6. Giordano Bruno

di Nicoletta Tirinnanzi

6.1 Bruno e il suo mito

Il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno (nato nel 1548) fu arso vivo come eretico in Campo de’ Fiori, a Roma, dopo la lunga peregrinazione che lo aveva condotto dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alla Germania, tra polemiche e incomprensioni, ma anche profonda attenzione ed entusiasmo per il suo pensiero. Su questo sfondo, la filosofia stessa di Bruno – volta per volta martire del libero pensiero, araldo della nuova scienza, mago ermetico, restauratore degli antichi culti egizi o, addirittura, spia al servizio di Elisabetta I – è spesso divenuta parte integrante di un “mito” che rischia però di nascondere la trama variegata di una ricerca fondata sulla dottrina dell’infinito. La riflessione sull’infinito conduce infatti Bruno a elaborare un concetto di materia che dissolve gerarchie e distinzioni tradizionali e fonda un universo senza limiti, popolato da infiniti mondi e individui. Ma al tempo stesso impone di ripensare in forme nuove le caratteristiche, i limiti e le finalità della conoscenza e dell’agire umano.

6.2 L’arte combinatoria

L’interesse di Bruno per la dottrina lulliana, testimoniato dai diversi trattati composti sull’arte combinatoria, confluisce negli anni Ottanta del Cinquecento entro una prospettiva più ampia, centrata sulla relazione tra sostanza e accidenti, tra “Dio” e “mondo”, che Bruno si propone di indagare attraverso l’uso del sistema combinatorio di Lullo applicato ai concetti della propria filosofia. Su questo nesso – e sulla sua precarietà – si interrogano, ancora nel 1582, il Cantus Circaeus e il Candelaio: il primo testo celebra gli incantesimi con cui la maga Circe, che diviene in Bruno figura benefica, caccia le belve celate sotto sembianze umane; il Candelaio, da parte sua, narra di una umanità dimentica della fragile distinzione tra bene e male e governata dai capricci mutevoli della “fortuna traditora”. Nel gioco dei simboli e delle vicende narrate, appare limpida la convinzione di Bruno che l’arte umana introduca un principio di ragione nel flusso delle vicende naturali, orientando la storia verso esiti nuovi e imprevedibili e ponendo un argine alla decadenza che il tempo costantemente introduce.

Ordine della natura e ordine del sapere

Nel Sigillus sigillorum (1583), Bruno dispone materiali composti in tempi diversi in un contesto teorico ispirato alla dottrina neoplatonica della mente universale. Delinea dunque, attingendo a piene mani ai testi di Marsilio Ficino, l’ordinata simmetria del cosmo e della conoscenza, e segue il duplice movimento di “ascenso” e “descenso”, cioè di ascesa e discesa, che dall’unità del principio procede a forme di vita e di conoscenza sempre più complesse: ma tutta l’esposizione è al servizio di un ragionamento che dal mondo esplicato si protende a scrutare il principio che ne è fonte e sostegno. Bruno spoglia di ogni consistenza le distinzioni tradizionali tra superiore e inferiore, vivente e inanimato, riducendole a “nomi” e “definizioni” di una potenza unica e medesima in sé, ma che opera in modo diverso secondo le differenti realtà composte in cui si esplica.

6.3 La Cena de le Ceneri

Questi temi verranno sviluppati in un’altra opera, la Cena de le Ceneri (1584), nella quale Bruno si ispira alle scoperte geografiche e alle ricerche di Copernico. La difesa appassionata dell’eliocentrismo rimanda all’esperienza vissuta da Bruno a Oxford, dove era stato bruscamente rimosso dall’insegnamento con l’accusa di plagio dopo aver tenuto alcune lezioni di argomento copernicano. Nella seconda metà del Cinquecento, infatti, l’università inglese si distingue per un’intransigente puritanesimo e per la difesa di un’interpretazione letterale delle Sacre Scritture. Il ricordo dell’intolleranza manifestata dalle autorità accademiche e religiose è chiaro nelle pagine in cui il filosofo ribadisce l’autonomia della ricerca razionale, e definisce ambiti e linguaggi di scienza e religione per dimostrare quanto sia errato confondere “verità” e “leggi”, utilizzando i testi sacri per confermare o respingere teorie fisiche.

