«Questo sonnolento oblio non durerà in eterno» prometteva Petrarca nel 1330. «Disperse le tenebre, i nostri nepoti potranno tornare verso il puro splendore del passato.»1 Il poeta e intellettuale italiano scriveva queste parole mentre l’Europa entrava, pur tra mille esitazioni, in una nuova era di fermento intellettuale. Gli antichi testi di letteratura e filosofia, che erano stati alacremente copiati dai monaci amanuensi nei monasteri, iniziarono ad avere una diffusione più ampia. Accompagnati da idee nuove, tornarono in Occidente i trattati classici di argomento scientifico e matematico, conservati dai pensatori musulmani. Geni della creatività come Dante e Giotto produssero capolavori straordinari e innovativi. Ma ai tempi di Petrarca, l’Europa assistette anche a numerose svolte economiche importanti: nella produzione tessile, in quella dell’acciaio e nella macinazione del grano. Un periodo rivoluzionario anche per il commercio, accompagnato da ulteriori sviluppi nelle spedizioni, per esempio, e da reti e strumenti finanziari sempre più sofisticati.
Eppure le «tenebre», come Petrarca sapeva fin troppo bene, erano sempre in agguato. Di Roma, la città dove presto si sarebbe trasferito, restava poco più che una discarica di marmi imperiali. Saccheggiata dagli eserciti invasori, depredata dai briganti e abbandonata dai papi, la sua popolazione si era ridotta a soli 35 000 abitanti. La ricostruzione non sarebbe cominciata prima del Quattrocento: in questi anni non c’era ancora posto per le cupole maestose e le piazze eleganti. In tutta l’Europa, a partire dalla fine del Duecento, il clima divenne più freddo e più rigido con l’arrivo della Piccola glaciazione. La produzione alimentare crollò, presto arrivarono le carestie e la popolazione si ritrovò più esposta alle malattie. L’epidemia chiamata peste nera, che devastò l’Europa fra il 1347 e il 1351, uccise almeno il 40 per cento della popolazione del continente.
Al capo opposto dell’Eurasia, molti non se la passavano granché meglio nel Trecento. Anche la Cina subì gli effetti agghiaccianti della Piccola glaciazione e di una pandemia di peste, mentre ancora doveva far fronte alle conseguenze dell’invasione mongola di un secolo prima.2 Tutta la regione fu segnata da stenti inimmaginabili, tensioni sociali violente e guerre catastrofiche la cui portata distruttiva fu amplificata dal sempre più diffuso impiego dell’artiglieria. La polvere da sparo era stata inventata in Cina e giunse ben presto nel subcontinente indiano, in Medio Oriente e in Europa, inaugurando una nuova epoca in campo bellico.
Nel periodo compreso fra il 1250 e il 1500, la diplomazia, la politica e i metodi di governo furono orientati sia, da un lato, dalle speranze di un ordine duraturo, sia, dall’altro, dalla realtà della guerra. Questi anni videro l’ascesa di nuove dinastie imperiali in Europa e in Cina, di nuovi imperi in Medio Oriente, Asia centrale e India, e la nascita di grandi potenze nell’America centrale e meridionale per la prima volta dopo il crollo della civiltà maya, secoli addietro. Fu un’epoca di rinascita, più o meno.
Pace universale
Nei primi anni cinquanta del Duecento, i cittadini di Parigi pregavano immersi nella luce divina che filtrava dagli spettacolari rosoni della cattedrale gotica di Notre Dame. Fuori dalle mura di pietra di quel tributo al divino, però, i fedeli sapevano fin troppo bene che la luce divina splendeva anche su un mondo di guerra, povertà e demoni. Parigi era la vivace capitale di un paese ricco, ma il re e buona parte degli aristocratici erano impegnati a combattere una crociata in Egitto e i dintorni della città erano infestati dai briganti. «Guardate i popoli delle nazioni, rannicchiati nell’oscurità» scrisse il compositore Pérotin in una messa per Notre Dame. In canti più profani, il trovatore Guiraut Riquier denunciava la lussuria della carne che portava i nobili alla follia e alla violenza: solo l’amore per Dio poteva creare un mondo di beatitudine e pace infinite.3 All’ombra della cattedrale gotica parigina, il «dottore universale» Alberto Magno affermò che, in previsione della pace sulla terra, sacrificarsi per la causa della Chiesa fosse il bene massimo e che il regno cristiano doveva essere protetto.
E, alla metà del Duecento, non era l’unico ecclesiastico a pensarla in questo modo. Enrico di Gand, per esempio, riteneva che i signori cristiani avrebbero fatto meglio a non combattere l’uno contro l’altro e, piuttosto, unirsi per combattere gli infedeli.4 Vincenzo di Beauvais, intanto, promuoveva l’idea che per raggiungere l’unità e la pace cristiana fosse necessario seguire l’esempio di Cristo, «che vinse con la dolcezza e non con le spade».5 Il teologo italiano Tommaso d’Aquino (1225-1274), invece, scelse una via di mezzo. I sovrani potevano combattere per difendere il proprio regno, a patto che fossero motivati dal desiderio di giustizia. E, fra tutte le forme di governo, la monarchia aveva le maggiori possibilità di diffondere il bene comune, che Tommaso tratteggiava come una combinazione di pace e vita virtuosa. Ma il compito di regolamentare l’autorità dei sovrani spettava al diritto naturale, derivante dalla legge eterna di Dio. I precetti di Tommaso si basavano sulla convinzione che gli uomini fossero per natura creature sociali e desiderassero trascendere la monotonia dell’esistenza nei loro villaggi aspirando al bene comune e combattendo la tirannide.
Ma chi doveva diventare re? Il poeta e politico fiorentino Dante Alighieri (1265-1321) avanzò la teoria della monarchia universale. Nel trattato politico De Monarchia, sostenne che il modo per porre fine alle lotte fra i re e fra il Sacro Romano Impero e il papato fosse attribuire l’autorità temporale suprema all’imperatore, riservando quella spirituale al pontefice. Un contemporaneo di Dante, il teorico politico Pierre Dubois, concordava sul concetto di monarchia universale, ma riteneva che il candidato migliore per il ruolo principale fosse il re di Francia. Lo Stato pontificio aveva dalla sua pensatori come l’arcivescovo Egidio Romano, il quale sosteneva da anni che il potere politico supremo spettasse di diritto al papa. Il filosofo italiano Marsilio da Padova, per parte sua, si schierò in favore dell’imperatore del Sacro Romano Impero, ma insisteva che questi dovesse essere eletto democraticamente. Il filosofo inglese Guglielmo di Occam si spinse ad affermare che sia il papa, sia l’imperatore potevano essere deposti se si comportavano in modo ingiusto e che i cristiani dovevano essere liberi di criticare la Chiesa, a meno che non si volesse farne degli schiavi. La disperata ricerca di un sovrano giusto per l’Europa è forse esemplificata al meglio dal comportamento di Petrarca, che prima supplicò il tribuno populista Cola di Rienzo affinché portasse la pace in Italia, poi il papa e infine l’imperatore. In breve, tutti erano d’accordo sul bisogno di unità, giustizia e pace, ma le divergenze su chi dovesse esserne il garante supremo erano profondissime.
