4. Montaigne e le novità dello scetticismo moderno

di Gianni Paganini

4.1 L’introduzione del dubbio nella modernità: Montaigne e Sanches

Durante il Cinquecento, nel clima infuocato delle dispute innescate dalla Riforma luterana, l’accusa di favorire lo scetticismo in materia di religione rimbalza alternativamente dai cattolici ai protestanti. È in questo contesto che maturano le prime edizioni a stampa (in versione latina) delle opere di Sesto Empirico (180-220 d.C.), l’autore ellenistico che ci ha tramandato l’insegnamento del capostipite della scuola scettica, Pirrone di Elide (365 ca.-275 a.C. ca.). Grazie agli scritti di Cicerone e di Agostino si era invece mantenuta ininterrotta la conoscenza dell’altro filone scettico, quello neoaccademico rappresentato da Arcesilao e Carneade.

LETTURE

Scetticismo antico

Vol.1

Dopo la loro pubblicazione, le opere di Sesto Empirico circolano non solo tra i filologi e i filosofi di professione, ma anche tra gli uomini di cultura, come Michel de Montaigne (1533-1592), che possiede una copia dell’edizione 1562 delle Hypotyposes di Sesto Empirico; da essa trae molte delle parole chiave dello scetticismo pirroniano che si ritrovano sia scolpite sulle travi della biblioteca nella torre ove l’autore ama rifugiarsi per leggere, meditare e scrivere, sia nel testo dell’Apologia di Raimond Sebond. Il brano è il più lungo dal secondo libro dei Saggi (Essais, prima edizione dei primi due libri 1580, seconda edizione 1582, terza edizione in tre libri 1588, edizione postuma su una copia dell’esemplare di Bordeaux 1595), la raccolta di riflessioni, aneddoti, ricordi, notizie storiche ed erudite che, attraverso la forma autobiografica, indaga sulla natura dell’uomo e della vita sociale. L’importanza di Michel de Montaigne come divulgatore del “nuovo” scetticismo può essere difficilmente sottovalutata, sia per l’enorme diffusione europea dei Saggi sia perché quest’opera dal contenuto vario si rivolgeva a un pubblico ampio. Scritti in francese, dei Saggi vennero rapidamente tradotti nelle principali lingue. Oltre a distinguere chiaramente i veri “scettici” (cioè i pirroniani che si fermavano alla sospensione del giudizio, o epoché) dai “dogmatici” e dai “dogmatici negativi” (cioè i neoaccademici, che affermavano di non conoscere nulla) l’autore dei Saggi rielabora e divulga nozioni fondamentali come quelle di “fenomeno” o, come lo chiama Montaigne, “apparenza”, “criterio”, epoché, “equipollenza” (isosthéneia) dei fenomeni, atarassía (“imperturbabilità”) e apatía (“assenza di passioni”), “circolo vizioso” (o “diallele”), “regresso all’infinito”. Nella sua opera lo scetticismo diventa l’oggetto di una vera e propria riappropriazione filosofica, che lo rende adatto alle esigenze dei moderni.

I Saggi di Montaigne

Sin dal titolo, che ne evidenzia il carattere di prova, di “saggio”, gli Essais (prima edizione marzo 1580) affermano un modo di pensare moderno, non dogmatico, emancipato dalle domande dell’autorità filosofica. A essa si oppone un preciso metodo di liberazione dal pensiero dogmatico, metodo che solo in apparenza veste i panni dell’autobiografia e che investe il rapporto, delicato e complesso, di filosofia e teologia, ragione e fede (a cui la censura della Chiesa romana, in diverse occasioni, non rimarrà indifferente).

Il carattere programmatico di un’opera sperimentale emerge con chiarezza dalle parole di Montaigne: “Io studio me stesso più di ogni altro soggetto. È la mia metafisica, è la mia fisica” (III, 13). Nei Saggi Montaigne presenta una nuova forma filosofica che indaga sulle riflessioni e le azioni umane (comprese le passioni) sforzandosi di penetrare e scalfire il dominio dell’apparenza, del costume, la negazione della vita e della capacità di metamorfosi. Scopo dei saggi è togliere la maschera a parole, persone e cose, con la consapevolezza che la sostanza del nostro essere è la sua intrinseca temporalità: “Il tempo mi abbandona. Senza di esso nulla si possiede” (III, 10). Per contro, l’opera di Montaigne si propone di ricostruire il senso e la capacità di sguardo e ascolto tra l’io e il mondo.

