7. Pico della Mirandola: filosofia, cabbala e concordia universalis

diFederica Caldera

7.1 La formazione di un umanista

Figlio di Gian Francesco Pico (conte di Mirandola e Concordia) e di Giulia Boiardo (zia del poeta), Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) si forma in diverse città italiane e non. A Bologna compie (senza vero interesse) studi di diritto canonico; nel 1479 si reca allo Studio di Ferrara, dove, accostatosi alla retorica, alla poesia, alla filosofia e alla teologia, frequenta Ludovico Carbone, Rodolfo Agricola, Niccolò Leoniceno e conosce Girolamo Savonarola e Tito Vespasiano Strozzi. Fra il 1479 e il 1480 si sposta poi a Firenze, attratto da alcuni dei più noti rappresentanti della cultura umanista: Ficino, Poliziano e Gerolamo Benivieni. Fra il 1480 e il 1482 Pico si reca a Padova, dove inizia lo studio dell’aristotelismo scolastico e dell’averroismo, sotto la guida di Nicoletto Vernia, Agostino Nifo ed Ermolao Barbaro. In questi anni tra le persone che maggiormente conquistano la fiducia di Pico figura il medico Elia del Medigo, che, oltre a tenergli corsi privati sul pensiero di Averroè, lo inizia anche alla conoscenza dell’ebraico e della cabala. Alla fine del 1485 è a Parigi, dove frequenta corsi di teologia alla Sorbona.

7.2 Il progetto della concordia universale

Ispirato a una nuova immagine della sapientia, il progetto speculativo di Pico è volto a trovare la chiave di accesso alla verità unica, che si svela e insieme si nasconde nelle sue infinite espressioni. Matura così l’idea della “filosofia della concordia”. Numerosi pensatori sono chiamati a tesserne la difficile trama, al fine di promuovere la pace fra gli uomini, la concordia religiosa e una visione della ricerca filosofica che, pacificando le divergenze, possa coordinare, integrandoli, i pensieri di Platone e di Aristotele, di Averroè e di Avicenna, di Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto.

Forte dello studio della lingua ebraica e caldaica, con l’aiuto dell’ebreo convertito Flavio Mitridate, Pico si cimenta con entusiasmo nella lettura dei testi cabalistici, che considera suprema chiave di interpretazione della Scrittura e del mondo. Con la sua segreta esegesi, la cabala recupera tutte le forme del sapere alla sua unità prima ed essenziale. Contiene infatti l’altra rivelazione, quella misteriosa e segreta per gli iniziati, attraverso la quale si sarebbe scoperta la chiave di lettura della realtà e trovato il metodo per ridurre a unità tutte le fedi, tutte le dottrine e tutti i linguaggi. La cabala è perciò intesa come la forma più alta e più pura di gnosi, la sola vera sapienza segreta, il supremo punto di incontro tra la sapienza cristiana e la rivelazione, tra le dottrine dei filosofi e l’assoluta manifestazione della verità eterna e immutabile.

LETTURE

Giovanni Duns Scoto

Vol.1

LETTURE

Tommaso d'Aquino

Vol.1

LETTURE

La filosofia dell'islam

Vol.1

LETTURE

Aristotele

Vol.1

LETTURE

Platone

Vol.1

ESERCIZIO

E10: Pico della Mirandola

7.3 L’ontoteologia

Un primo fulcro della speculazione di Pico è l’indagine su Dio, approfondita nel De ente et uno (redatto fra il 1490 e il 1491 e pubblicato postumo), a partire dalla ricostruzione di una delle più spinose controversie della metafisica occidentale, quella della preminenza dell’ente sull’Uno. Dedicato ad Angelo Poliziano e occasione di un’animata discussione polemica con il peripatetico Antonio Cittadini, questo scritto mira a conciliare le tesi dei platonici a favore della preminenza dell’Uno sull’ente e le argomentazioni aristoteliche a sostegno della piena convergenza ente-Uno. Al fine di dimostrare la consonanza delle due prospettive, Pico sviluppa un’accurata trattazione del concetto di ente, inteso non soltanto come ciò che è opposto al nulla, ma come ciò che partecipa all’essere. Queste riflessioni ontologiche hanno immediati riscontri di natura teologica.

