Augustae (Altare della pace augustea). Un rilievo su una parete del santuario ritrae la dea Pace (Pax) assisa con due neonati in grembo e circondata da fiori, grano e bestiame: il paradiso terrestre che Augusto aveva promesso al suo popolo. Il rilievo che si trova sulla parete opposta, invece, ritrae una guerriera (forse personificazione di Roma stessa) seduta su una pila di armi strappate ai nemici per ricordare ai cittadini una delle più famose massime di Augusto: la pace nasce solo dalla vittoria in guerra. In breve, Roma stava entrando in un periodo di prosperità grazie ai suoi successi militari. Era nata una nuova tradizione imperiale.
Augusto si assicurò che i romani continuassero a considerarsi un popolo eletto. Con il patrocinio dell’imperatore, Livio scrisse la sua famosa Storia di Roma, mentre al poeta Virgilio Augusto commissionò l’Eneide, un’entusiastica opera patriottica che celebra le origini mitiche di Roma. Così nelle parole di Virgilio affermava Giove:
Romolo accoglierà popoli, che, insediati al riparo di mura
marziali, dal suo stesso nome chiamerà Romani.
Alle loro gesta non pongo confini di tempo: concedo
a loro imperio illimitato.1
Durante il regno di Augusto, Roma si trasformò pian piano in una metropoli di marmo e travertino. L’imperatore fece costruire un nuovo foro, un tempio in memoria di Giulio Cesare e un altro dedicato a Marte, dio della guerra, pieno di spoglie di guerra. La capitale era sempre più splendida e Augusto cercò di liberarla dei suoi molti poveri. La libera distribuzione del grano (la Cura annonae) subì una riduzione, mentre i veterani e i giovani indigenti furono incoraggiati a cercare fortuna in altre zone dell’impero. Augusto fondò un numero di colonie da record: per Roma, rappresentavano un’opportunità di esternalizzare i problemi della sovrappopolazione e della povertà.
Per quanto Virgilio parli di un impero senza limiti, la politica estera di Augusto si basava soprattutto sulla moderazione. Ridusse l’esercito da 500 000 a 300 000 effettivi e fissò i confini imperiali in corrispondenza di frontiere naturali che potessero proteggerlo: il Reno, il Danubio, l’Eufrate e il Sahara. L’impero, sottolineava Augusto, doveva restare all’interno dei suoi confini attuali.2 Lo stesso Augusto descrisse la propria politica estera come una combinazione di durezza e cedevolezza, conciliazione e repressione. «Pacificai le Alpi dalla regione prossima al Mar Adriatico fino al Tirreno, a nessuna popolazione avendo portato guerra ingiustamente» si vantava.
La mia flotta navigò per l’oceano dalla foce del Reno verso oriente fino ai territori dei Cimbri, dove né per terra né per mare alcun romano prima di allora si era mai spinto, e i Cimbri e i Caridi e i Sennoni e altri popoli germani della stessa regione chiesero per mezzo di ambasciatori l’amicizia mia e del popolo romano.3
Eppure, al contempo, racconta di feroci campagne punitive contro chi si opponeva all’introduzione della Pax romana: «Per mio ordine e sotto i miei auspici, due eserciti vennero guidati […] in Etiopia e nell’Arabia detta Felice, e vaste schiere di entrambe le popolazioni nemiche furono uccise in campo».4
I contemporanei dipinsero Augusto come un semidio, una figura che riuniva saggezza e valore militare. La nomina di senatori, consoli, pretori e altri funzionari che fino ad allora erano stati eletti liberamente doveva ora passare dalla sua approvazione preventiva. Il senato continuò a scegliere i governatori per le cosiddette province «senatorie», mentre era Augusto in persona a scegliere i propri rappresentanti per le province «imperiali», che rappresentavano la maggior parte dell’impero. Gli stati clienti erano pochi, Augusto mirava a esercitare il potere quanto più direttamente possibile in ogni angolo dell’impero. Il grosso dell’esercito era utilizzato nelle guarnigioni dislocate alla periferia del territorio romano, protette da fortificazioni e collegate da una rete di strade in continua espansione. I capi delle tribù sconfitte erano costretti a prostrarsi all’imperatore in gesto di sottomissione e, in cambio della clemenza, pagavano un’indennità e una tassa regolare, accettavano la legge di Roma e spesso consegnavano i propri figli come ostaggi.
Al di là dei suoi domini, Augusto si impegnò per stabilizzare i rapporti con le potenze straniere. Concordò una pace con i parti e trasformò il ricevimento degli ambasciatori stranieri in uno spettacolo: «Spesso mi furono mandate dai re dell’India ambascerie» racconta nelle Res Gestae. «Chiesero la nostra amicizia per mezzo di ambasciatori i bastarni, gli sciti e i re dei sarmati […] e i re degli albani, degli iberi e dei medi. […] Il re dei parti Fraade, figlio di Orode, mandò presso di me tutti i suoi figli e nipoti, non perché fosse stato vinto in guerra, ma per chiedere la nostra amicizia con il pegno della sua prole.»5 Per tenersi informato, modernizzò il sistema dei corrieri; malgrado l’esistenza di archivi di stato, non vi era un ministero o un apparato burocratico apposito incaricato degli affari esteri: l’imperatore prendeva le decisioni importanti da solo, il senato si occupava del resto.
Malgrado tutto, però, la Pax romana era fragile. Lo storico Tacito (54-120) ha espresso con parole rimaste famose come molti popoli percepissero la prospettiva di essere governati dai romani quando mise per iscritto le frasi attribuite a Calgaco, capo della confederazione delle tribù caledoni nell’attuale Scozia settentrionale, alla vigilia della battaglia contro l’esercito invasore di Roma:
La legge di natura fa sì che tutti gli uomini amino sopra ogni cosa i figli e i congiunti: questi ci sono strappati con gli arruolamenti per portarli, come schiavi, altrove. Le mogli e le sorelle, anche se sfuggono agli stupri dei nemici, sono violate con la scusa dell’amicizia e dell’ospitalità. I beni e le rendite sfumano nei tributi, il raccolto annuo nelle contribuzioni in frumento; perfino i corpi e le braccia vengono logorati, in mezzo alle percosse e agli insulti, per aprire strade tra foreste e paludi.6
Non erano certo pochi i capitribù che, come Calgaco, resistevano alla conquista: era raro che le legioni romane potessero riposarsi. «[…] per Ercole!» protestava un soldato «nerbate, ferite, aspri inverni, estati torride, guerre feroci o paci senza profitto in eterno.»7 Alla morte di Augusto, le legioni che si trovavano lungo il confine germanico non ci misero molto ad ammutinarsi.
L’eredità di Augusto fu un peso non indifferente sulle spalle dei suoi successori. L’imperatore Tiberio (14-37) dovette vedersela con un allagamento che distrusse alcune parti di Roma, con le insurrezioni lungo il Reno, un tentativo di golpe della guardia pretoriana – che proteggeva l’imperatore a Roma e costituiva l’unica forza armata di una certa consistenza in Italia –, con l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e rivolte per i tributi in Macedonia e Siria. La stabilità a Roma cedette lentamente alla violenza. «Eccitato da queste esecuzioni, [l’imperatore] ordinò che fossero giustiziati tutti quelli che erano rinchiusi in prigione sotto l’accusa d’esser stati amici di Seiano» scrisse Tacito in seguito alla scoperta di una presunta congiura al centro della quale pareva esserci il comandante della guardia pretoriana nel 31. «Fu un massacro. Persone d’ambo i sessi, di tutte le età, notabili o comuni, isolati o a gruppi… La forza del terrore aveva infranto ogni legame umano.»8 La generosità e la giustizia erano temi ricorrenti nelle pagine di Tacito e in quelle di un altro celebre autore dell’epoca, Svetonio, ma la maggior parte degli imperatori, osservavano amaramente, abusavano del proprio potere.
