L’uomo del Rinascimento scopre la propria autonomia rispetto alla visione religiosa del mondo che dominava i secoli medievali: basta leggere il De hominis dignitate di Pico della Mirandola per capire come, mentre si appresta a detronizzare la Terra da centro dell’universo, il Rinascimento vi ponga l’essere umano, misura di tutte le cose. Tuttavia il Rinascimento elabora proprie forme di religiosità e di misticismo e l’uomo sente di vivere in un universo popolato di forze occulte e misteriose.
LETTURE
Pico della Mirandola: filosofia, cabbala e concordia universalis
La cultura magico-ermetica rinascimentale, rispetto alle sue fonti antichissime, esibisce un aspetto particolare, a tal punto che la si considera in qualche modo connessa alla nascita di un nuovo spirito scientifico. Il “mago” ora non è più il negromante capace di evocare i demoni a fini malvagi, ma il cultore di una “magia naturale” che permette di dominare le forze della natura e di trasformare il mondo secondo gli umani bisogni.
Nel XV secolo erano stati tradotti numerosi testi greci che erano stati ritenuti più antichi di quanto non fossero: gli Inni orfici (probabilmente scritti tra II e III secolo d.C. ma attribuiti a Orfeo); gli Oracoli caldaici (dello stesso periodo, ma attribuiti a Zoroastro); il Corpus Hermeticum, pervenuto nel 1460 a Firenze, attribuito al mitico Mercurio (o Hermes) Trismegisto e subito affidato da Cosimo de’ Medici a Marsilio Ficino perché lo traducesse.
La tradizione ermetica che si basa su questi testi propone una visione magico-astrologica del cosmo: i corpi celesti esercitano degli influssi sulle cose terrene e, conoscendo le leggi planetarie, questi influssi possono essere non solo previsti, ma anche orientati. La capacità di fare previsioni era chiamata nel mondo greco “apotelesmatica” e questa tradizione viene ripresa nel Cinquecento. Ma gli influssi astrali possono essere orientati perché esiste un rapporto di “simpatia” tra l’universo come macrocosmo e l’uomo come microcosmo, e la magia astrale può agire proprio su questo reticolo di forze.
Per Ficino il mezzo per agire sulle forze della simpatia cosmica erano i “talismani”, immagini che consentivano guarigione, salute, forza fisica.
Anche se il sapere e la pratica magica presuppongono un rapporto di simpatia tra fenomeni terreni e fenomeni celesti, Pico della Mirandola celebra il potere della magia e al tempo stesso contesta il sapere astrologico: tuttavia la contraddizione si scioglie se si intende la polemica di Pico come il rifiuto del determinismo astrologico proprio perché, grazie all’azione magica, l’uomo può operare sulle forze della simpatia universale.
Vivere in un universo popolato da forze occulte, regolate dal principio della simpatia che lega tutte le cose tra loro, significa poter riconoscere queste parentele misteriose attraverso dei segni, dei caratteri impressi nella stessa forma esteriore delle cose. Ed ecco che il Rinascimento elabora la dottrina delle “segnature”.
Per Paracelso l’ars signata insegna come si debbono assegnare a tutte le cose i “nomi veri”, quelli dati da Adamo, che indicano al tempo stesso il potere, la virtù, la proprietà delle varie cose. In effetti l’ars signata non concerne tanto (o soltanto) i nomi veri, ma quegli aspetti esteriori delle cose che ne dichiarano la virtù. Ed ecco che si considerano segnatura le ramificazioni delle corna del cervo, da cui si può riconoscere l’età, le escrescenze sulla lingua della scrofa, che ne manifestano l’impurità, il colore delle nubi, da cui si possono prevedere i mutamenti celesti. Si tratta di segni che comprendono sia il sintomo medico o meteorologico sia proprietà ben più vaghe e indefinibili.
A Paracelso, in quanto medico, interessa la segnatura come contrassegno della somiglianza di ogni oggetto naturale con una certa condizione causata dalla malattia, e attraverso la quale può essere restaurata la salute. Anche il carattere intimo di un uomo è espresso dal suo aspetto esteriore, persino dal suo modo di camminare o dal suono della sua voce. In tal senso la dottrina delle segnature si collega agli studi di fisiognomica, chiromanzia, metoscopia, che indagano come i tratti del volto o del palmo della mano, le rughe della fronte o i nèi esprimano la natura e il destino degli individui, o di phytognomonica (che indaga le segnature dei vegetali).
