5. Le tecniche delle scienze sociali e lo studio
dei campi di concentramento

Ogni scienza si basa di necessità su alcuni assunti impliciti, elementari e assiomatici che affiorano e vanno in pezzi solo quando si imbattono in fenomeni del tutto inattesi, che non sono più comprensibili all’interno del quadro categoriale vigente. Le scienze sociali e le tecniche che esse sono andate sviluppando nel corso dell’ultimo secolo non fanno eccezione a questa regola. La tesi principale di questo saggio è che l’istituzione dei campi di concentramento e di sterminio – sia le condizioni sociali al loro interno sia la loro funzione nel più vasto apparato terroristico dei regimi totalitari – abbia molte probabilità di divenire quel fenomeno inatteso, quell’ostacolo sulla via della comprensione adeguata della politica e della società contemporanee che costringerà gli scienziati sociali e gli storici a riconsiderare le concezioni fondamentali sul corso del mondo e sul comportamento umano che sinora hanno accettato come presupposto indiscutibile.

Dietro le ovvie difficoltà insite nell’analisi di un tema in cui la mera enumerazione dei fatti può far apparire chiunque "eccessivo e inaffidabile"1 e su cui hanno scritto resoconti persone che, nonostante la loro stessa esperienza, "non riuscirono mai del tutto" a convincersi "che ciò che stava accadendo era reale e non soltanto un incubo",2 sta la questione ben più rilevante secondo cui, per il senso comune, né l’istituzione, e ciò che ebbe luogo all’interno delle sue ben controllate barriere, né il suo ruolo politico hanno alcun senso. Se partiamo dal presupposto che le nostre azioni abbiano per lo più un carattere utilitaristico e che i nostri atti malvagi scaturiscano da un’"esagerazione" dell’interesse individuale, siamo allora costretti a concludere che questa particolare istituzione dei regimi totalitari oltrepassa la comprensione umana. Se, viceversa, astraiamo da ogni criterio che siamo soliti seguire nelle nostre vite quotidiane e consideriamo solo le stravaganti tesi ideologiche del razzismo nella loro purezza logica, allora la politica dello sterminio portata avanti dai nazisti ha fin quasi troppo senso. Dietro i suoi orrori opera la stessa logica inflessibile tipica di certi sistemi paranoici in cui tutto consegue con necessità ferrea una volta accettata la prima folle premessa. La follia di questi sistemi non consiste chiaramente solo nella loro premessa iniziale, ma nella loro stessa logicità, che procede incurante di ogni fatto e incurante della realtà, la quale ci insegna che non vi è nulla che possiamo compiere in maniera assolutamente perfetta. In altre parole, non è solo il carattere non utilitaristico dei campi stessi – l’assurdità di "punire" persone completamente innocenti, l’impossibilità di mantenerle in una condizione che avrebbe permesso di estorcere loro del lavoro proficuo, l’inutilità di spaventare una popolazione totalmente soggiogata – a conferire a essi le loro specifiche e distorte qualità, ma la loro funzione antiutilitaristica, il fatto che non fosse consentito nemmeno agli estremi stati d’emergenza, legati alle attività militari, di interferire con queste "politiche demografiche". Era come se i nazisti fossero convinti che era più importante far funzionare le fabbriche dello sterminio che vincere la guerra.3

È in questo contesto che l’espressione "senza precedenti",4 riferita al terrore totalitario, acquista tutto il suo significato. La strada che conduce al dominio totale passa attraverso molti stadi intermedi che sono relativamente normali e del tutto comprensibili. Scatenare una guerra di aggressione non è affatto "senza precedenti"; i massacri di popolazioni nemiche, o anche di quanti vengono considerati popoli ostili, sono prassi abituale nel campionario cruento della storia; lo sterminio delle popolazioni indigene nel processo di colonizzazione e nella creazione di nuovi insediamenti è avvenuto in America, in Australia e in Africa; la schiavitù è una delle istituzioni più antiche dell’umanità e il reclutamento forzato di lavoratori, utilizzati dallo stato per la realizzazione di lavori pubblici, è stato uno dei capisaldi dell’Impero romano. Anche l’ambizione di dominare il mondo, ampiamente attestata dalla storia dei sogni politici, non è un monopolio dei governi totalitari e può essere pur sempre spiegata chiamando in causa un desiderio di potere incredibilmente smodato. Tutti questi aspetti del dominio totalitario, per quanto odiosi e criminali, sono accomunati da un elemento che li distingue dal fenomeno di cui ci stiamo occupando: a differenza dei campi di concentramento, essi hanno uno scopo preciso e giovano ai detentori del potere allo stesso modo in cui un normale furto giova allo scassinatore. I motivi sono chiari e i mezzi per raggiungere il fine sono utilitaristici nel senso comune del termine. La difficoltà straordinaria che incontriamo quando cerchiamo di comprendere l’istituzione dei campi di concentramento e tentiamo di farla rientrare nell’archivio della storia umana è proprio l’assenza di tali criteri utilitaristici, un’assenza che è responsabile più di ogni altra cosa del curioso sentore d’irrealtà che caratterizza questa istituzione e tutto ciò che vi è connesso.