Contro un costume di vita morale e intellettuale basato su nozioni quali abitudine, identità, impossibilità, pretesa alla centralità, teleologia/finalismo, gerarchia apparente degli esseri, la nuova forma dei Saggi esprime e rappresenta una modalità di ascoltare e parlare a nuovi interlocutori attraverso linguaggi e concetti nuovi e differenti: movimento, diversità, razionalità degli animali, tolleranza, pluralismo, debolezza/forza dell’intelletto e dell’immaginazione, possibilità, antidogmatismo, scetticismo non nichilista, universalità della ragione. L’opera di demistificazione si spingerà sino alle fondamenta antropocentriche della cultura europea che impediscono di comprendere sino in fondo quanto la natura, sottratta a fittizie costruzioni filosofiche, sia piuttosto un‘infinita moltiplicazione e vicissitudine di forme sconosciute alla ragione umana.

Pluralismo e apertura al possibile

L’idea di una natura infinita produttrice e moltiplicatrice incessante di forme ignorate dall’uomo, fa dei Saggi uno strumento per affermare la pensabilità e la legittimazione del pluralismo, il concetto di tolleranza e la co-esistenza del diverso, a partire dalla coesistenza pacifica tra diverse religioni. Montaigne disegna una immagine di ragione “naturale” che sia in stretto rapporto con una nuova concezione della vita e una nuova visione della natura e dell’io, nella descrizione di un soggetto che si costituisce e si sperimenta attraverso un continuo movimento. L’introspezione, lo studio del soggetto, avviene all’insegna di una duplicità per cui l’altro, il diverso, è in me. Ragione e immaginazione costituiscono per Montaigne una coppia di sinonimi intorno a cui ruota l’orientamento complessivo dei Saggi: esse segnano l’orizzonte e i limiti della natura umana: “Chiamo sempre ragione quell’apparenza di raziocinio che ognuno fabbrica in sé; questa ragione, della cui specie ce ne possono essere cento contrarie riguardo a uno stesso oggetto” (II, 12, 1039B).

Ragione e religione

TESTO

T8: Michel de Montaigne, “Filosofare è imparare a morire”

Sul piano filosofico, ne deriva l’adozione di uno scetticismo che è una originale elaborazione critica delle sistematizzazioni ellenistiche. Se filosofare è dubitare, la domanda (Que sais-je?, “Che cosa so?”) rappresenta il superamento dello stesso scetticismo. Tale posizione conduce Montaigne a costruire un nuovo metodo basato su una ragione naturale che, nelle sue implicazioni etiche, religiose, politiche, aprirà la filosofia a orizzonti inattesi: la vita è tale perché orizzonte di possibilità.

Altra conseguenza dell’atteggiamento scettico è la tesi dell’inaccessibilità della ragione umana a quella divina (II, 12). Contingenza e arbitrio caratterizzano la ragione; Dio non può essere vincolato al principio di identità, di non contraddizione, del terzo escluso; non può essere passato al nostro esame, né indagato con un linguaggio per analogiam. Non resta che immaginarlo come inimmaginabile, e cioè ammettere che la ragione non è l’elemento comune a Dio, al mondo e all’uomo.

Montaigne (Delle preghiere) insisterà sulla radicale separazione tra ragione e fede. I percorsi di ragione e fede non devono incrociarsi, perché di fatto sono incomunicabili. Essi sono paralleli e irriducibili l’uno all’altro: il linguaggio degli uomini e quello divino non conoscono pertanto un codice comune. La ragione non può prestare nessun aiuto alla fede, che resta accessibile solo per via divina, come un dono celeste. La filosofia, diversamente dalle tesi sostenute dal razionalismo teologico e dalla theologia naturalis, non può costituire neanche il preambulum fidei.