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Paracelso
Nell’ambito più ampio delle dottrine filosofico-religiose dell’età moderna la dottrina delle segnature viene ripresa da Heinrich Khunrath (De signatura rerum naturalium, 1587, e Amphitheatrum sapientiae aeternae, 1595) e nel 1622 da Jacob Böhme, che, mutuando il concetto da Paracelso, vede la segnatura come prova di una forza divina che pervade le cose e può essere identificata da una mente misticamente illuminata. Chi ha forse elaborato in modo più articolato la dottrina delle segnature è, però, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (1486-1535) con il suo De occulta philosophia (1531), che rappresenta una delle opere più emblematiche della magia rinascimentale. Poiché vi sono tre mondi – l’Elementale, il Celeste e l’Intellettuale – e ogni cosa inferiore è governata dalla superiore e ne riceve l’influsso, la divinità ci trasfonde le virtù della sua onnipotenza per mezzo degli angeli, dei cieli, delle stelle, degli elementi, degli animali, delle piante, dei metalli e delle pietre. Così noi possiamo “risalire gli stessi gradini” e giungere sino al mondo archetipo, causa prima di tutte le cose, e godere non solo delle virtù che preesistono nelle cose più nobili, ma conquistarne altre più efficaci.
A questo scopo si praticano la magia naturale (che agisce sugli oggetti del mondo), la magia astrale (per dirigere gli influssi delle stelle) e la magia cerimoniale (per evocare spiriti angelici).
Per compiere queste operazioni si elaborano pratiche di magia cerimoniale che, con il suo appello a potenze angeliche attraverso la pronuncia di nomi magici, fonde cabala, magia naturale e invocazione di potenze angeliche e demoniache, culto delle lingue segrete e dottrina della simpatia universale.
Comunque si esplori la vasta letteratura cinquecentesca, il concetto di segnatura si regge su un circolo vizioso: la simpatia cosmica è rivelata e istituita dalla segnatura, che è una somiglianza, ma questa somiglianza (che è già ambigua perché ogni cosa, da un certo punto di vista, può essere simile a qualsiasi altra) può venire identificata se già esiste la profonda persuasione che i rapporti di simpatia cosmica (o comunque forze occulte) ci siano e agiscano. Chi ha rappresentato meglio la fiducia mistica in questa grande “catena cosmica” è forse Giordano Bruno.
Nato nel 1575 nei pressi di Görlitz, Jacob Böhme scrive il suo primo libro, Aurora, nel 1612. Come l’autore stesso spiega, in Aurora è già presente in sintesi tutto il contenuto della sua rivelazione, anche se è espresso in maniera ancora oscura e imprecisa e nonostante la mancanza della parte finale, che non verrà mai scritta. Fin da questo suo primo scritto, Böhme tenta di mettere a fuoco due modi diversi di intendere il divino, concepito da un lato come eternamente immobile e immodificabile, e dall’altro come Dio creatore. Il termine che Böhme sceglie per descrivere il divino è Ungrund, che letteralmente significa “senza-fondo”. Considerato da questa prospettiva, Dio è “in se stesso”, privo di qualsiasi impulso al movimento e assolutamente indifferenziato. Il termine senza-fondo esprime quindi il tentativo di pensare il divino come radicalmente indipendente, privo addirittura di un fondamento che lo sostenga.
Come è possibile spiegare la creazione, a partire da questa concezione di Dio? In Dei tre principi dell’essenza divina, Böhme afferma che sebbene Dio non abbia inizio, e quindi di lui non si possa parlare “con lingue umane”, la sua trattazione si svolgerà invece come se così non fosse, in modo da poter dare una spiegazione della creazione. In altre parole, il primo punto di vista (Dio come immobile nulla) non viene sostituito dal secondo (Dio che si pone in relazione con le creature): si tratta piuttosto di due volti dell’essenza divina.
Una via per spiegare la rivelazione di Dio, e quindi la creazione, è la concezione dei tre principi: secondo il primo principio, la divinità può essere descritta come collera, tenebra, e viene spesso paragonata al fuoco; nel secondo principio un lampo si eleva da questo fuoco e genera la luce; dal punto di vista del terzo principio il divino si rivela con il mondo materiale.
Nello stile barocco che caratterizza gli scritti di Böhme, il problema del passaggio dal senza-fondo al divino in movimento viene ripreso e riformulato con una varietà di immagini. Così come dal lampo che squarcia la tenebra del primo principio emerge la luce, Böhme descrive l’origine della creazione anche come un atto di contrazione che genera una volontà vera e propria all’interno della assoluta vacuità del Senza-fondo, e questa volontà rende il divino desideroso di generare un Figlio. Da questo punto di vista, Dio può essere considerato come Padre che rivela se stesso attraverso la generazione del Figlio, e non invece un nulla immobile senza preferenze.
