René Descartes (1596-1650), in italiano Cartesio, è forse il pensatore più importante dell’età moderna ed è certamente colui che determina, con la sua riflessione filosofica e scientifica, il percorso stesso della modernità. Un percorso che egli inizia a delineare fin dalla sua prima opera filosofica, le Regulae ad directionem ingenii (opera incompiuta redatta probabilmente tra il 1626 e il 1629). Nelle Regulae sono presenti, fin da subito, alcuni dei caratteri fondamentali del pensiero cartesiano:
LETTURE
L’ascesa della “via delle idee”
(1) l’importanza della questione del “metodo” della scienza;
(2) la necessità di una rifondazione del sapere basata su una ricerca delle possibilità conoscitive della mente umana;
(3) la consapevolezza che la matematica costituisce il modello del sapere vero, a cui le altre scienze devono prima o poi avvicinarsi.
Questi temi si intrecciano con una polemica contro il sapere scolastico, tipica di tutti i protagonisti della rivoluzione scientifica seicentesca, da Bacone e Galileo in poi.
Nella pagina iniziale delle Regulae, Cartesio compie una mossa che condizionerà tutta la filosofia seguente, almeno fino a Kant: ambito primario della scienza non sono i particolari “oggetti” della natura – considerati nella loro pressoché infinita particolarità e studiati dalle singole discipline (fisica, geologia, zoologia, botanica ecc.) – ma la mente umana stessa, che è il “soggetto” di tutte le conoscenze. L’unità della scienza, quindi, non è data a posteriori, dalla somma delle conoscenze acquisite, ma, a priori, dal fatto che tutte le conoscenze particolari sono opera di un’unica mente che a tutte applica le proprie abilità conoscitive. Di qui la possibilità di un metodo unico, valido per tutte le scienze e suscettibile di determinare il criterio di verità di ciascuna, stabilendo quali siano le caratteristiche del vero e del falso, a cui ogni scienza si deve adeguare.
TESTO
T4: René Descartes, La ragione umana
ESERCIZIO
E9: René Descartes
Cartesio ritiene che la matematica sia il modello di ogni conoscenza vera. La matematica, infatti, studia oggetti che si presentano alla mente umana con totale chiarezza e immediata verità. Le proposizioni matematiche, come i teoremi di geometria o le operazioni algebriche, sono immediatamente vere per chi concentri la sua attenzione su di esse. Ciò dimostra, secondo Cartesio, che la mente umana possiede in sé dei “semi di verità” innati, che applica poi agli oggetti della sua conoscenza. Queste nozioni innate, presenti nella mente umana, vengono definite da Cartesio “nature semplici”, intendendo con il termine quelle forme di pensiero valide a priori che non dipendono dall’osservazione degli oggetti esterni ma, al contrario, sono le condizioni in base alle quali la mente umana può concepire degli oggetti fuori di sé.
Se la matematica è il modello della conoscenza vera, essa non esaurisce tuttavia il campo della scienza. La mossa seguente di Cartesio è quella di estendere la chiarezza ed evidenza immediata della matematica anche a tutte le altre scienze. Distingue, oltre alle nature semplici “materiali”, ovvero quelle che si applicano ai corpi e che sono di fatto delle forme matematiche (le nozioni di spazio, di estensione, di figura), anche delle nature semplici “intellettuali”, ovvero quelle che si applicano alla conoscenza che la mente ha dei propri stati cognitivi (la nozione di “volontà”, di “dubbio”, di “certezza”). In altre parole, l’evidenza matematica, che attesta immediatamente la verità delle conoscenze a cui si riferisce, si ritrova anche nella conoscenza che la mente ha di sé: per Cartesio, la mente è trasparente a se stessa e possiede, grazie alle nature semplici, gli strumenti necessari per comprendere la realtà, riducendo i fenomeni materiali a oggetti matematici e i fenomeni mentali a percezioni immediate dotate di evidenza indubitabile.
René Descartes nasce nel marzo del 1596 a La Haye, nella Touraine, da una famiglia di piccola nobiltà. Nel 1605-1606 entra nel collegio gesuita di La Flèche, di recente fondazione ma già una delle scuole più prestigiose di Francia. Vi rimane fino al 1614-1615, seguendo un corso che prevedeva quattro anni di studi grammaticali e due di retorica, a cui faceva seguito un triennio dedicato alle discipline scientifiche e filosofiche (logica, matematica, fisica, morale e metafisica). Cartesio ricorderà spesso questo periodo con affetto e nostalgia, ma ciononostante resterà fermo, in pagine celebri del Discorso sul metodo, il suo rifiuto dei metodi d’insegnamento e della filosofia aristotelica impartita nel collegio.
Terminato il corso a La Flèche, Cartesio studia legge all’università di Poitiers, dove ottiene nel 1616 baccellierato e licenza in diritto canonico e civile. Si reca a Breda, in Olanda, dove si arruola nell’esercito del principe tedesco Maurizio di Nassau, impegnato nella guerra dei Trent’anni. È di quegli anni (1618) un incontro fondamentale per la sua vita intellettuale: stringe infatti amicizia con il celebre scienziato olandese Isaac Beeckman (1588-1637) e indirizza i suoi interessi verso le ricerche di fisica, logica e matematica.
Abbandonata l’Olanda e l’esercito di Maurizio di Nassau, si arruola nelle truppe del duca di Baviera. A Ulm, nella notte tra il 10 e l’11 novembre 1619, Cartesio ha un’esperienza decisiva: una serie di tre sogni che giungono dopo giorni di intensa meditazione e che gli svelano “i fondamenti di una scienza meravigliosa”, cioè quel metodo universale sul quale avrebbe potuto fondarsi il nuovo edificio del sapere. Un progetto che probabilmente risente anche dell’incontro con il matematico Johann Faulhaber (1580-1635), che gli parla della pretesa setta esoterica dei Rosacroce.
Dal 1620, abbandonata la vita militare, Cartesio si dedica intensamente agli studi scientifici e filosofici. A questi anni risalgono alcune amicizie importanti, come quella con il cardinale Pierre de Bérulle (1575-1629), fondatore della Congregazione dell’Oratorio, e soprattutto con padre Marin Mersenne (1588-1648), che sarà il tramite fra Cartesio e la comunità scientifica negli anni in cui il filosofo si ritirerà nelle Province Unite (Olanda). Tra il 1625 e il 1627 Cartesio risiede a Parigi, dove ha modo di frequentare il cenacolo di intellettuali e scienziati (la cosiddetta Academia parisiensis) che si raccoglie attorno a padre Mersenne. Sono anni di studi sull’ottica e sulla matematica, e che producono le Regulae (1626-1629 ca.; pubblicate postume nel 1684). Dal 1629 Cartesio si stabilisce nelle Province Unite: risiede prima a Franeker, e poi si muove tra Amsterdam, Deventer, Utrecht, Leida e altri piccoli centri olandesi. Tra il 1630 e il 1633 scrive Il mondo, ma la condanna del Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galilei lo induce ad abbandonare l’opera, che sarà pubblicata solo postuma (i capitoli dedicati allo studio del corpo umano, staccati dal resto, usciranno nel 1664 con il titolo L’uomo).
Nel 1637 esce, in francese, il Discorso sul metodo: un breve scritto destinato a una grande fortuna e nel quale il filosofo, attraverso il racconto autobiografico, delinea le tappe di un metodo volto alla rifondazione e al progresso delle scienze. Seguono il Discorso, come “saggi di questo metodo”, tre testi di carattere scientifico: la Diottrica, le Meteore e la Geometria.
