All’inizio del Cinquecento si aprono nuovi spazi alle relazioni economiche e politiche internazionali, si dilatano i confini del mondo e si impongono potenziali umani e risorse finanziarie prima sconosciuti. In questo scenario possono diventare protagoniste della scena politica solo grandi costruzioni statali, come la Francia e la Spagna, che si combattono per avere il predominio sull’Italia. In questo secolo prende forma e si afferma il termine “Stato”.
VIDEO
L’Europa dei primi stati moderni
Conclusasi positivamente la guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra, la Francia riprende rapidamente il suo rango di grande potenza. Nel 1481 l’estinzione della dinastia angioina porterà la Provenza e l’Anjou sotto la corona dei re di Francia, e una serie di matrimoni vi aggiungerà la Bretagna. Nello stesso arco di anni, il Regno di Castiglia e quello di Aragona si uniscono in seguito alle nozze fra i loro sovrani – Isabella di Castiglia e Ferdinando il Cattolico – che nel 1492 conquisteranno il Regno di Granada, ultimo residuo della dominazione araba nella penisola iberica, e successivamente la Navarra transpirenaica. Di là dall’oceano, poi, i re cattolici estenderanno i loro domini sugli imperi americani. Le due monarchie sono impegnate per tutta la prima metà del XVI secolo a combattersi: in gioco vi è il predominio sull’Italia.
I processi di aggregazione territoriale e di accentramento del potere, nonché le guerre prolungatesi tanto a lungo con dispendio crescente per il sempre maggiore impiego di forze militari – ora dotate di armi da fuoco e di artiglierie – impongono amministrazioni organizzate ed entrate fiscali proporzionate ai nuovi bilanci: si assiste così allo sviluppo e alla trasformazione della “cosa pubblica”, e non è un caso che proprio in questo secolo prenda forma e si affermi il termine “Stato”. Nel suo senso moderno la parola compare nella lingua italiana verso il 1550, per imporsi poi rapidamente nella seconda metà del Cinquecento. In francese État avrà un successo non inferiore, ma con alcuni decenni di ritardo. Già questo significa che durante tutto il XVI secolo la sensibilità e il pensiero politico sono segnati da questo concetto. Esso, inoltre, si ritrova attraverso tutta la riflessione teorica di Jean Bodin, che soprattutto su questo fronte dialoga implicitamente con Machiavelli. Possiamo assumere Machiavelli e Bodin come nomi emblematici della riflessione sui problemi che la nuova età va scoprendo, dando vita a un pensiero politico innovatore.
La nascita della politica nell’età del Rinascimento non è dovuta alla riscoperta di testi antichi: gli scritti di Aristotele e di Platone su questo tema erano ben noti anche a teologi e filosofi medievali, sebbene nella loro visione gli ordinamenti terreni fossero generalmente connessi con preoccupazioni metafisiche. La battuta con cui Niccolò Machiavelli (1469-1527) replica all’amico Francesco Vettori nella lettera del 26 agosto 1513 – “né so quello si dica Aristotile delle republiche divulse [divise]” – vale in generale per tutto il suo pensiero; egli infatti non ha trovato nei classici la chiave degli avvenimenti e dei fenomeni politici moderni, e soprattutto non crede in modelli astratti: “Molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere”, e occorre invece “andare dreto alla verità effettuale della cosa” (Il principe, XV). Certo, “la verità effettuale” non esclude la conoscenza degli avvenimenti passati, capace di mostrare esempi da seguire e da imitare, ma si fa pregnante se congiunta all’esperienza delle cose moderne: si potrebbe dire che per Machiavelli tutto il vissuto, degli antichi e dei suoi contemporanei, si trasforma in storia, o, se si preferisce, che passato e presente si fondono in un unico quadro da analizzare nella sua concezione del mondo. L’immagine che Machiavelli dà di sé in un’altra famosa lettera al Vettori – quella del 10 dicembre 1513, in cui annuncia la composizione del Principe – ci fa comprendere anche il suo modo di procedere, che unisce alle cure e alla curiosità per il vivere quotidiano la meditazione sui classici: proprio l’intreccio fra il continuo contatto con la vita e l’assiduo studio dei grandi autori del passato dà alla sua opera una peculiare originalità. Così, la recente vicenda di Cesare Borgia, detto il Valentino, può offrire un ammaestramento, “perché io non saprei quali precetti mai dare migliori a uno principe nuovo che lo esemplo delle azioni sue” (Il principe, VII); ma insieme all’esperienza del presente non va trascurata la lezione delle vicende trascorse, soprattutto quelle dei Romani nei secoli in cui costruirono la loro repubblica.
Dalla crisi che l’Italia, “corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ svizzeri” (Il principe, XII), conosce in quegli anni, potrebbe venire “occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene all’università delli uomini di quella” (Ivi, XXVI).