I senatori si lamentavano del numero sempre crescente di immigrati che prendevano la cittadinanza e guadagnavano un prestigio politico autonomo. «Sembrava poco che veneti e insubri avessero fatto irruzione nella Curia, senza che vi si introducesse una stirpe straniera a somiglianza di prigionieri? Quale onore restava ai superstiti della nobiltà o se c’era qualche senatore del Lazio sprovvisto di mezzi?»9 La situazione continuò ad aggravarsi. In un episodio che creò un precedente pericoloso per la successione al trono imperiale, l’imperatore Caligola (37-41) fu ucciso dai pretoriani, che poi sostennero come successore suo zio, Claudio (41-53), il quale poi li ricompensò profumatamente per la loro «lealtà». Con Nerone (54-68), Roma bruciò, sia in senso letterale, quando un grande incendio devastò gran parte della città, sia in senso figurato, perché il comportamento sempre più stravagante e autoritario dell’imperatore provocò ribellioni aperte. «[…] i costumi della patria, caduti a poco a poco in disuso» accusavano i critici del regime «ormai erano completamente aboliti a causa del lusso importato da fuori; tanto che quanto aveva il potere di corrompere o d’esser corrotto lo potevi trovare a Roma, e la gioventù degenerava adottando gusti stranieri, dedicandosi alle palestre, all’ozio, a turpi amori».10
Fra la morte di Nerone nel 68 e quella di Filippo l’Arabo nel 249, gli imperatori governarono in media per soli sei anni. Certo, vi furono anche sovrani forti, come Traiano (98-117) e Adriano (117-138), eppure Traiano in particolare portò al limite le risorse dell’impero, intraprendendo campagne militari in Dacia (parte della moderna Romania), Partia e Arabia, tanto costose da costringerlo a svalutare la moneta imperiale. Il suo successore, Adriano, dovette ritirarsi dalla Mesopotamia, abbassare le tasse e affidarsi maggiormente ai soldati locali. Adriano si vantava in particolare dei propri sforzi per ripristinare la prosperità di Roma. Una statua di marmo conservata al Louvre, per esempio, lo ritrae nelle vesti di Marte, il dio della guerra, fra le braccia di Venere, la dea dell’amore.11 Ma il suo impegno non fu sufficiente. Gli imperatori successivi, come Marco Aurelio (161-180), tentarono di gestire le capacità ormai al limite di Roma e di sedare i disordini che montavano alle frontiere. Altri furono più irresponsabili e incoscienti: il megalomane Caracalla (198-217), per esempio, voleva diventare padrone del mondo.
Fra i testimoni diretti dei tumulti e delle violente repressioni di cui moltissimi romani furono vittime tra la fine del ii e l’inizio del iii secolo d.C., ricordiamo lo storico e senatore di origini greche Cassio Dione. I suoi scritti sono una vibrante condanna degli abusi di potere, della corruzione e delle guerre infinite che venivano combattute nel tentativo di mantenere costante l’afflusso d’oro nelle casse imperiali. Ogni illusione sulla natura del dominio dei romani era svanita. In risposta a una ribellione scoppiata in Britannia, l’imperatore Settimio Severo (193-211) ordinò: «Nessuno sfugga alla strage orrenda e alle nostre mani, neppure colui che la madre porti nel ventre».12 Ma Severo comprese che le continue campagne militari potevano minare la popolarità degli imperatori. «Nel decimo anniversario del suo regno» ricorda Dione «Severo donò tante monete d’oro quanti erano stati gli anni del suo impero sia a tutta la plebe beneficiaria delle frumentazioni sia ai soldati pretoriani.»13
Altri imperatori non furono altrettanto accorti: Caracalla spese così tanto per l’esercito e i giochi gladiatorii per intrattenere le masse che fu costretto a svalutare la moneta imperiale e a dichiarare cittadini romani tutti i maschi non schiavi che vivevano nell’impero, nel disperato tentativo di allargare la base dei contribuenti fiscali. «Come direttore delle gare incaricava uno dei liberti o qualche altro cittadino facoltoso per poter scialacquare denaro anche così: li salutava con la frusta dal basso [dell’arena] e chiedeva loro monete d’oro come se fosse uno degli aurighi più squattrinati.»14 Cassio Dione condannava la disintegrazione dell’ordine sociale: gli imperatori governavano con il terrore, la campagna italiana era infestata da bande armate di delinquenti, il palazzo imperiale ospitava un’orgia dopo l’altra. «Giunse poi a un tal grado di depravazione» scrive di un imperatore «da chiedere ai medici di dotarlo di genitali femminili per mezzo di un’incisione, promettendo loro grandi guadagni per questo servizio.»15 Gli auspici non erano favorevoli, per Roma, e gli dei inviavano ammonimenti severi: «La tua casa intera sprofonderà nel sangue».16
Ma l’impero sopravvisse a questa discesa nell’anarchia. In parte, perché nessun altra forza esterna era in grado di tenere testa alla sua potenza bellica. Roma aveva un unico pari: la Partia. La quale, però, nella peggiore delle ipotesi poteva minacciare i possedimenti romani in Armenia e nel Levante. Lungo i confini dell’impero abitavano per lo più tribù sparse. Le azioni di guerriglia nelle foreste della Germania o sulle Highlands scozzesi davano del filo da torcere alle legioni romane, ma venivano prontamente sedate all’arrivo dei rinforzi. «I germani non portano corazza né elmo» con queste parole un generale rassicura i suoi uomini nelle pagine di Tacito. «I Germani non avevano corazze né elmi e neppure scudi rinforzati… soltanto la prima fila era munita di lance, gli altri non avevano che brevi frecce bruciate in punta. I loro corpi erano sì terribili e forti a sostenere uno scontro di breve durata, ma non sopportavano le ferite.»17 I romani disponevano di una risorsa che si rivelò fondamentale: erano imbattibili quanto a capacità di proiezione, ovvero quando si trattava di spostare le proprie forze sulle lunghe distanze, grazie alle strade, alla flotta che dominava il Mediterraneo e alle piccole galee che potevano pattugliare fiumi come il Reno e il Danubio. Al massimo della sua gloria, Roma poteva contare su 80 000 chilometri di strade lastricate, aveva una flotta di oltre mille navi e decine di porti nel Mediterraneo e sul Mar Nero, nonché, per quanto su scala molto minore, sul Mare del Nord. I romani erano anche molto abili a istigare una tribù contro l’altra: per esempio, consentendo a una di commerciare liberamente ma impedendolo a un’altra, proclamando una comunità amica di Roma e dichiarandone un’altra nemica.