Negli anni seguenti Cartesio lavora all’opera che doveva rappresentare l’esposizione ufficiale della propria filosofia al pubblico dei dotti: nel 1641 escono infatti le Meditationes de prima philosophia (o Meditationes metaphisicae). L’opera contiene anche le Obiezioni di teologi e scienziati alle teorie cartesiane e le Risposte di Cartesio. La diffusione delle sue opere in Olanda e in Francia espone il filosofo francese a critiche e attacchi da parte degli ambienti accademici e religiosi; le polemiche coinvolgono soprattutto l’università di Utrecht, dove l’insegnamento della nova philosophia viene vietato, e quelle di Groninga e Leida. Nel pieno della polemica Cartesio pubblica i Principia philosophiae (1644), che trattano di filosofia e di fisica, biologia e fisiologia. Nel frattempo, grazie anche al ruolo di intermediario svolto da padre Mersenne, intrattiene rapporti epistolari con i più importanti dotti del tempo (da Huygens a Gassendi, da Pascal ad Arnauld e Hobbes) e con personaggi di rilievo come Elisabetta di Boemia, figlia dell’Elettore palatino Federico V. È a lei che Cartesio invia nel 1646 la prima redazione di quello che diventerà il trattato sulle Passioni dell’anima, pubblicato poi nel novembre 1649.
Invitato alla corte di Svezia dalla regina Cristina (protettrice di artisti, scrittori e scienziati), Cartesio si imbarca nel settembre 1649 per Stoccolma. I versi per il balletto La nascita della pace (di Westfalia), una composizione per il compleanno della regina e la redazione dello Statuto per la fondazione di un’Accademia svedese delle Scienze costituiscono i suoi ultimi lavori. Ammalatosi ai primi di febbraio, il filosofo francese muore a Stoccolma, probabilmente per una congestione polmonare, pochi giorni dopo (11 febbraio 1650).
Anche Il mondo (un’opera in cui Cartesio elabora delle ipotesi sulla struttura corpuscolare del mondo fisico) resta incompiuto, e anzi Cartesio lo nasconde agli occhi di tutti, rinunciando a proseguire nella direzione intrapresa. Nel 1632, infatti, Galileo viene condannato a Roma, e il sistema copernicano proscritto e dichiarato eretico. Cartesio comprende che le sue dottrine sono troppo avanzate e che è necessario promuoverle con prudenza, in modo da introdurre il nuovo ma senza traumatizzare troppo l’opinione pubblica. Da questa situazione nasce il progetto del Discorso sul metodo: un breve scritto destinato a un successo clamoroso e durevole in cui Cartesio racconta la sua esperienza personale presentandola come modello per tutti coloro che sono interessati all’avanzamento della scienza ma anche, più in generale, al progresso del genere umano.
Il Discorso sul metodo si divide in sei parti, che trattano argomenti molto diversi: il filo conduttore è dato proprio dall’itinerario autobiografico che fa da sfondo alla narrazione, sovrapponendosi talvolta ad essa. La prima parte narra della giovanile ribellione di Cartesio al sapere scolastico: un sapere da lui giudicato vuoto, ripiegato su se stesso e privo di una reale ricaduta sulla vita degli uomini. Dal collegio gesuitico di La Flèche, dove passa parte dell’infanzia e della prima adolescenza, Cartesio esce privo di quelle solide basi che lui ritiene siano necessarie per compiere progressi nel campo delle conoscenze. La svolta, della vita di Cartesio ma anche della filosofia moderna, nasce dall’esigenza di rimettere in discussione tutto il sapere precedente, e di cercare un fondamento solido e indefettibile per la scienza umana. Per arrivarci, Cartesio ha bisogno di un “metodo”, cioè di alcune linee direttive capaci di condurlo alla verità, vincendo i dubbi e le incertezze di cui lo aveva riempito l’educazione tradizionale. Il metodo non è quindi la conclusione dell’itinerario di Cartesio, ma piuttosto la mappa di cui egli si serve per non perdere la strada della verità.
In questo senso vanno intese le quattro famose “regole” che Cartesio enuncia nella seconda parte del Discorso sul metodo:
ESERCIZIO
E10: René Descartes
TESTO
T5: René Descartes, Le regole del metodo
- la prima, “regola dell’evidenza”, prescrive di accettare soltanto conoscenze “evidenti”: tali, cioè, che su di esse non si possa avere il minimo dubbio;
- la seconda, “regola della divisione” o “scomposizione”, impone di scomporre i problemi complessi in parti semplici, da risolvere separatamente;
- la terza, “regola dell’ordine”, indica la necessità di mantenere un ordine interno al processo conoscitivo, partendo da ciò che è più semplice e chiaro e innalzandosi via via a nozioni più complesse;
- la quarta, “regola dell’enumerazione”, suggerisce di riconsiderare alla fine tutte le questioni affrontate abbracciandole con un unico sguardo, senza tralasciarne alcuna.
Cartesio si rende subito conto che il suo metodo rischia di avere delle conseguenze radicali: se si devono accettare soltanto conoscenze indubitabili si potrebbe giungere a rimettere in discussione non soltanto la scienza aristotelica ma l’intero ordine costituito, i rapporti di potere tra gli uomini, le stesse credenze religiose. La sua mossa seguente consiste in una puntuale precisazione destinata a tranquillizzare i lettori nonché a permettergli di proseguire indisturbato le sue ricerche scientifiche senza far la fine di Giordano Bruno o di Galileo. Nella terza parte del Discorso sul metodo, Cartesio enuncia quindi quella che egli chiama una “morale provvisoria”, che ha appunto lo scopo di evitare conseguenze indesiderate delle regole del metodo appena esposte. Con la morale provvisoria, Cartesio sottrae di fatto la religione e la politica dall’ambito di applicazione del metodo, ritagliando quindi uno spazio in cui continua a vigere il primato della tradizione e dell’uniformità culturale. Occorre dunque rispettare le leggi e le consuetudini del proprio Paese, senza rimetterle in discussione, e accettare la religione del luogo in cui siamo nati, senza creare nessun conflitto. Parimenti, in caso di scelte morali impellenti, occorre optare per la soluzione più probabile, senza radicalizzare eventuali contrapposizioni. Condisce infine il tutto con un apparato di autoconsolazione stoica: l’uomo non è padrone degli eventi e il modo migliore per affrontarli è quello di esser consapevoli della propria impotenza.
ESERCIZIO
E12: René Descartes
A questo atteggiamento apparentemente rinunciatario corrisponde nell’ambito scientifico e filosofico una vocazione rivoluzionaria che il Discorso sul metodo rie-sce ad attenuare solo parzialmente. Nelle ultime tre parti dell’opera il progetto di radicale riforma del sapere si fa più evidente. Si tratta di una riforma che esula dalle accademie e dalle università, per investire la comunità umana nel suo complesso. Cartesio riprende e amplifica l’ideale baconiano del dominio sulla natura, e intende la scienza come il motore stesso del progresso umano. Inoltre, su questa idea, Cartesio innesta la sua concezione “matematizzante” della natura: dall’origine dell’universo fino a quella dell’individuo umano nel grembo materno, tutto è spiegabile in termini matematici e tutto può essere indagato dalla scienza. Se l’universo e il corpo dell’uomo sono macchine matematiche, l’uomo stesso è in grado di comprenderli ma anche, in prospettiva, di farli funzionare meglio. La scienza, infatti, non ha per Cartesio una funzione contemplativa ma eminentemente pratica: deve servire al benessere degli uomini, alleviando le loro fatiche e curando le loro debolezze, migliorando la loro vita e prolungandola ben al di là di quanto sia dato comunemente di sperare.
LETTURE
Francis Bacon
TESTO
T6: René Descartes, Il meccanicismo
Dal primo argomento di un’opera da redigere – “l’histoire de [mon] esprit” sarà definito – fino a quello di un dialogo da terminare – La recherche de la vérité par la lumière naturelle –, i titoli stessi degli scritti di Descartes enunciano la sua filosofia come la storia personale di uno spirito alla ricerca della verità e come la trama di un progetto unitario e costante di ricerca e di scoperta.