Da qui scaturisce la riflessione di Machiavelli, resa però dolorosa dalla coscienza di quanto sia difficile arrivare a uno sbocco positivo, nella consapevolezza delle difficoltà di pervenire a un rinnovamento analogo a quello che ha trasformato le grandi monarchie transalpine come Francia e Spagna: “alcuna provincia non fu mai unita o felice se la non viene tutta alla ubbidienza d’una Republica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia e alla Spagna” – scrive nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, 12) – e l’ostacolo sta nella causa della grande corruzione dei diversi Stati italiani e della Chiesa che “ha tenuto e tiene questa provincia divisa”.
“Machiavelli” – ha scritto Benedetto Croce – “scopre la necessità e l’autonomia della politica”. Questa sfera dell’agire umano è vista autonoma rispetto a qualsiasi subordinazione ad altre leggi e regole religiose, morali, consuetudinarie, che invece la condizionavano negli scritti dei pensatori precedenti. Gli uomini – e in questo è viva la lezione di Aristotele – sono animali politici e vanno considerati come un insieme di individui che formano un popolo, uno Stato. Il problema che Machiavelli si pone è la società, la res publica, a cui il cittadino è subordinato: per questo il mondo etico, in cui l’uomo agisce solo, non è tenuto in considerazione.
Per Machiavelli, le leggi e la forza regolata dagli ordinamenti sono i cardini del vivere civile, e questo dev’essere assicurato prima di ogni altra cosa: lo afferma già nei suoi primi scritti politici, quando, preoccupato dalla debolezza di Firenze e scorgendo i rovinosi effetti delle milizie mercenarie, riesce a far prevalere l’idea di ricorrere ad “armi proprie”. Allora, spiegando La cagione dell’Ordinanza, premette: “Ognuno sa che chi dice Imperio, Regno, Principato, Republica, chi dice uomini che comandono [...] dice iustizia et armi”.
ESERCIZIO
E1: La nascita della politica
La forza è certamente essenziale, ma lo è anche quello che con termine moderno chiamiamo consenso. E ripetutamente Machiavelli professa la sua ammirazione per la Francia, “il quale Regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro Regno di che ne’ nostri tempi si abbia notizia” (Discorsi, I, 50). Per “mettere le barbe”, gettare profonde radici negli Stati, soprattutto nuovi, è opportuno fondarsi sul popolo, che ha “più onesto fine” dei grandi, “volendo questi opprimere e quello non essere oppresso”. Ma se è da preferirsi il “vivere libero”, il “vivere politico”, ossia il vivere sotto il governo di leggi valide per tutti, non possono tuttavia essere date norme eterne e immutabili. Fra chi governa “quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo” (Il principe, XXV), e capire il variare dei tempi e della fortuna è appunto virtù del politico.
La virtù senza fortuna non basta, anzi l’esempio di Roma, che si era data ordini e leggi grazie alle quali aveva potuto accrescere e conservare il suo dominio, conquistato con la virtù dei suoi cittadini, mostra “quanto possa più la virtù che la fortuna” (Discorsi, II, 1). Né “autonomia della politica” significa necessariamente la sua anteriorità rispetto alla morale. Solo nelle “republiche corrotte” si può essere costretti a prescindere da ogni considerazione etica e ricorrere a “una mano regia”, oppure “dove si delibera al tutto della salute della patria”: in tale caso straordinario “non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà”. È la traduzione, in fondo, di un antico principio ripetuto ancora da Cicerone: Salus populi suprema lex esto (“la salvezza del popolo sia la legge suprema”, De legibus, III, 3).
La prima tesi filosofica machiavelliana è esposta nel Proemio dei Discorsi: allo scopo di fondare una conoscenza della storia che possa tradursi in prassi, Niccolò Machiavelli afferma l’immutabilità dell’ordine naturale che sottende il continuo variare degli eventi.
In apparente contraddizione con la prima tesi sembra la seconda, ossia quella dell’universale variazione, che viene enunciata in un gran numero di passaggi delle opere machiavelliane e da cui dipende direttamente il concetto di “fortuna”: la natura è variazione e la fortuna è variazione “non prevedibile”, “fuori d’ogni umana coniettura”.
Queste due tesi non devono essere pensate separatamente, come se da una parte vi fosse il permanere delle forme e dall’altra il continuo variare degli accidenti. Potremmo dire che la prima tesi costituisce una sorta di principio di causalità machiavelliano (del tipo “non vi è alcun effetto che non abbia una causa e non vi è causa da cui non segua un effetto”), mentre la seconda tesi ne costituisce piuttosto una modulazione (del tipo “la continua variazione complica la linearità dei rapporti di causa-effetto”).
Si potrebbero citare innumerevoli passaggi delle analisi machiavelliane che smentiscono un modello di causalità lineare. Cause differenti possono produrre un medesimo effetto, come nel caso di Annibale e Scipione, causa dei “medesimi effetti” pur nel differente modo di procedere (Discorsi, 1513-20): entrambi infatti riuscirono a conquistarsi il favore rispettivamente del popolo italiano e di quello spagnolo, ma il primo con crudeltà e violenza, il secondo con “umanità e pietà”. Identico fu il caso di Lorenzo de’ Medici “che disarmò il popolo per tenere Firenze” e di Giovanni Bentivogli che “per tenere Bologna, lo armò”; e ancora di “Vitelli in Castello et questo duca d’Urbino” che “disfeciono le fortezze […] per tenere quelli stati” e del “conte Francesco e molti altri [che] le edificorno nelli stati loro, per assicurarsene” (ibidem).