Per cogliere più chiaramente la differenza tra il comprensibile e l’incomprensibile, cioè tra quei dati che rispondono alle nostre tecniche di ricerca comunemente accettate e ai nostri concetti scientifici e quelli che invece mandano in frantumi questo intero quadro di riferimento, può essere utile ricordare i diversi stadi attraverso cui è passato l’antisemitismo nazista dal momento dell’ascesa al potere di Hitler nel 1933 sino alla creazione delle fabbriche della morte nel bel mezzo della guerra. L’antisemitismo in quanto tale ha una storia così lunga e sanguinosa che proprio il fatto che le fabbriche della morte fossero alimentate in gran parte da "materiale" ebreo ha in una certa misura offuscato l’unicità di questa "operazione". Per di più, l’antisemitismo nazista si è caratterizzato per una mancanza d’originalità quasi sorprendente; non conteneva infatti un solo elemento, né nella sua espressione ideologica né nella sua applicazione propagandistica, che non potesse essere fatto risalire a movimenti precedenti e che non costituisse già un cliché nella letteratura di odio verso gli ebrei ben prima della comparsa dei nazisti. La legislazione antiebraica emanata nella Germania hitleriana durante gli anni trenta, che culminò nelle leggi di Norimberga del 1935, era un fenomeno nuovo in rapporto agli eventi del XIX e XX secolo; non era tuttavia nuova né in quanto obiettivo dichiarato di tutti i partiti antisemiti europei né in rapporto alla storia ebraica. L’esclusione brutale degli ebrei dall’economia tedesca tra il 1936 e il 1938 così come i pogrom del novembre 1938 rientravano ancora in ciò che ci si poteva aspettare dall’ascesa al potere di un partito antisemita in un paese europeo. Il passo ulteriore, la creazione, cioè, di ghetti nell’Europa orientale e la concentrazione in essi di tutti gli ebrei durante i primi anni della guerra, poteva difficilmente sorprendere un osservatore attento. Tutto ciò appariva odioso e criminale, ma del tutto razionale. La legislazione antiebraica in Germania mirava a soddisfare delle richieste popolari: l’esclusione degli ebrei da alcune professioni sovraffollate sembrava infatti mirata a fare spazio a una generazione d’intellettuali pesantemente sottoccupata; dopo il 1938 l’emigrazione forzata, con tutti i suoi annessi di pure e semplici ruberie, mirava deliberatamente a diffondere l’antisemitismo in tutto il mondo, come sottolineava succintamente una nota del ministero degli Esteri tedesco inviata a tutti i funzionari fuori dal paese5; l’ammassamento degli ebrei nei ghetti dell’Europa orientale, a cui faceva seguito la distribuzione dei loro beni tra la popolazione locale, sembrava un meraviglioso stratagemma politico per guadagnare il consenso di quegli ampi settori della popolazione est-europea fortemente antisemiti, per consolarli della perdita dell’indipendenza politica e per spaventarli offrendo loro l’esempio di un popolo condannato a un destino di gran lunga peggiore. Oltre a ciò, ci si poteva attendere, da un lato, un regime di fame e, dall’altro, il lavoro forzato; in caso di vittoria, tutte queste misure avrebbero avuto la funzione di preparare l’annunciato progetto di una "riserva ebraica" in Madagascar.6 In realtà, ad attendersi misure del genere (e non le fabbriche della morte) era non solo il mondo esterno, ma anche i più alti funzionari tedeschi nell’amministrazione dei territori orientali occupati, le autorità militari e persino alcuni funzionari di alto livello nella gerarchia del partito nazista.7

Né il destino toccato agli ebrei d’Europa né la creazione delle fabbriche della morte si possono spiegare e comprendere pienamente alla luce dell’antisemitismo. Entrambi trascendono sia la mentalità antisemita sia i motivi politici, sociali ed economici che sorreggevano la propaganda dei movimenti antisemiti. L’antisemitismo ha solo preparato il terreno, rendendo più agevole l’inizio di uno sterminio della popolazione, a partire dal popolo ebraico. Sappiamo ora che questo programma di sterminio, elaborato da Hitler, prevedeva la liquidazione successiva di ampi settori del popolo tedesco.8

Gli stessi nazisti o, meglio, quella parte del partito nazista che, ispirata da Himmler e con l’aiuto delle SS, diede effettivamente inizio alle politiche di sterminio, sapevano benissimo di aver varcato la soglia di un campo di attività completamente diverso, si rendevano conto, cioè, che stavano facendo qualcosa che nemmeno i loro peggiori nemici si sarebbero aspettati. Erano pienamente consapevoli che una delle maggiori chance di successo di questa impresa stava proprio nel fatto che era altamente improbabile che qualcuno, nel mondo esterno, avrebbe mai potuto credere ad accadimenti del genere.9 In verità, mentre tutte le altre misure antiebraiche avevano un qualche senso e apportavano un qualche vantaggio ai loro autori, le camere a gas non andavano a beneficio di nessuno. Le stesse deportazioni, in un periodo di grave penuria di materiale rotabile, l’installazione di fabbriche costose, l’impiego di una manodopera di cui vi era un estremo bisogno per lo sforzo bellico, il generale effetto demoralizzante di queste misure sulle truppe militari tedesche come pure sulla popolazione dei territori occupati; tutto ciò interferiva in maniera disastrosa con la guerra sul fronte orientale, come ebbero a segnalare ripetutamente, in aperta polemica con le SS, sia le autorità militari sia i funzionari nazisti.10 Simili considerazioni, tuttavia, non erano state semplicemente sottovalutate da coloro che si erano incaricati dello sterminio. Persino Himmler sapeva che, in un periodo di grave penuria di manodopera, stava eliminando una grande quantità di lavoratori che avrebbero potuto quantomeno lavorare sino alla morte invece di venir uccisi senza sfruttamento produttivo. E l’ufficio di Himmler emanò un’ordinanza dietro l’altra per ammonire sia i comandi militari sia i gerarchi nazisti affinché nessun tipo di considerazione economica o militare interferisse con il programma di sterminio.11