Una biografia significativa, quella di Descartes, per la storia della filosofia, sospesa com’è tra le vicende della formazione intellettuale e un vissuto che diventa l’esperienza teoretica di un filosofo. Descartes è un uomo del suo tempo, cosmopolita per temperamento e per filosofia; ha scelto la libertà da ogni legame come condizione di vita e “la ricerca della verità” come impegno del pensiero, coltivando il progetto ambizioso di una riforma radicale della filosofia. L’ha portato avanti con la pazienza di una condotta sempre discreta, ma anche con la fermezza di una volontà indefettibile, tra successi e delusioni, entusiasmi e critiche, amicizie e ostilità, talora mascherato (Larvatus prodeo, “procedo mascherato” secondo la sua celebre formula di giovinezza), talora nascosto ai più (Bene vixit, bene qui latuit, “ha vissuto bene chi si è nascosto bene” secondo il motto di Ovidio), ma nella familiarità e confidenza con tanti amici, talora in guerra aperta ma più spesso sereno e contento, perseguendo l’ideale di un buon uso della ragione e di un retto esercizio del libero arbitrio: condizioni della stima legittima di sé, ma anche di quella degli altri e dell’apprezzamento adeguato del valore delle cose. Un modello lontano da quello contemporaneo dell’honnête homme.
La sua vita “dolce e innocente” è tutta in queste decisioni pratiche che sono anche scelte teoriche: dall’educazione umanistica presso i gesuiti, agli anni di formazione “nel gran libro del mondo”, spettatore della commedia umana ma già impegnato nella ricerca di un chiaro orientamento nelle proprie azioni; all’incontro decisivo a Breda (1618) con Isaac Beeckman, quando, arruolato nell’esercito di Maurizio di Nassau, scopre il piacere e le risorse di una scienza fisico-meccanica della natura e intravede il profondo legame tra tutte le conoscenze; all’esperienza entusiasmante della rivelazione onirica “dei fondamenti di una scienza mirabile” che, una notte d’autunno, trasforma il giovane uomo di spada nel filosofo dell’ordine razionale e lo consacra alla ricerca della verità. “Allora”, scrive Descartes, “presi la risoluzione di studiare in me stesso, e di impiegare tutte le forze del mio spirito a scegliere le strade che dovevo seguire”.
Era il 10 novembre 1619, data epocale nella vita di Descartes. “La ricerca della verità” diventa missione che, nella teoria, prende la forma concreta di una revisione generale e radicale del sapere e che, nella biografia, si configura sempre più nettamente come impegno continuo dell’uomo a trovarne e a consolidarne le condizioni nella libertà, nell’anonimato, nella tranquillità e nella solitudine di una “vita ritirata”: le condizioni, cioè, della libertà nella sua radicale originalità e dell’esercizio pacato della virtù nella sua totale autonomia.
Così, si può scrivere il percorso intellettuale di Descartes come il racconto dell’esistenza di un uomo alla ricerca di un asilo tranquillo e di una dimora tutta sua in cui consacrarsi e concentrarsi sull’esecuzione del progetto ambizioso della rifondazione di tutto il sapere tra lo studio, la meditazione e la scrittura, ma anche le visite e la conversazione con gli amici, l’espansione dell’esperienza e “la soddisfazione dei sensi”. La vita di Descartes si era aperta in Germania, nella fredda solitudine di “una stanza ben riscaldata”, si prolunga nelle fasi diverse di “una vita ritirata e solitaria” (1629-1649) nelle città vive e animate dell’Olanda del Secolo d’oro come nei suoi “deserti” più tranquilli che si offrono spontaneamente al gusto e alla teoria di “una libertà totale”, e si chiude in Svezia (1649-1650), nella solitudine glaciale del palazzo della regina Cristina, allorché l’esercizio costante di una libertà esemplare si piega ai doveri del magistero della filosofia e i piaceri della “vita ritirata” cedono agli obblighi della corte. Il genio di Descartes è finalmente riconosciuto. “Ma io non sono qui nel mio elemento – confessa – e non desidero che la tranquillità e il riposo”.
Descartes muore all’alba dell’11 febbraio. Secondo il suo biografo Adrien Baillet (1649-1706), il filosofo si spegne “senza turbamento e senza inquietudine”, manifestando ormai solo con lo sguardo che moriva “contento della vita e degli uomini e confidente nella bontà di Dio”.
Ma Cartesio non si accontenta di accogliere nel suo pensiero i risultati più importanti della scienza del suo tempo (il copernicanesimo, la scoperta della circolazione corporea, il meccanicismo, l’applicazione della matematica alla fisica): il suo programma è ancora più ambizioso, e consiste in un radicale ripensamento del rapporto tra scienza e filosofia. Compito principale della filosofia è per Cartesio non tanto quello di spiegare il mondo, quanto di fondare nei suoi principi la conoscenza umana, e quindi la scienza in generale. Già presente – come si è visto – nelle Regulae, questo programma viene ripreso in forma ancora più approfondita e sistematica nelle Meditationes de prima philosophia, meglio note come Meditationes metaphysicae, uscite nel 1641. Scritte in latino, le Meditationes metaphysicae sono l’opera più importante del Cartesio filosofo, e costituiscono una pietra miliare della filosofia moderna.
La metafisica, fino ad allora, era intesa come la scienza delle sostanze spirituali (Dio, l’anima) e in quanto tale seguiva alla fisica (la scienza delle sostanze naturali, composte di materia e forma). Nell’ordine aristotelico della scienza, infatti, si parte della conoscenza del mondo e ci si eleva poi alle sostanze di più alto ordine gerarchico, che costituiscono il culmine del sapere umano. La scelta cartesiana di rovesciare l’ordine delle scienze imperante nelle università del suo tempo si fonda, da una parte, sulla convinzione già espressa nelle Regulae che lo studio della mente umana sia prioritario a ogni altra conoscenza e, dall’altra, sull’idea che una scienza della natura priva di un fondamento inoppugnabile sia come un castello costruito sulla sabbia, che rischia di crollare a ogni momento. Da questo punto di vista, cambia il senso e la funzione della “metafisica”: non più scienza delle cose spirituali, ma luogo in cui si pone la questione del fondamento della scienza, di ogni scienza, compreso il problema della conoscenza di Dio (che, pure, in questa metafisica svolgerà un ruolo importante). Questa accezione particolare del termine metafisica inizia a diffondersi nella filosofia moderna proprio con Cartesio per giungere poi fino a Kant.
L’universo cartesiano è pieno di materia: ogni moto di un corpo comporta necessariamente una ridisposizione degli altri corpi, con la conseguenza che ogni movimento iniziale dà luogo a un moto circolare continuo. Per Descartes, il cosmo consiste di un illimitato sistema di vortici, ognuno dei quali ha una stella (come il Sole) al suo centro, circondata da un sistema di pianeti, che si muovono nei loro rispettivi vortici.
Il filosofo francese elabora una teoria della formazione e struttura dell’universo sulla base dei concetti di materia, movimento e delle leggi di natura. L’intervento divino si limita alla creazione della materia e all’attribuzione a essa di una certa quantità di moto. All’inizio, Dio (che è anche all’origine delle leggi di natura) ha diviso tutta la materia in parti di eguali dimensioni e ha attribuito a esse moti circolari. Per effetto del moto, si sono formati tre tipi di materia, che si differenziano solo per la forma geometrica, le dimensioni e i moti. Il primo tipo è costituito di particelle minutissime, formate dalle altre parti di materia man mano che andavano assumendo la forma sferica. Le particelle del primo elemento hanno moti velocissimi e, poiché non hanno forma e grandezza determinata, occupano gli interstizi presenti tra le altre parti di materia. Da queste particelle più piccole si sono formati il Sole e le stelle. Come conseguenza dello sfregamento delle parti di materia le une contro le altre, si sono via via formate particelle sferiche. Le particelle del secondo elemento, che hanno forma sferica e moto circolare, formano i cieli e rendono conto di numerosi fenomeni nell’universo cartesiano: i moti planetari, la gravità e la trasmissione della luce. La materia celeste, infine, forma vortici di densità e velocità variabile intorno al Sole e alle stelle, nei quali sono trascinati i pianeti.