Ma non solo un medesimo effetto può nascere da cause opposte, la medesima causa può produrre effetti opposti. Da dove nasce, si domanda Machiavelli, che “le stesse operazioni qualche volta equalmente giovino o equalmente nuochino?” La natura come variazione è ciò che interdice l’applicazione alla politica di un modello di causalità lineare. La pluralità degli ingegni e dei temperamenti, la diversità dei tempi costituiscono un reticolo di cause tali da far sì che comportamenti diversi producano uno stesso effetto o, viceversa, che comportamenti simili producano effetti opposti. La contingenza è prodotta non dall’assenza di cause, ma dall’intreccio complesso delle cause, di cui non è mai possibile avere una prospettiva panoramica, ma solo interna e parziale.
LETTURE
La filosofia di Machiavelli
Il rifiuto di un modello lineare di causalità implica una specifica concezione della “possibilità” e dell’“essenza”, o “forma”, dei corpi. In una lettera al Vettori Machiavelli formula implicitamente il proprio concetto di possibilità: “Perché tutte le cose che sono state, io credo che possano essere” (Machiavelli a Vettori, 20 dicembre 1514). In altre parole, possibile non è ciò che è non contradditorio su un piano logico, ma ciò che è esistito o esiste su un piano storico. Tuttavia ciò che è esistito ed esiste non esaurisce il campo del possibile. Al contrario, proprio questa identità di possibilità e di esistenza fattuale, storica, rende possibile la novità e l’imprevisto. La storia funziona in Machiavelli come pura “fatticità” e non come garanzia di eterna ripetizione dell’uguale: ciò che accade è possibile proprio in quanto accade.
Questo concetto di possibilità è strettamente legato al concetto di essenza che troviamo elaborato nell’opera di Machiavelli: l’essenza del corpo misto è costituita dalle relazioni, cioè dai rapporti di forza, dal conflitto, latente o manifesto che sia. L’essenza o la forma della repubblica romana si identifica nella relazione conflittuale tra i suoi elementi, la “disunione della Plebe e del Senato”; non è la forma cioè che organizza la materia, ma è la materia stessa che giunge a darsi una forma attraverso il conflitto. Questa relazione conflittuale non solo costituisce l’essenza interna del popolo romano, la sua organizzazione politica e militare, ma definisce anche la natura delle relazioni esterne, poiché fa di Roma uno Stato atto alla conquista, essendo il “popolo numeroso e armato” allo stesso tempo causa dei “tumulti” e dello “ampliare”.
La “verità effettuale della cosa” si riferisce dunque ad un universo in cui lo spazio della politica è dominato dal caso e dal conflitto, dall’occasione e dalla virtù. Virtù di un centauro, mezzo bestia e mezzo uomo, in cui la bestia si sdoppia in “golpe” e “lione” proprio per poter far fronte ai rovesci della fortuna e alla durezza del conflitto.
TESTO
T1: Niccolò Machiavelli, La volpe e il leone
Chi ha enunciato queste norme, che gli hanno valso condanne ed esecrazione, aveva saputo intuire ciò che soltanto la moderna antropologia storica ha notato nella città antica: nella sua vita politica, anche quando vige un regime democratico che implica un processo di laicizzazione, la dimensione religiosa è essenziale. Così Machiavelli ha poi intuito la necessità della religione nel mantenimento della civiltà, “a volere mantenere una civiltà”, la religione è “cosa al tutto indispensabile” (Discorsi, I, 11), pur osservando che, certo, la religione degli antichi era più idonea a fondare le basi di uno Stato bene ordinato, perché suscitava passione civile e solidarietà patria, mentre “la nostra religione [...] ci fa stimare meno l’onore del mondo”, cioé si mostra meno attenta alle cose del mondo (Discorsi, II, 2), e per di più è travagliata da una “declinazione” che l’ha allontanata dai suoi principi e non si è “mantenuta secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato” (Discorsi, I, 12). Queste considerazioni che attribuiscono funzione fondamentale alla religione, però, non vanno confuse con quelle norme della ragion di Stato tendenti a ridurre la fede a instrumentum regni: in questo caso, a differenza di ciò che afferma Machiavelli, non si tratta di rinnovare le istituzioni politiche, ma di stringere un’alleanza conservatrice fra trono e altare, per garantire l’azione dei monarchi assoluti con l’opera di disciplinamento intrapresa dalla Chiesa della Controriforma.
ESERCIZIO
E3: La nascita della politica
Lettore attento di Machiavelli (nonostante qualche giudizio dettato da opportunità), anche il giurista francese Jean Bodin (1529-1596) è spinto a riflettere sulla politica dalla crisi francese della seconda metà del Cinquecento.