Un pugno di filosofi, invece, sosteneva che il modo migliore di portare e mantenere la pace fosse il ricorso alla diplomazia. «Il lavoro dell’ambasciatore è la pace» scrisse nel Quattrocento Bernard du Rosier, giurista francese. «L’ambasciatore fatica in nome del bene pubblico… L’ambasciatore è sacro perché agisce per il bene di tutti.»6 Il contemporaneo inviato di corte e memorialista Filippo di Commynes era meno idealista e metteva in guardia dai vertici diplomatici perché spingevano i partecipanti a adottare metodi di persuasione inediti unicamente per mettersi in mostra; così scrisse a proposito di una di queste conferenze: «Non c’era giorno che… dieci o dodici uomini o anche più non passassero dalla parte dei signori; un altro giorno se ne andavano altrettanti dei nostri. Per questo mercanteggiare che vi si faceva, quel luogo fu poi chiamato il Mercato».7 Il diplomatico veneziano Ermolao Barbaro fu ancora più diretto. Il ruolo degli ambasciatori non era propugnare la causa della pace universale, ma «fare, dire, consigliare e pensare tutto quanto potesse giovare al massimo alla difesa e all’espansione dello stato di provenienza».8 Così il re di Francia Luigi xi istruiva i suoi rappresentanti: «Se vi mentono, fate in modo di mentire più di loro».9
Malgrado tutto, l’intensificarsi delle connessioni politiche ed economiche fra gli stati portò alla nascita di una comunità sempre in crescita di diplomatici specializzati. Benché molti fossero rappresentanti utilizzati per missioni specifiche, gli stati iniziarono a nominare anche i primi ambasciatori permanenti, mandati per raccogliere informazioni, conquistare nuovi alleati e tenere d’occhio gli inviati rivali, nonché per difendere gli interessi politici ed economici del proprio stato. Questa espansione dell’attività diplomatica portò anche alla creazione di nuovi apparati burocratici che si occupavano di gestire e archiviare la corrispondenza ufficiale, e di convenzioni che illustravano e normavano le pratiche della diplomazia e il trattamento dei suoi esponenti. Già nel 1339 Venezia aveva compreso che qualunque intralcio o fastidio avesse inflitto agli emissari degli altri stati sarebbe stato restituito ai suoi, di ambasciatori, «che viaggiano di continuo in tutto il mondo»: di conseguenza, gli interessi veneziani avrebbero ricavato vantaggi indubbi dall’applicazione della dottrina dell’immunità diplomatica.
Non ci sono forse altri casi in cui i benefici derivanti dalla pace e dalla stabilità (ottenute vuoi grazie alla cooperazione diplomatica, vuoi imposte da un monarca universale) siano evidenti come nell’Italia del Trecento e del Quattrocento. Gli scambi commerciali fiorirono e il mosaico di città e stati concordò centinaia di pacta specialia per agevolare il commercio. All’inizio del xv secolo, il doge veneziano Tommaso Mocenigo propose perfino di trasformare l’Italia in un paradiso di pace. «Voi rifornite tutto il mondo» proclamò ai suoi concittadini. «Viviamo dunque in pace, così la nostra città si arricchirà con l’oro e argento, le arti, la navigazione, il commercio, la nobiltà, e con i palazzi, i cittadini abbienti e la crescita della popolazione.»10 Ma i commerci erano anche causa di scontri. Milano era in competizione con Firenze nella produzione della seta, mentre Firenze aveva cercato di monopolizzare la produzione di allume, utilizzato per tingere i tessuti, e aveva fatto pressioni sullo Stato pontificio affinché proibisse le importazioni da fornitori musulmani; nel frattempo, Milano aveva tentato di assumere il controllo sulle importazioni tessili dalle Fiandre attraverso il passo del San Gottardo. Venezia, invece, aprì un proprio fronte con Milano a causa del Po e, di conseguenza, si alleò con Firenze, la quale, per tutta risposta, cambiò casacca quando Milano fu di nuovo travolta dalla guerra civile e Venezia divenne troppo potente. La città veneta reagì alleandosi con Napoli. Seguirono ulteriori guerre nelle quali era sempre più spesso coinvolto il papato, che cercava di ripristinare il proprio potere politico sulla penisola alla conclusione di uno scisma nel corso del quale era stato eletto un secondo papa, con residenza ad Avignone.
Nel 1454, Milano e Firenze concordarono la pace di Lodi, con la quale giurarono di difendere l’attuale stato di cose e di non interferire con le questioni politiche interne l’una dell’altra. Qualche mese dopo, insieme agli altri stati belligeranti italiani accettarono la proposta del pontefice, che suggeriva la dichiarazione di una pace generale e la costituzione della Lega italica sovranazionale. Le tensioni, però, furono tutt’altro che sedate, a causa delle antiche rivalità fra le diverse entità politiche e le forti ambizioni personali di quanti le governavano. Sempre più spesso era la comprensione del funzionamento pratico dell’equilibrio dei poteri a conservare la stabilità, più che gli alti princìpi dell’ordine sovranazionale basato sul rispetto dei trattati. Per dirla con il fiorentino Lorenzo de’ Medici, «Io fo pocho stima della lega universale… fo più conto delle volontà et animi che de’ capitoli, e quali, come sapete, si fanno et disfanno chome meglio viene a proposito».11 Una fiducia non del tutto malriposta: fino alla fine del Quattrocento, in Italia regnò una relativa pace.
L’Italia poté permettersi l’anarchia fintanto che i turchi restarono a est dell’Adriatico e le potenze nordeuropee – in particolare Francia e Sacro Romano Impero – furono troppo occupate a risolvere i loro problemi per intervenire a sud delle Alpi. Per quanto riguarda la Francia, per gran parte del Trecento e del Quattrocento dovette far fronte a una serie di conflitti con l’Inghilterra detti collettivamente Guerra dei cent’anni (1337-1453). Alla base vi erano problemi di successione e di sovranità legati alle rispettive corone, ma poi lo scontro si estese fino a coinvolgere Spagna, Portogallo, Scozia, Fiandre e Germania, dal momento che i due attori principali combattevano anche attraverso i propri alleati e per procura. In seguito alla vittoria di Agincourt (1415), dove gli archi lunghi inglesi neutralizzarono la poderosa cavalleria francese, e un’alleanza con il ricco e semiautonomo ducato di Borgogna, l’Inghilterra giunse per qualche tempo a controllare la maggior parte della Francia settentrionale. La morte dell’abile sovrano inglese Enrico v, il cui erede era ancora in fasce, unita al sempre più profondo risentimento francese contro le razzie dei dominatori britannici, cambiò le carte in tavola.
A cominciare con l’assedio di Orléans nel 1429, quando Giovanna d’Arco condusse i francesi alla vittoria, gli inglesi presero ad arretrare. Nel 1435, la Francia incassò un grosso successo diplomatico quando, durante il Congresso di Arras, convinse la Borgogna, stremata dalla guerra, a porre fine alla sua alleanza con i britannici. L’ultima battaglia della Guerra dei cent’anni fu combattuta nel 1453, ma formalmente il conflitto si concluse solo nel 1475, quando i sovrani delle due nazioni contendenti si incontrarono faccia a faccia a Picquigny, nella Francia settentrionale. L’incontro ebbe luogo su un ponte di legno sopra il fiume Somme dalla struttura molto particolare: per paura di essere assassinati, i due re e i rispettivi seguiti erano separati da «una solida grata di legno come si fa per le gabbie dei leoni» collocata a metà del ponte.12
La Guerra dei cent’anni costò alla corona inglese ogni minimo residuo dei possedimenti continentali che aveva ereditato dai predecessori normanni e angioini, con l’unica eccezione di Calais, che venne definitivamente ceduta solo nel 1558. Il peso economico del conflitto e l’umiliazione della sconfitta innescarono una guerra civile in Inghilterra che fu detta Guerra delle due rose (1455-1485), nella quale a competere per il trono furono due importanti famiglie aristocratiche. In Francia, invece, la vittoria si accompagnò a un poderoso allargamento dell’autorità reale, che contribuì a trasformare il regno da un’accozzaglia di territori tenuti assieme sostanzialmente da legami feudali di vassallaggio in una struttura più simile a quella di un moderno stato centralizzato. Quando, nel 1477, i soldati francesi uccisero in battaglia l’ultimo duca di Borgogna e il ducato tornò sotto il dominio diretto della corona (e malgrado i continui tentativi dell’aristocrazia francese di riprendersi la libertà perduta, in particolare nella cosiddetta Folle guerra del 1485-1488), la Francia si affermò definitivamente fra le grandi potenze europee. Una potenza così sicura del fatto suo da spingersi a interferire nelle questioni tedesche, spagnole e scozzesi, mentre nel 1494 invase l’Italia e scatenò una serie di conflitti che durarono più di sessant’anni.
L’altro principale protagonista delle Guerre d’Italia fu il Sacro Romano Impero degli Asburgo. Questi ultimi erano una delle principali famiglie dell’impero e controllavano il ducato d’Austria dalla fine del Duecento. Un matrimonio strategico con la figlia (unica) dell’imperatore Sigismondo nel 1437 spianò la strada all’elezione di un candidato degli Asburgo che divenne imperatore de facto tre anni dopo. Fu, però, solo nel 1452 che l’imperatore Federico iii riuscì finalmente a convincere il pontefice a riconoscere ufficialmente il suo titolo con una incoronazione imperiale a Roma.