Nel contesto del terrore totalitario i campi di sterminio appaiono come la variante più estrema dei campi di concentramento. Lo sterminio riguarda esseri umani che per tutti gli scopi pratici sono già "morti". I campi di concentramento esistevano ben prima che il totalitarismo li rendesse l’istituzione centrale del regime,12 e una delle loro principali caratteristiche è sempre stata quella di non essere istituzioni penali, dato che gli internati non erano accusati di alcun crimine. Il loro fine era in sostanza quello di prendere in carico gli "elementi indesiderabili", cioè coloro che per una ragione o per l’altra erano stati privati dello status giuridico e dei diritti nel paese in cui era capitato loro di vivere. È importante far notare che i campi di concentramento totalitari vennero creati inizialmente per ospitare individui che avevano commesso un "crimine", cioè il crimine di essersi opposti al regime, ma aumentarono mano a mano che l’opposizione politica diminuiva e raggiunsero la massima diffusione quando il bacino delle persone autenticamente ostili al regime si era ormai esaurito. I primi campi nazisti erano senza dubbio terribili, ma comprensibili: erano gestiti con metodi bestiali dalle SA, con il chiaro obiettivo di seminare il terrore, uccidere i politici più influenti, privare l’opposizione dei suoi capi, isolare i possibili leader e indurli al silenzio, soddisfare il desiderio di vendetta dei membri delle SA non solo nei confronti dei loro diretti oppositori, ma anche nei confronti di membri delle classi elevate. Da questo punto di vista, il terrore delle SA rappresentava chiaramente un compromesso tra il regime, che in quella fase non voleva alienarsi gli industriali come suoi potenti sostenitori, e il movimento, che mirava a una vera e propria rivoluzione. Una neutralizzazione completa dell’opposizione antinazista sembrava essere stata raggiunta nel gennaio del 1934; questa era quantomeno l’opinione della Gestapo stessa e dei più alti funzionari nazisti.13 All’alba del 1936 il nuovo regime aveva conquistato l’appoggio della schiacciante maggioranza della popolazione: la disoccupazione era stata azzerata, gli standard di vita delle classi inferiori erano in continua ascesa e tutte le fonti più potenti del risentimento sociale erano state prosciugate. Di conseguenza, la popolazione dei campi di concentramento raggiunse il suo livello più basso per il semplice motivo che non c’erano più oppositori attivi o anche solo sospetti cui imporre la "custodia preventiva".

Fu dopo il 1936, cioè dopo la pacificazione del paese, che il movimento nazista divenne più radicale e più aggressivo sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Quanti meno nemici il nazismo incontrava in Germania, tanti più amici si guadagnava all’estero, e tanto più intollerante ed estremista diventava il "principio rivoluzionario".14 I campi di concentramento tornarono a riempirsi nel 1938, con gli arresti di massa di tutti gli ebrei tedeschi di sesso maschile durante i pogrom di novembre. Ma questo incremento era stato preannunciato da Himmler già nel 1937, quando, durante un discorso pronunziato davanti agli alti ufficiali della Reichswehr, egli spiegò che bisognava prevedere un "quarto teatro in caso di guerra, quello interno alla Germania".15 A queste "paure" non corrispondeva alcun fondamento reale e il capo della polizia tedesca lo sapeva meglio di chiunque altro. Quando l’anno dopo scoppiò la guerra, non si preoccupò nemmeno di salvare le apparenze né di usare le SS per compiti di polizia e ordine interno, ma le inviò immediatamente nei territori orientali, dove giunsero quando le azioni militari si erano già concluse con successo, per far loro assumere il controllo dei paesi sconfitti. In seguito, quando il partito decise di ricondurre l’intero esercito sotto il proprio esclusivo controllo, Himmler non esitò a inviare al fronte i suoi reparti di SS.

Il principale compito delle SS, tuttavia, era e rimase, anche durante la guerra, il controllo e l’amministrazione dei campi di concentramento, da cui le SA erano state completamente esautorate. (Solo durante gli ultimi anni della guerra le SA tornarono a svolgere un ruolo di secondo piano nel sistema dei campi, ma a quel punto le SA erano sotto la supervisione delle SS). È questo tipo di campo di concentramento, più della sua variante precedente, che ci appare come un fenomeno nuovo e a prima vista incomprensibile.

Solo pochi degli internati in questi nuovi campi, in genere sopravvissuti degli anni precedenti, potevano essere considerati oppositori del regime. Maggiore era la percentuale dei criminali, i quali venivano mandati nei campi una volta scontata la loro pena ordinaria, e dei cosiddetti elementi asociali, omosessuali, vagabondi, renitenti al lavoro, ecc. La schiacciante maggioranza degli individui che formavano la massa della popolazione dei campi era completamente innocente dal punto di vista del regime, assolutamente non colpevole da ogni punto di vista, sia per convinzioni politiche sia per azioni criminali.

Un’altra caratteristica dei campi, posti da Himmler sotto il pieno controllo delle SS, era il loro carattere permanente. Paragonati a Buchenwald, che nel 1944 ospitò più di ottantamila prigionieri, tutti i campi precedenti appaiono irrilevanti.16 Ancor più evidente è il carattere permanente delle camere a gas, il cui dispendioso apparato rese quasi indispensabile la continua ricerca di nuovo "materiale" per la fabbricazione di cadaveri.