ESERCIZIO
E2: La nascita della politica
Dopo il prestigioso regno di Francesco I e quello di Enrico II, morto accidentalmente durante un torneo nel 1559, la Francia – entrata nel tempestoso periodo delle guerre civili fra cattolici e ugonotti – appare a Bodin come una nave squassata “con tale violenza che i capitani e i piloti sono tutti ugualmente stanchi e sfiniti dalla diuturna fatica”. Tutti devono intervenire a prestare soccorso: “Perciò, per mio conto, non potendo far niente di meglio, ho intrapreso questo mio discorso sullo Stato”. Nondimeno, proprio in quei tormentosi decenni il Paese offre la prova della solidità delle sue strutture politiche e civili, mantenendo la sua individualità con un progressivo senso di solidale aggregazione che assumerà sempre più chiaramente carattere nazionale, così da dar vita a una fioritura culturale che può vantare i nomi di Rabelais, di Ronsard e dei poeti della Pléiade, di Montaigne e dello stesso Bodin. Per capire questa tenuta della Francia come corpo unitario, nonostante le feroci lotte intestine e i contrasti religiosi, va tenuto presente che una forza sociale si leva allora a dare nuove energie e nuove risorse al Paese: è quell’aristocrazia del Terzo Stato che, arricchitasi con i commerci e le operazioni finanziarie, va indirizzando un numero crescente dei propri figli verso gli studi giuridici, grazie ai quali si aprono loro nuove carriere e nuovi poteri negli uffici e nelle cariche amministrative del regno. Forte del proprio sapere e del proprio prestigio economico e sociale, questo ceto svolge una preziosa funzione politica e culturale, formando quasi il tessuto connettivo del corpo statale.
Uomo di legge è lo stesso Bodin: dopo il 1550 è per un decennio all’università di Tolosa e in seguito diventa avvocato nel parlamento di Parigi, dove pronuncia un giuramento di fedeltà al cattolicesimo che altri illustri giuristi avevano giudicato lesivo per la propria dignità intellettuale.
Seppure in un’ottica diversa da quella di Machiavelli, anche per Bodin la religione è un vincolo sociale che non va spezzato. Sarebbe tuttavia superficiale vedere una contraddizione fra il teorico dello Stato e il pensatore che nel Dialogo dei sette saggi fa discutere insieme “sulle sublimi cose arcane” sette sapienti seguaci di diverse fedi religiose e di diverse filosofie. Bodin, che nel 1561 scrive a un amico “la vera religione non è altro che un volgersi al vero Dio di una mente purificata”, negli Stati Generali convocati a Blois nel 1576 è fautore deciso della pace religiosa sotto l’egida del sovrano, contro i propositi oltranzistici della Lega cattolica. Se poi in vari casi sceglie la via della dissimulazione, è probabilmente perché altro è assumere ferme posizioni in consessi politici riuniti per deliberare, altro esporsi individualmente in mezzo a disordini popolari.
Se si guarda alla datazione de I sei libri dello Stato di Bodin (usciti in prima edizione nel 1576 e infine riproposti in latino dallo stesso autore nel 1586) non si può non restare colpiti dalla coincidenza temporale con gli anni in cui si sta preparando l’ascesa al trono della dinastia dei Borboni che regnerà sulla Francia per i due secoli precedenti la Rivoluzione.
L’opera di Bodin è la vera e propria fondazione teorica di una dottrina che tenta di prendere le maggiori distanze possibili dall’organizzazione istituzionale premoderna. La società feudale impiegherà secoli prima di scomparire, ma le fazioni in lotta dovranno, relativamente presto ormai, comprendere che c’è un potere, quello del monarca, comunque ad esse superiore. In questo senso le guerre di religione possono essere addirittura considerate espressione dei molteplici conflitti tra i signori feudali e più ancora della lotta per la conquista dell’apice del potere.
LETTURE
Bodin e la teoria dello Stato moderno
Bodin elabora l’idea che solo un potere slegato da qualsiasi altro vincolo istituzionale e reale sia in grado di azzerare il conflitto, ma non un potere qualsiasi, bensì un potere improntato a determinati principi e a precisi criteri. Non si tratta di una mera dichiarazione d’intenti, ma di un punto dirimente per la costruzione stessa dell’assolutismo monarchico teorizzato da Bodin. Dunque, egli è più che consapevole dell’importanza dei valori religiosi ma, per altro verso, vede lucidamente tutti i pericoli insiti nello scontro confessionale e a maggior ragione quelli derivanti dalla competizione fra potere temporale e potere spirituale.