Al di là delle osservazioni di sapore scettico, relative alla debolezza della ragione, la preoccupazione di Montaigne è qui quella di salvare la dignità della dimensione umana del linguaggio, il “dire umano” della filosofia e della morale che segna la sua autonomia dalla teologia (III, 12). La religione senza la morale è vuota, mera devozione, superstizione e pratica di tirannia spirituale. Gli scritti dei teologi risultano così “troppo umani”, intrisi di quel lessico “indisciplinato” che essi vorrebbero combattere, talmente umani da punire il pensiero filosofico con mezzi inumani come la tortura, il fuoco e la censura.

Nicola Panichi

Apparenza e modello originale

TESTO

T7: Michel de Montaigne, La singolarità dell’uomo

Il primo importante apporto della nuova corrente scettica riguarda la nozione di “apparenza”. Montaigne non usa mai il termine “fenomeno”, che non era ancora in uso nelle lingue moderne, ma al suo posto si serve del termine “apparenza” e lo collega strettamente alla nozione di “fantasia”, intesa come rappresentazione sensibile. Entrambe queste scelte, che non sono solo lessicali, condizionano profondamente la sua comprensione dello scetticismo pirroniano, in quanto tendono a farne una forma di “fenomenismo” per il quale: (a) conosciamo della realtà soltanto l’apparenza, e principalmente l’apparenza sensibile; (b) primario presupposto fondamentale dello scetticismo diventa il dualismo tra apparenza e realtà, conoscibile la prima, inconoscibile la seconda che comprende le essenze e le sostanze del tradizionale approccio metafisico.

Che questa dicotomia implicasse il permanere di un residuo dogmatico (l’affermazione di una realtà in sé), e come tale non fosse fedele allo spirito originario del pirronismo “radicale”, è sicuramente vero, ma ciò non toglie che proprio in questa versione lo scetticismo antico abbia vestito panni moderni e abbia fatto il suo ingresso nella cultura europea. Montaigne poteva così interrompere il nesso tra la realtà e le apparenze, confinando tutte le nostre conoscenze entro il recinto di queste ultime. È in questo contesto che egli formula il dilemma del ritratto di Socrate: come possiamo essere certi che il ritratto sia un’immagine di Socrate quando abbiamo accesso unicamente alle sue rappresentazioni, cioè alle apparenze (fenomeni e fantasie) e non al modello originale? Inoltre, è proprio questa la situazione che innesca la ricerca del criterio: poiché apparenza e realtà sono ormai separate, diventa necessario il ricorso a un “terzo” (il criterio) che garantisca la loro conformità, e questo a sua volta richiederà un nuovo criterio, in una sorta di regresso all’infinito. Il circolo vizioso, così come l’arresto dogmatico a una pretesa evidenza soggettiva, rappresentano soltanto cattive maniere di sfuggire all’aporia del criterio e del regresso. Entrambi questi “modi” del ragionamento fanno della conoscenza una ricerca interminabile e priva di fondamenti sicuri.

La filosofia del dubbio

Un altro aspetto per il quale la mediazione di Montaigne è determinante per la cultura moderna è la concezione dello scetticismo come filosofia del dubbio. Mentre nella tradizione greca l’atarassía e la pace della mente scaturivano non dalla conoscenza e dal giudizio sulle cose, ma dalla sospensione dell’assenso, cioè dall’epoché, l’impostazione di Montaigne finisce al contrario per fare del dubbio e non dell’epoché il culmine della ricerca scettica, con tutte le conseguenze che questo comporta, giacché il dubbio è uno stato di inquietudine e di disagio, non di tranquillità e liberazione dai turbamenti. Assistiamo così a una vera e propria introduzione del dubbio nella modernità, per cui scetticismo e dubbio diventeranno sinonimi, mentre non lo erano affatto nella tradizione greca.