Dio, un Super ens

Pico spiega che Dio, in quanto è l’essere stesso (Ipsum Esse), trascende l’ente ed è uno. Ne deriva, di conseguenza, la tesi che l’Uno trascende l’ente. Si può infatti comprendere l’essenza di Dio solo pensandola in termini di assoluta unità, al di là del molteplice e del concetto stesso di ente: se Dio è al di là di ogni realtà definita e definibile, in un certo senso, è dunque un non ente, un super ens. La conoscenza di Dio così acquisita, evidentemente, non ne esaurisce il mistero.

7.4 La dignità dell’uomo

Il rapporto fra l’essere e gli enti è discusso nell’Heptaplus de septiformi sex dierum Geneseos enarratione (1496). Quest’opera offre un’esposizione allegorica del racconto della creazione, il cui senso riposto sarebbe svelato dalla cosmologia filosofica.

ESERCIZIO

E11: Pico della Mirandola

Diversi mondi

Creato da Dio (che è uno e unico), il mondo è anch’esso uno, ma è l’uno del, e nel, molteplice (uno di un’unità statica e dinamica insieme). Al mondo intellettuale o angelico (realtà spirituali) si affiancano quello celeste (corpi sopralunari) e quello sublunare. Ogni mondo possiede in grado potenziato o depotenziato quel che si trova negli altri: si può dunque parlare di una mundorum mutua continentia, ossia di una totale armonia tra cielo e terra e di quella sympathia rerum (“capacità di provare le medesime emozioni”) che è oggetto di studio della magia naturale. Questa scienza, osannata per la sua efficacia nella prima fase della produzione di Pico, sarà poi pesantemente criticata, insieme all’astrologia, nelle Disputationes adversus astrologiam divinatricem.

L’uomo arbitro del suo destino

Un quarto mondo coincide con l’uomo, di cui Pico discorre sia nella Oratio de hominis dignitate sia nell’Heptaplus, esaltandolo come “grande miracolo”. Nell’Oratio la grandezza dell’uomo dipende dalla sua libertà. L’essere umano si differenzia dagli astri (pur intelligenti) e dagli angeli (pur superiori) poiché viene costituito arbitro del proprio destino. Nell’Heptaplus l’uomo è dipinto come signore del creato: assemblando in sé la natura sensibile, quella intellettuale e lo spirito, è sintesi riassuntrice di tutti gli stadi del creato. Termine del mondo angelico e principio di quello elementare, immagine dell’indefinita-infinita natura divina, l’uomo è un vivente dalla natura mutevole, indeterminato e capace di autodeterminarsi: è dunque libero proprio perché posto nelle condizioni di autoaffermarsi e di trasformare la propria indeterminazione in autodeterminazione.

Correttamente intesa, la dignità dell’uomo non deriva primariamente dalla centralità dell’uomo nel mondo, non dipende soltanto dal suo dominio sulla creazione e neppure dalla sua libertà come tale. Consiste certo nella libertà, ma in una libertà che può e deve attuarsi in una tensione verticale verso una meta che sta oltre il mondo delle creature. Le vie per arrivare a Dio sono plurali: differenti nel contenuto, ma uguali nella struttura tripartita e accomunate dal fine. La grandezza dell’uomo risiede pertanto nella capacità di portare a compimento un itinerario che dal disciplinamento morale, attraverso l’esercizio della contemplazione e nella logica dell’amore, conduca all’identità col divino e alla somma felicità. Quest’ascesa sapienziale, che si attua attraverso la dialettica, la filosofia naturale e la teologia, deve garantire il raggiungimento della pace universale. La dignità umana è dunque una scelta consapevole di riavvicinamento all’ordine dell’amore universale; è una partecipazione autentica al Sommo Bene di cui la felicità naturale, offuscata dal peccato, non è che ombra.