Per Bodin, perché uno Stato possa definirsi tale, devono concorrere alla sua formazione due elementi primari: un potere sovrano dotato della “prudenza”, la “virtù del comando”, e capace di tenere unite insieme tutte le parti – di raccogliere come in un unico organismo tutte le sue membra, dalle famiglie ai collegi, dai corpi ai privati – e secondariamente “qualcos’altro di comune e di pubblico: il patrimonio comune, il tesoro pubblico, lo spazio di territorio occupato dalle città, le strade [...] gli usi, le leggi, le consuetudini”. Se “è la sovranità il vero fondamento, il cardine su cui poggia tutta la struttura dello Stato”, l’altra componente del pari essenziale è data da ciò che è pubblico. Da qui, innanzitutto, la rilevanza della distinzione fra ciò che è pubblico e ciò che è privato, cui fa da contraltare il notevole spazio lasciato da Bodin alla libertà naturale, come libertà privata, e di conseguenza alla proprietà, ugualmente privata. Anzi, la presenza di tale distinzione costituisce uno degli indicatori principali della monarchia “regia”, a fronte delle sue due forme degenerate, la “dispotica” e la “tirannica”.
Il maggior contributo teorico di Bodin alla storia del pensiero risiede nella dottrina della sovranità, della cui originalità e novità l’autore è peraltro perfettamente consapevole. Alla dottrina della sovranità appartengono in primo luogo le nozioni di potere centrale unitario e indiviso, assoluto e perpetuo, all’interno del quale è compreso il potere di legiferare e promulgare le leggi. L’assolutezza del potere significa innanzitutto che il monarca è l’unico, nello Stato, a non essere soggetto alle leggi da lui stesso stabilite, mentre sono sottoposti alla legge tutti gli altri, compresi quei “magistrati” di più alto livello che “a loro volta comandano ad altri magistrati e ai privati”.
Proprio perché dottrina della sovranità assoluta, essa non ammette alcun diritto di resistenza. Ma l’assolutezza del potere di una monarchia legittima non ha nulla a che spartire né con l’indebita appropriazione, da parte del sovrano, delle persone e dei beni dei sudditi, né tanto meno con la vera e propria usurpazione del potere perpetrata dal tiranno. La preferenza di Bodin per la forma monarchica, a fronte della forma di Stato aristocratica e di quella democratica è suffragata da numerose conferme offerte dalla narrazione storica. Ogni capitolo dei Sei libri è infatti supportato da una quantità di testimonianze tratte dalla storia dei paesi delle più diverse aree geografiche.
LETTURE
Le guerre di religione
Bodin ribadisce come l’obiettivo principale dell’opera sia quello di innervare la costruzione stessa della sovranità con il tema della giustizia. D’altra parte deve risultargli evidente che dal concetto di giustizia non si può eliminare la componente della giustizia sociale, con le sue ricadute in tema di eguaglianza.
L’originale nozione di “giustizia armonica”, via intermedia fra giustizia distributiva (che distribuisce i beni in base alle diverse condizioni di ognuno) e giustizia commutativa (che ripartisce i beni in modo uguale fra tutti i cittadini), perché fondata sulla proporzione armonica, combinazione a sua volta dei due tipi di proporzione, aritmetica e geometrica (di uguaglianza e di similitudine), diventa l’elemento caratterizzante di quella monarchia “regia” che ha costituito il fulcro de I sei libri. Se essa sarà “temperata” dalla giustizia armonica, sfuggirà al pericolo di cadere nell’aristocrazia e nella democrazia e saprà al contempo godere dei benefici che entrambe sono capaci di riservare.
La posizione difesa a Blois e contrastata dalla fazione cattolica si ricollega a uno dei cardini dell’opera di Bodin: è l’idea di sovranità come più alta espressione della vita politica. Ancora in quegli anni vi era stata una ripresa di ideali neoghibellini (a favore dell’imperatore), legata alla comparsa sulla scena europea di Carlo V e alle speranze riposte nel più potente monarca della cristianità perché rendesse possibile il superamento dei contrasti religiosi provocati dalla Riforma protestante, rinnovando l’azione che nel IV secolo l’imperatore romano Costantino aveva svolto convocando e presiedendo il concilio di Nicea (325). Nella seconda metà del Cinquecento si tende ad attribuire a diversi principi, ciascuno nel proprio dominio, autorità in ambito temporale e spirituale, un primato fino allora assegnato soltanto all’imperatore. In effetti, un potere assoluto è stato da tempo riconosciuto proprio al re di Francia, il quale – secondo un’antica formula – “non ha superiori nel suo Regno”. Con decisione viene affermata da Bodin la preferenza per la forma monarchica ed ereditaria. Così, in caso di torbidi e situazioni ambigue – ed è evidente l’influsso che su tale indicazione hanno le vicende francesi del tempo – possono essere necessarie misure straordinarie di emergenza prese dal sovrano che, meglio di ogni altro, anche del legislatore e del magistrato, è in grado di valutare la priorità del bene pubblico su quello privato.