E furono i matrimoni, non la guerra, a costruire la potenza asburgica. «Gli altri facciano pure la guerra, ma tu, felice Austria, sposati!» divenne il motto ufficioso della dinastia. Il matrimonio fra lo stesso Federico iii e l’infanta di Portogallo nel 1452 portò alla famiglia una dote immensa, che aiutò l’imperatore a rinsaldare il suo potere. Il suo risultato più importante fu far sposare il figlio Massimiliano con la figlia ed erede dell’ultimo duca di Borgogna. Benché le leggi che regolamentavano le eredità dinastiche consentissero alla Francia di reclamare il ducato per sé, i ricchi possedimenti borgognoni nei Paesi Bassi passarono a Massimiliano insieme alla neosposa nel 1477. I francesi tentarono di opporsi, ma nel 1493 vennero costretti ad accettare le pretese asburgiche. Il risentimento, però, rimase, e la rivalità tra la Francia e l’Impero asburgico alimentò i conflitti che scoppiarono in Europa per altri trecento anni.
Quando Massimiliano i divenne imperatore succedendo al padre nel 1486, la stella degli Asburgo era in ascesa. Si faceva ritrarre al contempo come un nuovo Clodoveo, Carlo Magno e Augusto. Il suo controllo sulle principali rotte commerciali attirò l’interesse di un banchiere incredibilmente ricco, Jacob Fugger, il quale, in cambio di privilegi economici, finanziò i progetti politici di Massimiliano, non ultime le macchinazioni necessarie ad assicurarsi che un giorno il trono imperiale passasse al nipote ed erede. Alla sua morte, nel 1519, Massimiliano lasciò ai suoi banchieri una montagna di debiti, ma anche un regno che controllava alcune delle zone più ricche d’Europa.
Alla fine del Quattrocento, dunque, l’ordinamento politico dell’Europa era dominato dalla Francia e dall’Impero asburgico, e lungo i loro confini sorgevano diverse potenze minori. Nella penisola iberica, la lotta secolare per scacciare gli invasori musulmani, la Reconquista, si concluse in trionfo con la conquista dell’emirato di Granada nel 1492. A vincere furono i regni di Castiglia e Aragona, che, unificati per matrimonio nel 1469, giunsero a governare quasi tutta la penisola, Portogallo escluso. Fin dall’inizio del Quattrocento, il Portogallo aveva sempre più concentrato le proprie energie sull’Atlantico e l’Africa occidentale. Grazie alle innovazioni nella cartografia, nella navigazione e nella progettazione navale, gli intrepidi esploratori portoghesi si erano presi l’arcipelago di Madeira e le Azzorre e avevano navigato per tutta la lunghezza del continente africano, raggiungendo il Capo di Buona Speranza nel 1488. L’invidia per le scoperte portoghesi e la prospettiva di stabilire una rotta marittima diretta verso le ricchezze dell’Oriente indussero i sovrani spagnoli a finanziare il viaggio del genovese Cristoforo Colombo nel 1492. All’orizzonte, una nuova arena per le ambizioni imperiali e la promessa di tesori inimmaginabili.
Nell’Europa orientale, una serie di stati faceva da cuscinetto contro le invasioni provenienti dalle steppe. Questi regni erano tutti molto estesi dal punto di vista territoriale, ma nessuno era abitato da più di 5 milioni di persone.13 Il commercio fra loro era molto intenso, ma così era anche la competizione per assumerne il monopolio (l’entroterra del continente possedeva ingenti risorse naturali), e di conseguenza erano troppo divisi per poter costituire un pericolo nei riguardi degli stati più sviluppati e popolosi che si trovavano lungo i loro confini occidentali.
Fra le entità politiche più importanti ricordiamo il regno di Polonia, riunificatosi sotto la dinastia dei Piasti nel 1320 dopo un lungo periodo di frammentazione. I sovrani Piasti alimentarono una identità comune cattolica e polacca e riuscirono a ottenere una certa coesistenza con l’aristocrazia, formalizzata nella potente assemblea detta sejm. Le conquiste dei Piasti furono poi salutate in termini che richiamavano volontariamente l’epoca della Roma imperiale: avevano trovato un paese primitivo fatto di legno e avevano lasciato uno stato moderno costruito con la pietra.
Quando la linea reale dei Piasti si estinse nel 1370, il trono passò infinte agli Jagelloni, già governanti dell’ultimo stato pagano d’Europa, il granducato di Lituania. Il regno che ne derivò, ora pienamente cristiano, occupò una posizione dominante fra il Mar Baltico e il Mar Nero per buona parte del Quattrocento. Anche sui troni di Boemia e Ungheria, col tempo, arrivarono sovrani Jagelloni, ma per quanto a fondo si fossero inoltrati nell’orbita degli Asburgo non rappresentarono mai una minaccia seria per l’impero di questi ultimi. A trovarsi sotto pressione fu invece la Polonia-Lituania, perché a oriente stava iniziando a imporsi il piccolo e ambizioso granducato di Mosca.
Nato da un frammento della Rus’ di Kiev in seguito all’invasione mongola del Duecento, Mosca rimase uno stato tributario, appunto, dei mongoli, finché finalmente non riuscì a liberarsi del «giogo tataro» nel 1480. Durante il regno di Ivan iii (1462-1505), le dimensioni del granducato triplicarono, gettando le basi del futuro Impero russo. Sposando la nipote dell’ultimo imperatore bizantino, Ivan poté affermare che Mosca aveva ereditato il testimone imperiale di Bisanzio, divenendo la «Terza Roma». La sua decisione di adottare il titolo di zar (cesare), mandò un messaggio molto chiaro: era l’equivalente di ogni cosiddetto imperatore romano a occidente.
L’avanzata degli Ottomani
Nel 1258, alcune centinaia di cavalieri turchi giunsero in Anatolia dall’Asia centrale per offrire i loro servigi al sultanato selgiuchide di Rūm, caduto in rovina in seguito a una raffica di attacchi mongoli. I nuovi arrivati si insediarono su una striscia di terra a nordovest e, quando il sultanato si sgretolò in una decina di regni minori, dichiararono l’indipendenza. Il capo del manipolo, ‘Othman (1299-1323), aveva appena fondato quella che sarebbe divenuta una delle maggiori dinastie imperiali di sempre: gli Ottomani.
Non avendo sbocchi sul mare propri, gli Ottomani, da principio, posarono gli occhi sulle vicine e ricche città costiere, come Bursa. Durante le loro prime campagne poterono approfittare della debolezza che li circondava e ben presto le loro conquiste li portarono in conflitto con l’Impero bizantino. Costantinopoli e tutto il suo regno non si erano mai davvero ripresi dal sacco della città nel 1204, durante la Quarta crociata, e dal periodo di dominio occidentale che ne era seguito. La dinastia dei Paleologi, sul trono imperiale fin dalla metà del Duecento, era tormentata dalle guerre sfiancanti contro serbi e bulgari, dai conflitti intestini, dalle epidemie di peste e dall’inflazione.
Sotto la pressione ottomana, i bizantini furono costretti a cedere un avamposto dietro l’altro. Nel 1345, gli Ottomani attraversarono i Dardanelli e arrivarono in Europa. Nel 1355, l’imperatore Giovanni v rivolse un appello disperato al papa di Roma perché indicesse una campagna contro gli infedeli turchi. Nel 1387, cadde Salonicco. Nel 1389, la cavalleria ottomana (grazie anche ai cannoni e a una forza scelta di fanteria composta da schiavi detti giannizzeri) era arrivata in Kosovo. Anche mentre il dominio ottomano si stendeva sul Mar Adriatico, Venezia e Genova mandarono i loro ambasciatori per negoziare il diritto di importare grano dal Mar Nero al minor prezzo possibile. Quando gli Ottomani furono coinvolti in una breve guerra civile, gli europei non sfruttarono questa clamorosa opportunità di scacciarli, e così le conquiste ripresero. Nel 1450, tutti i territori attorno a Costantinopoli erano stati presi, e da lì fu solo questione di tempo prima che la «mela rossa», com’era chiamata, fosse a sua volta attaccata. Nel giugno del 1453, dopo un lungo assedio, il sultano ottomano Maometto ii (1444-1481) si recò per la prima volta alla preghiera del venerdì a Santa Sofia, la grande chiesa a cupola di Bisanzio, che fu quindi convertita in moschera.