TESTO

T7: Pico della Mirandola, La dignità dell'uomo

Cabalismo e lullismo

La tradizione cabalistica

La tradizione cabalistica si sviluppa presso gli Ebrei della Spagna e della Provenza dal XIII secolo in poi. Ma alla fine del XV secolo, con la cacciata dei Mori dalla Spagna, la monarchia spagnola costringe gli Ebrei a disperdersi in massima parte nel bacino mediterraneo. La migrazione di molti cabalisti in Italia darà impulso sia allo studio dell’ebraico sia alla nascita di un cabalismo cristiano.

La cabala si innesta sulla tradizione del commento alla Torah e si sviluppa come una tecnica di lettura e interpretazione del testo sacro. Ma il rotolo della Torah su cui il cabalista lavora rappresenta solo un punto di partenza: si tratta di ritrovare, al di sotto della lettera della Torah scritta, la Torah eterna, preesistente alla creazione e consegnata da Dio agli angeli. Una delle versioni della tradizione cabalistica, la cabala teosofica, mira a individuare, nel testo sacro, accenni alla decade delle Sefirot come entità intermedie tra Dio e il mondo, canali o gradini attraverso i quali l’anima può compiere il ritorno a Dio, oppure come aspetti interni alla divinità stessa. La teosofia delle Sefirot può essere comparata alle varie teorie delle catene cosmiche che appaiono anche nella tradizione ermetica, gnostica e neoplatonica.

La lettura cabalistica lavora sulla stessa lettera del testo, attraverso le tecniche del Notarikon, della Gematria e della Temurah.

Il Notarikon è la tecnica dell’acrostico (le iniziali di una serie di parole formano un’altra parola). La Gematria assegna a ogni parola un valore numerico e ciò è possibile perché in ebraico i numeri sono rappresentati da lettere alfabetiche; il valore di ogni parola deriva quindi dalla somma dei numeri rappresentati dalle singole lettere, per cui si tratta di trovare parole dal senso diverso, ma con lo stesso valore numerico, investigando così le analogie che intercorrono tra le cose o idee designate. La Temurah è l’arte della permutazione delle lettere e cioè dell’anagramma: in tal modo, dovutamente scomposto e permutato, un testo può rivelare messaggi segreti.

Pico della Mirandola, nel secolo XV, aveva notato incidentalmente che alcune tecniche cabalistiche ricordavano l’ars Raimundi, ovvero l’Ars magna di Raimondo Lullo. Ma è nel Cinquecento che l’ars Raimundi si unisce definitivamente alle speculazioni cabalistiche.

La fortuna del lullismo

Lullo aveva immaginato un sistema di lingua filosofica perfetta, comprensibile a tutte le genti, attraverso il quale si proponeva di convertire gli infedeli alle verità cristiane.

L’arte lulliana viene ripresa nel Rinascimento e, nel clima di scoperta dei misteri della cabala, si nota l’affinità tra i principi dell’ars Raimundi e le dieci Sefirot cabalistiche. Le lettere da B a K, usate nell’arte lulliana, vengono facilmente associate alle lettere ebraiche che per i cabalisti significavano nomi angelici e attributi divini. Inoltre, anche nei testi cabalistici ci si rifaceva all’immagine di una ruota come matrice, attraverso la quale le lettere dell’alfabeto divino generavano l’intero universo.

È controverso quanto Lullo conoscesse questi procedimenti cabalistici; ma è certo che nel Cinquecento il rapporto tra lullismo e cabalismo viene posto decisamente. È con Agrippa di Nettesheim che si intravede la prima possibilità di mutuare dalla cabala e dal lullismo congiunti la pura tecnica combinatoria delle lettere, e servirsene per costruire un’enciclopedia che sia immagine di diversi mondi possibili.

LETTURE

L'Ars Magna di Raimondo Lullo

Vol.1

Cabala cristiana

Accanto a questo filone cabalistico-lulliano, si sviluppa una cabala cristiana con intenti più decisamente teologici, in cui le tecniche numerologiche e anagrammatiche, quando sono presenti, servono (come già a Pico) per trovare in testi ebraici e nella serie dei nomi divini chiari annunci di Cristo come Messia. In questo clima, nel 1517 appare il De arte cabalistica di Johannes Reuchlin, primo trattato in materia scritto da un non ebreo imbevuto di platonismo; nel 1518 abbiamo il De arcanis chatolicae veritatis di Pietro Galatino, e nel 1525 il De harmonia mundi di Francesco Giorgi. Naturalmente le gerarchie angeliche, di cui parlavano i testi cari ai teologi medievali (come la Gerarchia celeste dello Pseudo-Dionigi), sono equiparate alle Sefirot cabalistiche.