ESERCIZIO
E4: La nascita della politica
Pur distinguendo il monarca dal tiranno, Bodin afferma la necessità di rispettarne sempre gli ordini, piuttosto che rischiare la ribellione e l’anarchia. Insomma, la sovranità dev’essere assoluta; il suo sovrano poteva piacere a Luigi XIV di Borbone, il Re Sole, perché era invitato a imitare la saggezza divina mostrandosi raramente ai sudditi e in ogni modo con maestà conveniente alla sua grandezza. Nel respingere le opinioni di pur “grandi personaggi” che avevano giudicato migliore di tutte la forma mista di governo, Bodin confuta quegli scrittori che hanno visto nel regime francese un insieme di aristocrazia (il parlamento di Parigi), di democrazia (gli Stati Generali) e di monarchia: “Tale opinione, oltre che assurda, è criminosa: infatti fare i sudditi compagni e colleghi del principe sovrano è crimine di lesa maestà” (I sei libri dello Stato, VI, 4). Se teniamo presente che l’opera viene scritta appunto nel corso delle guerre civili, quando il potere regale viene continuamente contestato e la stessa persona del principe è minacciata dagli oppositori dell’assolutismo, possiamo capire l’insistenza con cui Bodin, per impedire il naufragio della Francia, indica nel re una maestà poco meno che divina. Nelle pagine finali, l’antropomorfismo dello Stato serve a paragonare il monarca all’intelletto umano “che tiene luogo di unità” ma non è del tutto indispensabile, giacché esistono uomini che ne sono privi: “Così l’aristocrazia e la democrazia, che non hanno un re, continuano a reggersi e governano il loro Stato, e tuttavia non sono unite né internamente collegate come lo sarebbero se ci fosse un principe, che è come l’intelletto che unisce tutte le parti e le accorda insieme” (I sei libri dello Stato, VI, 6).
Non è facile stabilire quanto la lezione di Bodin sia stata assorbita effettivamente dalla cultura politica francese del suo tempo, ma è certo su questa linea che il Regno sarebbe stato restaurato alla fine delle guerre di religione e si sarebbe sviluppato nel corso del Seicento, ponendosi come esempio per quasi tutte le altre monarchie d’Europa.
TESTO
T2: Jean Bodin, La dottrina della sovranità
LETTURE
Riforma cattolica e Controriforma
AMBIENTE CULTURALE
Il XVI secolo è generalmente considerato il primo dell’età moderna che inizia, per consuetudine, con la scoperta dell’America. Naturalmente, se osserviamo le cose con gli occhi degli uomini di allora, questa divisione netta costituisce una forzatura: la conoscenza del mondo non si trasforma rapidamente in seguito al primo viaggio di Cristoforo Colombo (1451-1506), e delle novità che sarebbero derivate da quell’impresa pochi ebbero subito consapevolezza. Ma se consideriamo quell’evento, o meglio l’insieme degli accadimenti costituiti o determinati dalle navigazioni e dai viaggi che, a partire dall’ultimo scorcio del XV secolo, mettono in contatto l’Europa con lo sterminato continente di là dell’Atlantico e con l’Oriente asiatico, non possiamo non scorgere lo straordinario ampliamento di orizzonti verificatosi allora.
Trasformazioni economiche e sociali I viaggi e gli scambi con le nuove terre determinano una trasformazione radicale: da un mondo ancora centrato sul Mediterraneo, dove paesi come l’Inghilterra e la Spagna avevano una posizione marginale, si passa a una realtà diversa. Tutta l’Europa viene coinvolta entro una fitta rete di relazioni che, attraverso acque fino ad allora sconosciute, la uniscono a terre da poco scoperte o raggiunte solo eccezionalmente. L’intreccio di rapporti e scambi con paesi remoti determina un’enorme trasformazione nella sfera economica e ben presto in quella sociale e politica. Basti ricordare l’ingente quantitativo di metalli preziosi che la Spagna importa dalle colonie americane (dal 1501 al 1530 l’equivalente in argento di 7,7 tonnellate, che nell’ultimo decennio del secolo supera addirittura le 290 tonnellate): un’immissione massiccia di oro e di argento che entra rapidamente in circolazione in Europa, utilizzata in massima parte nell’immediato per finanziare la politica imperiale della potenza conquistatrice. Se una porzione considerevole di quei metalli preziosi serve al pagamento di merci importate dall’Asia, moltiplicando il volume degli scambi con l’Oriente, l’accresciuto stock monetario europeo provoca un generale aumento dei prezzi, che colpisce in particolare i salariati e la piccola nobiltà terriera. In tempi più o meno ravvicinati, la scoperta dell’America provoca notevoli cambiamenti anche sui modi di vita, per le novità che si verificano nell’agricoltura e nell’alimentazione degli europei: dopo che la canna da zucchero viene introdotta nel Nuovo Continente, un prodotto prezioso e dall’uso fino ad allora prevalentemente farmaceutico come lo zucchero comincia a entrare nel consumo familiare, mentre la flora americana offre all’Europa il mais, la patata, il pomodoro, il cacao e altri alimenti.