Il papa ammonì: «Voi tedeschi che non aiutate gli Ungheresi, non sperate nell’aiuto dei Francesi! E voi francesi non contate sull’appoggio degli Spagnoli, finché non aiutate i Tedeschi… Mehmed, dopo aver ottenuto il dominio in Oriente, vuole ormai raggiungerlo in Occidente».14 Venezia affrontò gli Ottomani sul mare e ne distrusse una piccola flotta vicino Gallipoli, ma tutte le battaglie successive per respingerli da Bosnia e Albania finirono con una sconfitta.
Maometto iniziò ad autodefinirsi imperatore romano. Si paragonava ad Alessandro Magno e a Giulio Cesare, fece tradurre l’Iliade e visitò Troia per vedere la tomba di Achille. Invitò a soggiornare alla sua corte studiosi e artisti europei, fra cui il pittore veneziano Gentile Bellini, che firmò il suo ritratto. Incorporò elementi di diritto romano e bizantino nel suo codice giuridico; costituì i millet, nazioni, dove i non musulmani potevano conservare un certo grado di autonomia in cambio di tributi da versare allo stato ottomano; nominò un nuovo patriarca ortodosso di Costantinopoli; permise ai mercanti europei di proseguire le loro attività nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale. Maometto non distrusse il retaggio dell’Impero bizantino: aveva obiettivi più alti. I suoi propagandisti annunciarono che gli Ottomani ora consideravano Roma stessa il prossimo, grande obiettivo, e la sua conquista sarebbe stata seguita dall’invasione di tutte le terre della «gente bionda».15
Nel 1470, il comandante di una galea veneziana in Grecia diede notizia di una evoluzione temibile. «L’intero mare sembrava una foresta» scrisse. «Pare incredibile a sentirlo raccontare, ma vederlo è uno spettacolo mirabile.»16 La «foresta» era una flotta che comprendeva anche più di cento galee che Maometto ii aveva fatto costruire in un cantiere navale segreto nel Corno d’Oro ed equipaggiato con cannoni realizzati da esperti italiani e ungheresi. Gli Ottomani erano diventati una potenza marittima ed erano pronti a sfidare la Repubblica di Venezia e gli altri regni cristiani. Lo storico greco Michele Critobulo non lascia dubbi quanto alle intenzioni di Maometto: «Lo fece perché aveva visto che il potere sui mari era una grande cosa, che la marina degli italiani era grande e che essi dominavano il mare e governavano tutte le isole dell’Egeo, e che non poco essi danneggiavano le sue terre costiere, asiatiche ed europee».17 Nel 1499, la flotta veneziana fu sconfitta a Zonchio, nella prima battaglia europea che vide l’impiego dei cannoni navali.18 A questo punto, Venezia dipendeva dagli ungheresi se voleva difendere il litorale orientale dell’Adriatico. Nel 1502, la repubblica firmò un armistizio che riconosceva tutte le conquiste ottomane. L’Italia sembrava pronta a cadere.
Qualche tempo prima, Venezia aveva sperato di aprire un secondo fronte contro gli Ottomani: nel 1463 e nel 1471, il senato della città aveva mandato suoi rappresentanti al più vicino rivale orientale degli Ottomani, gli Aq Qoyūnlī, o turcomanni della Pecora bianca, i quali, però, si erano sempre rifiutati. Questi ultimi erano una delle tante federazioni tribali che vagavano per l’Asia centrale fra Trecento e Quattrocento, mentre le tribù che vivevano di pastorizia si frammentavano e indebolivano gradualmente. Nei decenni successivi alla morte di Gènghiz Khān nel 1227, il regno mongolo si era diviso in quattro parti: la dinastia Yuan, che regnò sulla Cina fino al 1386; l’Orda d’oro, che dominò sulla Siberia e la Steppa ponto-caspica finché non iniziò a sgretolarsi alla metà del Quattrocento; e il khanato Chagatai e l’Īlkhānato, rispettivamente in Asia centrale e Persia, che sopravvissero finché non furono sconfitti dalle truppe turco-mongole di Timur, meglio noto come Tamerlano (1370-1405). Per circa trent’anni, Tamerlano controllò un ampio regno che si stendeva fra il Levante e l’Hindu Kush. Fu un guerriero molto temuto, ma il suo impero non raggiunse mai la sofisticatezza di quello, poniamo, achemenide o sasanide… né la loro longevità. A partire dal xv secolo, le conquiste per mano dei popoli nomadi, caratterizzate da fulminei attacchi a cavallo, cominciarono a incontrare troppa resistenza da parte delle forze schierate dalle società più sedentarie, forti delle nuove armi da fuoco. Fu così che gli Aq Qoyūnlī vennero sconfitti nel 1473, quando migliaia dei loro cavalieri vennero falciati dalle armi da fuoco e dall’artiglieria degli Ottomani.
Il sultano fra i sovrani induisti
La crescita di potenze quali l’Impero ottomano e il granducato di Mosca risparmiò all’Europa occidentale gran parte dell’instabilità dilagante dal centro dell’Eurasia. La musica, però, era molto diversa nel subcontinente indiano, che sarebbe rimasto sotto il controllo di governanti musulmani per oltre cinquecento anni. Sul finire del xii secolo, i condottieri musulmani detti Ghuridi vi si erano riversati dal Khorasan e avevano conquistato gran parte dell’India settentrionale. Quando il sovrano ghuride tornò ai suoi territori in Asia centrale, nel 1193, affidò le nuove proprietà indiane al suo più fidato comandante e schiavo, Qutb-al-Din Aybak, il quale, alla morte del padrone nel 1206, si sbarazzò della signoria ghuride e fondò il sultanato indipendente di Delhi, consolidando il proprio dominio attraverso la costruzione di moschee e fortezze.
Per la maggioranza, i regni induisti disponevano di imponenti eserciti composti da truppe a piedi ed elefanti da guerra, ma non utilizzavano cavalli ed erano incapaci di lavorare insieme, e così rimasero troppo fiacchi e divisi per poter far fronte alle campagne e alle incursioni lampo degli eserciti musulmani, che invece erano incentrati sulla cavalleria. All’inizio del Trecento, il sultanato controllava stabilmente la Pianura indo-gangetica e aveva annesso o imposto un governo indiretto sui principali regni dell’altipiano del Deccan. Ogni vittoria andava a rinforzare il sultanato con immensi tributi in oro, pietre preziose, perle e manodopera. I sultani tentarono anche una carta diversa nei confronti dei nuovi sudditi: incaricarono poeti di riscrivere i racconti tradizionali in modo che il profeta Maometto e la sua famiglia comparissero insieme ai personaggi più amati del folklore indiano.19
Il fatto che il sultanato fosse di religione islamica, però, generò anche indiscutibili tensioni, soprattutto poiché i primi sultani aumentarono drasticamente le tasse, riservarono i monopoli commerciali ai musulmani e distrussero i templi induisti. Mohammed bin Tughluq (1325-1351) fu uno di quanti passarono il limite. Pretese che la capitale fosse trasferita da Delhi a una città sull’altipiano del Deccan, ordinò un’impossibile invasione della Cina attraversando l’Himalaya e sommerse il regno di tasse, al punto che scoppiarono diverse rivolte.
Fu in questo contesto che sull’altipiano del Deccan sorse una nuova potenza politica alla metà del xiii secolo: il regno di Vijayanagara. Spesso indicato come impero, il Vijayanagara dominò gran parte della metà meridionale del subcontinente indiano nella forma di una federazione piuttosto lasca, pur essendo basato sulla potenza militare: gli scontri fra il Vijayanagara e i regni induisti minori erano frequenti. Dopo la sconfitta, ogni sovrano poteva mantenere la sua fortezza e il suo territorio purché fornisse soldati per la fanteria destinati a combattere contro i musulmani a nord.20 Vi furono diverse guerre fra il Vijayanagara e il sultanato, che a volte coinvolsero centinaia di migliaia di guerrieri, ma nessuno dei due riuscì a infliggere all’altro il colpo decisivo.
I viaggiatori cinesi, europei e musulmani restavano strabiliati alla vista della capitale del Vijayanagara, le cui rovine sono ancora visibili oggi a Hampi, nello stato del Karnataka. «Le pupille degli occhi non hanno mai visto nulla di simile a questa città, e nessuno dei nostri informatori ha mai saputo che esistesse alcunché di paragonabile al mondo» riferiva un visitatore persiano negli anni quaranta del Quattrocento,21 colpito in particolare dalla ricchezza del re, dalle sue 12 000 mogli e dal fervore con cui alcuni dei 300 000 residenti della città si gettavano sotto le ruote delle processioni reali.22 L’architettura dei principali edifici della città mostrava influenze originarie dagli altri regni induisti e dal sultanato. I palazzi erano costruiti su imponenti piattaforme sui cui lati erano incisi rilievi che mostravano le armate del re e i suoi prigionieri di guerra, nonché battute di caccia, danzatori e stranieri esotici. Erano circondati da mercati, stalle per gli elefanti, fortificazioni, cisterne per l’acqua e templi. E sempre nuovi templi e fortificazioni sorsero in tutto l’impero nello stesso stile eclettico.