LETTURE

Ficino e l'ermetismo umanistico

ESERCIZIO

E7: Giordano Bruno

Ma la coscienza dello straordinario valore filosofico insito nella visione di Copernico ha radici più antiche e teoricamente più profonde: secondo Giordano Bruno, la dottrina del moto terrestre annienta infatti l’astratta distinzione tracciata da Aristotele per separare la sostanza incorruttibile dei cieli dalla materia caotica dei corpi terrestri; questo conferma inoltre le tesi di Bruno rivelando come Sole, Terra, e corpi celesti siano parti diverse di un’unica, vivente e incorruttibile “materia e sustanza delle cose”. Moto, trasformazione e metamorfosi non testimoniano dunque di una natura imperfetta, ma scandiscono il processo continuo per cui la materia diviene tutto. Le critiche al geocentrismo aristotelico-tolemaico non hanno come obiettivo la semplice sostituzione della centralità della Terra con la centralità del Sole: è il concetto stesso di un centro e di un ordine gerarchico del cosmo che Bruno rifiuta, in nome di un universo infinito per estensione, per l’infinità di mondi e di enti che lo caratterizza e per l’eterna e continua attività creatrice con cui la causa prima lo anima.

De la causa

A partire da questa nuova visione di un universo aperto e infinito, Bruno intende ripensare il concetto di materia: da ricettacolo inerte delle forme, la materia viene intesa da Bruno come principio di vita da cui nascono infiniti individui e mondi, ognuno percorso dallo stesso spirito vitale che anima il cosmo intero. A questo obiettivo si indirizza un’altra opera, il De la causa (1584). In essa Bruno si interroga sul concetto di potenza, e argomenta – contro Aristotele – il primato ontologico della potenza sull’atto. Portando a esiti estremi alcune posizioni teoriche di Cusano, Bruno pone la materia nell’essenza stessa di Dio per far corrispondere la pienezza dell’atto primo all’assoluta potenza materiale. La materia si rivela così il nodo di una comunicazione che nel continuo prodursi della vita mette in rapporto la varietà vivente del mondo e l’inattingibile infinità divina, il molteplice e l’uno. Da questa persuasione discende, del resto, la concezione dell’universo infinito e dei mondi innumerabili di cui Bruno ragiona nel De l’infinito, universo et mondi (1584): l’universo di Bruno ha in sé, “complicata” (complicazione ed esplicazione sono termini del lessico di Cusano), la serie infinita degli enti (mondi, uomini, cose) che si “esplica” poi nel tempo.

ESERCIZIO

E8: Giordano Bruno

TESTO

T3: Giordano Bruno, La materia cosmica

6.4 Leggi e verità: lo Spaccio della bestia trionfante e gli Eroici furori

Testo di ispirazione dichiaratamente “politica”, anche lo Spaccio della bestia trionfante (1584) è un’opera organicamente congiunta a una riflessione sulla materia che porta Bruno a ripensare in forme diverse sia la natura sia il fine della società. Il riconoscimento della crisi che travaglia l’Europa conduce a un discorso che inserisce la vita degli stati nel ritmo eterno della verità, per elaborare una riforma politica e religiosa filosoficamente fondata e capace di porsi come alternativa plausibile alla violenza delle guerre di religione. Scrutando nel movimento che conduce il finito attraverso l’infinito, Bruno valorizza l’opera della legge, che superando l’uniforme uguaglianza della natura esalta i meriti individuali, e li impone, se necessario, oltre le barriere consolidate di titoli, sangue e ricchezza. Facendo riflettere nel mondo umano l’assoluta sapienza divina, la legge ordina infatti l’energia riformatrice degli uomini e li trasforma, nell’esperienza della vita associata e attraverso l’esercizio della sapienza e della virtù, in veri “dei della terra”. Nell’universo di Bruno, la grandezza e la dignità umane non sono un destino segnato, ma il frutto imprevedibile dell’intelletto e delle mani, e si manifestano nel libero dispiegarsi della potenza che consente all’uomo “non solo di poter operare secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuor de le leggi di quella: […] formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini” (Giordano Bruno, Spaccio de le bestia trionfante). Bruno rileva dunque come leggi e religioni sappiano incanalare le potenzialità indistinte dell’uomo per renderlo creatore di ordini e civiltà. Agli esempi virtuosi dell’Egitto e di Roma, in cui il culto reso agli dei alimentava le virtù civili e la conoscenza della natura, egli contrappone così, recuperando la riflessione machiavelliana, la sterile predicazione cristiana, che innalza a valori supremi l’umiltà, l’ignoranza e la passiva obbedienza.