Descartes, che accetta il sistema copernicano, risolve il contrasto tra la teoria eliocentrica e la condanna della Chiesa facendo appello al carattere relativo del moto: la Terra, come gli altri pianeti, è trascinata dal proprio vortice di materia celeste, ma rispetto alle parti circostanti essa è in quiete. Le particelle del secondo tipo di materia hanno ovunque la stessa forza centrifuga che si manifesta come pressione su quelle situate in basso. La gravità è spiegata da Descartes non come proprietà dei corpi, ma come effetto dell’urto di particelle del secondo elemento, che ruotano turbinosamente intorno alla Terra. La loro tendenza centrifuga fa sì che esse spingano verso il centro della Terra i corpi formati dalle particelle più grosse. Le particelle che formano il terzo elemento sono tali che, per la loro grossezza e forma non sono facilmente mosse. Si sono formate a seguito dell’espulsione di alcune particelle del primo elemento nel corso del moto vorticoso del Sole e delle stelle, si sono aggregate tra loro e hanno formato corpi opachi e duri, come i pianeti, e quindi anche la Terra. Le particelle del terzo elemento, in base alle loro differenti grandezze e forme, hanno dato luogo all’aria e ai vari corpi che compongono la Terra.
La metafisica cartesiana non inizia, dunque, con prolisse discussioni sulla nozione di sostanza, su Dio o sull’anima, ma con un’interrogazione radicale fondata nientemeno che sul dubbio: un dubbio che travolge le conoscenze prestabilite con un impeto distruttivo degno della migliore tradizione scettica. Per Cartesio, occorre soprattutto liberarsi della zavorra della tradizione, densa di errori perché priva di ogni criterio di verità. Il criterio di verità richiesto da Cartesio è al contrario rigidissimo ed è quello già elaborato nel Discorso sul metodo: accettare soltanto conoscenze evidenti e indubitabili, intendendo l’indubitabilità nel modo più rigoroso, non come un semplice autocompiacimento psicologico (la tranquilla certezza di chi non è capace di rimettere in questione i propri pregiudizi), ma come il risultato di un test prolungato e approfondito, in cui ogni conoscenza viene aggredita nei suoi fondamenti e nella sua reale affidabilità.
Cartesio aggredisce in primo luogo le conoscenze fondate sulla sensibilità, ovvero su quegli organi del nostro corpo che sembrano metterci in contatto con il mondo esterno. La sua critica è senza compromessi: dato che i sensi talvolta ci ingannano (come quando crediamo di vedere una torre rotonda, mentre avvicinandoci capiamo che è quadrata), ne consegue che non sono affidabili e che anzi potrebbero ingannarci sempre, facendoci credere che esistono fuori di noi degli oggetti dotati di certe caratteristiche, mentre invece, in realtà, gli oggetti potrebbero essere diversi o addirittura non esistere affatto. Il dubbio di Cartesio mette infatti in crisi la certezza spontanea che abbiamo nell’esistenza del mondo materiale fuori di noi, e persino di quella parte di materia che crediamo di conoscere più direttamente: il nostro corpo. La vita potrebbe essere un sogno mentale, una creazione dell’immaginazione priva di un corrispettivo reale, il frutto dell’inganno di un “genio maligno” (genium aliquem malignum).
Ma Cartesio non si accontenta di mettere in crisi l’apparato della sensibilità. Ritiene che il dubbio possa intaccare ancora più in profondità le certezze date ingiustamente per scontate. Persino le credenze fondate sulla ragione non sono esenti da motivi di dubbio, e persino la matematica potrebbe non dirci il vero sui suoi oggetti. Non potremmo forse essere stati creati da un Dio onnipotente, e proprio per questo capace anche di ingannarci, di presentarci con la massima evidenza delle conoscenze – come le più elementari nozioni matematiche – che in realtà sono del tutto illusorie?
L’ipotesi del Dio ingannatore rappresenta il culmine del dubbio cartesiano, su cui di fatto si chiude la parte distruttiva del testo e inizia la seconda meditazione. La critica di Cartesio colpisce anche quella scienza che egli stesso, nelle Regole, riteneva il modello del sapere: si tratta dunque anche di una autocritica, alla quale però Cartesio fa seguire una pronta ricostruzione filosofica. Per ripartire e ricostruire da zero l’edificio del sapere, il soggetto meditante, protagonista in prima persona delle Meditationes metaphysicae, non ha che una risorsa: se stesso. Partire dal soggetto non è un’esigenza individuale, ma è una necessità metafisica: per Cartesio, infatti, di nulla posso esser certo se non di esistere mentre penso. Cogito ergo sum (“penso dunque sono”): una proposizione che, rispetto a tutte le altre oggetto del dubbio della I Meditazione, ha il vantaggio di essere indubitabile per definizione. La resistenza al dubbio del cogito è data dal fatto che il dubbio stesso lo implica, per cui, se tento di negare di esistere mentre penso mi contraddico: per negare, per dubitare, per compiere qualsiasi atto mentale, devo pur esistere. Il soggetto pensante costituisce dunque una priorità ontologica, è il fondamento di ogni altra conoscenza reale (cioè conoscenza di cose, non di semplici connessioni tra concetti).
TESTO
T7: René Descartes, “Io sono una cosa che pensa”
ESERCIZIO
E14: René Descartes
Con il cogito, il soggetto meditante riesce a uscire dal cerchio del dubbio, aggrappandosi a quella che per il momento è l’unica certezza: non so se il mondo esiste, non so se il mio corpo esiste, non sono neppure certo delle dimostrazioni matematiche, ma so di esistere almeno io, mentre penso.
Il passo successivo dell’itinerario metafisico di Cartesio lo porta a interrogarsi, prima ancora che sull’esistenza del mondo, ancora sottoposta al dubbio radicale della I Meditazione, sull’esistenza di Dio. La sfida della III Meditazione, infatti, consiste nel dimostrare, sulla base del semplice cogito ergo sum, che esiste un Dio, e che da questa conoscenza si può trarre un argomento decisivo per dimostrare la veridicità del sapere umano: il dubbio più forte della I Meditazione era d’altra parte costruito su una dottrina di attinenza teologica (il Dio ingannatore) e dunque poteva essere risolto soltanto indagando su Dio e sui suoi attributi. Nelle Meditationes, e più in generale nel pensiero di Cartesio, comunque, l’intento teologico è sempre subordinato, o funzionale, a quello epistemologico, ossia alla necessità di trovare un fondamento di validità per la scienza.
La strada percorsa da Cartesio per dimostrare l’esistenza di Dio, pur avendo qualche punto di contatto con la fertilissima tradizione medievale, è nella sua sostanza filosofica del tutto originale, ed anzi pensata come del tutto alternativa rispetto alle celebri “vie” di Tommaso d’Aquino. Cartesio non può ripercorrere queste ultime per un motivo molto semplice: tutte e cinque le vie tomiste partono dal mondo, o da eventi nel mondo, per dimostrare che del mondo e di tali eventi deve esistere una causa prima, poi identificata con Dio. Ma la I Meditazione ha spazzato via, con la sua travolgente carica scettica, la presunta certezza dell’esistenza stessa di un mondo esterno, e, in generale, di qualunque cosa di “altro” oltre alla mente del soggetto pensante. Le prove tomiste, che comunque poi Cartesio criticherà anche nel merito, sono dunque inapplicabili nel contesto delle Meditationes, e si tratta dunque di scovare una direzione alternativa.
Nella prima metà del Seicento si diffonde il libertinismo, movimento culturale e filosofico che difende la libera e personale interpretazione della realtà e delle norme etiche, sulla base dell’affermazione di un “libero pensiero” autonomo da condizionamenti ideologici, religiosi, culturali e morali.