Scetticismo ed etica

L’interpretazione di Montaigne è importante anche per la rivalutazione dello scetticismo dal punto di vista etico. Mentre tutta una tradizione antica e moderna, per giungere sino a Descartes e oltre, insiste sulla “invivibilità” dello scetticismo o sulla “impossibilità di agire” (apraxía) a cui condurrebbe, Montaigne indica invece proprio negli scettici “il grado più elevato della natura umana”. In particolare, mentre lo scettico neoaccademico è costretto a altalenare nei suoi giudizi a seconda dei diversi gradi di probabilità che gli si presentano, il pirroniano si mantiene al contrario “tranquillo, diritto, inflessibile, senza oscillazione né turbamento”. In altri termini raggiunge lo scopo della atarassía (“imperturbabilità”), “che è una condizione di vita tranquilla, quieta, priva delle agitazioni che ci vengono dall’opinione e dalla conoscenza”. Per la vita ordinaria lo scettico pirroniano e Montaigne con lui si attengono ai quattro criteri pratici di cui aveva parlato Sesto Empirico: la guida della natura, l’impulso necessario delle affezioni, la tradizione delle leggi e delle consuetudini, l’insegnamento delle arti. Queste guide bastano da sole ad assicurare una condotta di vita normale, senza che ci sia bisogno di aderire a qualche dottrina dogmatica sul bene o sulla virtù e proprio per questo l’autore dei Saggi reagisce polemicamente ai racconti di Diogene Laerzio che dipingevano Pirrone “stupido e inerte, con uno stile di vita selvatico e insocievole”. Al contrario Montaigne indica in Pirrone un modello esemplare di “uomo che vive, discorre e ragiona, godendo di tutti i piaceri e le comodità naturali”.

Si deve dire, però, che dopo Montaigne il pirronismo sarà sempre meno interpretato come un’arte di vita e perderà il connotato etico che lo caratterizzava sin dalle origini; ciò dipende dal fatto che il problema epistemologico, cioè il problema della validità della conoscenza, prenderà il sopravvento, come si vedrà con Descartes. L’Apologia di Raimond Sebond è forse l’ultimo testo moderno nel quale si mantiene un certo equilibrio fra questi due aspetti, quello etico e quello conoscitivo, mentre nel Seicento diventerà un luogo comune pensare che lo scetticismo integrale possa essere al limite pensato in sede teorica, ma non vissuto come regola di comportamento.

Lo scambio con l'altro: filosofia e nuovi mondi

Montaigne pone l’uomo al centro di un universo policentrico, che assume le sembianze del prisma. Definire l’immaginazione come la facoltà che consente di “mettersi al posto dell’altro” gli permette di configurare una politica, “legittima e civile”, scomposizione e ricomposizione di vincoli umani legittimi ed equi – non utopici ma operanti nell’expérience dell’“altro mondo”. Essi saranno quindi validi normativamente: forma e necessità del pensiero naturale.

Nel Nuovo Mondo Montaigne coglie segno, exemplum e senso della possibilità di uno spirito umano che si pone sulla soglia della scoperta di altri spazi/tempi/mondi e altre dimensioni dell’umano: chi ci assicura che il mondo appena scoperto sia l’ultimo della sua specie visto che sino a ieri demoni e sibille, noi stessi, lo abbiamo ignorato? Su questo stesso modello formula alcune osservazioni sulla Cina (III, VI; III, 13), la cosmologia copernicana e la tesi della non unicità della terra: altre acquisizioni di conoscenze e diversi risultati, accomunati dal fatto di essere provvisori e legati a verità parziali (II, 12). L’“altro mondo” costituisce la nuova possibilità per un’umanità corrotta, come quella dell’Europa “centro del mondo”, di ricongiungersi all’infinità di altre forme cosmico-storiche, di ricomprendersi e ricomporsi nella forme de la vertu.

LETTURE

La filosofia alla prova dei nuovi mondi

ESERCIZIO

E12: Montaigne

TESTO

T6: Michel de Montaigne, Gli uomini e gli animali

Montaigne intuisce che il futuro dell’Europa è nel concetto di pluralismo e mette in luce la fecondità della dialettica di identità e diversità, nella vita, nell’arte, nella religione, nella storia, nella politica e nell’educazione. Insistendo sul confronto, egli disegna per l’uomo un nuovo paesaggio nel quale il contatto con altre culture non solo è positivo, ma è un imperativo morale per imparare a conoscere se stessi. Il rischio di contagio è all’inverso: tramite il nostro contatto abbiamo contagiato i “cannibali”, cioè l’alterità assoluta, con il virus di una pseudoragione e di una morale universalistiche, valide per tutti. Per Montaigne il concetto di universale deve essere ricostruito e ricomposto a partire dalle categorie di pluralismo e tolleranza.