Di grande importanza per lo sviluppo della società concentrazionaria fu il nuovo tipo di amministrazione dei campi. La crudeltà iniziale delle SA, a cui era stato consentito di agire arbitrariamente e di uccidere a piacere, venne sostituita dalla regolazione del tasso di mortalità17 e da una tortura metodicamente organizzata, programmata non tanto per infliggere la morte quanto per porre la vittima in uno stato di agonia permanente. Ampi settori dell’amministrazione interna vennero affidati ai prigionieri stessi, i quali furono costretti a maltrattare i loro compagni di prigionia non diversamente dalle SS. Col trascorrere del tempo, mano a mano che il sistema diventava più strutturato, la tortura e i maltrattamenti divennero sempre più una prerogativa esclusiva dei cosiddetti Kapò. Queste misure non erano casuali e non dipendevano che in minima parte dalle dimensioni crescenti dei campi. In diversi casi, alle SS venne esplicitamente ordinato di far compiere le esecuzioni direttamente ai prigionieri. Analogamente, gli omicidi di massa, non solo sotto la forma della gassazione ma anche delle esecuzioni massive nei campi normali, divennero pratiche il più possibile meccanizzate.18 Il risultato fu che la popolazione dei campi gestiti dalle SS viveva molto più a lungo che nei campi precedenti; si ha come l’impressione che le nuove ondate di terrore e la deportazione nei campi di sterminio avvenissero solo qualora fossero assicurati nuovi approvvigionamenti.

L’amministrazione venne affidata ai criminali, i quali costituirono l’incontestata aristocrazia dei campi finché, all’inizio degli anni quaranta, Himmler cedette con riluttanza alle pressioni esterne e consentì che i campi venissero sfruttati per il lavoro produttivo. Da quel momento, i prigionieri politici, per lo più internati da lungo tempo, vennero promossi alla posizione di élite dei campi – le SS infatti si accorsero che era impossibile organizzare qualsiasi tipo di lavoro nelle condizioni caotiche create dalla precedente aristocrazia criminale. Mai l’amministrazione venne affidata al gruppo più numeroso, e ovviamente più innocuo, degli internati completamente innocenti. Al contrario, a questa categoria di prigionieri toccò in sorte sempre il livello più basso della gerarchia sociale concentrazionaria; furono questi a subire le peggiori crudeltà e le perdite più gravi nelle deportazioni. In altre parole, in un campo di concentramento era molto più sicuro essere un assassino o un comunista che semplicemente un ebreo, un polacco o un ucraino.

Per quanto riguarda i sorveglianti SS, purtroppo dobbiamo levarci dalla testa l’idea che essi costituissero una sorta di élite negativa formata da criminali, da sadici e da individui non del tutto sani di mente – un’idea sostanzialmente vera nel caso delle SA, che erano solite offrirsi per la gestione dei campi di concentramento. Tutto induce a ritenere, invece, che gli uomini delle SS in carica fossero individui assolutamente normali; la loro selezione avveniva sulla base di ogni sorta di criterio,19 nessuno dei quali poteva in ogni caso assicurare la scelta di uomini particolarmente crudeli o sadici. Inoltre, visto il tipo di amministrazione vigente nei campi, appare assolutamente certo che all’interno di questo sistema i prigionieri finivano per svolgere gli stessi "compiti" dei loro guardiani.

Più difficile da immaginare e più duro da accettare è probabilmente l’isolamento completo che separava i campi dal mondo circostante, come se essi e i loro internati non facessero più parte del mondo dei vivi. Questo isolamento, già tipico di tutte le forme precedenti di campi di concentramento, ma perfezionato solo sotto i regimi totalitari, ben difficilmente può essere paragonato all’isolamento delle prigioni, dei ghetti o dei campi di lavoro forzato. Le prigioni non sono mai veramente isolate dalla società, di cui costituiscono una parte importante e alle cui leggi e controlli sono soggette. Il lavoro forzato, come pure altre forme di schiavitù, non comporta una segregazione assoluta; i lavoratori, in virtù del loro stesso lavoro, entrano costantemente in contatto col mondo circostante e gli schiavi non furono mai veramente banditi dalla società. I ghetti nazisti presentano le maggiori somiglianze con l’isolamento dei campi di concentramento; ma nei ghetti venivano segregate delle famiglie e non degli individui, così che essi finivano per costituire una sorta di società chiusa in cui permaneva una parvenza di vita normale e continuavano a esistere relazioni sociali sufficienti a evocare quantomeno l’immagine di un’esistenza e un’appartenenza comuni.

Nulla di tutto ciò vale per i campi di concentramento. Dal momento dell’arresto, nessuno nel mondo esterno doveva sapere più nulla del prigioniero; era come se egli fosse scomparso dalla faccia della terra; non ne veniva nemmeno annunciata la morte. La prassi precedente delle SA di informare la famiglia della morte di un internato in un campo di concentramento tramite l’invio di una bara di zinco o di un’urna venne abolita e sostituita da ferree istruzioni che ingiungevano di "[lasciare] i terzi nell’incertezza quanto alla sistemazione dei prigionieri. […] Ciò include anche la possibilità che i parenti non vengano informati quando questi prigionieri muoiono nei campi di concentramento".20

Il fine ultimo di tutti i governi totalitari non è solo il desiderio, esplicitamente ammesso, di dominare prima o poi l’intero globo, ma anche il tentativo, mai espresso e immediatamente realizzato, di dominare totalmente l’uomo. I campi di concentramento sono i laboratori per l’esperimento del dominio totale, poiché, per come è fatta la natura umana, questo scopo può essere raggiunto solo nelle circostanze estreme di un inferno creato dall’uomo con le sue stesse mani. Il dominio totale viene raggiunto quando la persona umana, che in un certo senso è sempre una combinazione specifica di spontaneità e determinatezza, è stata trasformata in un essere completamente determinato, le cui reazioni possono essere calcolate anche quando viene condotto verso una morte certa. Questa disintegrazione della personalità si realizza attraverso diversi stadi. Il primo è il momento dell’arresto arbitrario, quando viene distrutta la personalità giuridica, non tanto perché l’arresto è ingiusto, quanto perché esso non ha alcuna relazione con le azioni o le opinioni della persona. Il secondo stadio della distruzione ha a che fare con la personalità morale e viene raggiunto attraverso la separazione dei campi di concentramento dal resto del mondo, una separazione che rende il martirio insensato, vano e ridicolo. L’ultimo stadio è la distruzione dell’individualità in quanto tale e viene realizzato attraverso la permanenza e l’istituzionalizzazione della tortura. Il risultato finale è la riduzione degli esseri umani al più basso comun denominatore possibile di "reazioni identiche".