D’altro canto, l’impero sopravvisse anche perché, all’interno, l’élite rammollì le masse. Le disuguaglianze che regnavano fra i cittadini romani, che nel frattempo erano arrivati a un milione, erano sconvolgenti. Mentre i ricchi si facevano costruire ville sontuose sui colli della capitale, i poveri vivevano in un impenetrabile labirinto di caseggiati e vicoli bui occupati da mendicanti, criminali e prostitute. Si calcola che circa un terzo della popolazione della città fosse costituito da schiavi.18 Un lavoratore guadagnava grossomodo quattro sesterzi al giorno, ma ne erano necessari più di 400 000 per poter entrare a far parte della classe sociale dirigente, quella degli equites. La ricchezza dei proprietari terrieri poteva essere inimmaginabile, e si dice che uno di loro, Marco Antonio Pallante, avesse un patrimonio di oltre 300 milioni di sesterzi.19 Le masse venivano indotte ad accettare la propria povertà. Virgilio, Seneca e molti altri autori lodavano il duro lavoro.
Le commedie e le opere poetiche più amate consideravano la povertà una certezza, un dato di fatto assodato, e a volte con molto senso dell’umorismo. «[…] ero tormentato dal freddo tutto il tempo» dice l’asino protagonista dell’Asino d’oro, l’unico esempio superstite di romanzo antico, scritto da Apuleio nel ii secolo. «Visto che il mio padrone, a causa della sua estrema povertà, non poteva procurarsi una tettoia di paglia o sia pure il più misero riparo non dico per me, ma nemmeno per sé.»20 Per migliorare le condizioni di vita dei cittadini poveri, si tenevano regolarmente spettacolari giochi gladiatorii e corse dei carri. Progetti grandiosi come la costruzione del Colosseo, il restauro del Circo Massimo e l’apertura di enormi bagni pubblici risalgono tutti a questo periodo. Gli imperatori facevano tutto il possibile per garantire rifornimenti costanti di cereali provenienti dalle province. In casi estremi, a riportare l’ordine ci pensava l’esercito. «Scoppiate molte sedizioni a opera di diversi ribelli, alcune delle quali anche molto allarmanti, furono poi represse.»21 Al cuore della società romana imperiale c’era la disuguaglianza, costantemente portata al limite dell’accettabile.
Controllare il barbaricum
Al di fuori dei confini dell’Impero romano si stendeva il barbaricum. I popoli che vivevano lungo le frontiere mantenevano atteggiamenti ambivalenti nei confronti dell’Urbe. Anche i più agguerriti avversari della sottomissione militare cercavano di ricavare benefici economici. Le tribù caledoni, per esempio, resistettero con ogni mezzo alle legioni dalle loro fortificazioni sulle Highlands scozzesi, ma le tombe dei loro capi erano piene di manufatti romani. Le tribù germaniche combatterono un numero imprecisato di guerre contro Roma. I frisoni, che vivevano a nord del basso corso del Reno, impiccarono gli esattori delle tasse romani e si ribellarono contro un governatore dispotico. Eppure, alcuni clan frisoni furono fra i molti popoli germanici che mandarono truppe ausiliarie proprie perché combattessero nell’esercito di Roma.
Una delle società più grandi che vivevano lungo i confini settentrionali dell’impero era quella dei daci. Da principio, i romani li pagarono perché non oltrepassassero il Danubio, ma col crescere dei tumulti interni, alcuni sovrani daci intraprendenti iniziarono a fare scorrerie oltre frontiera. La reazione di Roma, quando giunse, fu feroce: i daci furono sconfitti, il loro re scovato e ucciso e il regno incorporato nell’impero nel 105, ma la popolazione continuò a resistere all’influenza dei romani, ansiosi di sfruttare le molte miniere d’oro della regione. Una resistenza che infine indusse l’imperatore Commodo (180-192) a garantire loro una maggiore autonomia.
Erano molti i fattori che condizionavano il comportamento di queste tribù. La loro organizzazione politica oscillava tra la frammentazione in clan e la coesione sotto sovrani forti. Per la maggior parte, si trattava di piccoli contadini con una netta propensione alla stabilità, ma erano anche famosi per la loro etica guerresca e per la capacità di portare in battaglia giovani e anziani, uomini e donne. La sicurezza dei loro domini era perennemente in bilico. I popoli che migravano da est, attirati dal clima più temperato e dalla sempre maggiore ricchezza della regione, esercitavano una pressione crescente sulle tribù già stanziate vicino al confine con l’impero.
Quest’ultimo non riusciva sempre a difendersi con lo stesso grado di vigore. Il sistema difensivo, detto limes, soffriva spesso per la scarsità di uomini cui era costretto, e spesso si optava per strategie più diplomatiche. Ad alimentare il desiderio di unirsi all’impero erano la promozione del commercio o la concessione di determinati privilegi alle élite. Le tribù che si trovavano appena al di là dei confini erano invitate a divenire tributarii, una forma di accordo che da un lato offriva l’accesso ai mercati romani e un certo livello di protezione da parte dell’esercito, dall’altro il pagamento di tasse e la partecipazione al servizio militare. Alcune tribù diventavano laeti, e ottenevano terre all’interno dell’impero in cambio di uomini per l’esercito. Le tribù più fortunate diventavano foederati, potevano cioè sistemarsi all’interno dell’impero, mantenere i propri capi e anche ricevere aiuti economici in cambio del servizio come truppe ausiliarie.
Le tribù che vivevano in Britannia e lungo il Reno e il Danubio non ci hanno lasciato fonti scritte sui loro rapporti con i romani, e i principali testi disponibili in materia sono quelli di Tacito e di Cassio Dione. La questione cambia quando parliamo di Grecia, Levante ed Egitto, dove invece abbondano le fonti scritte prodotte dalle popolazioni locali. In Grecia, gli intellettuali dell’epoca erano divisi. Alcuni tentarono di fare accettare la dominazione romana ai connazionali: per esempio, lo storico Dionigi di Alicarnasso e il geografo Strabone sostenevano che Roma fornisse loro protezione contro gli stati rivali dell’Asia Minore, la piaga dei pirati e le turbolente orde che infestavano le cose del Mar Nero; dal canto suo, il filosofo Aristide lodava la libertà di movimento che vigeva nell’impero. Altri, al contrario, erano molto meno soddisfatti: il geografo Pausania, per esempio, riteneva che in seguito alla conquista romana «la Grecia precipitò in una situazione di debolezza totale».22 Deplorava il modo in cui le città greche avevano perso la libertà e i loro capi si erano precipitati per entrare nell’élite imperiale. «Il più empio dei delitti» insisteva era stato «il tradimento della patria e dei cittadini per interesse personale.»23 Pausania racconta, inoltre, dei saccheggi perpetrati dai romani, dello spopolamento forzato di grandi città come Corinto e dei capricci dei governatori.
Un altro pensatore che scrisse molto contro quest’ultimo aspetto della dominazione romana fu Filone di Alessandria, un filosofo greco-ebraico vissuto in Egitto nel i secolo, il quale narrò (nel trattato Contro Flacco) di un governatore romano che incitava la popolazione a rivoltarsi contro gli ebrei del paese. Forse, però, il racconto più vivido di come si viveva in Medio Oriente sotto i romani è rappresentato dalla storia di Gesù Cristo, della sua resistenza pacifica, della sua passione e della sua crocifissione, così come è ricostruita nel Nuovo Testamento. Nei secoli che seguirono, per molti la sua vicenda divenne il simbolo stesso dell’oppressione imperiale. L’apostolo Giovanni rimprovera ai romani di aver strappato la terra e l’anima agli ebrei, ma riserva le parole più dure ai molti locali che collaborarono con i conquistatori, non ultimi quanti si lasciarono manipolare e corrompere quando Gesù venne processato insieme al criminale Barabba per decisione del governatore romano, Ponzio Pilato. Il racconto evangelico è contestualizzato da Filone di Alessandria e da Flavio Giuseppe, uno storico greco-ebraico vissuto sul finire del i secolo, ed entrambi narrano come il governo arbitrario di Pilato e il suo disprezzo per gli usi ebraici causarono tensioni in Palestina. Entrambi gli autori, però, scrivono da una prospettiva ormai romanizzata e lasciano intendere che il dominio di Roma sugli ebrei rientri nella volontà di Dio.