Uno dei centri in cui il libertinismo ha maggiore risonanza è Parigi. Nell’ambiente francese si svolgono polemiche e dibattiti che coinvolgono soprattutto i filosofi di diverse correnti, dai moralisti agli scettici, ma anche storici e poeti. Sono annoverati tra i libertini personaggi come Théophile de Viau, Marolles, Rorarius, Guyde la Brosse, Bouchard, Cyrano de Bergerac, ma frequentano i loro circoli e sono spesso ritenuti libertini anche filosofi come Gassendi.
Occorre però distinguere tra “libertinismo erudito” e “libertinismo dei costumi”. Il primo è un atteggiamento filosofico complesso ed elaborato teoricamente, che si rifà a tesi dei filosofi materialisti e atomisti greci (come l’origine naturale del mondo, l’infinità dell’universo e l’origine dell’uomo dalla materia informe sulla superficie della Terra). Il libertinismo dei costumi predica invece la ricerca del piacere e il rispetto della vera natura umana, ossia della naturale tendenza a soddisfare passioni e desideri e a sfuggire il dolore; si contrappone perciò a qualsiasi normativa religiosa, morale o teologica sul comportamento e sulle scelte etiche da osservare secondo la morale ufficiale.
Punto di inizio e fondamento comune della filosofia libertina è l’atteggiamento di rifiuto delle verità rivelate e delle autorità culturali tradizionali, a cominciare dalla filosofia aristotelica e dalla dottrina teologica cristiana.
Tutti i libertini sono naturalisti, ovvero ritengono che la natura, il mondo e l’universo stesso seguano proprie leggi di funzionamento indipendenti da un volere divino. L’autonomia delle leggi di natura fa sì che il mondo e la materia, ma anche l’uomo, possano essere studiati scientificamente a partire dalla loro condizione materiale, che viene considerata la condizione normale di cui occorre anche accettare i principi.
Aristocratici e borghesi colti, i libertini non predicano rivolte politiche, ma il relativismo filosofico e un ateismo che consenta di vivere liberamente. Essi traggono molte tesi dall’epicureismo e da autori antichi riletti criticamente, dalla morale scettica di Montaigne, dalla lettura eterodossa di Aristotele svolta a Padova riprendendo Averroè, secondo un naturalismo religioso che non esclude l’infinità dei mondi e l’eternità dell’universo.
Che l’uomo e il mondo siano materia, fisica e organica, è la principale tesi libertina. Base filosofica di riferimento è di frequente l’atomismo antico, ma anche la versione moderna offertane soprattutto da Gassendi. L’atomismo trova nella natura e nella materia principi di organizzazione autonomi, indipendenti dal volere divino, senza lasciare spazio quindi a principi mistici e teologici, come accadeva nel panteismo e nel neoplatonismo.
L’uomo è pensato di conseguenza come un aggregato corporeo, un essere dotato di corpo e anima, anche se alcuni libertini radicali arrivano a sostenere che l’esistenza dell’anima non è dimostrabile.
L’autonomia della natura conduce i libertini a giustificare le passioni umane, ma anche a negare la possibilità di fenomeni straordinari, magici, demoniaci o miracolosi, che vengono considerati credenza superstiziosa oppure frutto di vere e proprie patologie visionarie. Queste credenze magiche diventano fanatismo religioso quando sono utilizzate per giustificare o esaltare una religione. I libertini criticano innanzitutto le forme superstiziose e popolari di credenza religiosa, dai miracoli alla profezia, ma anche tutte le religioni rivelate in quanto impostura: sistemi organizzati di false credenze diffuse ed utilizzate a scopo politico da caste di sacerdoti e dai sovrani.
Ogni religione o sistema etico è relativo e mutevole, ed è un’impostura, in quanto rappresenta un insieme di credenze divenute abitudine e sovrappostesi alla vera natura umana; ogni lettura critica dei testi religiosi non può quindi che mostrarne le incongruenze e svelare il fanatismo di chi li predica dogmaticamente.
Tutti i libertini sviluppano una forma di scetticismo etico secondo il quale non è possibile affermare con certezza la verità o falsità di una credenza morale. L’etica è possibile solo in una dimensione individuale fondata sull’utile e sulla ricerca del benessere: il diritto invece mira all’utile comune. I libertini ritengono che la religione istituzionale valga come credenza popolare, e che al contrario il filosofo segua un’etica utilitarista indipendente. È infatti molto netta la separazione tra la vita e l’etica del libertino e quella del popolo, che deve accettare invece le norme e le dottrine ufficiali dello Stato in cui vive e della sua religione.
Cartesio decide di indagare quindi l’unica realtà di cui l’esistenza sia certa, ovvero la mente stessa del soggetto pensante. La mente umana è suscettibile di stati diversi, come attesta la coscienza di chiunque, ma a Cartesio interessano qui soprattutto quegli stati mentali che siano dotati di una funzione rappresentativa, che egli definisce “idee”: le idee, infatti, si riferiscono sempre a un oggetto, l’idea di albero, l’idea di uomo, di cui “rappresentano”, cioè raffigurano in modo più o meno adeguato, le caratteristiche. Si tratta ora di vedere se la mente umana è in grado da sé di produrre tutte le sue idee (che in questo caso sarebbero “fattizie”, cioè artificiali), se le riceve da oggetti esterni attraverso le sensazioni (le idee sarebbero allora “avventizie”), oppure se le trova in se stessa naturalmente, fin dalla nascita (idee “innate”).
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Fenomeni e tempo.Lo splendore effimero delle cose
Se le idee potessero essere tutte artificiali, sarebbe difficile dimostrare che esiste qualcosa d’altro oltre alla mente che le pensa, e d’altra parte è impossibile stabilire che le idee siano “avventizie” perché si continua a dubitare che esista un mondo fuori dalla mente. L’unica possibilità di uscire dalla solitudine del cogito ergo sum sta allora nel cercare un’idea che la mente non possa produrre da se stessa, e che dunque le venga da altro. Questa idea è l’idea di un Dio infinitamente perfetto: la mente è finita e non può produrre da sé questa idea, perché il contenuto rappresentativo dell’idea stessa eccede le possibilità della mente. Questa idea dunque non è un prodotto della mente ma di un essere che abbia la capacità di pensare un Dio infinito. Ora, secondo Cartesio, soltanto Dio può creare una rappresentazione adeguata di se stesso, dunque il fatto che l’uomo sia in grado di pensare a Dio dimostra che Dio esiste, e che l’idea di Dio è innata, presente fin dalla nascita nella mente stessa. Non, naturalmente, nel senso che la mente pensi sempre a Dio, ma nel senso che la mente, ogni mente umana, ha la capacità di innalzarsi con il pensiero fino all’infinità di Dio.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio permette a Cartesio di dare una risposta definitiva all’obiezione scettica fondata sull’ipotesi del Dio ingannatore. Se esiste un Dio infinitamente perfetto e se questo Dio ci ha creato, non è possibile che ci abbia dato facoltà fallaci, che ci ingannano anche nelle conoscenze che ci sembrano più evidenti, come le proposizioni della matematica. La scienza umana si fonda dunque sulla certezza che la mente dell’uomo, se rettamente usata, può giungere alla verità.
A questo punto l’itinerario delle Meditazioni è a una svolta decisiva: si è individuato quel fondamento che Cartesio cercava da tempo e che gli permette di fondare tutto l’impianto della scienza. Prima di procedere oltre e di giungere a risolvere per intero le questioni scettiche sollevate nella I Meditazione, Cartesio deve però risolvere un altro problema, aperto proprio dalla fondazione teologica della scienza: se la nostra mente non è fallace perché creata da Dio, come mai gli uomini, a volte, si ingannano? Il caso delle illusioni della sensibilità è dunque ancora presente, stavolta come obiezione contro la veracità di Dio. Ma la soluzione è a portata di mano, e Cartesio la trova proprio in quella tradizione teologica medievale che in genere tende a trascurare, se non a disprezzare.