Nello stesso spirito in cui nasce il cabalismo cristiano affonda le sue radici la filologia semitica.

I medievali non leggevano l’ebraico, e cabalisti come Pico lo conoscevano o di seconda mano o in forma dilettantistica. Personaggi come Reuchlin, invece, mostrano una buona conoscenza di quella lingua. Inoltre, viene ripresa in questo secolo l’idea della possibilità di ritrovare la lingua perfetta parlata da Adamo nell’Eden, e per la maggior parte di questi utopisti linguistici la lingua perfetta coincide con l’ebraico, o almeno con un ebraico delle origini.

Figura di primo piano in questa fioritura di studi è Guillaume Postel. Consigliere dei re di Francia, in contatto con le maggiori personalità religiose, politiche e scientifiche del suo tempo, Postel è profondamente influenzato dai viaggi in Oriente che compie per diverse missioni diplomatiche e nel corso dei quali ha occasione di studiare l’arabo e l’ebraico, nonché di avvicinare la sapienza cabalistica. In De originibus seu de hebraicae linguae et gentis antiquitate (1538), egli afferma che la lingua ebraica proviene dalla discendenza di Noè, e che da essa sono derivati l’arabico, il caldaico, l’indico e solo mediatamente il greco. Per Postel la conoscenza dei problemi linguistici è necessaria all’instaurazione di una concordia universale fra tutte le genti e la comunanza della lingua è necessaria a dimostrare ai seguaci di altre fedi che il messaggio cristiano invera anche le loro credenze religiose, perché si tratta di ritrovare i principi di una religione naturale, una serie di idee innate comuni a tutti popoli. Nel più ampio panorama del cabalismo cristiano rientrano infine anche il De coelesti agricultura di Paolo Ricius (1541), ebreo tedesco convertito, docente di filosofia a Pavia e annoverato tra i medici dell’imperatore Massimiliano I, le cui opere vennero conosciute da Erasmo, e, nel 1564, la Monas hieroglyphica di John Dee, alchimista, cabalista e occultista al servizio di Elisabetta I di Inghilterra.

Umberto Eco

LETTURE

Cabalismo, lullismo, scritture segrete

7.5 Le Conclusiones: la disputa romana, il processo e la condanna

La pace tra gli uomini come condizione della sinfonia del cosmo, nell’unità che di tutti gli spiriti faccia una cosa sola, è uno dei temi più frequentemente discussi nella produzione di Pico. Disponendosi all’incessante ricerca della verità unica, nel teo-rizzare la sua idea di filosofia della concordia, Pico non si limita a vestire i panni dell’explorator (inteso come “ricercatore”) ma aspira a presentarsi anche come un disputator, cioè un dialettico capace di indagare con opportune argomentazioni.

Celebrativa del valore assoluto della libertà umana, l’Oratio de hominis dignitate, non a caso, è concepita come prolusione alla disputa romana: un convegno di dotti che, nelle intenzioni di Pico, avrebbe dovuto riunirsi a Roma per discutere il suo progetto di concordia universale, teorizzato nelle Novecento tesi (o Conclusiones).

Stampato il 7 dicembre del 1486, l’opuscolo si divide in due parti: la prima, composta da 400 tesi (di fatto 402), divise in sette gruppi, sottopone alla discussione le dottrine delle varie correnti filosofiche e teologiche rappresentate negli studia, nei libri e nelle dispute del tempo; la seconda serie, di 500 (di fatto 497) tesi, divise in 11 gruppi, espone la personale posizione teorica o esegetica di Pico.