A questo punto, durante il regno di Traiano all’inizio del ii secolo, l’Impero romano era uno dei più grandi che il mondo avesse mai visto. Se però le aree continentali controllate dagli Han e dagli Achemenidi erano probabilmente più estese, Roma controllava pure una vasta zona marittima che si estendeva dal Mare del Nord, passava per tutto il Mediterraneo, raggiungeva il Mar Nero e la parte settentrionale del Mar Rosso. Anche il grado di imperialismo dei romani era indiscutibilmente maggiore. Roma non aveva solo il potere di conquistare, ma era anche in grado di integrare in sé le proprie conquiste, attraverso severe pratiche amministrative, unità di misura uniformate, lingue comuni per l’élite, spostamento di merci in tutto il territorio e capacità ingegneristiche senza paragoni, ben visibili nei porti, nelle strade, nei ponti e negli acquedotti che sono giunti fino a noi. Con l’unione di mari e terre, l’Impero romano era uno dei più grandi di sempre.
Sulla Via della Seta
Stando agli storici antichi, la Partia, l’impero cosmopolita che si stendeva tra l’Eufrate e l’Hindu Kush, era ancora la principale rivale di Roma. Tacito, per esempio, parlava di Roma e della Partia come dei due imperi più grandi di sempre (maxima imperia), mentre Pompeo Trogo immaginava il mondo diviso in romani e parti. Ciononostante, anche l’Impero partico era sotto pressione. Dal punto di vista romano, l’obiettivo era chiaro: la Partia doveva essere trattata come una grande potenza, ma comunque ancora inferiore a Roma. Il famoso Augusto di Prima Porta, una statua in marmo bianco che ora è conservata ai Musei Vaticani, mostra sul pettorale dell’imperatore un soldato partico che, con aria diffidente, restituisce uno degli stendardi presi alle legioni romane in uno dei conflitti precedenti. Il re della Partia giunse a dare i suoi figli ad Augusto come ostaggi in modo che il successivo sovrano fosse di sangue romano.
Ma la pace non durò. Le due potenze si ritrovarono in un gioco a somma zero geopolitico, nel quale i successi di una parte erano considerati altrettante perdite dall’altra, sulla pelle del regno di Armenia, che fungeva da stato cuscinetto fra i due imperi. Vi erano poi continue tensioni relative al confine sull’Eufrate, perché da principio le ambizioni di Roma si erano fermate sulla riva occidentale del fiume, ma nel 115 l’imperatore Traiano lo attraversò. Stando a Tacito, storicamente le campagne di Roma verso est erano considerate una strategia per consolidare il potere degli imperatori in patria. E, in effetti, Traiano alluse davvero alle conquiste in Persia di Alessandro Magno parlando della guerra da lui scatenata. In ogni caso, però, era stata la Partia a provocare Roma sostituendo il re dell’Armenia. Un altro fattore che contribuì allo scontro fu la tendenza a «sconfinare» delle campagne romane. Dopo quella condotta in Dacia, Traiano aveva portato l’esercito sul Mar Nero: al di là dell’oro della Dacia, si trovavano le vie di commercio del Caucaso e del Medio Oriente. I parti, però, si opposero con la massima fermezza all’invasione romana. Il successore di Traiano, Adriano, si ritirò dalla Mesopotamia, ma, nel 198, vi tornò l’imperatore Settimio Severo, il quale saccheggiò la capitale della Partia, Ctesifonte, e incorporò nell’impero la Mesopotamia settentrionale. Nel 217, Roma e la Partia si prepararono a un altro grande scontro: l’imperatore Caracalla era pronto a calare con le sue truppe in Mesopotamia passando dai monti dell’Anatolia, ma la spedizione venne annullata quando l’imperatore fu ucciso durante una pausa dalle marce, e i romani furono costretti a firmare per la pace.
L’Impero partico, però, a questo punto era così stremato che cadde preda di un minuscolo regno vassallo collocato a neppure due chilometri dalle rovine di Persepoli, in quello che era stato il cuore della terra degli Achemenidi. Il suo sovrano, Ardashīr i, nel 224 si autoincoronò «re dei re», seguendo la tradizione assira e persiana, a Ctesifonte. Era nato un nuovo impero: l’Impero sasanide avrebbe dominato grandi parti del Medio Oriente e dell’Asia centrale fino alla nascita dell’islam, nel vii secolo.
Malgrado la crescente debolezza, l’Impero partico restava un importante snodo commerciale che collegava il Mediterraneo e l’Asia. Erodiano, un ufficiale e storico romano di origini greche, descriveva la prosperità dei commerci all’inizio del iii secolo e sosteneva che la specializzazione potesse giovare anche ai rapporti politici. «Inoltre [se i Parti avessero accettato un’alleanza matrimoniale con Roma] non sarebbe stato più necessario trasportare in piccole quantità, attraverso vie rischiose e segrete, per mezzo di intermediari, gli aromi e i meravigliosi tessuti prodotti dai Parti, i minerali e i pregiati manufatti dei Romani; avendo essi costituito un solo stato e una sola economia, gli scambi sarebbero divenuti facili, con vantaggio comune.»24 Ma la realtà non era così semplice. Fonti cinesi e romane affermano che i parti cercarono di proteggere il loro ruolo di punto d’accesso verso il commercio asiatico. Nel 97, un inviato cinese domandò alla corte partica il permesso di recarsi a Roma attraverso il golfo persico, e a quanto pare i parti lo convinsero che il viaggio sarebbe stato troppo lungo e faticoso. «L’oceano è immenso» gli dissero. «Spinge gli uomini a pensare al loro paese, si lasciano prendere dalla nostalgia e alcuni muoiono.»25 Con ogni probabilità, i cinesi sapevano benissimo che era tutto un trucco. L’imperatore romano «voleva sempre mandare inviati agli Han» leggiamo nelle cronache cinesi «ma l’Anxi [la Partia], che voleva controllare il commercio delle sete cinesi multicolore, bloccava la strada».26
I progetti partici per monopolizzare il mercato della Via della Seta non erano l’unica preoccupazione economica per Roma, dove gli autori erano anche impensieriti dal deficit commerciale con l’Oriente. Plinio il Vecchio credeva che la passione smodata delle donne romane per i beni di lusso orientali costasse una fortuna all’impero: «l’India non fa mai spendere meno di 50 000 000 di sesterzi all’anno al nostro impero in cambio di mercanzie, vendute poi qui da noi a un prezzo cento volte superiore».27 Tacito ammoniva che, in nome del lusso sfrenato delle donne, si stava procurando troppa ricchezza a paesi stranieri ostili. Anziché cercare di regolare i consumi dei ricchi romani, l’obiettivo divenne controllare il commercio. In primo luogo, Roma tentò di dominare i poli commerciali del Levante, come Palmira e Petra, così da evitare tariffe aggiuntive; al contempo, promosse gli scambi marittimi via Mar Rosso con i porti della penisola arabica, con l’India e perfino con la Cina. Gran parte dei commerci con quest’ultima erano indiretti, malgrado la prima ambasceria romana in Estremo Oriente risalga al 166. Eppure i cinesi, almeno per il momento, non parevano particolarmente colpiti. «Il tributo che hanno portato» leggiamo nelle cronache «non era né prezioso né raro.»28
L’Impero Kushana