Ancora più profondo, forse, è lo sconvolgimento che la scoperta dell’America determina nella visione che gli europei hanno del mondo: da un’immagine largamente fantasiosa della realtà circostante si giunge, nel corso del XVI secolo, a una concezione sempre più precisa e scientifica. Un uomo colto abitante in uno dei paesi della Respublica christiana non pensa più generalmente – come accadeva nel medioevo – alla Terra “piatta”, il cui aspetto era ispirato al tabernacolo costruito da Mosè nel deserto: entro un piano rettangolare, circondato dalle acque, stavano le tre masse continentali dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, di estensioni non troppo differenti e divise fra loro dal Mediterraneo; ai margini, quattro grandi pilastri reggevano il baldacchino del cielo.
La Terra sferica La concezione sferica della Terra – già teorizzata dai pensatori antichi e nota anche nel medioevo – era stata approfondita grazie soprattutto a Giovanni da Sacrobosco, vissuto nella prima metà del XIII secolo. Egli aveva redatto un trattatello destinato a una fortuna plurisecolare, intitolato appunto La sfera del mondo, derivando indirettamente le sue teorie da Tolomeo, il grande scienziato di Alessandria d’Egitto vissuto nel II secolo d.C. Dopo un’illustrazione dell’universo in linea con la teoria tolemaica, veniva descritta la sfera terrestre, divisa in cinque zone: le due estreme e quella centrale erano credute inabitabili, le prime per il rigore del clima, l’altra per l’eccessivo calore, e solo le due fasce mediane temperate erano considerate abitabili dall’uomo. Nel primo Quattrocento l’opera stessa di Tolomeo era stata introdotta in Occidente da alcuni dotti bizantini, e insieme al testo di quella che i traduttori latini avevano intitolato Cosmographia era stato pubblicato un apparato cartografico, ripreso forse dall’originale o quanto meno ricostruito in base ai dati elaborati dal dotto alessandrino. Le masse continentali erano disposte su una fascia a semicerchio, per dare l’idea della sfericità terrestre, e quasi come una cornice al loro margine occidentale e orientale era posto l’Oceano che avrebbe diviso le coste africane ed europee da quelle asiatiche. L’Europa aveva una configurazione piuttosto vicina, nelle linee generali, a quella delle rappresentazioni moderne, ma l’Africa, a sud delle sponde mediterranee, era presentata come un tozzo corpo squadrato con una protuberanza verso oriente che mostrava l’Etiopia, mentre a sud si estendeva indefinita la Terra incognita. L’Asia, a parte la regione del vicino Oriente, delineata in modo abbastanza preciso, appariva senza alcuna delimitazione a nord e a est; a sud il caratteristico triangolo della penisola indiana era estremamente ridotto, mentre si estendeva nel Mare Indicum una grande isola – una Ceylon fantastica – denominata Taprobana; più oltre si sporgeva l’Aurea Chersonnesus, una penisola lanceolata a sud del Sinus Magnus, da cui era bagnata la Regio Sinarum. Anche le proporzioni dei continenti si discostavano dalla realtà: l’Africa appariva grande poco più di due volte l’Europa, che a sua volta era un terzo dell’Asia. Come è noto, proprio la sottovalutazione delle distanze che avrebbero separato le coste occidentali europee da quelle orientali dell’Asia – Cristoforo Colombo pensa che non vi siano più di 120° di latitudine, un terzo meno della realtà – fa giudicare possibile raggiungere il Levante muovendo da Ponente. Per quel che riguarda la costa occidentale dell’Africa, era stato necessario quasi tutto il XV secolo perché i Portoghesi arrivassero alla punta meridionale del continente e accertassero che era possibile circumnavigarlo: lo si credeva infatti unito alla cosiddetta Terra Australis, e si pensava che il Mare Indicum fosse un mare interno, privo di collegamento con l’Atlantico. Solo cinque anni dopo la scoperta dell’America, Vasco de Gama (1469-1524) sarebbe approdato a Calicut, sulla costa occidentale dell’India. Tuttavia, dell’India la cultura europea aveva notizie che risalivano almeno ai tempi di Alessandro Magno, e del Catai e del Cipango (la Cina e il Giappone) aveva narrato Marco Polo (1254-1324) nel Milione, libro che aveva conosciuto rapida fortuna.
Quando Colombo sottopone i suoi progetti di viaggio alla commissione di teologi riunita da Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona (1452-1516), e da Isabella regina di Castiglia (1451-1504), molti di quei dotti ritengono inattuabile tale navigazione, obiettando che essa si sarebbe addentrata nella zona torrida, intollerabile per il clima, e per di più si sarebbe avventurata nei pressi dell’equatore, con il rischio di precipitare fuori dal mondo.