È proprio con una società di esseri umani di questo tipo, ognuno dei quali a suo modo destinato a diventare un fascio di reazioni prevedibili, che le scienze sociali sono chiamate a fare i conti, allorché cercano di esaminare le condizioni sociali dei campi di concentramento. In questa atmosfera ha luogo la mescolanza tra criminali, oppositori politici e individui "innocenti"; le classi dominanti sorgono e tramontano, le gerarchie interne emergono e scompaiono, l’ostilità verso i guardiani delle SS o verso l’amministrazione dei campi lascia il posto alla complicità; gli internati si assimilano alla visione del mondo dei loro persecutori, benché questi ultimi raramente cerchino di indottrinarli.21 L’irrealtà che circonda questo esperimento infernale, la quale è percepita fortemente dagli internati stessi e fa dimenticare ai guardiani, nonché ai prigionieri, che quando una o più persone vengono uccise si sta commettendo un omicidio, è un grave ostacolo a un approccio scientifico tanto quanto il carattere non utilitaristico dell’istituzione. Solo individui che per una ragione o per l’altra non erano più guidati dai motivi ordinari dell’interesse personale e del senso comune poterono indulgere a un fanatismo fatto di convinzioni pseudoscientifiche (le leggi della vita o della natura) che, per quanto concerne tutti i loro immediati scopi pratici (vincere la guerra o sfruttare il lavoro), si sono dimostrate del tutto controproducenti. "Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile,"22 ha detto uno dei sopravvissuti di Buchenwald. Gli scienziati sociali, essendo uomini normali, avranno grandi difficoltà a comprendere che qui furono oltrepassati quei limiti della condizione umana che le sono costitutivi, che furono aboliti, o svolsero un ruolo del tutto marginale, modelli e finalità di comportamento che sono identificati non tanto con la psicologia di una specifica classe o nazione in un momento determinato della sua storia, quanto con la psicologia umana in generale, che poterono venir negate necessità oggettive ritenute componenti stesse della realtà e il cui rispetto ci appare una questione di mera ed elementare salute mentale. Osservati dall’esterno, vittima e persecutore sembrano entrambi degli alienati mentali, e all’osservatore la vita all’interno dei campi ricorda anzitutto quella dei manicomi. Il nostro senso comune, abituato a pensare in termini utilitaristici che il bene e il male abbiano senso, non conosce offesa peggiore di quella della completa insensatezza di un mondo in cui la punizione colpisce l’innocente più del criminale, in cui il lavoro non sfocia e non è diretto a sfociare in alcun prodotto, in cui i crimini non recano nessun vantaggio e non sono nemmeno progettati per recare vantaggi ai loro autori. D’altro canto, ben difficilmente si potrebbe definire incentivo un beneficio la cui realizzazione è attesa per i secoli a venire,23 e certamente non in una situazione di grave emergenza militare.

Che a causa di una folle coerenza l’intero programma di sterminio e annientamento potesse essere dedotto da premesse razziste è motivo di una ancor maggiore perplessità. Il "supersenso" ideologico, infatti, regna, per così dire, sovrano su un mondo di insensatezza fabbricata, spiega "tutto" e quindi non spiega nulla. Tuttavia, è indubbio che gli autori di questi crimini senza precedenti li hanno commessi in nome di quella loro ideologia che ritenevano confermata dalla scienza, dall’esperienza e dalle leggi della vita.

Di fronte ai numerosi resoconti dei sopravvissuti che con significativa monotonia "raccontano, senza mai davvero comunicare",24 sempre gli stessi orrori e le stesse reazioni, si sarebbe quasi tentati di stilare un elenco di fenomeni che fuoriescono dalle nostre concezioni generali dell’essere umano e del suo comportamento. Noi non conosciamo, e possiamo solo presumerlo, il motivo per cui i criminali hanno resistito agli effetti disgregatori della vita dei campi più a lungo delle altre categorie di prigionieri e per cui gli innocenti sono sempre stati i primi a crollare.25 Sembra che in tale situazione estrema fosse più facile per un individuo poter interpretare le proprie sofferenze come punizione di un crimine reale o come sfida verso il gruppo dominante che avere una cosiddetta coscienza pulita. Tuttavia, la completa assenza nei persecutori anche del più rudimentale scrupolo dopo la fine della guerra, quando un gesto di autoaccusa sarebbe potuto essere loro d’aiuto durante i processi, insieme alle ripetute rassicurazioni che la responsabilità dei crimini era da imputare alle autorità superiori, sembra suggerire che la paura della responsabilità sia non solo più forte della coscienza, ma anche più forte, in certe circostanze, della paura della morte. Sappiamo che l’obiettivo dei campi di concentramento era di fungere da laboratori per addestrare gli individui a trasformarsi in fasci di reazioni, a comportarsi come il cane di Pavlov, eliminando dalla psicologia umana ogni traccia di spontaneità; ma possiamo solo intuire fino a che punto ciò sia effettivamente possibile – sia la terribile docilità con cui tutti andarono verso la morte certa, nei campi di concentramento, sia la percentuale, sorprendentemente bassa, dei suicidi rappresentano degli indizi spaventosi in merito.26 E possiamo soltanto indovinare che cosa accade al comportamento umano, sociale e individuale, qualora questo processo sia stato portato fino al limite del possibile. Conosciamo la generale atmosfera d’irrealtà di cui i sopravvissuti testimoniano nei loro resoconti tutti uguali; ma possiamo solo supporre in quali modi viene esperita la vita umana quando è vissuta come se avesse luogo su un altro pianeta.