Benché l’emblema del Vijayanagara fosse un cinghiale selvatico fronteggiante una spada e a una mezzaluna (inequivocabile riferimento all’inimicizia col sultanato di Delhi), i suoi governanti subirono anche influenze più costruttive dalla potenza islamica a nord. Adottarono elementi delle sue usanze e delle sue mode, del suo stile artistico e delle sue tattiche belliche… ma soprattutto presero a utilizzare il titolo di «sultano fra i re induisti».23 Le leggi e la società del Vijayanagara, però, restavano induiste nella loro essenza: la seconda era rigidamente stratificata in base al sistema delle caste, con i brahmani saldi al vertice. Gli ideali della regalità dei sovrani del Vijayanagara, a ogni modo, erano simili a quelli di molte altre culture: «Un Re incoronato dovrebbe sempre regnare con un occhio rivolto al dharma» e dovrebbe «contrastare le azioni dei suoi nemici schiacciandoli con la forza, dovrebbe essere amabile, dovrebbe proteggere uno e tutti».24
Gli stessi sovrani del Vijayanagara non dimenticarono mai l’importanza strategica del commercio, ma, a differenza del sultanato di Delhi, che era in primo luogo una potenza terrestre, cercarono anche di indirizzare le energie del regno attraverso l’Oceano Indiano. Tentarono di procurarsi un accesso a porti strategici come Goa e di invadere lo Sri Lanka. Ricorrendo a strategie più pacifiche, incoraggiarono i rapporti commerciali marittimi con la Cina e perfino con mercati musulmani come Alessandria e le città dello Yemen. Un visitatore portoghese nel Vijayanagara, per esempio, scrisse che il re dipendeva dai cavalli importati da stati islamici presso lo stretto di Hormuz per poter combattere contro il sultanato di Delhi.25 Un’incisione sulla piattaforma centrale del tempio di Hazara Rama nella capitale mostra uno di quei mercanti musulmani mentre vende cavalli al re.26 «Un re dovrebbe potenziare i porti del suo paese e incoraggiare il commercio in modo tale che i cavalli, gli elefanti, le gemme preziose, il legno di sandalo, le perle e altri articoli possano essere importati liberamente» consigliava uno degli ultimi sovrani del Vijayanagara. «Induci i mercanti di lontane terre straniere che importano elefanti e buoni cavalli a legarsi a te offrendo loro abbondanti doni e consentendo loro di fare profitti soddisfacenti. Allora quegli articoli non andranno mai ai tuoi nemici.»27
L’Asia all’ombra dei Ming
Nel 1272, Qūbīlāy Khān, il grande leader dei mongoli, mandò un messaggio ai popoli che aveva conquistato in Cina: «[Noi] abbiamo nobilmente accettato lo splendido mandato che copre tutto il mondo» affermava. «Solo noi abbiamo portato la pace alle infinite terre… Nei nostri sforzi vi sono continuità e discontinuità, ma la nostra Via collega il Cielo alla terra.»28 Benché il nome attribuito alla nuova dinastia, «Grandi Yuan», esprimesse supremazia, i suoi sovrani erano decisi a emulare il prestigio dei precedenti regimi imperiali cinesi.
Rimase comunque un’unione puramente di facciata. I nuovi sovrani si basarono sulle linee guida del confucianesimo non solo per ricostruire l’amministrazione imperiale, ma anche per edificare la nuova capitale di Qūbīlāy nelle vicinanze dell’odierna Pechino, e ciononostante il khān fece decorare le sue stanze private con pellicce siberiane, mentre i suoi figli continuarono a vivere in tende collocate intorno al palazzo.29 Per quanto tentassero di sinizzarsi, gli Yuan erano e restavano oppressori. La società era divisa in tre classi: i mongoli ai vertici, poi i migranti musulmani provenienti dall’Ovest e infine i cinesi Han. I contadini avranno anche tratto beneficio dalle nuove opere irrigue, ma erano anche obbligati a versare tributi molto onerosi per finanziare le guerre di conquista.
E molte di queste campagne si conclusero con un nulla di fatto. La cavalleria mongola non era adatta alle giungle montane del Sudest asiatico, e gli ex guerrieri delle steppe non ebbero maggior fortuna sul mare: due poderose spedizioni navali dirette contro i giapponesi non tornarono più in patria e perfino la flotta di mille navi inviata a punire Giava per non aver pagato i suoi tributi ebbe un effetto contenuto. Nel 1279, la dinastia Yuan dovette fare i conti con una crisi finanziaria piuttosto seria. La frustrazione continuò a crescere quando le rivolte dei contadini furono soffocate con violenza e alle minoranze musulmane fu impedito di macellare le pecore seguendo i loro rituali. In segno di protesta contro gli Yuan, il famoso artista Zheng Sixiao dipinse le sue caratteristiche orchidee senza il terriccio sottostante per indicare che gli imperatori mongoli avevano sradicato la società cinese tradizionale.30
Davanti a tanto malcontento, le reazioni della dinastia ebbero successi solo parziali. La corte incrementò la propaganda confuciana, ripristinò i tradizionali esami imperiali e costruì nuovi granai. Dal punto di vista culturale, la Cina rifiorì, in parte grazie agli scambi più intensi con l’Occidente. Ma la gente comune era ancora tormentata dalle tasse, dall’inflazione, dalla discriminazione e dalla fame. E alla fine del Trecento, anche la Cina subì lunghi periodi di freddo eccezionale.31 I problemi legati alla successione e la rivalità con i khanati mongoli a nordovest resero sempre più difficile conservare il potere. Otto anni dopo che Qūbīlāy l’aveva fondata, la dinastia Yuan dovette affrontare una ribellione di portata nazionale. Mentre i condottieri della Rivolta dei turbanti rossi guadagnavano terreno, il mandato del Cielo degli Yuan scivolava via.
Con il declino degli Yuan, furono due potenti comandanti ad attirarsi il sostegno popolare. Uno era Zhu Yuanzhang, un contadino orfano che aveva compiuto una rapida scalata fra le fila dei Turbanti rossi, e nel 1363 riuscì a sconfiggere il rivale in una battaglia decisiva utilizzando vascelli incendiari. Cinque anni dopo, adottò il titolo di «imperatore Hongwu» (1368-1398) e reclamò il mandato dei Cieli. La sua nuova dinastia fu chiamata «Ming», che significa «luminosa», e avrebbe governato la Cina per oltre 250 anni. Avendo sperimentato quegli stenti sulla propria pelle, l’imperatore Hongwu trasferì le terre ai contadini, tagliò le tasse snellendo la burocrazia, addestrò l’esercito a provvedere da sé alla propria alimentazione, riparò le reti di irrigazione, stilò un codice giuridico che offriva maggiore protezione ai cittadini e colonizzò nuove aree fertili a sud.
Per il resto del Quattrocento, però, la Cina non ebbe pace. Hongwu non si fece scrupoli nella sua opera di centralizzazione del potere e decine di migliaia di potenziali oppositori furono messi a morte, cosa che rinfocolò il rancore all’interno della classe dirigente, portò a una breve guerra civile dopo la sua morte e spinse l’imperatore Yongle (1402-1424) ad affidare poteri eccessivi alla sua polizia segreta e all’esercito. Tutta l’economia era rigidamente centralizzata, ma gli imperatori faticarono in particolare a gestire gli approvvigionamenti alimentari, a volte inviando le eccedenze direttamente alle province con deficit agricoli e altre volte permettendo che quegli stessi prodotti in eccedenza fossero venduti sul mercato libero. Ne risultarono carestie, fluttuazioni drastiche nei livelli di tassazione e violente ribellioni. In assenza di grandi invasioni o guerre civili, però, la popolazione crebbe da 65 milioni nel 1393 a 125 milioni nel 1500.