L’immagine della luce che si origina dal fuoco viene spesso impiegata negli scritti böhmiani per descrivere la duplicità del divino: il fuoco è violento e divora, mentre la luce è chiara e benevola; eppure non può esserci una reale separazione tra i due, perché il fuoco è necessario alla generazione della luce, che a sua volta si alimenta del primo. Anche all’interno di Dio devono coabitare due essenze radicalmente contrarie, che tuttavia non possono mai essere concepite come assolutamente estranee l’una all’altra.
Se questa interna frattura sembra essere necessaria a Böhme da un punto di vista logico, la divisione in un volere positivo e in uno negativo all’interno di Dio, e quindi l’identificazione del principio negativo con la figura di Lucifero, crea naturalmente una serie di problemi da un punto di vista teologico e morale, di cui Böhme è consapevole. Ci si potrebbe chiedere infatti se il lato negativo di Dio è necessario proprio come il lato negativo della natura, la cui vitalità è spesso descritta come il lavorio interno di diverse qualità che operano le une con le altre e contro le altre.
Questa filosofia mistica è esposta attraverso una lingua complessa e sfaccettata, tanto che lo stesso Böhme deve spesso chiarire il senso delle parole da lui impiegate, consapevole del fatto che “non chiunque capirà la mia lingua” (Aurora, cap. 13, § 16). È la natura stessa della sua rivelazione che assomiglia a un “fuoco che brucia” e che incalza la mano, spingendola a scrivere veloce. Ma soprattutto Böhme dichiara di scrivere secondo la sua vera lingua madre, che è la “lingua naturale” (Natur-Sprache), lingua originaria dell’uomo che permette di capire i veri significati delle parole, arrivando quindi all’essenza delle cose stesse e alla comprensione dei loro rapporti.
Questa ambigua nozione di somiglianza domina anche la tradizione mnemotecnica, che perviene al Cinquecento dai tempi antichi e su cui la cultura rinascimentale innesta il progetto dei suoi “teatri del mondo”.
Una mnemotecnica è un artificio che – in epoche in cui non esistevano libri a stampa né altri strumenti maneggevoli di registrazione del sapere – permette all’insegnante, all’oratore e a chiunque di ricordare nozioni di vario genere, e in particolare liste e sistemi di concetti, di cose, di regole.
In genere la struttura di una mnemotecnica è di questo tipo: si disegni o si imprima nella mente una qualsiasi struttura spaziale (palazzo, città, territorio) che permetta di discriminare strade, piazze, corridoi, stanze, scale. Ciascuno di questi elementi spaziali è detto “luogo”; si collochino in ciascuno di questi luoghi delle “immagini”, figure di cose facili da memorizzare (oggetti noti oppure forme mostruose ed eventi sorprendenti, come statue che rappresentino fatti terribili, tali da imprimersi nella nostra memoria); si colleghino a ciascuna di queste figure parole o concetti che si vogliono memorizzare; infine si faccia in modo che l’organizzazione dei luoghi e delle figure sia omologa, o simile a quella delle cose da ricordare. Così figure di oggetti artificiali possono stare per lettere alfabetiche ignote, l’assenzio (amaro) può stare per l’aloe, la serie dei pianeti può rinviare alla serie delle gerarchie angeliche, o viceversa, talora l’iniziale del nome della cosa sta per la lettera alfabetica, e la cosa viene rappresentata da un’immagine (si può immaginare Asino, Elefante e Rinoceronte per ricordare la parola “aer”).
Tra i più interessanti autori di mnemotecniche cinquecentesche citeremo Johann Romberch (Congestorium artificiosae memoriae, 1520), Giulio Camillo Delminio (L’idea del Theatro, 1550), Guglielmo Gratarolo (De memoria reparanda, 1553), Ludovico Dolce (Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservare la memoria, 1562). Inoltre non possiamo ignorare le varie edizioni cinquecentesche dell’Ars memorandi di Petrus von Rosenheim.
Se nell’antichità e nel medioevo le mnemotecniche erano puri artifici per ricordare, nel Rinascimento diventano modi per rappresentare e organizzare il sapere, enormi e virtuali enciclopedie o “teatri” dell’universo (come accade con L’idea del Theatro di Giulio Camillo e con Giordano Bruno).