La soluzione viene dalle complesse argomentazioni con cui i teologi cristiani, da Agostino in poi, avevano cercato di risolvere l’annosa questione della presenza del male nel mondo, ritenuta da molti incompatibile con l’esistenza di un Dio buono. La risposta di Agostino, poi ripresa da gran parte della scolastica medievale, stava nell’imputare all’uomo l’origine del male, garantendo però la compatibilità del male stesso con la bontà infinita di Dio: il male dipende dalla finitezza delle creature, ed è in qualche modo necessario, nell’universo, per consentire al bene di emergere con maggior forza, contribuendo quindi all’armonia del creato. Analogamente, per Cartesio, l’errore dipende da un cattivo uso delle facoltà conoscitive da parte dell’uomo. La libertà dell’uomo è l’origine dell’errore, e la libertà si esercita principalmente in quei casi, come le percezioni sensibili, in cui non vi sia evidenza, e quindi la mente oscilli tra assenso e rifiuto, rischiando quindi ad ogni passo di incorrere nell’errore. Il corretto uso delle nostre facoltà conoscitive, dateci da Dio, è dunque la vera arma contro l’errore, e quest’ultimo non dipende assolutamente da Dio ma soltanto dalla scelta dell’uomo.
La geometria analitica rappresenta una svolta fondamentale nella storia del pensiero matematico, poiché introduce nella geometria un cambiamento nei metodi che sarà determinante non soltanto ai fini dell’evoluzione di questa stessa disciplina, ma anche per il successivo sviluppo del moderno calcolo infinitesimale. La sua creazione si deve alle ricerche, del tutto indipendenti tra loro, dei francesi René Descartes e Pierre Fermat (1601-1665).
Il testo fondativo di questa branca della matematica è rappresentato dalla Geometria (Géométrie) di Descartes, pubblicata nel 1637 a Leida in appendice al Discorso sul metodo. Le ricerche di Fermat sono anteriori a quelle del filosofo francese, ma il suo scritto del 1629, intitolato Ad locos planos et solidos isagoge (Introduzione ai luoghi piani e solidi), è dato alle stampe postumo solo nel 1679. La pubblicazione della Geometria fa divampare un’accesa polemica circa la priorità della scoperta: Fermat, sapendo che le proprie ricerche non sono ignote a Descartes prima del 1637, accusa quest’ultimo di plagio e critica duramente il suo lavoro. Descartes, da parte sua, nega di dover riconoscere qualcosa a Fermat e rivendica l’originalità delle proprie ricerche. La controversia, che divide in due il mondo dei matematici francesi, si appiana solo dopo un passo di riconciliazione compiuto dallo stesso Fermat molti anni più tardi.
Il lettore moderno non avrebbe difficoltà a riconoscere nella Geometria la moderna notazione algebrica. Ma quanto al contenuto dell’opera, c’è ben poco che assomigli alla geometria analitica così come la conosciamo noi oggi. Descartes non fa un uso costante e sistematico di coordinate ortogonali, poiché spesso introduce al loro posto le coordinate oblique, né risolve graficamente le equazioni nel modo in cui facciamo oggi. Quella cartesiana è una geometria delle coordinate più che una geometria analitica modernamente intesa. Ciò che di moderno è presente nell’opera del filosofo francese è il raggiungimento di risultati mediante l’applicazione metodica del concetto di “coordinate”, inteso come un insieme di convenzioni e metodi che consentono di istituire una corrispondenza biunivoca tra elementi geometrici ed elementi algebrici.
Nel 1644 René Descartes dà alle stampe i Principia philosophiae in cui presenta in modo sistematico la propria filosofia della natura basata su materia e movimento. La concezione cartesiana della natura è rigorosamente meccanicistica: si basa sul moto di particelle di materia in movimento. L’estensione costituisce la natura della sostanza corporea; materia ed estensione si identificano e quindi nell’universo cartesiano il vuoto è impossibile. La materia, secondo Descartes, è infinitamente divisibile ed è quindi negata l’esistenza di atomi (corpuscoli indivisibili), in quanto non si può supporre che esista una particella di materia così piccola che Dio non possa ulteriormente dividere. L’esistenza di atomi significherebbe porre un limite all’azione di Dio. Le particelle di materia si differenziano solo in base alle loro figure, grandezze e movimenti – proprietà quantitative, conoscibili in maniera chiara e distinta. “Confesso – scrive il filosofo nei Principia philosophiae – che non conosco altra materia delle cose corporee che quella che può essere divisa, figurata e mossa in ogni sorta di modi, cioè quella che i geometri chiamano la quantità e che prendono per oggetto delle loro dimostrazioni, e che non considero in questa materia che le sue divisioni, le sue figure e i suoi movimenti”. Le proprietà sensibili, che i peripatetici e i paracelsiani avevano attribuito ai corpi, non risiedono quindi nei corpi stessi, ma esistono solo relativamente agli organi di senso. Creati da Dio tutti uguali, i corpuscoli cartesiani hanno assunto differenti forme in base ai moti loro impressi da Dio. I corpuscoli di materia sono privi di qualità, essendo dotati solo di grandezze e forme; essi riempiono tutto l’universo e, con i loro moti, producono l’insieme dei fenomeni del mondo fisico. A partire da questi semplici assunti, Descartes costruisce un sistema di filosofia naturale meccanicistico, che esclude ogni azione a distanza e postula come sola interazione possibile tra i corpi l’urto di particelle di materia inerte. Il mondo fisico è una macchina, il cui funzionamento è determinato solo dal moto, configurazione e disposizione delle parti di materia che lo compongono.
Le cause finali, che nella filosofia aristotelica avevano un ruolo fondamentale, scompaiono dalla fisica cartesiana. L’universo cartesiano è governato in ogni sua parte dalle stesse leggi di natura: quella fondamentale è che, essendo Dio immutabile, la quantità complessiva di moto è costante nell’universo. Tre leggi del moto disciplinano il corso degli eventi nel mondo fisico. La prima afferma che ciascuna cosa permane nel proprio stato e non cambia se non per l’incontro di altre. Se una parte di materia ha una certa forma, questa rimarrà tale e, se è in quiete, rimarrà in quiete, se in moto, resterà in moto. La seconda legge afferma che ogni corpo che si muove continuerà a muoversi in linea retta. Di fatto, i corpi tendono a deviare, muovendosi secondo una linea curva, ma ciò accade per una causa esterna. Dio conserva il moto così come esso è nel momento in cui lo conserva, ovvero in linea retta. Con questa legge è affermato il principio di inerzia. Descartes sostiene esplicitamente la priorità del moto rettilineo rispetto a quello circolare. La terza legge cartesiana riguarda l’urto, che è l’unico modo in cui un corpo può agire sull’altro. La legge afferma che se un corpo ne urta un altro e ha meno forza per continuare a muoversi di quanta ne abbia l’altro per resistergli, il primo corpo continuerà a muoversi con lo stesso movimento, ma in una direzione diversa. Secondo Cartesio, il corpo con meno forza (ovvero di minor grandezza) perderà la determinazione (direzione), ma non il moto. In altri termini, rimbalzerà contro il corpo maggiore senza perdere nulla della propria velocità. Se invece il corpo in moto ha una maggiore quantità di materia del corpo in quiete, allora lo trascinerà con sé trasmettendo all’altro corpo tanto movimento quanto ne perde. In termini moderni, Descartes considera la velocità una grandezza scalare, non vettoriale.