Da principio, la politica estera dei Ming fu favorevole agli scambi commerciali. «Che ai nostri confini vi siano liberi scambi reciproci per far fronte ai bisogni del paese e incoraggiare i popoli lontani a venire qui» proclamò l’imperatore Yongle, che aprì tre uffici deputati al commercio marittimo.32 Poiché la Cina era autosufficiente, dominava sui suoi partner commerciali. I popoli barbari vicini erano tenuti a fornire tutto ciò la corte Ming potesse desiderare, e lo facevano presso snodi commerciali marittimi e terrestri nominati ufficialmente e sottoposti al controllo di ufficiali cinesi, mentre molti di loro dovevano anche offrire le proprie merci in dono come tributo. Gli inviati di questo tipo venivano tenuti separati dai cittadini cinesi e sistemati in alloggi ad hoc. A volte, poi, i delegati provenienti dai paesi stranieri ammontavano a diverse centinaia, e così le risorse delle città ospitanti arrivavano al collasso nel tentativo di dar da mangiare a tutti, senza parlare dei cammelli, dei cavalli e degli elefanti con cui viaggiavano.33 Il culmine di queste missioni era il tradizionale inchino al cospetto dell’imperatore: gli inviati potevano essere lasciati in attesa anche per settimane prima di poter compiere il rituale e, soprattutto, rischiavano di essere percossi se non riuscivano a eseguirlo nel modo corretto.
Con il passare del tempo, le politiche commerciali si fecero ancora più arbitrarie. I Ming chiusero spesso le frontiere con il Tibet e con i popoli pastorali a nordovest. Nel 1424, l’imperatore Hongxi non solo pose fine al commercio del tè in cambio di cavalli alla frontiera con il Tibet, ma vietò anche il commercio di oro e perle con il Vietnam e ordinò che la flotta imperiale fosse data alle fiamme. «La sicurezza dell’impero si trovava al di qua della Grande Muraglia» disse «non sul mare.»34
Il vento cambiò di nuovo con l’imperatore Xuande (1425-1435), che seguì le orme dell’imperatore Yongle quando, nel 1430, ordinò di schierare una immensa flotta da guerra per riaffermare la potenza cinese lungo le sue rotte commerciali marittime: «Invio gli eunuchi Zheng He e Wang Jinghong insieme all’ordine imperiale di istruire questi paesi in modo che seguano la via dei Cieli con reverenza e che veglino sui loro popoli in modo che tutti possano godere la buona sorte che nasce dalla pace duratura».35 Che dipendesse da motivazioni strategiche o puramente ideologiche, la singola decisione di un imperatore poteva ribaltare i rapporti commerciali di una società di quasi 100 milioni di persone.
La ricchezza e il potere dell’Impero Ming non derivavano solo dal commercio, ma anche dalle conquiste belliche. I Ming avevano infatti l’esercito stabile più imponente al mondo, quasi un milione di soldati, e con esso conquistarono territori al di là dei confini delle dinastie cinesi precedenti, annettendosi grandi parti della Manciuria e della Mongolia interna, per poterne espellere i mongoli rimanenti, nonché regni indipendenti a sud, nell’odierno Yunnan. E proprio da qui, le truppe Ming lanciarono incursioni verso altri stati meridionali, come il Vietnam, che nel 1406 divenne una provincia imperiale. Se l’espansionismo dei Ming a nord fu in parte dettato da preoccupazioni per la sicurezza del regno, i loro interventi nel Sudest asiatico nacquero unicamente dal desiderio di ingrandirsi.
Questi ultimi coincisero con un breve ma inedito periodo di proiezione della potenza navale cinese. Fra il 1405 e il 1433, l’ammiraglio Zheng He portò sette volte le sue navi nell’Oceano Indiano, giungendo fino al Corno d’Africa e al Mar Rosso.36 Benché la maggior parte delle mappe di navigazione e dei diari di bordo di quelle spedizioni sia andata perduta, esistono testimonianze che la flotta di Zheng sia intervenuta militarmente a Giava e a Sumatra in difesa dei coloni cinesi. Sempre Zheng, poi, fu probabilmente responsabile della distruzione del regno di Kotte, nello Sri Lanka. Il Gran segretario Yang Rong parlava dei suoi abitanti come di un flagello fastidioso e come insignificanti vermi da sterminare, donne e bambini compresi. Ma le operazioni navali dei Ming non si limitarono alle imprese dell’ammiraglio Zheng He. Nel 1400, per esempio, l’imperatore minacciò di invadere il Giappone e le navi della marina affrontarono i pirati presso le coste coreane nel 1406.
Per tutto il xv secolo, la Cina dei Ming svettò sopra i propri vicini, come il regno coreano del Koryo e i suoi sette milioni di abitanti. Nel Duecento, quest’ultimo non era riuscito a far fronte all’avanzata dei mongoli ed era divenuto tributario degli Yuan; quando la dinastia crollò, godette di un breve periodo di autonomia e giunse a inviare le sue forze armate sul confine dopo che un emissario dell’imperatore Ming si era presentato reclamando il territorio coreano, ma aveva infine accettato di tornare a pagare un tributo. Nello stesso periodo delle tensioni con gli Yuan, i tumulti interni avevano indebolito il Koryo e così una nuova dinastia tentò la scalata al potere. I Joseon, il cui nome derivava dall’antico Gojoseon, adottarono il confucianesimo per giustificare il fatto che quasi metà della popolazione coreana era composta da schiavi.37 Il grande sovrano Joseon Sejong (1418-1450) si adoperò a fondo per consolidare la sicurezza del regno, da un lato adottando una politica diplomatica filocinese e, dall’altro, invadendo l’isola giapponese di Tsushima per spazzare via le orde di pirati che minacciavano le rotte commerciali strategiche.
Nel periodo dell’intervento di Sejong, l’arcipelago giapponese era devastato dalle violente rivalità fra i suoi signori feudali, che combattevano per il diritto di essere riconosciuti come shōgun dall’imperatore, il quale rivestiva un ruolo pressoché simbolico. In quanto comandante in capo imperiale (il titolo in origine significava all’incirca «generale supremo inviato contro i barbari»), lo shōgun, de facto, governava il Giappone. «I quattro mari sono agitati e i fuochi della guerra oscurano il cielo» scrisse un imperatore nel poema storico Taiheiki, o «Cronaca della grande pace». «Quando riavremo la pace se i guerrafondai non saranno distrutti dalla giustizia della legge?»38 Dall’inizio del xiii secolo, furono gli shōgun a regnare su gran parte del Giappone, nonché a emanare i primi codici giuridici giapponesi nel tentativo di promuovere l’armonia sociale (benché questo obiettivo sia rimasto poco più che un sogno).
Dopo che i tentativi di invasione da parte dei mongoli nel 1274 e nel 1281 furono entrambi miracolosamente sventati dai tifoni, il Giappone prese a considerarsi la terra prescelta dagli dèi e dal vento divino detto kamikaze, una terra governata da un imperatore benedetto dal mandato della dea del sole.39 Mongoli e coreani erano chiamati cani, mentre il teorico della politica vissuto nel Trecento Chikafusa Kitabatake sosteneva che il buddhismo del Giappone attribuiva al paese il primato spirituale sugli altri paesi buddhisti come la Cina e l’India. All’atto pratico, la diffusione del buddhismo in Giappone in questi anni fu agevolata dalla stanchezza per lo stato di guerra pressoché perenne. Le guerre civili, le minacce delle invasioni mongole e cinesi e il costo delle fortificazioni a scopo difensivo causarono rivolte contadine e ulteriori scontri interni, eppure, al contempo, la competizione economica fra città e regioni portò innovazioni significative nelle arti, nell’industria e nella tecnologia bellica, e nel 1500 la popolazione del Giappone aveva raggiunto i 10 milioni.
Per buona parte del periodo compreso fra il Duecento e il Quattrocento, il Sudest asiatico fu dominato da un pugno di stati: i regni di Annam e Champa in Vietnam; l’Impero khmer in Cambogia; il regno di Sukhotai in Thailandia, seguito da quello di Ayutthaya; e, nelle isole, il regno di Singhasari, che aveva soppiantato il Srivijaya come prima potenza commerciale e fu a sua volta scalzato dall’Impero del Majapahit. Malgrado la loro stessa interdipendenza e la comune minaccia cinese, era raro che questi stati cooperassero dal punto di vista politico. La storia di quest’area del globo in questo periodo è un catalogo spesso stupefacente di macchinazioni diplomatiche e guerre. A parte le ripetute interferenze della Cina in Vietnam, l’evento più significativo fu forse il declino dell’Impero khmer a causa dei conflitti intestini e l’ascesa dell’ex regno tributario di Sukhotai.