ESERCIZIO

E11: Montaigne

Lo spazio del nuovo umanesimo montaignano, inteso come luogo aperto allo scambio della comunicazione/conversazione, si basa necessariamente sulla comprensione e tolleranza delle ragioni dell’altro. In tale prospettiva anche gli animali divengono oggetto di una riabilitazione teorica ed etica che consente la presa di coscienza dell’ordine della natura. L’originale riflessione sull’animalité non solo è un elemento fondamentale del nuovo concetto di scetticismo e della critica a progetti antropocentrici, ma riafferma la nozione di ragione naturale, per una filosofia che deve insegnare a vivere. In questa concezione della vita, l’uomo non è lo scopo della natura e dunque tutto l’universo non gli è finalizzato: oltre agli animali, non potrebbero forse reclamare il diritto a partecipare alla “razionalità del mondo” gli astri, corpi celesti dotati di vita incorruttibile (qui è adombrata la tesi sull’eternità dei mondi), di misura e moto armonioso?

Nicola Panichi

La via dello scetticismo accademico. Francisco Sanches

Il pirronismo, peraltro, non è l’unica opzione consentita agli scettici del Rinascimento. Benché sia stato trascurato dai commentatori che hanno privilegiato senz’altro Montaigne, Francisco Sanches (1551-1623) rappresenta l’altra via, quella più influenzata dalla acatalessía (“dichiarazione di inconoscibilità”) neoaccademica, come indica già il titolo della sua opera (Quod nihil scitur, 1581).

In realtà, l’opera di Sanches (medico di origine portoghese) affonda le sue radici nei dibattiti della tarda scolastica sulla conoscenza riflessiva dell’anima. Da questi dibattiti aveva tratto la concezione di stati interni dell’anima o della mente per i quali non si dà la distinzione elusiva tra rappresentazione e realtà, o tra realtà e apparenze: distinzione sulla quale aveva fatto leva il dubbio scettico per innescare la ricerca interminabile del criterio.

Se si eccettuano gli accenti decisamente tragici adottati da Sanches, per esempio quando evoca l’esperienza drammatica del labirinto e l’incontro esiziale con il Minotauro per descrivere la disperazione della conoscenza, si potrebbe dire che le considerazioni sulla “varietà” delle cose, sulla “moltitudine” e la “confusione” delle opinioni (Ubi multitudo, ibi confusio) si situano direttamente sullo sfondo del successivo Discorso sul metodo, ove Descartes descriverà il suo itinerario faticoso attraverso “la diversità delle nostre opinioni”. Allo stesso modo, il senso di fallibilità che in Sanches colpisce i sensi e di lì si propaga alla mente, producendo una condizione di incertezza totale, evoca la necessità di liberare la mente da tutti i suoi pregiudizi. In definitiva, il procedimento scettico di Sanches finisce per fornire la riprova a contrario della bontà di una prospettiva decisamente antiempiristica, visti i risultati disperatamente deludenti della conoscenza sensibile.

Nella sua opera è forte anche la polemica contro Aristotele. Anche Aristotele fu uomo come noi e, benché si presentasse come “uno dei più acuti scrutatori della natura”, talvolta si ingannò e ignorò molte cose. In generale nella “repubblica della Verità” è meglio dubitare, seguire l’esperienza e la ragione. Si comprende dunque quanto grande sia l’influenza di Sanches in un’epoca in cui l’obiettivo primario dello scetticismo è quello di liberarsi del metodo aristotelico e del concetto di “scienza” come “conoscenza perfetta della cosa” da esso presupposto.

La servitù volontaria e l’amicizia: Montaigne e La Boétie

L’avvio delle riflessioni politiche di Etienne de La Boétie (1530-1563), contenute nel suo Discorso sulla servitù volontaria, Discours de la servitude volontaire (pubblicato postumo nel 1576), è orientato verso una prospettiva netta: il potere di uno solo è contro ragione. Ne deriva una conseguenza radicale, e cioè il rifiuto di considerare la tirannia come una degenerazione delle forme di governo, secondo la tipologia politica classica: “mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa di pubblico in un governo in cui tutto è di uno solo. Dunque non esiste res publica là dove tutto appartiene a uno solo”. Il suo Discorso non è un mero cahier de doléances contro la tirannide ma una presa di coscienza della radice del male politico-sociale: la servitù volontaria. Il possesso/proprietà universale di uno solo, i guasti irreparabili, i massacri che esso ha provocato e provoca, la sua stessa forza risiedono nell’essenza della potenza tirannica solo nella misura in cui un’altra forza oscura e inarrestabile, il consenso della moltitudine, lo ha costituito. La forza del tiranno non è imposta dall’alto; piuttosto essa deriva dal popolo, dal consenso universale che crea il potere dell’Uno. Il popolo, autore e attore della propria servitù, si incatena da solo divenendo servo volontario di un universale astratto, che, per questo, s’incarna in un universale concreto: il tiranno usurpatore dell’universalità e dell’unità originaria del genere umano. Gli uomini servono non per costrizione di forza maggiore ma come “affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno”.