Se il commercio diretto via terra fra Roma e la Cina era ostacolato dalla Partia, quello via mare con l’India cresceva. Durante il regno di Augusto, c’erano navi che partivano per l’India ogni anno, per attraccare nei molti porti della costa occidentale del subcontinente. Un viaggiatore del i secolo ha ricostruito questo lungo e stancante viaggio a partire dal porto di Alessandria e attraverso il Mar Rosso, dove le navi da guerra romane pattugliavano le acque contro i pirati, quindi lungo le insidiose coste dell’Oceano Indiano.29 Nel suo periplo, egli spiega che i porti sulle coste dell’Asia meridionale erano per lo più città stato indipendenti o che facevano parte di piccoli regni, molto interessati a controllare il commercio servendosi di porti dedicati, di piloti autorizzati, di ufficiali doganali, di pattuglie contro i pirati e di antiche rivendicazioni per garantirsi l’autorità sulla regione. In caso di spezie preziose, per esempio il franchincenso, «non è possibile imbarcarle su una nave qualunque né apertamente né di nascosto senza il permesso del Re; in caso ne fosse portato a bordo anche solo un granello senza permesso esplicito, la nave non potrebbe uscire dal porto».30 Questi porti erano collegati con l’interno da fiumi lungo i quali si trasportavano oro, gemme, tessuti e spezie; inoltre, si tenevano mercati regolari con tribù più primitive. «Arrivano con le mogli e i figli, trasportando grandi pacchi e cesti intrecciati colmi di quelle che sembrano foglie di vite verdi… Poi tengono un banchetto che dura giorni e giorni, dopo aver steso in terra quei cesti e usandoli come stuoie, poi se ne tornano nelle loro terre all’interno.»31 Il viaggiatore parla anche di quelle che, secondo lui, erano «tracce della spedizione di Alessandro Magno, come antichi santuari, mura fortificate e grandi pozzi».32
Le regioni interne dell’India e dell’Asia centrale erano ancora pericolose zone di guerra. La parte meridionale del subcontinente era divisa fra regni come quelli dei Sātavāhana, dei Kshaharata, dei Pandya e dei Chola. A nord, l’Impero Kushana fondato dagli yuezhi approfittò del declino della Partia per continuare a espandersi. Come afferma il Libro degli Han posteriori: «Fu quando gli yuezhi trionfarono sui parti che conquistarono Kabul».33 Gli yuezhi erano in grado di schierare centinaia di migliaia di cavalieri, una risorsa che nessun’altra potenza della regione poteva uguagliare.
Uno dopo l’altro, gli yuezhi conquistarono tutti i regni della Pianura indo-gangetica. Il loro impatto si riflette nelle biografie del monaco buddhista Aśvaghosa (inizio del ii secolo): lo stato ideale era un mondo «reso pacifico, con un re longevo, ricchi raccolti e la gioia che deriva dalla terra, senza nessuna fra le miriadi di calamità possibili».34 Ma poi arrivarono gli yuezhi, pretendendo tributi: un regno era tenuto a versare una somma pari al quadruplo della sua ricchezza totale. Il suo compassionevole sovrano buddhista cedette: «Vi daremo tutto ciò di cui avrete bisogno. Perché il popolo deve soffrire e angosciarsi a causa della vostra presenza prolungata?».35 Ma il regno venne invaso ugualmente.
Per quanto i romani credessero che al mondo ci fossero solo due grandi imperatori (il loro e quello della Partia), il sovrano dell’Impero Kushana si considerava un loro pari. Sulle monete, gli imperatori Kushana si facevano definire con l’appellativo di «augusto», a imitazione della controparte romana, ma anche «re dei re», secondo la tradizione mesopotamica, nonché di «figlio dei cieli», sullo stile cinese. Secondo la leggenda, il potente imperatore Kaniska (127-63) era dotato di poteri sovrannaturali e sconfisse un malvagio dio serpente; l’iscrizione di Rabatak rendeva onore a Kaniska in quanto «grande salvezza, Kaniska il Kushana, il virtuoso, il giusto, l’autocrate, il dio degno di venerazione, che ha ricevuto il regno da Nana e da tutti gli dèi».36 L’Iscrizione di Mathura lo descrive «costante nella vera legge».37 Gli imperatori Kushana erano orgogliosi soprattutto dei propri sistemi di irrigazione: progetti come la diga sul fiume Dargom, che controllava buona parte dei rifornimenti idrici della città di Samarcanda, nella valle di Fergana, furono imprese senza precedenti.
Benché l’Impero Kushana fosse suddiviso in satrapie, probabilmente queste unità amministrative non erano sottoposte a controlli stringenti quanto quelli dell’Impero achemenide. Ciononostante, i viaggiatori cinesi ammiravano la forza e lo splendore del regno Kushana. Vale la pena di osservare come, malgrado non ci fossero miniere d’oro di grande importanza nella zona, i Kushana abbiano coniato un volume stratosferico di monete d’oro. L’unica spiegazione possibile è che lo stato godesse di un cospicuo surplus economico con la Partia, Roma e altri partner commerciali. La combinazione delle pianure dell’Asia meridionale e delle oasi dell’Asia centrale rappresentava un immenso potenziale per l’agricoltura. Al massimo della loro potenza, i Kushana controllavano le principali rotte carovaniere che collegavano l’Asia meridionale, la Mesopotamia, il bacino del Tarim nell’attuale Cina e perfino la Siberia, nonché porti di primo piano nel golfo di Aden. Come Aśoka Maurya quattro secoli prima, Kaniska adottò il buddhismo come religione ufficiale del proprio impero, nonché come giustificazione per il suo giusto regno su centinaia di tribù e lingue diverse.
L’Impero Kushana si impose come un giocatore di primissimo piano in una versione antica del «Grande gioco», e se la vide con Roma, la Partia, gli xiongnu e la Cina per il controllo degli altipiani fertili e dei corridoi commerciali dell’Asia centrale. Intorno al 50, l’Impero Kushana era in guerra contro i parti per le verdi vallate della regione orientale dei monti Zagros. Cassio Dione parla di un’alleanza fra i Kushana e Roma: «[Augusto r]icevette la visita di moltissime ambascerie, e gli abitanti dell’India, che già in precedenza ne avevano inviate, si adoperavano a dare dimostrazione della loro amicizia, inviando, oltre a molti altri omaggi, anche delle tigri, che proprio in quell’occasione furono viste per la prima volta non solo dai Romani, ma, come io credo, anche dai Greci».38 Al contempo, i Kushana giunsero a un accordo anche con la Cina. Che però durò poco: offesi dal rifiuto che i cinesi opposero alla proposta di un’alleanza matrimoniale e preoccupati dalla loro avanzata nell’Asia centrale, i Kushana dichiararono guerra, e quando persero la Cina pretese condizioni di pace umilianti. L’Impero Kushana si vendicò andando a coalizzarsi con gli xiongnu, ma, quando i Sasanidi rovesciarono l’ormai sclerotico Impero partico, l’imperatore Kushana Vasudeva i propose una nuova alleanza alla Cina, e per adulare i possibili alleati giunse a far coniare monete che portavano il suo nome scritto in caratteri cinesi. Un segno di debolezza, e, infatti, quando Vasudeva morì intorno al 235, il regno Kushana si divise dapprima in due parti, quindi in una miriade di regni minori.