Bruno e la religione

TESTO

T4: Giordano Bruno, La mano e l’intelletto

La Riforma appare a Bruno l’esito coerente e inevitabile di questo atteggiamento: imponendo l’immagine aberrante di una divinità cieca alle buone opere dell’uomo, Lutero – l’“angelo malvagio” di cui già avevano parlato le antiche profezie ermetiche – spezza infatti, una volta per tutte, il legame tra legge umana e verità, e spoglia la religione della sua funzione civile per farne una fonte di discordia. Attraverso un’analisi che progressivamente si estende a smascherare il principio di decadenza racchiuso in tutta la tradizione ebraico-cristiana, Bruno sottopone dunque a critica radicale il dogma stesso dell’Incarnazione, in cui il rapporto vitale tra finito e infinito si compie non nell’eterno proliferare della vita, ma nella vicenda, unica e irripetibile, del Cristo. La dura polemica non esaurisce però il ragionamento sulla religione: le battute finali dello Spaccio si appropriano infatti del discorso evangelico della montagna per suggerire una riforma politica e religiosa che nell’esaltazione della carità e della pace individua un seppur provvisorio punto di equilibrio tra religione, filosofia e vita civile.

La celebrazione del vincolo che la politica intesse tra uomini e dèi lascia però drammaticamente in sospeso la questione del rapporto tra individuo e verità: se sia cioè possibile all’uomo istituire un rapporto diretto e immediato con la verità. Con questo tema – già toccato nel De umbris idearum –, Bruno si cimenta nei dialoghi Degli eroici furori (1585), narrando l’esperienza estrema che conduce l’uomo ad affrontare gli ostacoli che si oppongono al raggiungimento della verità. Un tentativo che è destinato a infrangersi contro il circolo ferreo della “vicissitudine”, termine che Bruno impiega per definire la legge generale e fondamentale della natura, ossia il movimento e il mutamento incessante che coinvolge e trasforma tutti gli enti finiti, da cui anche l’uomo, in questa vita, non può in alcun modo uscire. I furori che danno il titolo all’opera di Bruno non sono tuttavia quelli bestiali, che costituiscono un abbandono agli impulsi irrazionali e degradano la natura stessa dell’uomo; e neppure quelli “divini”, che elevano gli uomini in virtù di un Dio che li abita. I furori bruniani sono quelli “eroici” di chi, educato e allenato all’amore per il vero, è capace, con un impeto di ragione e volontà insieme, di giungere alla verità e di cogliere l’Uno che tiene insieme l’infinita molteplicità dell’universo.

6.5 Antichi saperi, nuove immagini del mondo

Dalla concezione dell’universo a quella della natura, dalla condizione dell’uomo nel cosmo e nella storia, l’esperienza dei dialoghi filosofici avvia una problematica del tutto nuova, che Bruno svilupperà sul piano sia ontologico sia gnoseologico. Egli riprende così Aristotele, affrontandolo sia in toni fortemente polemici (come nell’Acrotismus Camoeracensis del 1588), sia in forme più pacate nei commentari e nelle grandi sintesi enciclopediche della Lampas triginta statuarum e della Summa terminorum metaphysicorum del 1591. Bruno discute i caratteri di un sapere che, senza risolversi in mera esperienza del particolare né cristallizzarsi in formule vuote, riesca a distinguere ed esaltare – sullo sfondo unico della materia universale – la peculiarità irriducibile delle sostanze composte. Su questo nucleo di problemi si apre del resto il confronto con l’arte magica.