Se il nostro senso comune vacilla quando viene posto di fronte ad azioni che non sono mosse né da passioni né da motivi utilitaristici, la nostra etica è a sua volta incapace di far fronte a crimini non previsti dai Dieci comandamenti. È assurdo condannare all’impiccagione un uomo che ha preso parte alla fabbricazione di cadaveri (anche se, ovviamente, non abbiamo molte altre alternative). Questi sono crimini per cui nessuna punizione sembra adeguata; tutte le punizioni infatti hanno un limite invalicabile: la pena di morte.

Il pericolo maggiore per una comprensione adeguata della nostra storia recente è la tendenza, sin troppo comprensibile, degli storici a tracciare analogie. Il fatto è che Hitler non era come Gengis Khan né era peggiore di altri grandi criminali; era solo completamente diverso. Senza precedenti non è né il massacro in sé né il numero delle vittime e nemmeno "il numero delle persone che si unirono per perpetrarlo".27 Senza precedenti è soprattutto il non senso ideologico che ne sta all’origine, la meccanizzazione della sua esecuzione e la creazione, metodicamente programmata, di un mondo di morenti in cui nulla aveva più senso.

["Jewish Social Studies", 12/1, 1950. Una prima traduzione italiana è uscita in H. Arendt, L’immagine dell’inferno, a cura di F. Fistetti, Editori Riuniti, Roma 2001. J.K.]

1 "Se dovessi riferire questi orrori con parole mie, mi giudichereste eccessivo e inaffidabile," il giudice Robert H. Jackson nel suo discorso d’apertura al processo di Norimberga, in Nazi Conspiracy and Aggression, U.S. G.P.O.,Washington 1946, vol. I, p. 140.

2 Cfr. il resoconto di Bruno Bettelheim, On Dachau and Buchenwald, in Nazi Conspiracy, cit., vol. VII, p. 824.

3 Goebbels annota così sul suo diario nel marzo del 1943: "Il Führer è contento […] che gli ebrei siano stati […] evacuati da Berlino. Egli ha ragione quando sostiene che la guerra ci ha reso possibile la soluzione di tutto un insieme di problemi che sarebbe stato impossibile risolvere in tempi normali. Gli ebrei saranno certamente gli sconfitti in questa guerra, accada quel che accada". The Goebbels Diaries 1942-1943, a cura di Louis P. Lochner, Doubleday, New York 1948, p. 314.

4 Jackson, in Nazy Conspiracy, cit., vol. II, p. 3.

5 La lettera circolare del gennaio 1939 inviata dal ministero degli Esteri a tutte le autorità tedesche fuori dal territorio nazionale a proposito della Questione ebraica come fattore nella politica estera tedesca nell’anno 1938 affermava testualmente: "È bastato il movimento migratorio di soli circa 100.000 ebrei per risvegliare l’interesse, se non la comprensione, di molti paesi a proposito della minaccia ebraica. Possiamo presumere che la questione ebraica diverrà un problema di politica internazionale quando grandi masse di ebrei provenienti dalla Germania, dalla Polonia, dall’Ungheria e dalla Romania, verranno messe in marcia. […] La Germania è molto interessata a mantenere la diaspora ebraica […] l’afflusso di ebrei in tutte le parti del mondo suscita l’opposizione della popolazione locale e costituisce quindi la migliore forma di propaganda per la politica ebraica tedesca. […] Quanto più è povero e quindi quanto è maggiore il fardello dell’immigrato ebreo per il paese che lo ospita, tanto più forte sarà la reazione di questo paese", in Nazi Conspiracy, cit., vol. VI, pp. 87 sgg.

6 I nazisti fecero circolare questo progetto all’inizio della guerra. Alfred Rosenberg annunciò in un discorso del 15 gennaio 1939 che i nazisti avrebbero chiesto "a tutti coloro che sono ben disposti verso gli ebrei, soprattutto alle democrazie occidentali che hanno così tanto spazio […] di trovare un’area al di fuori della Palestina per gli ebrei, ovviamente non per creare uno stato ebraico, bensì una riserva ebraica", in Nazi Conspiracy, cit., vol. VI, p. 93.