Ciononostante, gran parte del Sudest asiatico continuò a prosperare, soprattutto grazie ai surplus derivanti dagli abbondanti raccolti di riso. Il commercio regionale fiorì, specialmente nel settore dei prodotti di lusso, e di pari passo fecero altrettanto le attività diplomatiche. Un poeta del Majapahit celebrò i legami del proprio regno con Angkor, Ayutthaya, Annam, Champa e altri sei stati minori. Il sempre maggiore benessere fece sì che anche le città crescessero, mentre i re si impegnavano a esprimere la loro magnificenza con la costruzione di immensi complessi templari, come Angkor Wat.
Venite e pagate il tributo
Ancora nel xiii secolo, in Africa abitavano meno di 50 milioni di persone. La maggior parte viveva lungo le coste del continente, soprattutto quelle affacciate sul Mediterraneo, sull’Oceano Indiano e il golfo di Guinea. In ogni caso, l’Africa stava ora attraversando un’importante fase di trasformazione politica. La diffusione degli utensili di ferro, delle tecnologie per l’irrigazione e di nuove colture aveva lentamente fatto aumentare la produzione agricola. Sorsero nuove città che univano l’agricoltura e la pastorizia. I surplus erano scarsi, e di conseguenza venivano venduti principalmente nei mercati locali, ma il commercio a lungo raggio era incoraggiato dalla crescente domanda di oro, avorio e schiavi. Una rete importante collegava l’Africa subsahariana alle coste del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, un’altra la collegava al Mediterraneo attraverso il Sahara.
Tutto il litorale dell’Africa orientale era un susseguirsi di città mercantili rifornite dai regni all’interno. Nel Corno d’Africa, i porti erano controllati da piccoli sultanati come Ifat, Adal e Warsangali. La competizione commerciale fra questi stati era furibonda, ma nel xiii e xiv secolo furono obbligati a federarsi per tenere testa alle ambizioni del regno cristiano dell’Etiopia. Dopo essersi autoproclamati re dei re ed eredi dei biblici re Salomone e regina di Saba, la dinastia salomonide d’Etiopia aveva intrapreso una campagna per assumere il controllo dei commerci tra l’interno dell’Africa e i mercati oltremare e per trasformare i sultanati in propri tributari. I suoi esponenti inviarono emissari fino a Costantinopoli e a Roma.40
Più a sud si trovavano circa una decina di città mercantili appartenenti al popolo swahili, tra cui Mogadiscio, Mombasa, Zanzibar, Kilwa e Sofala. Nel xiii secolo, Kilwa aveva annesso la maggior parte delle altre e dominava sul braccio di mare tra l’Africa e il Madagascar.41 Il grande viaggiatore musulmano Ibn Battuta alla metà del Trecento descrisse la città di Kilwa come una delle più belle al mondo; narra anche che partecipava a un fiorente commercio di schiavi e che spesso inviava le sue truppe schierate nell’entroterra.42
Tali campagne avevano come obiettivo un’importante potenza continentale, il regno del Grande Zimbabwe. Come l’Etiopia dei Salomonidi, questa entità politica aveva assorbito i numerosi staterelli tribali basati sull’allevamento negli altipiani che la circondavano. Al suo massimo splendore (intorno al 1400), la capitale dello Zimbabwe, con le sue imponenti strutture e mura di pietra, contava circa 18 000 abitanti, prima che il regno declinasse a causa dell’incapacità delle praterie circostanti di far fronte all’aumento di popolazione. I suoi commerci furono rilevati dal suo principale rivale, il regno di Monomotapa, o Mutapa, che monopolizzò gli scambi di oro, rame e avorio nell’Africa meridionale. Mutapa significa «saccheggio» e il suo sovrano si faceva chiamare «signore delle terre saccheggiate»; questo stato conquistò alcuni ordinamenti politici minori lungo il fiume Zambesi e sulla costa orientale.43
È più che probabile che gli stati dell’Africa meridionale e orientale scambiassero oro e schiavi con l’Africa centrale già molto prima dell’arrivo dei portoghesi intorno al 1485. L’Africa centrale, con le sue terre ricche, attirava migrazioni e insediamenti da diversi secoli. Le rovine di un terrapieno-fortificazione presso Bigo bya Mugeny, in Uganda, costituivano forse il centro di un impero relativamente lasco detto regno del Kitara, il quale dominò la regione dei Grandi laghi nel xiv e xv secolo.44 Le sue rotte commerciali potrebbero aver raggiunto addirittura il fiume Congo. Mbanza Congo, collocata su un altipiano poco lontano dalla costa atlantica, era uno snodo regionale per il commercio di rame, ferro, schiavi e prodotti agricoli nel Quattrocento, nonché la capitale del regno del Congo, che inglobò stati più piccoli come il Loango e il Dongo attraverso matrimoni e conquiste.45
A nord, la rete commerciale trans-sahariana era costituita dai mercati finali sul Mediterraneo, dai mercanti carovanieri arabi e tuareg, da varie entità politiche con funzioni di custodi nel Sahel (la cintura di savana a sud del Sahara) e dai principali fornitori, ovvero una serie di città situate sul golfo di Guinea. La più importante era Edo, capitale imperiale dei bini («combattenti»), o regno del Benin. Fino al xv secolo, la regione fu controllata da capi tribali che eleggevano un oba, cioè re. Dopo un periodo di tensioni interne, alla metà del Quattrocento il potere venne centralizzato sotto un uomo che assunse l’appellativo di Ewuare, che significa «i problemi sono finiti»; questi riformò lo stato del Benin e lo allargò con la conquista di diverse altre entità politiche sul golfo di Guinea. Di pari passo con lo sviluppo economico, i bini si fecero una fama per la loro abilità nella metallurgia, in particolare nella lavorazione del bronzo.
Nel Sahel, tre potenze si contendevano città come Gao e Timbuctù, che erano snodi commerciali oltre che fonti d’acqua imprescindibili per la pastorizia. I regni dei mossi conquistarono Timbuctù nel 1400; la loro capitale era la città di Ouagadougou, che significa «venite e pagate il tributo» e il loro sovrano si faceva chiamare «re del mondo». I mossi furono messi in crisi dall’Impero songhai, sorto dalla città di Gao, uno dei principali crocevia per il commercio di oro, sale, avorio e schiavi tra il golfo di Guinea e il fiume Niger e il Nordafrica. Nel 1468, Timbuctù cedette ai guerrieri a dorso di cammello dell’impero, i quali, nelle parole di uno storico musulmano, «commisero disgustose iniquità, bruciarono e distrussero la città e qui torturarono crudelmente molte persone».46 I songhai approfittarono anche della caduta dell’Impero del Mali a ovest. Anche il Mali aveva raggiunto la prosperità grazie al commercio dell’oro e del sale; al suo zenit nel Trecento, era stato in grado di mobilitare una cavalleria di 10 000 effettivi, nonché decine di migliaia di soldati di fanteria, reclutati dai suoi tributari e dotati di armi importate dagli arabi. Ma gli scontri interni, le razzie dei nomadi tuareg e i plurimi attacchi dei regni mossi e dell’Impero songhai lo portarono al declino nel Trecento.
L’orlo del diluvio
Prima del 1500, l’emisfero occidentale era ancora un mondo a parte, con una popolazione che probabilmente non superava i 40 milioni.47 Quando gli spagnoli piombarono in America centrale, 25 anni dopo che Colombo aveva scoperto l’isola di Hispaniola nel 1492, trovarono le pianure costiere del golfo del Messico sotto il dominio dell’Impero azteco.
In base alle fonti a nostra disposizione, le origini dell’Impero azteco risalgono a circa 250 anni prima, intorno a una delle numerosissime città stato che affollavano la zona. Qui vivevano i mexica, famosi per la loro abilità con arco e frecce. Agli inizi, i mexica venivano reclutati come mercenari nelle frequenti guerre che scoppiavano fra le altre città ed erano tributari di stati più prestigiosi. In seguito, diedero vita a un’alleanza tripartita con altri due stati, Texcoco e Tlacopán, e fu la loro potenza militare combinata a portare alla fondazione dell’Impero azteco intorno al 1430, che mirava per prima cosa a dominare le pianure costiere, e poi le rotte commerciali dell’altipiano messicano. Quest’ultimo obiettivo portò alla collisione con l’importante regno dei tarascan: entrambi i contendenti costruirono fortificazioni lungo le frontiere, assoldarono altre popolazioni che si battessero per procura e si scontrarono in battaglie che coinvolsero decine di migliaia di soldati, ma nessuno dei due riuscì a garantirsi un vantaggio duraturo.