Politica e potere

Nel “dono” dello Stato al tiranno, dunque, La Boétie coglie la patologia della relazione politica/potere. E fa una congettura: egli suppone che gli abitanti di un Paese riescano a trovare uno di quei grandi personaggi, l’uomo virtuoso (vir bonus) per eccellenza. Questi sarà lungimirante, coraggioso, premuroso, idoneo a governarli: gli abitanti gli consegnano la loro fiducia e gli ubbidiranno “fino a riconoscergli una certa supremazia”. Ma è proprio questa supremazia che segna il punto di non ritorno: “non saprei proprio dire se è un agire con saggezza toglierlo da dove faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male”. Anche il vir bonus è esposto al male politico, al male della politica, alla sua patologia in quanto snaturamento e degenerazione della società di amici delle origini, della politica dell’amicizia e del suo presupposto: l’uguaglianza (égalité). La mostruosità della tirannide è piuttosto l’apice dello snaturamento dei rapporti tra gli uomini prima di quelli tra governanti e governati. Essa è la degenerazione che ha cancellato ogni “città di uomini”, i quali, nati liberi, sono dappertutto in catene. Essa è la lunga notte della libertà – simile all’omerico paese dei Cimmeri, dove per sei mesi regna l’oscurità – o della eterna minorità della ragione dei “popoli inebetiti” che si creano da soli le menzogne “per poterci credere”, compresa la superstizione religiosa.

Ma la natura della modalità con cui insorge la malattia contiene in sé anche la sua cura. Se la forza del tiranno risiede nelle mani, negli occhi, nelle orecchie del popolo; se la forza del tiranno è il consenso del popolo, allora non è necessario combattere con la forza quel potere “inumano e ingiusto”, opporgli una resistenza attiva: è sufficiente “non ubbidirgli più” e il colosso crollerà. La Boétie invoca la resistenza passiva contro il tiranno. Il crollo del colosso dai piedi di argilla, il percorso della sua delegittimazione, coincide con un percorso di riappropriazione di ciò che si è alienato in un cattivo depositario, una riconquista dei propri diritti di natura per ritornare “uni e uniti”. Così da bestie si può ritornare uomini, soggetti di libertà e autoderminazione e l’uguaglianza disuguale, base naturale della fratellanza universale, diventa la controprova del principio primo del riconoscimento reciproco.

La politica dell’amicizia

Il concetto politico di amicizia perfetta, presente sullo sfondo della Servitù volontaria, fungerà da elemento generativo di una complessa teoria della politica, che, quasi alla fine del saggio di Montaigne Sull’amicizia, confluirà nella prefigurazione di una politica dell’amicizia. Il centro della Servitù volontaria di La Boétie è infatti individuato da Montaigne nella ricerca della pace sociale che annulla, con la sua realizzazione, la possibilità stessa della tirannide. In particolare, il vero cuore del libello boetiano risiede nell’elogio della “volontà comune”, della sacralità dell’amicizia come cellula della società giusta, vincolo, unità e pace sociale. Sarà proprio Montaigne ad aiutare a capire meglio il messaggio della Servitù volontaria: “Nulla è estremo se esiste un suo simile. E chi supporrà che, fra due, io ami l’uno come l’altro, e che essi si amino fra loro e mi amino quanto io li amo, moltiplica in confraternita la cosa più una e unita che esista” (Saggi I, 28, 349C).