Le regole di somiglianza che assegnano immagini o luoghi ai concetti corrispondenti sono di varia natura. Basta sfogliare L’idea del Theatro per vedere come sotto la categoria della similarità vengano ammassati i più vari procedimenti retorici. Si ha similarità per tratti morfologici (il centauro per l’ippica), per azione (due serpenti che lottano per l’arte militare), per contiguità storica o mitologica (Vulcano per le arti del fuoco), per causa (i bachi da seta per la vestiaria), per effetto (Marsia scorticato per il macello), per rapporto agente/azione (Paride per il foro civile), per rapporto agente/fine (fanciulla con vaso di odori per la profumeria), per antonomasia (Prometeo, donatore del fuoco, per l’uomo artefice), e così via. Non è in base alla stessa regola che Ercole quando tira una saetta verso l’alto sta per le scienze delle cose celesti, e Mercurio con un gallo sta per la mercatura.
Così le mnemotecniche condividono con la teoria della simpatia cosmica l’esagerata flessibilità nello stabilire rapporti e analogie. Questo demone dell’analogia dovrà essere esorcizzato perché dalla magia rinascimentale si possa passare alla scienza moderna, basata su rapporti tra quantità (controllabili) e non tra imponderabili qualità. Tuttavia questa propensione a trovare ovunque segni, simboli e somiglianze sarà elemento di ispirazione per gli artisti del Rinascimento.
ESERCIZIO
E4: Magia e scienze ermetiche
“Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena. Ognuno nella sua vita interpreta molti ruoli e gli atti sono le sette età della vita. Dapprima l’uomo è un bambino che frigna fra le braccia della nutrice, poi uno scolaro lamentoso e svogliato che si incammina verso la scuola a passo di lumaca. Poi è un innamorato che sospira come un mantice, [...] più tardi un soldato baffuto e lesto di mano, [...] poi un giudice sentenzioso con la pancia piena, gli occhi severi, la barba ben curata [...]. La sesta età lo vede in ciabatte e i pantaloni sformati e vuoti, le lenti sul naso [...]. La scena infine che chiude questa strana e movimentata storia è una seconda infanzia, puro oblio, senza denti, senza vista, senza gusto e senza niente” (As you like it, atto II scena VII).
Chi scrive così è Shakespeare, ma sappiamo che la metafora della vita come teatro è diffusa in altri testi – non solo teatrali – di autori che scrivono fra Cinquecento e Seicento. Simmetrica all’ambizione del teatro di rappresentare le vicende della vita, la metafora della vita come spettacolo teatrale rappresenta un’immagine duplicata e complessa, specchio nello specchio. Alla base della fortuna della metafora in quei tempi sta il diffuso successo del teatro, un’arte esaltata da Corneille (1606-1684) come “l’amore di tutti i buoni ingegni, l’argomento delle conversazioni di Parigi, il più caro divertimento dei nostri principi, la delizia del popolo”.
Tutte le avventure e le disavventure, gli amori e le inimicizie della vita reale possono per magia diventare puro teatro, un’illusione che talvolta prevede un “lieto fine”: il padre che disperato piangeva la morte del figlio scopre che è vivo e fa l’attore; lo vede mentre alla fine della giornata riceve la sua paga insieme ai compagni. “Tutti gli attori” scrive Corneille “senza prender vero interesse alle parti che hanno recitato, il traditore e il tradito, il morto e il vivo, si trovano alla fine amici come prima” (L’illusion comique, atto V scena V).
La vita è dunque un dramma, il più sovente non molto allegro nel suo insieme (e raramente a lieto fine come L’illusion), il mondo è un palcoscenico e le vicende vissute un copione assegnato agli interpreti che possono modificarlo solo in parte. Una fila interminabile di uomini entra sul palco e poi definitivamente esce: “l’uomo è un poveraccio che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo durante la sua ora e poi non se ne parla più, è una favola raccontata da un idiota [...] qualcosa che non significa nulla” (Macbeth, atto V scena V).
Qual è il senso del pensare e immaginare fin nei particolari – palcoscenico, attori, copione e prima di tutto l’Autore – che la vita sia una recita teatrale?
Il teatro/mondo è un’immagine polivalente che ha un’origine lontana e si è ampliata nel corso del tempo: Platone nella Repubblica (604bc) e nelle Leggi (644e; 645b; 803b-c) parla della vita come dramma (un’arte che non amava e giudicava moralmente dannosa), anche se non sviluppa l’analogia nelle sue componenti; gli stoici, ai quali sta a cuore il nucleo etico dell’idea, allargano il confronto e aggiungono che compito dell’uomo è recitare bene la parte che gli è assegnata, mentre sceglierla è compito d’altri. È noto che recitare bene significa per il filosofo stoico seguire la ragione.