Una volta conquistata la pietra miliare della veracità di Dio, Cartesio procede con la deduzione delle altre verità necessarie accessibili attraverso la ragione. La prima di queste (V Meditazione) consiste nella definizione della materia come semplice estensione geometrica (res extensa). Cartesio sostiene questa tesi già dagli anni delle Regulae, ma adesso la può fondare sulla certezza che l’evidenza matematica è segno di verità. Dalla materia va dunque espunta ogni caratteristica qualitativa, non soggetta ad una elaborazione matematica. Non ci sono forze occulte, attrazioni o repulsioni, nella natura, ma soltanto il gioco meccanico di collisioni tra parti di materia dotate di maggiore o minore velocità e aggregate in modi diversi nello spazio tendenzialmente infinito del cosmo: memore della recente condanna di Giordano Bruno, Cartesio non si pronuncia mai, ufficialmente, su quest’ultimo punto, sostenendo che il mondo è esteso in modo “indefinito”. Se l’essenza della materia è costituta dallo spazio geometrico, la fisica si riduce quindi alla ricerca delle equazioni fondamentali che costituiscono le leggi del cosmo. La fisica di Galileo finisce così per essere fondata su una base metafisica solidissima, a cui si accoppia un’epistemologia altrettanto forte, basata sulla veracità di Dio.
ESERCIZIO
E11: René Descartes
Più faticoso, per Cartesio, risulta invece un altro compito, peraltro cruciale: stabilire – come promesso nel sottotitolo delle Meditationes – che la mente (o anima, res cogitans) è distinta dal corpo e dunque non abbisogna di quest’ultimo per esistere e operare. La dimostrazione di questo punto si fonda sul fatto che della mente e del corpo abbiamo due concetti ben distinti, per definire i quali ci occorrono due serie diverse di argomenti, gli uni indipendenti dagli altri: per definire la mente non occorre supporre che il corpo esista (lo dimostra lo stesso cogito, fondato sulla negazione di tutto quanto non sia coscienza soggettiva dell’essere pensante), e, specularmente, per definire la materia è necessario il solo concetto di estensione geometrica, nel quale entrano soltanto nozioni quantitative e non stati mentali o psichici riferibili ad una sostanza non materiale. Ora, dal fatto che possiamo concepire separatamente, e con evidenza, queste due classi di sostanze, possiamo dedurre che anche nella realtà esse sono le une indipendenti dalle altre, e possono sussistere le une senza le altre. Dio ci ingannerebbe, al contrario, se ci facesse vedere con evidenza l’indipendenza logica e ontologica dei due tipi di sostanze quando invece, nella realtà, dovessimo poi concludere che ciò non è vero.
ESERCIZIO
E13: René Descartes
TESTO
T7: René Descartes “Io sono una cosa che pensa”
Se la dimostrazione della distinzione reale tra la mente e il corpo è faticosa, ancora più impervia si presenta, nella VI Meditazione, la discussione di un altro tema che improvvisamente si profila per Cartesio: quello dell’unione tra le due sostanze nell’uomo. In altre parole: dopo aver fondato il dualismo tra res extensa e res cogitans, Cartesio si trova in difficoltà a spiegare come le due classi di sostanze possano agire di concerto, o addirittura costituire, nell’uomo, un singolo essere dotato di una sua individualità. La sua conclusione sarà che, di tale unione, non si può dare una dimostrazione dello stesso genere delle precedenti: l’unione è qualcosa che ogni uomo sente immediatamente in sé, e che viene dunque affermata su base puramente psicologica, fermo restando che, metafisicamente, il corpo e la mente sono due sostanze diverse tra loro incompatibili (benché esse interagiscano, sostiene Cartesio, attraverso l’attività di una ghiandola detta “pineale”).
La VI Meditazione si risolve quindi con un recupero, perlomeno parziale, del valore cognitivo della sensibilità: quest’ultima viene chiamata in causa sia sulla questione dell’unione della mente e del corpo, sia su quella, altrettanto spinosa, della dimostrazione dell’esistenza del mondo esterno. La I Meditazione, infatti, aveva lasciato in eredità quest’ultimo problema e Cartesio si ingegna di risolverlo alla fine dell’opera, fondandosi ancora una volta sui due cardini del suo ragionamento: la veracità di Dio e l’importanza della coscienza soggettiva come fonte di ogni conoscenza. Per Cartesio, la credenza nell’esistenza dei corpi esterni (e del nostro stesso corpo) è talmente forte nell’uomo che Dio non potrebbe esser più dichiarato verace se ci lasciasse ingannare su un punto così decisivo. Il teatro della mente è l’unico accesso alla conoscenza da parte dell’uomo e quindi, se il mondo non esistesse, non potremmo mai superare questo errore essendo per noi impossibile guardare ai corpi indipendentemente da come la mente li considera. Senza saperlo, Cartesio poneva comunque un interrogativo che avrebbe dominato tutto il secolo seguente, in cui sorgeranno anche teorie immaterialistiche, fondate proprio – almeno come punto di riferimento ideale – sulla concezione cartesiana.
Descartes, in una lettera al marchese di Newcastle del 23 novembre 1646, diceva che “non si è mai trovata una bestia così perfetta, che si sia servita di qualche segno per fare intendere ad altri animali qualcosa che non avesse relazione alcuna con le sue passioni; e non c’è invece un uomo così imperfetto che non se ne serva, tanto è vero che i sordomuti inventano segni particolari per esprimere i loro pensieri. […] Le bestie non parlano come noi per il fatto che non hanno alcun pensiero, e non perché manchino loro gli organi. Neppure si può dire che parlino tra loro, e che noi non le intendiamo; i cani e qualche altro animale, infatti, come ci esprimono le loro passioni, così potrebbero esprimere altrettanto bene i loro pensieri, se ne avessero”.
LETTURE
Jean-Jacques Rousseau
LETTURE
Gotfried Leibniz
LETTURE
John Locke
La questione posta da Descartes riprendeva una lunga tradizione di riflessioni sull’intelligenza degli animali, da Aristotele a Plinio, da Tommaso d’Aquino a Montaigne. La sua posizione conseguiva dal meccanicismo e dal dualismo della propria filosofia. Descartes distingueva la vita dalla presenza di un’anima. La vita era come una sorta di fuoco nel cuore e pertanto il cuore degli animali “pompa” gli spiriti animali nel cervello e dal cervello, attraverso i nervi, questi spiriti passano ai muscoli, causando così i movimenti degli arti. Ma in questo un corpo animale è appunto una macchina, pura res extensa e non res cogitans. Gli animali avvertono gioia, timore o dolore, ma in modo non riflessivo, e cioè senza essere capaci di comprendere questa passione in modo razionale.
Nasce dalla posizione cartesiana una polemica che si sarebbe protratta a lungo, coinvolgendo Leibniz, Locke, Cudworth, More, Shaftesbury, Cordemoy, Fontenelle, Bayle, Buffon, Rousseau e altri. Una polemica in cui spesso è difficile stabilire quale sia veramente la posta in gioco: si tratta di riconoscere un linguaggio agli animali, di riconoscere loro anche un’anima, o di contrastare un meccanicismo che avrebbe potuto trasformarsi in materialismo totale, sottraendo l’anima anche agli umani?
Una posizione meccanicistica poteva evitare molti rovelli morali circa la crudeltà verso gli animali, dato che non si può parlare di crudeltà nei confronti di una macchina. In secondo luogo agiva una sorta di difesa nei confronti della cosiddetta “superstizione pitagorica”, e cioè la questione della trasmigrazione delle anime: se gli animali non hanno anima, non possono riceverne per trasmigrazione.
In polemica con il meccanicismo dualistico, tra Seicento e Settecento, molti obiettano a Descartes come la differenza tra uomini e bestie sia solo di grado, aprendo una prospettiva che è stata vista come proto-evoluzionista, secondo cui la vita sarebbe un continuum che evolve, senza interruzione e senza fisso discrimine tra res extensa e res cogitans, gradualmente, attraverso una complessità crescente. Per Locke (Saggio II) gli animali, anche se sono incapaci di elaborare idee astratte, hanno idee di cose particolari.
Per Gassendi anche gli animali sanno interpretare i segni, per cui deducono dalla presenza di una cosa attuale (come un’orma) un fenomeno passato non presente ai sensi, anche se non sono capaci di inferenze più complesse come capire dal sudore l’esistenza di pori nella pelle.