Nicola Panichi

4.2 Il saggio scettico di Pierre Charron e la nascita della soggettività moderna

All’inizio del Seicento, uno degli esponenti più noti dello scetticismo (combinato con elementi stoici) è Pierre Charron (1541-1603). Questi, con il suo trattato La saggezza (La sagesse, 1601; 1604 seconda edizione modificata), sa dare forma sistematica al pensiero di Montaigne, producendo quel manuale di saggezza che era già implicito nei Saggi e che necessitava tuttavia di essere esplicitato e riordinato per imporsi come guida per la vita. Il successo dell’operazione è tale che l’opera di Charron diviene un punto di riferimento per tutta la nuova cultura dell’honnête homme (“uomo onesto”), caratteristica dell’“età classica” (dalla seconda metà del Seicento alla Rivoluzione) in Francia.

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la Saggezza come una semplice riproposizione in forma più continua della riflessione troppo personale e rapsodica di Montaigne. Infatti, proprio sul terreno dello scetticismo il lavoro di Charron rivela un volto nuovo; in lui la rivalutazione stoica dell’autonomia della virtù si accompagna a un’esplicita polemica contro la superstizione e contro la subordinazione della morale alla fede religiosa, mentre l’aspirazione a una “prudenza” tutta mondana si colora di suggestioni epicuree e di richiami a una spregiudicata valutazione “politica”.

Nascita della soggettività moderna

In realtà, nell’opera di Charron è la figura stessa del saggio ad assumere dei connotati originali: lo scettico assume i tratti di un personaggio attivo e protagonista.

Per i greci antichi l’epoché era un páthos (una passività) che accadeva al ricercatore alla fine dell’investigazione, in altri termini il prodotto di una sequenza causale in larga misura indipendente dalla volontà del filosofo e scandita nei suoi diversi momenti: indagine; opposizione dei punti di vista in conflitto; equipollenza dei medesimi; sospensione del giudizio; infine atarassía. Per Montaigne lo scacco, che nella sospensione scettica l’intelletto e i sensi infliggono a sè medesimi, si colora di un significato negativo, dimostra che la ragione stessa, ben lungi dal poter svolgere una funzione di controllo, è in realtà “uno strumento di piombo e di cera, che si può allungare, piegare ed accomodare per ogni verso e a qualsiasi misura”. Sulla “passività” dell’epoché degli antichi il moderno veniva così proiettando anche l’ombra di una svalutazione che investiva in modo diretto l’opera della ragione.

Al contrario, Charron sottolinea innanzitutto il carattere “positivo” della ragione scettica e le attribuisce una “giurisdizione” piena e indiscussa, sia pure nei limiti della sfera interiore del saggio che si mantiene separato dalla sfera pubblica delle leggi, delle credenze, delle opinioni. Nell’ambito mondano proprio della “saggezza umana” la ragione conserva il diritto più completo a “giudicare di tutto”, a “trattenere l’assenso” in presenza di motivazioni insufficienti, e in definitiva contribuisce a salvaguardare l’“universalità di spirito” che è tipica dell’uomo. Piuttosto che come un imponderabile punto di equilibrio tra opinioni divergenti, la sospensione del giudizio si configura come un moto energico e volontario di liberazione dal complesso delle credenze. Questa iniziativa richiede una disciplina del giudizio e un esercizio della volontà praticati in modo consapevole. Lo scettico moderno è, dopo Charron, colui che mette attivamente in dubbio tutte le credenze che non siano fornite di motivazione razionale o che siano giustificate unicamente dalla consuetudine, dall’autorità, dalla tradizione.

Si può dunque affermare che la filosofia di Charron è uno dei luoghi di nascita della soggettività moderna. Con la separazione di interno ed esterno (consegnato quest’ultimo a un conformismo solo di facciata), con il riconoscimento del carattere attivo del dubbio, con l’attribuzione al saggio di un ruolo “critico” e “universale” di giudizio, lo scetticismo charroniano ha contribuito enormemente alla nascita dell’intellettuale moderno, nella forma che oggi conosciamo, cioè come figura indipendente che afferma il suo diritto di giudicare con la ragione delle opinioni ricevute e delle convenzioni in vigore.