Malgrado l’uscita di scena dell’Impero Kushana, l’Asia meridionale, l’Asia centrale, il Medio Oriente, il Mediterraneo e la Cina erano più interconnessi di prima. Dopo aver assorbito le influenze elleniche, ora anche l’Asia meridionale iniziava a interessarsi alla cultura di Roma. E, viceversa, i cittadini di Roma erano ormai entusiasti dei lussi provenienti dall’Asia. Il commercio, la cultura e i viaggi aiutarono a stringere ulteriormente i legami da un capo all’altro dell’Eurasia, e così anche la politica di potenza, perché furono stabiliti rapporti diplomatici fra Cina, Roma, Partia, Impero Kushana e India. Ma fra questi stessi stati furono combattute anche nuove guerre, perché quanto più commercio percorreva la Via della Seta e attraversava i monti dell’Hindu Kush e del Tian Shan, tanto più agguerrita si faceva la competizione per controllarlo.
Chiudere la Porta di Giada
Insieme ai parti e ai Kushana, l’altro principale contendente per il predominio sull’Asia centrale era, di conseguenza, la Cina Han. La dinastia aveva fatto propria l’idea tradizionale secondo cui la Cina era il «regno di mezzo». Come si è detto, nella loro visione del mondo le terre dell’impero si trovavano al centro di una serie di cerchi concentrici, mentre il compito dell’imperatore consisteva nel difendere il pacifico regno cinese e tenerne lontano il mondo dei barbari. Alla fine del i secolo d.C., però, quella pace era minacciata da forze interne.
Dopo la morte dell’imperatore Han Aidi nell’1 d.C., l’impero fu travolto dai disordini per la successione, alimentati dal rancore dei contadini poveri. Un comandante militare di nome Wang Mang promise di conquistarsi il favore delle masse con parole senz’altro particolari. «I ricchi davano ai cani e ai cavalli più verdure e cereali di quanti potessero mangiarne» osservava. «I poveri non riuscivano a saziarsi neppure con gli avanzi, e la povertà li spingeva al crimine.»39 Wang Mang propose riforme a dir poco drastiche: non appena si fece affidare la reggenza da sua zia, l’imperatrice vedova, mise fuori legge la schiavitù, nazionalizzò i terreni agricoli e intraprese una serie di opere infrastrutturali. Cercò anche di tenere a freno i prezzi dei generi alimentari, nominando un sovrintendente ai mercati incaricato di comprare le merci quando costavano poco e di rivenderle quando diventavano costose.40 I suoi progetti radicali furono comunque fermati da inondazioni violente, dalla carestia e dall’opposizione al fatto che avesse apparentemente usurpato il trono imperiale; ribelli e predoni si organizzarono in bande armate, come il cosiddetto esercito delle Sopracciglia rosse.
Nel frattempo, un altro rampollo della famiglia imperiale, Liu Xiu, riuscì a volgere il caos a proprio vantaggio: colse il momento decisivo nella lotta contro Wang Mang e diede prova di una notevole leadership militare per arrivare alla vittoria che gli consegnò gran parte della Pianura della Cina del Nord. Nel 25 d.C., si autoproclamò imperatore della restaurata dinastia Han, detta ora «degli Han orientali», con il nome Guangwudi, e come nuovo colore imperiale scelse il rosso, il colore del fuoco e del vigore. L’imperatore Guangwudi fece tutto il possibile per rinforzare la propria legittimità di giusto erede del mandato celeste. Come Augusto, divenne il mecenate di scrittori importanti, fra i quali lo storico di corte Ban Gu, che racconta come la nuova dinastia Han «accentuò la disciplina imperiale».41 Perorò con forza la causa della centralizzazione dell’autorità e riportò in auge la teoria confuciana dell’impero espressa da Dong Zhongshu. Ma Guangwudi sapeva di dover placare le masse per conservare il potere e in quest’ottica fece proprie alcune politiche populiste di Wang Mang. Confermò l’abolizione della schiavitù, ridusse il numero di aristocratici a corte, redistribuì la terra ai poveri e liberò i contadini dal fardello del servizio militare obbligatorio.
Uno degli obiettivi di quest’ultimo eccezionale provvedimento era il disarmo della società cinese, in modo da rendere più difficile lo scoppio di nuove guerre civili, ma le conseguenze furono serie per la politica estera dell’impero. Con soli 2400 soldati a guardia del palazzo reale e altri cinque comandanti ciascuno a capo di 3500 uomini, l’esercito cinese ora era decisamente ridotto rispetto a quello di molti stati vicini. La soluzione fu chiamare alle armi i criminali e reclutare guerrieri non Han.42 Ora più che mai, attizzare una tribù barbara contro l’altra doveva essere una strategia fondamentale per difendere la sicurezza dell’impero. Date le circostanze, Ban Gu consigliava di non intraprendere campagne in terra straniera, perché i barbari «sono separati da noi da valli e montagne e il deserto li tiene lontani. È con questi mezzi che il Cielo e la Terra separano l’interno e l’esterno» affermava. «Concludere accordi con loro significa sprecare doni e subire l’inganno. Attaccarli significa sfiancare i nostri eserciti e provocare le loro incursioni.»43
Per fortuna degli Han, la strategia moderata andò a coincidere con un momento di debolezza fra le tribù barbare. Nel 24, gli xiongnu si erano impuntati davanti alla richiesta di tributi, replicando che dovesse essere Liu Xiu a pagarli in cambio del supporto ricevuto contro Wang Mang. Ma nel 50, dopo che la federazione xiongnu si era spaccata a causa di conflitti per la successione, gli xiongnu del Sud accettarono l’obbligo di versare i tributi, inviarono un principe come ostaggio alla corte Han e si allinearono, trasformandosi in uno stato cuscinetto. Gli xiongnu del Nord non erano abbastanza potenti da rappresentare una minaccia per l’Impero cinese, e in più dovevano vedersela con rivali forti del sostegno degli Han come i wuhuan e gli xianbei. In queste circostanze, i comandanti cinesi divennero sprezzanti: «Perché un soldato Han vale cinque xiongnu? Perché le lame delle loro spade sono smussate e le loro balestre inutili».44 Il consigliere Chao Cuo, intanto, paragonava gli xiongnu a «uccelli che volano o bestie che corrono nei grandi campi aperti».45 Questa strafottenza, però, non durò a lungo.