LETTURE
Il dominio dei mari
LETTURE
La conquista dell’America
LETTURE
Le spedizioni navali e le scoperte geografiche prima di Colombo
La crisi delle certezze La progressiva conoscenza del Nuovo Continente – la notizia delle esplorazioni di Amerigo Vespucci (1454-1512) si diffonde fin dal primo decennio del Cinquecento – mette in crisi quelle certezze, che nondimeno tardano a scomparire del tutto. Inoltre, considerata sotto l’aspetto religioso, la scoperta pone altri problemi sconcertanti. Per la Bibbia tutti gli uomini derivano da Adamo, ma è difficile pensare che un discendente del progenitore abbia popolato quelle terre lontane e sconosciute. Anche più arduo, poi, è risolvere un problema posto dalla narrazione neotestamentaria della Pentecoste, per cui il Verbo di Cristo – come aveva ribadito san Paolo (Romani 10, 18) – era stato diffuso a tutti gli uomini fino agli estremi confini del mondo, tanto che non professavano quella fede solamente coloro che l’avevano scientemente rifiutata: di qui la possibilità di punirli, riducendoli in servitù. Ma gli abitatori di quei paesi di là dell’Oceano, separati da una così grande estensione di acque, non potevano essere stati raggiunti dagli apostoli: come devono essere dunque considerati? La risposta più comoda per i conquistatori è di ritenerli estranei alla discendenza di Adamo, privi di anima, alla stregua delle bestie, e quindi passibili di essere annientati o fatti schiavi: la distruzione di quelle popolazioni, facilitata dalle epidemie dilaganti per mancanza di immunizzazione, viene operata largamente dagli europei, non tanto con massacri, quanto con lo sfruttamento inumano e con il cambiamento radicale delle abitudini di vita.
Il dibattito sul problema teologico si prolunga, impegnativo e difficile, e ha come maggiori protagonisti l’umanista aristotelico Ginés de Sepúlveda, sostenitore dell’inferiorità naturale degli indigeni, e il domenicano Bartolomé de Las Casas, che sostiene la causa degli indios. Una riunione di teologi, indetta dall’imperatore e re di Spagna Carlo V nel 1550 per dirimere la controversia, non approda ad alcun risultato; se la Chiesa finisce con l’abbracciare le tesi di Las Casas sviluppando una vasta opera di evangelizzazione, i colonizzatori perdurano nel convincimento della naturale inferiorità degli indigeni, sfruttandone la manodopera soprattutto nelle miniere, e più tardi nelle coltivazioni, finché lo stesso scarso numero dei superstiti li spinge a ricorrere alla tratta degli schiavi africani.
LETTURE
Le missioni
LETTURE
L’identità europea
Un’altra considerazione sulla natura degli indios – senza peraltro alcuna positiva conseguenza pratica per loro – viene invece sviluppandosi nel mito del “buon selvaggio”, che trova i suoi prodromi già negli appunti di Colombo, nell’iniziale entusiasmo per quella che giudica l’innocenza naturale delle popolazioni appena scoperte. Forse l’enunciazione più limpida e matura di questo giudizio sugli abitanti del “mondo bambino”, trovato da poco, è nei Saggi del filosofo francesce Montaigne (1533-1592): egli avrebbe voluto che quella “così nobile conquista” fosse stata compiuta da Alessandro Magno o dai Romani per non essere svilita e imbarbarita, come era avvenuto con gli Spagnoli.
Il relativismo dei progressi civili Le scoperte e le navigazioni transoceaniche non solo rivoluzionano la visione del mondo, ma introducono nella coscienza europea l’idea del relativismo dei progressi civili. Mentre viaggiatori, cartografi e geografi ma anche poligrafi e compilatori di enciclopedie contribuiscono a diffondere le nuove conoscenze, che hanno dilatato incredibilmente l’orizzonte umano, vari studiosi prendono a interrogarsi sulle diverse vie seguite dallo sviluppo delle scienze e delle arti. “Da cento anni in qua – scrive Louis Le Roy nel XVI secolo – non solo le cose prima coperte dalle tenebre dell’ignoranza sono venute in chiaro, ma anche parecchie altre cose sono state conosciute, che erano state interamente ignorate dagli antichi: nuovi mari, nuove terre, nuovi tipi di uomini, di costumi, di leggi”. Si fa strada l’idea che le più importanti trasformazioni siano il frutto del progressivo incivilimento, così che proprio questo arriverebbe a dare un senso alla storia degli uomini, tracciando una linea dai secoli passati a quelli presenti. “Se vogliamo considerare l’insieme dell’antichità di cui resta memoria, troveremo che gli antichi abitatori dei Paesi in cui noi viviamo erano tremila anni fa rozzi e incivili come lo sono i selvaggi da poco scoperti da Castigliani e Portoghesi”. Per contro l’esame dei popoli africani e americani mostra gradi di civiltà diversi, gli uni non molto al di là della fase selvaggia, gli altri ancora immersi in forme di vita che appaiono allo stadio primordiale della sociabilità. Attraverso un confronto sembra dunque possibile capire il processo di civilizzazione e socializzazione a partire da un’originaria condizione di uomini selvaggi e isolati. Non a caso il grande storico Jacob Burckhardt (1818-1897), nell’esame dei caratteri originali che danno vita al Rinascimento, avrebbe posto insieme “la scoperta del mondo esteriore e dell’uomo”.
LETTURE
L’Asia degli Asiatici