Sul progetto filosofico di Pico aleggia un forte sospetto. Nemmeno la discussione sulle sue tesi, inizialmente incoraggiata dalle autorità ecclesiastiche, riesce ad arginare la diffusa ostilità nei suoi confronti. Le Conclusiones vengono quindi rinviate all’esame di una commissione d’inchiesta, formata da sei vescovi, due generali di ordini religiosi e otto esperti fra teologi e canonisti. Il breve Cum ex iniuncto officio (20 febbraio 1487), emanato da papa Innocenzo VIII, specifica le modalità di intervento sulle tesi di Pico in questi termini: le proposizioni che, per effetto della loro formulazione, sembrano in disaccordo con la fede cattolica e avere sapore di eresia devono essere esaminate rispettando rigorosamente le formalità del diritto canonico; le proposizioni dubbie ed equivoche devono essere chiarite in modo da non poter più essere intese in senso erroneo e contrario alla fede; quelle che, per inaudita novità di termini e capzioso cumulo di parole, sembrano avvolgere, in oscurità e vanità, non si sa quali significati, devono essere riformulate con parole semplici. Nella prima decade del mese di marzo la commissione invita Pico a rimettere in discussione le sue affermazioni, ma, giudicando insufficienti le spiegazioni da lui fornite, procede alla condanna di sette tesi e dichiara di dubbia ortodossia altre sei tesi. Le 13 proposizioni vengono tutte condannate con motivazioni che ne attestano la maggiore o minore gravità: opposte alla tradizione filosofica o teologica, pericolose, scandalose, offensive delle pie orecchie, aventi sapore di eresia, eretiche, proclivi agli errori dei filosofi pagani, favorevoli alla pertinacia dei giudei, inclini ad arti e pratiche pericolose, estranee o nemiche della fede cristiana.

L’arresto a Lione

Il 5 giugno 1487, accusato di aver disatteso la sentenza del papa, di aver aggiunto nuovi scritti e di essersi valso dell’appoggio di teologi imprudenti, Pico viene processato per eresia. Col breve Superioribus mensibus del 6 giugno papa Innocenzo VIII istituisce un tribunale di Inquisizione, mentre Pico giura di sottostare all’eventuale giudizio di condanna che venga espresso. Il 4 agosto 1487 il papa emana l’ordine di arresto immediato di Pico e proibisce sotto pena di scomunica la stampa e la lettura delle Conclusiones e dell’Apologia, intimando a chi le possieda di bruciarle entro 30 giorni. La bolla papale viene però promulgata soltanto il 15 dicembre 1487. Arrestato a Lione il 6 gennaio 1488 e venuto a sapere della bolla pontificia dell’agosto dell’anno prima, Pico provvede a bruciare subito tutti i libri e le carte che potrebbero comprometterlo.

L’assoluzione

Dettata dal tentativo di rispondere alle accuse mossegli circa l’inopportunità delle dispute, la sua giovane età, il numero enorme delle tesi, il fatto di meritarsi castighi, il fatto di essere mago e nuovo eresiarca della Chiesa di Cristo, la pubblicazione dell’Apologia (maggio 1487) da parte di Pico è un grave errore tattico. Il papa vi intravede infatti il segno dell’insubordinazione dell’autore e trasmette il dossier a un tribunale dell’Inquisizione. A dispetto della clausola finale della prefazione, dove sostiene di non volere altro che un esame più ampio e più sereno delle proprie dottrine, Pico denuncia la ruditas dei suoi giudici, la loro incapacità di comprendere le sue teorie, la loro mancanza di argomentazioni, la loro ignoranza delle regole della logica, la loro ostilità di principio, il loro uso abusivo di argomenti d’autorità (come gli articoli censurati da Tempier nel 1277). Di fronte a questa aperta contestazione, è indispensabile dimostrare che la sentenza papale non è frutto di ignoranza e di parzialità ma di una decisione dottrinale (determinatio magistralis) che risolve in modo definitivo le questioni filosofiche e teologiche sollevate in modo temerario da un giovane tanto brillante quanto presuntuoso.

Succeduto a Innocenzo VIII il 26 luglio 1492, papa Alessandro VI istituisce una commissione d’inchiesta su tutto l’affare e ne documenta le tappe più significative con il breve Omnium catholicorum. Divisa in tre parti, questa bolla contiene una serie di disposizioni volte ad estinguere la causa: l’assoluzione del conte di Mirandola risale al 18 giugno 1493.