La metafisica dell'ombra

Nel De umbris idearum (1582), Giordano Bruno si presenta al pubblico nelle vesti del buon Mercurio, messaggero degli dei, che annuncia il ritorno dell’antico sapere. Questa potente immagine era certo pensata per colpire lettori ormai sensibili alle figure che la mediazione culturale di Marsilio Ficino aveva reso di gran moda. Ma la vivida descrizione del sapiente in lotta con le potenze distruttrici del tempo e della barbarie intendeva ugualmente dar risalto al concetto su cui tornavano a concentrarsi le opere composte in quell’anno, che da punti di vista diversi si interrogavano sul rapporto tra “finito” e “infinito”.

Nel De umbris idearum il tema si definisce quasi di scorcio, nel vivo della polemica con gli interlocutori di formazione aristotelica. Bruno, attraverso le immagini che avevano forgiato il lessico dell’esperienza mistica, dà vita a un discorso in cui il richiamo vigoroso al nesso tra “essere” e “operare” dissolve ogni possibilità di istituire un rapporto immediato con un “primo vero” e un “primo bene”. Segnato da un limite radicale, l’uomo appartiene infatti all’“ombra”, all’orizzonte finito in cui si urtano i contrari, e si accosta alla verità solo attraverso le forme mutevoli che hanno origine dalla natura e si moltiplicano nella mente, plasmate e ricomposte dalla fantasia. “Immagini”, “figure” e “simulacri” – i “mostri”, insomma, di cui si facevano beffe i critici aristotelici – non rappresentano, semplicemente, utili espedienti per addestrare la memoria: sono invece, come Bruno ribadirà anni dopo nel De imaginum compositione (1591), cifra dell’unico rapporto possibile tra finito e infinito.

A Bruno non interessa però segnalare il carattere approssimativo della conoscenza umana. Gli preme, piuttosto, sottolineare come nell’uomo i contrari – bene e male, vero e falso, luce e tenebra – si confrontino senza tregua, limitandosi l’un l’altro in un intreccio vivo e mutevole. A somiglianza delle ombre fisiche, l’“umbra profunda”, di cui è fatto e in cui opera l’uomo, è infatti segno ed effetto di una sorgente luminosa talora celata, ma ben presente allo sguardo di chi penetra nel gioco delle ombre proiettate, per procedere dal caos apparente delle tenebre alla luce cui esse sono congiunte. La ricerca di Bruno tende così a definire i caratteri della sostanza universale che, al pari dell’ombra, manifesta la pienezza del principio di tutte le cose.

I poemi di Francoforte

Affrontando le posizioni di Ficino e Agrippa che avevano imposto a tale materia una struttura teorica ragionata e coerente, Bruno prende però le distanze dalle dottrine neoplatonizzanti. Egli approfondisce piuttosto l’agire avveduto che consente – al mago come al politico – di scardinare visioni consolidate e di alimentare quel consenso da cui discende, al fondo, ogni effetto di magia. Sul filo di tale riflessione, i poemi pubblicati a Francoforte (De triplici minimo et mensura, il De monade, numero et figura, il De innumerabilibus, immenso et infigurabili) insistono sulla dottrina dei corpuscoli. A fondamento della vita naturale viene posto un triplice minimo, cioè una “realtà originaria”, un “principio di vita”, indivisibile e impenetrabile, articolato in “metafisico” (la monade), “fisico” (l’atomo) e “geometrico” (il punto). Viene così smascherato, per Bruno, l’errore di una matematica in cui il principio della divisibilità all’infinito cancella l’intrinseca individualità delle cose nell’astrazione di un calcolo formale.

Contro simili posizioni, il motto eracliteo (pánta rei, “tutto scorre”) che Bruno rievoca, ricorda invece come l’infinita mutabilità della natura escluda, a qualsiasi livello, l’identità: mai due individui uguali, mai due esperienze speculari, mai due volte sarà dato di “tracciare la medesima circonferenza”. Congiungendo in uguaglianza fittizia tutto ciò che è vario e dissimile, i matematici separano mente e mondo. Nel De immenso, Bruno fa leva sul numero per manifestare la pluralità di relazioni tra i vari livelli dell’essere: l’ontologia della vita-materia infinita serve ad argomentare l’infinità dell’universo, colpendo con vigore non solo Aristotele e la metafisica ficiniana, ma quelle stesse interpretazioni del copernicanesimo che non ne colgono il valore profondo e innovatore.