Quando il successore di Guangwudi, l’imperatore Mingdi (57-75), salì al trono, gli xiongnu del Nord lo accolsero con sempre maggiore determinazione: presero ad attaccare gli snodi commerciali lungo le frontiere e le guarnigioni imperiali, già male equipaggiate. I loro scontri con gli xiongnu del Sud generarono sostanziosi flussi di migranti diretti in Cina, che furono prontamente pagati per tornarsene da dove erano venuti. Dal punto di vista bellico, l’impero reagì con una serie di spedizioni punitive, finché l’imperatore Zhang (75-88) ordinò alle sue truppe di incunearsi nel cuore dell’Asia centrale e porre fine una volta per tutte al problema degli xiongnu. Il generale Ban Chao riuscì a riportare la pace nella maggior parte di queste «regioni occidentali», con l’aiuto dei Kushana e di governanti locali minori. Quando la carestia colpì anche gli xiongnu, molti dei loro capi andarono a costituirsi ai confini con la Cina. «Intimiditi dalla nostra forza militare e attratti dalla nostra ricchezza, tutti i governanti presentarono come tributi prodotti esotici locali e i loro amati figli come ostaggi. Si scoprirono il capo e si inginocchiarono verso est per rendere omaggio al Figlio dei Cieli» vantavano le cronache.46 L’impero ripristinò l’incarico di protettore generale delle regioni occidentali per supervisionare al pagamento dei tributi.47 Se un governante non faceva fronte alle richieste, veniva privato dell’autorità e l’onorificenza imperiale ufficiale passava a un nuovo fantoccio.
Sotto gli imperatori Mingdi e Zhangdi, la Cina visse una vera e propria età dell’oro. Tornò la stabilità interna, le tasse rimasero basse e la maggioranza dei contadini non fu costretta ad arruolarsi. Zhangdi seppe gestire una disastrosa epidemia che colpì il bestiame e sperimentò alcuni provvedimenti di previdenza sociale, tra cui sgravi fiscali per i padri giovani, bonus in cereali a ogni moglie che partoriva e sussidi per i genitori che non riuscivano a sfamare i figli. Nel 79, con il chiaro obiettivo di rafforzare la propria credibilità di sovrano giusto ed equo, Xhang radunò studiosi di fama da ogni angolo dell’impero per farli partecipare alle cosiddette «Virtuose discussioni del palazzo della Tigre bianca». Ne nacque un nuovo manifesto per un’amministrazione basata sui princìpi del confucianesimo, che trattava i rituali di corte, la giustizia sociale, la legge e la pubblica amministrazione all’interno dell’impero. Oltre i confini, frattanto, il principio confuciano dell’armonia si diffondeva attraverso cerimoniali e rapporti sempre più ritualizzati la cui magnificenza era appositamente studiata per intimidire gli inviati, oltre che attraverso doni sempre più sfarzosi.
Quest’epoca di prosperità, tuttavia, ebbe vita breve. La politica della smilitarizzazione si dimostrò impraticabile e, non fidandosi delle intenzioni dei barbari, gli ufficiali richiedevano sempre più spesso l’invio di truppe aggiuntive per tenere i confini sotto controllo. Il costo delle elargizioni ai leader stranieri lievitò a dismisura. Inoltre, l’indebolimento degli xiongnu del Nord rese sempre meno necessaria la collaborazione con gli xiongnu del Sud, gli xianbei e i wuhuan: quando questi popoli si videro ridurre i contributi imperiali, iniziarono a depredare i contadini cinesi, finché nel 94 gli xiongnu del Sud si unirono ufficialmente a quelli del Nord contro l’Impero Han.
Intanto, un altro vicino cercò di sfruttare il trambusto generale: i nomadi qiang, che vivevano a ovest della Pianura della Cina del Nord, e nel 104 le tensioni sfociarono in una guerra in piena regola. Gli Han si fecero prendere dal panico e ritirarono diverse guarnigioni di frontiera in modo da difendere la sicurezza «a est dei passi». Un intellettuale di spicco mise in guardia dall’effetto domino geopolitico: «Una volta persa la provincia di Liang, allora i Tre Aggiunti costituiranno la frontiera. Se la gente dei Tre Aggiunti si sposta verso l’interno, allora Hongnong costituirà la frontiera. Se la gente di Hongnong si sposta verso l’interno, allora Luoyang costituirà la frontiera. Avanti così, si raggiungerà l’orlo del Mare Orientale».48
Fu l’inizio della fine per la dinastia Han. Tormentato dai tumulti sempre più intensi non solo al di là, ma anche al di qua dei confini imperiali, l’imperatore Andi (106-125) scelse l’isolazionismo. Chiuse la Porta di Giada (il passo Yumen, principale accesso della Via della Seta, che collegava la Cina con l’Asia centrale) e mise fine ai rapporti tributari con i popoli che vivevano a ovest di quel punto, non più sostenibili. Andi divenne famoso in seguito perché fu un sovrano taccagno e incompetente, al punto che le cronache parlano di una «graduale diminuzione della benevolenza» durante il suo regno. Con uno dei suoi primi decreti, abolì la redistribuzione della terra e dei cereali ai poveri, mentre le famiglie dei grandi proprietari terrieri tornarono alla potenza di un tempo. Nelle sue «Istruzioni mensili per le quattro classi del popolo», Ts’ui Shih condanna il modo in cui la terra veniva sistematicamente trasferita nelle mani dei cortigiani e il fatto che il desiderio dell’imperatore di aumentare le tasse spingeva i funzionari locali a espropriare le tenute dei contadini. Gli agricoltori senza terra, a questo punto, restavano in balia dei ricchi proprietari, che li sfruttavano come manodopera. Secondo Ts’ui, le tensioni nelle campagne si fecero sempre più intense, tanto che i proprietari terrieri fortificavano le loro residenze e assumevano guardie personali.49 Con i successori di Andi scoppiarono violente rivolte, come quella delle Cinque staia di riso nel 142 e la rivolta dei Turbanti gialli nel 182. I testi poetici più diffusi del tempo ci consegnano un mondo di dolore e di caducità.
Stagioni di crescita e declino si susseguono senza posa,
Gli anni concessi agli uomini sono come la rugiada del mattino.
La vita dell’uomo è fuggevole come un soggiorno,
La sua struttura non è solida come il metallo o la pietra…
Alcuni assumono droghe e sperano di diventare immortali,
Ma molti di loro pongono fine alla propria vita con veleno.
Molto meglio bere dell’ottimo vino
E indossare abiti di seta bianca scelta.50
La guerra con i qiang non fece altro che peggiorare la situazione. «I qiang invadono i nostri confini così spesso» leggiamo in una segnalazione dell’epoca «che la pace non dura nemmeno un anno ed è solo all’apertura della stagione dei commerci che essi si presentano in atteggiamento di sottomissione.»51 Le cronache parlano di centinaia di migliaia di vittime, ampi tratti di terra coltivata perduti e di colpi durissimi per le casse imperiali. Adesso i funzionari giungevano a proporre apertamente di rinunciare a ogni rivendicazione sulle zone in cui vivevano i qiang, ammettendo implicitamente che ormai gli Han non erano più in grado di fermare la propria perdita di influenza sulle periferie del regno. L’élite aveva per lo più smesso di preoccuparsi per il destino delle turbolente regioni occidentali dell’impero e, ora più che mai, i suoi interessi coincidevano con quelli delle ricche zone agricole a oriente; qui il centro di gravità economico si era spostato dalla Pianura della Cina del Nord alle rive dello Yangtze, sempre più lontano dalle frontiere occidentali.52
La corte degli Han era dominata da funzionari-studiosi che provenivano dalle ricche famiglie agricole. «Fin dai tempi dei Qin e degli Han, Shandong produce ministri civili e Shanxi produce generali militari» si diceva.53 Quegli stessi funzionari non erano particolarmente disposti a cedere il proprio prestigio a comandanti militari che comandavano eserciti potenti, così continuavano a preferire le vecchie strategie del soft power o a combattere le guerre per procura. «Gli uomini delle prefetture di Bing e Liang, così come gli xiongnu, i tuge, i seguaci volontari dell’area di Huangzhong e le otto stirpi dei qiang occidentali sono i combattenti più vigorosi [di] tutti sotto il Cielo e la gente li teme» affermò un cortigiano durante una conversazione con l’imperatore. «Sono tutti al comando di Vostra Eccellenza e saranno i vostri artigli e le vostre zanne.»54 Un altro funzionario ordinò di distribuire nei territori dei qiang libri sulla devozione filiale.