Qualcosa cambia, ma non molto, nell’elaborazione dell’immagine da parte dei letterati cristiani. Fra gli antichi e gli scrittori secenteschi pochi ricordano che a far da tramite, in modo originale ed esplicito, è un autore del XII secolo, dunque un filosofo medievale che adorava le “parole e le immagini eleganti” degli antichi: Giovanni di Salisbury (1110-1180), allievo di Abelardo (1079-1142) e dei maestri di Chartres. È verosimile che i maestri del teatro barocco, dove la metafora del teatro/mondo si dispiega con maggior splendore, conoscessero il tema sviluppato da Giovanni di Salisbury non direttamente ma attraverso le “piccole enciclopedie” – scritte nel Duecento, ma dopo secoli ancora lette e diffuse nelle edizioni cinquecentine – che la ripetevano stancamente e senza fantasia. In Shakespeare e negli altri l’immagine diventa invece una folgorante idea-guida che spiega l’incanto filosofico del teatro ed espone la prospettiva etica dell’autore. Giovanni di Salisbury già segnalava che “la vita degli uomini è più simile a una tragedia che a una commedia perché tutto da dolce diviene amaro e il lutto succede alla gioia”, concludendo che l’agire umano è sottomesso alla fortuna “beffarda”, privo di significato, inconcludente, monotono e ripetitivo. Su questa scena immane dove gli eventi naturali si ripetono ciclicamente, l’uomo “dimentico di sé” recita la parte che gli è stata assegnata, “spettatore e attore insieme”.
La metafora allude a un autore ignoto – Dio, la Natura, il Caso – ossia Qualcuno o Qualcosa che è nascosto e non si identifica con chi vive o recita. Un autore che possiede il disegno generale dei destini e lo governa? Oppure una forza indecifrabile che assegna casualmente i ruoli e suggerisce agli ignari attori l’amarezza dolorosa del non senso del mondo?
Nel primo caso il mondo è leggibile e significante proprio come un libro, mentre nel secondo caso appare agli uomini, che provvisoriamente lo abitano, un deprimente e confuso quadro d’insieme.
La riflessione di Giovanni di Salisbury è intrisa di un pessimismo che è difficile definire cristiano in senso tradizionale: segnato dalla percezione amara di un’essenziale mancanza di libertà, denuncia la finzione e l’ipocrisia diffuse nel mondo. Qualcosa di terribilmente “normale” per un uomo che vive a corte (un curialis come Giovanni, attento e inorridito osservatore delle ingiustizie e dei delitti commessi ai piedi del trono del principe), e un atteggiamento che sembra congeniale anche alle corti europee del Seicento stancamente e formalmente cristiane. Gli autori del teatro barocco rappresentano a tinte fosche le vicende che si svolgono nelle sale del principe squassate da assassini, stupri, congiure, incesti, prepotenze tiranniche, usurpazioni e inganni. La metafora del mondo/teatro esalta il clima tragico, isola la solitudine e la malinconia (o forse la disperazione) dell’eroe, sottolinea paradossalmente insieme al determinismo l’insignificanza del mondo. Un aspetto, questo, che risulta lontano tanto dalla tradizione cristiana quanto dai toni eroici degli umanisti che, come Pico della Mirandola, esaltavano l’uomo e la sua libertà.
Montaigne, nei Saggi, trattando passim dell’antica metafora del teatro/mondo aveva usato le parole “maschera”, “inganno”, “apparenza”, “simulazione” per descrivere i caratteri negativi del suo tempo. “La dissimulazione è fra le più notevoli qualità di questo secolo [...]. L’inganno mantiene e alimenta la maggior parte delle professioni umane”. Se il mondo è un teatro pieno di trappole, finzioni e inganni, è necessario abbandonare la scena e cercare un rifugio il più lontano possibile dai luoghi pubblici: per Montaigne è la “torre dei libri” nella campagna del Périgord.
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Il madrigale
Inganno e triste passività segnano dunque in gran parte la diffusa presenza della metafora che nel Seicento celebra il teatro come arte massima e insieme dipinge la vita come un dramma squallido e insensato. In conclusione, prima che sia tutto silenzio, dice bene Amleto: “la vita si riduce a un ruolo che ognuno di noi deve recitare” (Hamlet, atto I scena II).