7 È molto interessante notare nei documenti nazisti pubblicati in Nazi Conspiracy e in Trial of the Major War Criminals, U.S. G.P.O., Washington 1947, quanti pochi membri dello stesso partito nazista fossero stati preparati per le politiche di sterminio. Lo sterminio è stato compiuto dalle SS, su iniziativa di Himmler e Hitler, nonostante le proteste delle autorità civili e militari. Alfred Rosenberg, incaricato dell’amministrazione dei territori occupati di Russia, si lamentava nel 1942 del fatto che "i nuovi plenipotenziari in capo [cioè gli ufficiali delle SS] hanno cercato di intraprendere azioni dirette nei territori orientali occupati, non curandosi dei dignitari nominati dal Führer stesso" [cioè i funzionari nazisti esterni alle SS]. (Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, pp. 65 sgg.) I rapporti sulle condizioni esistenti in Ucraina durante l’autunno del 1942 (Nazi Conspiracy, cit., vol. III, pp. 83 sgg.) mostrano chiaramente che né la Wehrmacht né Rosenberg erano a conoscenza dei piani di spopolamento di Hitler e Himmler. Hans Frank, governatore generale della Polonia, ancora nel settembre del 1943, quando gran parte dei funzionari del partito si era ormai sottomessa per paura, osò dire durante un incontro dei Kriegswirtschaftsstabes und des Verteidigungsausschusses: "Sie kennen ja die törichte Einstellung der Minderwertigkeit der uns unterworfenen Völker, und zwar in einem Augenblick, in welchem die Arbeitskraft dieser Völker eine der wesentlichsten Potenzen unseres Siegringens darstellt" [Voi conoscete bene il folle sentimento di inferiorità dei popoli a noi sottomessi, e proprio in un momento in cui la forza-lavoro di questi popoli rappresenta una delle risorse più essenziali nella nostra lotta per la vittoria], in Trial of the Major War Criminals, cit., vol. XXIX, p. 672.

8 Durante una discussione tenutasi nel quartier generale di Hitler sulle misure da prendere dopo la conclusione della guerra, Hitler propose una legge sanitaria nazionale: "Dopo un esame ai raggi X dell’intera popolazione, al Führer verrà consegnato un elenco delle persone malate, in particolare di individui soggetti a patologie del sistema cardiovascolare e respiratorio. Sulla base della nuova legge sanitaria del Reich […] queste famiglie non potranno più convivere con gli altri né verrà loro consentito di mettere al mondo figli. Ciò che accadrà a queste famiglie sarà oggetto di ulteriori delibere del Führer", in Nazi Conspiracy, cit., vol. I, p. 1001.

9 "Immaginate solo che questi eventi giungano a conoscenza dei nostri avversari e vengano da loro sfruttati. Con tutta probabilità questa propaganda non avrebbe alcun successo, semplicemente perché le persone informate dalla radio o dai giornali non sarebbero disposte a crederci." Da un rapporto segreto relativo all’assassinio di cinquemila ebrei nel giugno del 1943, in Nazi Conspiracy, cit., vol. I, p. 1001.

10 È significativo che le proteste delle autorità militari fossero meno frequenti e meno violente di quelle dei vecchi membri del partito. Nel 1942 Hans Frank affermò enfaticamente che le responsabilità per la liquidazione degli ebrei erano riconducibili ai "quartieri alti". E proseguiva: "L’altro giorno ho potuto verificare direttamente […] che [l’interruzione di un grande programma di costruzione] non avrebbe mai avuto luogo se le molte migliaia di ebrei che vi stavano lavorando non fossero state deportate". Nel 1944 egli si lamentava ancora e aggiungeva: "Una volta vinta la guerra, per quanto mi riguarda, possiamo anche fare carne macinata dei polacchi e degli ucraini e di tutti gli altri che si trovano da queste parti…", in Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, pp. 902, 917. Durante un incontro ufficiale tenutosi a Varsavia nel gennaio del 1943, il segretario di stato Krüger diede voce alle preoccupazioni delle forze di occupazione: "I polacchi dicono: dopo che gli ebrei saranno stati distrutti, allora impiegheranno gli stessi metodi per liberare questo territorio dai polacchi e liquidarli proprio come hanno fatto con gli ebrei". Che questa fosse proprio l’intenzione dei nazisti risulta chiaro da un discorso tenuto da Himmler a Cracovia nel marzo 1942, ivi, vol. IV, p. 916, e vol. III, pp. 640 sgg.

11 Che "le considerazioni economiche dovevano restare sostanzialmente estranee alla soluzione del problema [ebraico]" dovette essere ripetuto in continuazione dal 1941 in avanti, in Nazy Conspiracy, cit., vol. VI, p. 402.

12 I campi di concentramento fecero la loro prima comparsa durante la guerra boera e il concetto di "custodia preventiva" venne usato per la prima volta in India e Sudafrica.

13 Nel 1934 il ministro dell’Interno del Reich Wilhelm Frick, un vecchio membro del partito, cercò di promulgare un decreto "che stabiliva che ‘in considerazione’ della ‘stabilizzazione della situazione nazionale’ e ‘per ridurre gli abusi connessi all’uso della custodia preventiva’, ‘il ministro del Reich aveva deciso’ di porre restrizioni all’utilizzo della custodia preventiva", in Nazi Conspiracy, cit., vol. II, p. 259; vol. VII, p. 1099. Questo decreto non venne mai emanato e la pratica della "custodia preventiva" aumentò considerevolmente nel corso del 1934. Secondo una dichiarazione giurata di Rudolf Diels, ex capo della polizia politica a Berlino e alla testa della Gestapo nel 1933, la situazione politica si era completamente stabilizzata all’alba del gennaio 1934, ivi, vol. V, p. 205.

14 Parole testuali di Wilhelm Stuckart, segretario di stato del ministero dell’Interno, in Nazy Conspiracy, cit., vol. VIII, p. 738.

15 Cfr. Heinrich Himmler, A proposito dell’organizzazione e dei doveri delle SS e della polizia, in National-politischer Lehrgang der Wehrmacht vom 15.-23. Januar 1937 (riservato alle forze armate). [Traduzione in Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, pp. 800 sgg.]

16 La tabella qui sotto mostra l’espansione numerica e il tasso di mortalità del campo di concentramento di Buchenwald durante gli anni 1937-1945. È stata compilata sulla base di diversi elenchi, e si trova in Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, pp. 800 sgg.