Quella azteca era una società bellicosa. Le figure mostruose ritrovate sui templi testimoniano rituali sanguinari e sacrifici umani, mentre una poesia azteca ricordava ai sudditi: «Siete stati mandati sull’orlo del gorgo, sull’orlo delle fiamme. Il gorgo e le fiamme sono il vostro dovere, il vostro destino».48 Si diceva che le guerre dell’impero fossero state ordinate dal dio del sole e che il regno fosse governato dal figlio del sole. Oltre ai legami rappresentati dalla religione e dalla cultura comuni, l’imperatore consolidava ulteriormente il proprio potere attraverso la nomina di suoi governatori nelle province e la costruzione di molte opere pubbliche. Al cuore dell’impero si trovava la città di Tenochtitlán, che oggi è il centro storico di Città del Messico. Edificata su un’isola di un lago poco profondo, la città era ricca di strade rialzate, canali, piramidi, piazze e infiniti giardini, e ospitava più di 100 000 abitanti.
In Sudamerica, alla fine del Quattrocento era l’Impero inca lo stato egemone. Fino al Duecento, la costa pacifica rimase punteggiata di piccole città che appartenevano a culture come quella ichma, quella chimú e la cultura picunche; dal momento che questi insediamenti erano isolati, non disponevano di grosse difese, e così caddero subito preda dell’avanzata di Cuzco. Dalla sua posizione ben protetta in cima alle Ande, la città nel xiv secolo aveva iniziato a depredare gli altri centri in cerca di oro e schiavi,49 e non passò molto prima che queste incursioni si trasformassero in una guerra santa in nome del dio inca del sole. Con il crescere della propria potenza, Cuzco iniziò a invitare gli stati confinanti a versare un tributo volontario in cambio di protezione e a invadere quanti rifiutavano l’offerta.50
Alla fine del Quattrocento, Cuzco aveva completato la propria trasformazione da città in regno e da regno in un impero che copriva più di 5000 chilometri fra le Ande e il Pacifico. Come il sovrano azteco, anche l’imperatore inca era venerato in quanto figlio del sole, e per questo motivo aveva il compito di difendere il regno ed era tenuto a dimostrarsi «amatore e benefattore dei poveri».51 Per gli inca, Cuzco era l’ombelico del mondo. L’impero che ruotava intorno alla città era suddiviso in quattro grandi regioni, a loro volta suddivise in province. Gli inca applicavano la politica dell’assimilazione, cioè imponevano la propria lingua, le proprie arti, la propria architettura e il proprio sistema tributario agli stati che conquistavano: in quanto popolo prescelto dagli dèi, gli inca erano esentati dal pagamento delle tasse, che si applicavano ai popoli sottomessi in forma di lavoro forzato, utilizzato per costruire l’imponente rete imperiale di strade, ponti e fortezze militari.52
Aztechi e inca furono entrambi spazzati via all’inizio del xvi secolo da piccoli eserciti di conquistadores spagnoli, che ottennero vittorie incredibili in situazioni di svantaggio adottando strategie di «decapitazione». L’ultimo imperatore azteco, Montezuma, aveva a disposizione oltre 200 000 soldati, mentre il conquistador spagnolo Hernán Cortés ne aveva poco più di 600. Quando Cortés sbarcò nello Yucatán nel 1519, Montezuma non reagì subito, probabilmente perché non colse la minaccia, relativamente lontana, e forse perché l’episodio non rientrava nelle convenzioni azteche entro le quali era consentito dichiarare guerra. Una volta stabilita una base operativa nello Yucatán, Cortés iniziò sconfiggendo alcuni stati minori e li costrinse a unirsi al suo esercito, quindi procedette verso Tenochtitlán, riuscì a entrare nel palazzo di Montezuma con uno stratagemma e fece prigioniero l’imperatore: privata del vertice, tutta la struttura dell’Impero azteco crollò. Analogamente, l’imperatore inca, Atahualpa, forte di un esercito di 80 000 soldati, non comprese subito la minaccia portata da Francisco Pizarro e i suoi 168 uomini nel 1532. Quando gli spagnoli furono invitati nella città di Cajamarca per incontrare l’imperatore inca, allestirono un attacco a sorpresa; Atahualpa fu dapprima tenuto in ostaggio, poi giustiziato e per qualche tempo sostituito da un imperatore fantoccio. Le ultime sacche di resistenza tennero duro per altri quarant’anni, ma l’ex impero inca sarebbe stato governato dagli spagnoli per tre secoli.
Sotto molti aspetti, l’emisfero occidentale e l’Africa subsahariana fra il 1250 e il 1500 non erano poi troppo diversi da Asia, Europa e Nordafrica: anche qui, le entità politiche si affrontavano per il territorio, per il commercio, per gli schiavi e per la religione, benché su scala molto ridotta. La differenza fondamentale è che erano sprovvisti delle capacità tecnologiche che avevano portato all’introduzione di moltiplicatori di forza come le armi alimentate dalla polvere da sparo e a vere e proprie navi in grado di affrontare gli oceani, e perfino, nel caso delle Americhe, i cavalli. Gli storici si interrogano ancora sulle cause di questo divario di sviluppo, ma le conseguenze furono evidenti. La relativa debolezza della potenza bellica di queste regioni le rese vulnerabili agli invasori provenienti dall’Europa e dall’Asia e alla colonizzazione su larga scala che li accompagnò.
Ripulire il mare
Quando i mongoli giunsero in Europa alla metà del xiii secolo, alle loro vittime parvero crudeli, spietati e capaci di infliggere sconfitte fulminee e massicce quasi dal nulla. Come gli invasori delle steppe precedenti, avevano un grande vantaggio dal punto di vista connettivo: conoscevano bene le strade d’erba del continente grazie al loro stile di vita nomade ed erano abilissimi con i cavalli. Il modo in cui, circa 250 anni dopo, Spagna e Portogallo divennero padroni prima dell’oceano e poi delle Americhe presenta alcune somiglianze. Sia la Spagna sia il Portogallo erano potenze di frontiera, si trovavano alle periferie dell’Europa e del Mediterraneo, ma la loro posizione in riva all’Atlantico permise loro di esplorare le vie oceaniche, e ci riuscirono sviluppando caravelle veloci e perfettamente adatte a quel tipo di viaggi e abilità avanzate nella navigazione. E così l’oceano divenne per Spagna e Portogallo ciò che le steppe erano per i mongoli. Dal punto di vista dei nativi americani e dei popoli africani, l’arrivo improvviso e inatteso di spagnoli e portoghesi fu catastrofico quanto lo erano state le invasioni mongole per chi le aveva subite.
Le imprese globali spagnole e portoghesi intorno al 1500 aprirono una dimensione del tutto inedita per le rivalità e le tensioni fra gli stati. A tale proposito, ancora una volta sembra che la Cina abbia perso un’occasione, perché la gigantesca flotta dell’Impero Ming aveva raggiunto l’Oceano Indiano e le coste africane decenni prima dei portoghesi. Non è ancora del tutto chiaro cosa spinse i Ming sul mare, ma sappiamo che, quando il conservatorismo della corte imperiale mise fine ai viaggi nel 1433, non si verificarono più spedizioni analoghe. Di per sé, le lampanti differenze politiche fra il mastodontico, gerarchico, unipolare e centralizzato Impero Ming e gli stati multipolari, ferocemente competitivi e in proporzione piccoli dell’Europa occidentale non bastano a spiegare una decisione tanto cruciale. Senza dubbio dobbiamo tenere conto anche dei fattori geografici: i cinesi non sembrano poi tanto isolazionisti se pensiamo ai numerosi rivali che premevano lungo i loro confini continentali e all’enorme economia interna che poteva essere soddisfatta in primo luogo spedendo le merci lungo fiumi, canali e acque costiere. Cosa sarebbe accaduto se la Cina avesse proseguito le sue imprese marittime nell’Oceano Indiano e installato una propria presenza commerciale (magari perfino coloniale) in Africa? Possiamo solo immaginarlo. Ma le conseguenze di quella scelta mancata sulla politica globale furono incommensurabili.