4.3 Sarpi e Campanella: lo scetticismo italiano

Avremmo una scarsa documentazione sulla penetrazione delle idee scettiche in Italia tra l’epoca della Controriforma e la fine del Rinascimento, se non disponessimo dell’opera di due intellettuali eccezionali, che in modi diversi dialogarono con lo scetticismo: Paolo Sarpi (Venezia, 1552-1623) e Tommaso Campanella (1568-1639).

Paolo Sarpi

Sia negli scritti filosofici sia nei Pensieri medico-morali (lasciati inediti e composti quasi certamente dopo il 1601), Sarpi si confrontò con Montaigne e Charron per riflettere innanzitutto sull’irriducibilità delle leggi positive ad alcun principio universale di giustizia. Per Sarpi l’anima è un corpo sottile che muove il corpo e ne è mossa, ricevendo le impressioni dei corpi trasmesse dai sensi. Quando il discorso interno, attivo, forma false idee generali, queste costituiscono tante opinioni errate, idee illusorie, credenze sbagliate, quanto regimi personali scomposti e dolorosi. L’arte del ben vivere è dunque costituita per Sarpi da una combinazione della diffidenza scettica con la saggezza epicurea: “non aborrire nessuna opinione, perché potrai entrare in quella, né isposarne alcuna, perché ti ripudierà, e nella ripudiata potrai tornarci. La peste dell’uomo è l’opinione della scienza. Non seguir opinione che porti titolo di verità, ma di voluttà o utilità”. Per quanto riguarda in particolare le credenze etiche e religiose, Sarpi recepisce in pieno “l’etica della maschera” che era stata teorizzata dai suoi amati autori francesi: “Al di dentro vivi e giudica secondo la ragione, al di fuori secondo la comune opinione vivi e parla.”

Tommaso Campanella

Nel 1593 Sarpi conosce Tommaso Campanella a Padova, nel circolo dei fratelli Pinelli, così come frequenta con ogni probabilità Giordano Bruno. Ed è soprattutto a Campanella che si deve la più vasta indagine sulle tematiche dello scetticismo anteriore anche al Discorso sul metodo di Descartes. Si tratta del primo libro della Metaphysica, libro riscritto da Campanella più volte nel carcere dell’Inquisizione: una prima volta nel 1602, poi nel 1611, quindi nel 1624, finché l’opera vede finalmente la luce nel 1638 a Parigi. Nella sostanza, il testo di Campanella contiene un’analisi critica della teoria aristotelica della conoscenza, con la dimostrazione che essa conduce inevitabilmente a un’impasse scettica, in quanto si basa su un’idea del sapere scientifico del tutto inattingibile da parte dell’uomo. All’inizio del libro, un’ampia trattazione è dedicata al riepilogo dei dubbi (dubitationes) degli scettici, per l’esattezza quattordici. “Nessun senso – afferma Campanella – percepisce le cose come sono, ma nel modo in cui viene affetto”; inoltre, poiché queste sensazioni “falsate e adulterate” sono basilari per tutto l’edificio della conoscenza, ciascuno finirebbe per “avere una sua propria filosofia a seconda della percezione dei suoi sensi”.

Particolare interesse hanno le pagine in cui Campanella si sofferma su alcuni tópoi che, già presenti in Sesto e in Cicerone, avranno tuttavia nuova fortuna grazie alla ripresa cartesiana: il dubbio sull’indistinguibilità del sogno e della veglia, il confronto tra saggezza e follia, a cui si aggiunge (tratto da Euripide) quello più drammatico tra la vita e la morte. Amplificati al massimo, questi temi assumono però nella Metaphysica un significato particolare, derivando dal principio che il sapere è “passione”: infatti, secondo gli scettici, avverrebbe nel conoscere una vera e propria trasmutazione del soggetto nell’oggetto, al limite dell’alienazione. Se il sapere è passione, con abile passaggio al limite, di questa “alienazione” lo scettico sottolinea la prossimità con la “follia”, proiettando così sul sapere umano l’ombra di un dubbio radicale. Non a caso, al tema dell’umano “delirio” torneranno ancora le dubitationes XI, XII e XIII: “Il fatto che dormiamo, deliriamo e siamo nella regione della morte” si evince da molti segni, innanzitutto dalla constatazione dei “deliramenti” filosofici, ma anche dai contrasti non meno folli che si registrano sulle dottrine dei “princìpi”, ivi compresi i fondamenti della morale e della religione.