ANNO ARRIVI EFFETTIVI DEL CAMPO DECEDUTIa SUICIDI
MASSIMO MINIMO
1937 2.912 2.561 929 48
1938 20.122b 18.105 2.633 771 11
1939 9.553 12.775 5.392 1.235 3
1940 2.525 10.956 7.383 1.772 11
1941 5.896 7.911 6.785 1.522 17
1942 14.111c 10.075 7.601 2.898 3
1943 42.172 37.319 11.275d 3.516 2
1944 97.866 84.505 41.240 8.644 46
1945 42.823e 86.232 21.000f 13.056 16

a Il numero totale dei deceduti è sicuramente superiore ed è stato stimato intorno a 50.000.

b Questi erano ovviamente per lo più ebrei.

c Questa cifra evidenzia l’afflusso dai territori occupati dell’Est.

d La differenza tra arrivi ed effettivi del campo, o tra massimo e minimo non indica più i rilasci, ma il trasferimento ad altri campi o a campi di sterminio.

e Solo per i primi tre mesi del 1945.

f Effettivi presenti nel campo al momento della liberazione.

17 Riportiamo di seguito un estratto da una lettera del dicembre 1942 inviata dall’Ufficio centrale dell’amministrazione economica delle SS a tutti i comandanti dei campi: "… un elenco degli attuali arrivi e partenze in tutti i campi di concentramento […] rivela che su 136.000 arrivi ci sono stati 70.000 morti. Con un tasso di mortalità così alto, sarà impossibile portare il numero dei prigionieri alla cifra richiesta dal Reichsführer delle SS. […] Il Reichsführer ha ordinato assolutamente una riduzione del tasso di mortalità…", in Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, allegato II.

18 Ernest Feder in un Essai sur la Psychologie de la Terreur, in "Synthèses", Bruxelles 1946, riferisce di un ordine delle SS di uccidere giornalmente alcune centinaia di prigionieri di guerra russi sparando attraverso un buco senza vedere la vittima.

19 Himmler descriveva i suoi metodi di selezione nel modo seguente: "Non accettavo persone sotto il metro e settanta […] perché so che le persone che hanno raggiunto una certa altezza non possono non avere in una certa misura il sangue desiderato". Egli richiedeva anche fotografie dei candidati, che dovevano ricostruire il loro albero genealogico sino al 1750, e non dovevano avere in famiglia membri con una cattiva reputazione politica, dovevano "acquistare di propria tasca calzoni e stivali neri" e, infine, presentarsi di persona di fronte a una commissione razziale.

20 Nazi Conspiracy, cit., vol. VII, pp. 84 sgg. Una delle molte ordinanze che vietavano di fornire informazioni sul luogo di detenzione dei prigionieri offriva la seguente spiegazione: "L’effetto deterrente di queste misure consiste (a) nel permettere la scomparsa dell’accusato senza lasciare traccia, e, quindi, (b) che nessun tipo di informazione possa essere fornita sulla loro sistemazione e sul loro destino", ivi, vol. I, p. 146.

21 Sotto il regime di Himmler "ogni genere d’istruzione su base ideologica" era espressamente vietata.

22 David Rousset, The Other Kingdom, Reynal & Hitchcock, New York 1947 [trad. it. di L. Lamberti, L’universo concentrazionario, Baldini & Castoldi, Milano 1997].

23 Era una peculiarità di Himmler quella di pensare in termini di secoli. Egli si aspettava che i risultati della guerra si sarebbero materializzati solo "secoli dopo" nella forma di "un impero mondiale tedesco" (cfr. il suo discorso a Charkov, nell’aprile del 1943, in Nazi Conspiracy, cit., vol. IV, pp. 572 sgg.); quando gli veniva fatta notare la "deplorevole perdita di lavoro" causata dalla morte di "decine e centinaia" di prigionieri, egli ripeteva che "non bisogna rammaricarsi di pensare in termini di generazioni". (Cfr. il suo discorso all’assemblea dei generali di divisione delle SS a Posen dell’ottobre 1943, ivi, vol. IV, pp. 558 sgg.) Le SS venivano indottrinate sulla stessa falsariga. "I problemi quotidiani non ci interessano […] noi siamo interessati solo alle questioni ideologiche che hanno importanza alla luce dei decenni e dei secoli, così che l’uomo [...] sa che sta lavorando per un grande compito che non si presenta che una volta ogni duemila anni". (Cfr. il suo discorso del 1937, in Nazi Conspiracy, cit.).

24 The Dark Side of the Moon, Scribner, New York 1947, una raccolta di testimonianze dei sopravvissuti polacchi ai campi di concentramento sovietici.

25 Questo fatto emerge con grande chiarezza in molte delle testimonianze pubblicate ed è stato sottolineato e interpretato soprattutto da Bruno Bettelheim nel suo Behaviour in Extreme Situations, in "Journal of Abnormal and Social Psychology", vol. XXXVIII, 1943. Bettelheim si sofferma sull’autostima dei criminali e dei prigionieri politici, distinguendola dalla mancanza di rispetto per sé che si può notare in coloro che non hanno fatto nulla. Questi ultimi "furono i più inadatti a sopportare il trauma iniziale" e i primi ad andare incontro a processi di disgregazione. Bettelheim, tuttavia, sbaglia a ritenere che ciò dipenda dalle origini middle-class degli "innocenti" – al suo tempo per lo più ebrei; sappiamo da altre testimonianze, provenienti in particolare dall’Unione Sovietica, che gli "innocenti" che appartengono alle classi basse vanno altrettanto velocemente incontro a simili processi di disgregazione.

26 Questo aspetto è sottolineato in particolare da David Rousset, Les jours de notre mort, Éditions du Pavois, Paris 1947.

27 Jackson, Nazi Conspiracy, cit., vol. II, p. 3.