Il cuore pacifico dell’impero, a est, non comprese e non seppe adattarsi alla dura politica della forza delle zone occidentali. Ma se la corte imperiale esitava a difendere la frontiera, le crescenti tensioni interne e i sempre più frequenti tentativi di colpi di stato la costrinsero a investire in grandi gruppi militari, e, quando la corte si spaccò nei clan che la costituivano, queste milizie fecero altrettanto. La Cina era diventata ingovernabile, e nel 190 tutto l’impero era scosso dai combattimenti, proprio come nel Periodo delle primavere e degli autunni o degli Stati combattenti secoli prima. Le battaglie vedevano spesso schierarsi centinaia di migliaia di soldati. I comandanti più potenti scavalcarono prima i funzionari-studiosi, poi l’imperatore in persona. Nel 220, l’ultimo imperatore Han fu deposto, ponendo così fine agli oltre dieci anni di governo-farsa. Ed ebbe fortuna, perché gli concessero di ritirarsi pacificamente. Non così il suo ex impero, che si divise in tre regni: Shu, Wu e Wei. I cento anni di lotte interne che ne seguirono costarono milioni di vite.
Il crollo dell’Impero Han ebbe ripercussioni su tutta l’Asia orientale. Nella penisola coreana, il regno di Koguryo, che aveva rimpiazzato quello di Gojoseon, colse l’opportunità di sfuggire alla tutela forzata della Cina. Il Koguryo era nato sul finire del i secolo d.C. come una federazione di tribù di cacciatori e solo di recente si era consolidato in un regno dotato di un governo centrale sotto re Gogukcheon (179-197 d.C.). Il Samguk Sagi, una raccolta di antiche cronache coreane, lo ricorda come un comandante abile e un re giusto: stando alla leggenda, trovandosi in una città povera divise i propri vestiti fra gli abitanti e in seguito istituì un sistema di sussidi statali che distribuiva cereali a quanti si trovavano in condizioni di bisogno. Il regno di Koguryo, probabilmente, era stato cliente dell’Impero Han, malgrado le frequenti scaramucce, in primo luogo perché il Koguryo sorgeva a cavallo del fiume Yalu e, di conseguenza, non aveva frontiere naturali che lo separassero dall’impero, e anche a causa dell’incessante competizione per il controllo delle praterie della Manciuria. Al crollo degli Han, il Koguryo visse un breve periodo di espansione, ma fu poi costretto ad arretrare dal neonato regno Wei.
Anche in Giappone, nel frattempo, la costruzione dello stato progrediva lentamente. Fonti cinesi ci dicono che l’arcipelago di Wa (il nome antico del Giappone) nel i secolo era ancora spezzettato in centinaia di staterelli, ma che nel 230 era stato unificato nel regno Yamatai. Una volta uscito di scena l’imperatore Han, il sovrano giapponese decise di tentare un’apertura nei confronti dello stato di Wei, che subito ne fece uno stato tributario, come da prassi, e attribuì al nuovo alleato il titolo di «Regno di Wa amico di Wei» nonché uno speciale nastro viola. I nastri come questo erano stati utilizzati anche dagli Han per legittimare i governanti del Sudest asiatico. Nell’odierno Vietnam, per esempio, la Cina sovvenzionava e proteggeva i sovrani, e quando le Sorelle Trung si ribellarono contro l’egemonia cinese intorno al 41, gli Han mandarono in Vietnam un generale «per calmare le onde», insieme a 20 000 soldati. «Dovunque passasse, il generale istituiva prontamente prefetture e distretti per governare le città fortificate.»55 Ma le azioni dei guerriglieri nelle dense foreste vietnamite contro le fortificazioni difese dai cinesi non si interruppero e gli Han tornarono alla strategia precedente: controllo indiretto attraverso il commercio e la piaggeria diplomatica.56 Scomparsi gli Han, il regno Wu continuò sulla stessa linea.
Malgrado lo sgretolarsi dell’Impero Han, l’influenza economica e culturale della Cina rimase immensa. Se guardiamo alla caduta degli Han, certe somiglianze con il destino dell’Impero romano in quegli stessi anni sono impressionanti. In entrambi i casi, da principio l’imperialismo portò sicurezza alle zone centrali, ma in seguito causò disuguaglianze sociali destabilizzanti e portò l’élite alla decadenza. Il nucleo dell’impero si indebolì ma allo stesso tempo i suoi confini continuavano ad allargarsi sempre più. Una tensione insopportabile. Gli Han chiusero la Porta di Giada quasi nello stesso preciso momento in cui Adriano ordinò alle proprie legioni di ritirarsi dalla Mesopotamia: forse non si tratta di una coincidenza.
Un mondo di estremi
Quello degli imperatori Augusto e Guangwudi era, in definitiva, un mondo di estremi. Fu un’epoca in cui il commercio e le esplorazioni transcontinentali conobbero uno sviluppo senza precedenti. I mercanti e gli inviati percorrevano distanze enormi: abbiamo già incontrato il delegato cinese che rimase bloccato in Partia mentre si recava a Roma, nel 97, ma nel 166 un emissario romano compì il viaggio in direzione opposta e raggiunse il Vietnam di oggi nella speranza di offrire doni all’imperatore cinese.
L’Impero romano, la Partia, l’Impero Kushana, la Cina Han: tutti promettevano qualche tipo di pace e armonia. E, in effetti, Roma e gli Han le ottennero per diversi decenni. Ma, anche nelle loro terre, la pace era sempre un concetto relativo, perché lungo le frontiere la violenza non conosceva sosta. In ogni caso, la pace, quando si verificava, andava a beneficio di una piccola élite che viveva al centro dell’impero e che controllava gli approvvigionamenti alimentari, il commercio dei beni di lusso e i monopoli di stato. Nell’Impero romano, si stima che gli schiavi abbiano raggiunto il 15 per cento della popolazione totale.57 Nella Cina Han, questa percentuale arrivava solo all’1 o al 2 per cento, benché tendesse a salire nelle città e i contadini spesso non se la passassero molto meglio degli schiavi. Anche i popoli tribali avevano i loro schiavi e gli abitanti delle società stanziali li temevano anche a causa delle razzie che compivano con il preciso scopo di procurarsene altri.
Di conseguenza, a meno che non vivesse nelle capitali imperiali in tempi di stabilità politica, la maggioranza di uomini, donne e bambini non era mai davvero sicura, e di rado la sua esistenza era libera da difficoltà e stenti. Spesso la popolazione sopravviveva nutrendosi solo di un pugno di cereali e fagioli al giorno, a volte con l’aggiunta di olio, frutta o verdure.58 La denutrizione dilagava insieme alle malattie, soprattutto nelle grandi città, e la mortalità infantile nei primi due anni di vita era del 50 per cento.59 In sostanza, gli imperi si preoccupavano di accrescere i privilegi di una piccola area capitale a scapito del vasto hinterland che la circondava, e di promuovere gli interessi di una piccola élite di ricchi a spese della grande maggioranza di poveri e bisognosi.