Per Condillac, che nel 1755 scrive un Trattato degli animali, essi sono capaci di comparare le sensazioni che ricevono, nonché di giudicare e ricordare, e “pensano” secondo le loro esigenze; e dato che ciascuna specie animale ha diverse esigenze, ogni specie ha il proprio e diverso modo di conoscere e di comunicare ad altri i propri propositi. E poiché per il sensismo di Condillac è dalla sensazione che si evolve ogni altra capacità superiore, riconoscere agli animali la capacità di elaborare le loro sensazioni significa porli a un gradino evolutivo immediatamente precedente quello umano. Come ha pensieri, così ogni specie animale ha un linguaggio proporzionato ai bisogni di quella singola specie: gli animali non parlano come gli esseri umani ma la differenza risiede in un diverso grado di complessità.
Anche se di solito il richiamo all’esistenza di un’anima animale è venuto da pensatori antimeccanicisti, alcune delle più vigorose argomentazioni in favore dell’anima animale è provenuta da fonti materialiste, anzitutto da quell’ambiente libertino secentesco di cui è rappresentante inquietante e misterioso l’autore del Theophrastus redivivus, il quale, nel sostenere la materialità e mortalità dell’anima umana, non vi vedeva grandi differenze con l’anima animale.
Un secolo dopo La Mettrie insisterà sulle similarità anatomiche e fisiologiche tra uomini e bestie, e condividerà l’idea di una continuità da specie e specie per gradi crescenti. Nell’Uomo macchina (1748) rovescia anzi l’argomento cartesiano. Non solo gli animali ma anche gli uomini sono macchine: la natura ha usato la stessa materia per produrre entrambi “variando solo la quantità di lievito”. Se poi l’argomento cruciale contro la continuità tra animale e uomo è la competenza linguistica, allora è chiaro che anche gli animali hanno un linguaggio affettivo – e se non usano parole sanno eseguire eccellenti pantomime. Le scimmie hanno un apparato vocale inadeguato ma, se addestrate nel modo giusto, sanno correlare suoni a moti del cervello.
Rousseau, benché evoluzionista “a rovescio” (ovvero sostenitore di una caduta progressiva dell’uomo dall’innocenza originaria), parla di una sorta di passaggio graduale tra animali e uomini (Discorso sull’origine e i fondamentali dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1755), e suggerisce che gli orangutan siano uomini allo stato di natura. Lord Monboddo (Sull’origine e il progresso del linguaggio, 1773-1792, e Metafisica antica, 1779-1799) argomenta in favore dell’umanità degli orangutan, sostenendo che l’umanità sia una proprietà indipendente dall’uso del linguaggio.
La pubblicazione delle Passioni dell’anima, scritte nel 1649 e dedicate alla regina Cristina di Svezia, costituiscono la conclusione di un itinerario intorno alla natura umana che, a partire dalle riflessioni sul metodo e attraverso le Meditazioni metafisiche, giunge ad affrontare le questioni morali. L’opera apre un orizzonte nuovo alla psicologia e alla morale occidentale grazie a un approccio decisamente innovativo. Cartesio dichiara infatti esplicitamente di voler affrontare la questione non da moralista ma da scienziato (“da fisico”). Le passioni, a suo avviso, non sono deformazioni della mente, ma strutture naturali dell’essere umano che derivano dall’influsso del corpo sui fenomeni mentali. Agendo sul corpo si può quindi modificare l’anima e curare le malattie di entrambi. Così come la medicina di Cartesio è rivoluzionaria, anche la sua psicologia si fonda su assunti originali, destinati a larga fortuna. Inizia con Cartesio, e proseguirà poi con Spinoza fino ai nostri giorni, l’idea della possibilità di una scienza delle passioni fondata sulla conoscenza dei meccanismi fisiologici che sono alla base di esse. Da questo punto di vista, le passioni non sono per Cartesio una forma di corruzione dell’anima, magari segno del peccato originale come nella tradizione cristiana, ma semplici eventi psicofisici naturali, da studiare con gli strumenti della scienza. Le passioni non sono un male, anzi in sé sono buone e da esse deriva tutta la felicità di cui possiamo godere su questa terra. L’unica difficoltà sta nel controllarle e irreggimentarle, cosa che Cartesio ritiene in principio possibile. Allo scopo, egli detta una serie di soluzioni e pratiche, che risentono comunque ancora di una certa precarietà. Cartesio immagina una sorta di allenamento psico-fisico rivolto al controllo delle passioni, e fondato sulla capacità della volontà umana di guidare l’attenzione dell’uomo su questo e quel soggetto. A questo allenamento si affianca un tentativo di valorizzare l’autostima dell’uomo (Cartesio la chiama “generosità”) vedendo in quest’ultima la fonte stessa della virtù e della felicità. L’autostima è un movimento corporeo che riesce a coinvolgere l’anima in una pacata soddisfazione di sé che deriva dalla consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si è potuto per arrivare al bene. Alla filosofia individualistica del cogito, Cartesio affianca quindi una morale altrettanto fondata sull’iniziativa dell’individuo e sulla ricerca, da parte di ciascun uomo, della sua via per la felicità.
Le Meditationes sono un punto di non ritorno per la filosofia occidentale e vengono discusse a fondo ancor prima di essere pubblicate. Istruito da Cartesio, Mersenne le fa circolare in forma manoscritta già dal 1639, sollecitando dai primi lettori osservazioni critiche e obiezioni. Le prime sei serie di tali obiezioni vengono allegate alla prima edizione dell’opera (1641) seguite dalle risposte di Cartesio, iniziando un dibattito sulla filosofia cartesiana destinato a dominare la cultura europea per tutto il resto del secolo. Gli autori delle obiezioni sono il teologo belga Caterus (I Obiezioni), lo stesso Mersenne (II e VI Obiezioni), il filosofo inglese Thomas Hobbes (III Obiezioni), il teologo francese Antoine Arnauld (IV Obiezioni) e il filosofo francese Pierre Gassendi (V Obiezioni). Nella seconda edizione delle Meditationes (1642) vengono aggiunte anche le osservazioni del gesuita Bourdin, come VII Obiezioni. I temi maggiormente toccati nel corpus delle Obiezioni e Risposte sono le dimostrazioni di Dio, il nuovo concetto di pensiero, la questione della distinzione reale tra la mente e il corpo e quella della loro unione, su cui insiste specialmente Gassendi.
Dopo le Meditationes, Cartesio si dedica principalmente a studiare il modo in cui la mente e il corpo interagiscono nell’uomo. Dopo aver pubblicato, nel 1644, i Principi di filosofia, in cui riassume in modo più sistematico tutte le sue dottrine di metafisica e di fisica, Cartesio entra in contatto prima con Elisabetta del Palatinato e poi con la regina Cristina di Svezia, discutendo con entrambe soprattutto di problemi morali (è del 1649 Le passioni dell’anima) che lo spingono ad approfondire alcuni aspetti della realtà umana che aveva precedentemente tralasciato o affrontato soltanto di passaggio. Recatosi in Svezia su invito della regina Cristina, Cartesio morirà di lì a poco, nel febbraio del 1650.
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Descartes e le tre materie
Pierre Gassendi (1592-1655) rilegge i concetti fondamentali della fisica e della morale epicuree in modo da renderli compatibili sia con le più recenti acquisizioni della scienza, sia con i dogmi della fede cristiana.
Gli scritti dedicati alla filosofia epicurea sono tre: il De vita et moribus Epicuri (Lione, 1647), le Animadversiones in decimum librum Diogenis Laertii (Lione, 1649 e 1675) e il Syntagma philosophicum, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. Nella prima di queste tre opere, l’autore conduce una riflessione di carattere storico sulla biografia e la personalità di Epicuro, mentre nelle Animadversiones e nel Syntagma sono trattati specificatamente i temi della filosofia e della fisica epicuree.
Il fondamento della conoscenza ha sede nella sensazione. Ciascuna sensazione dà origine nell’intelletto a un’idea singolare che, a propria volta, può essere rielaborata in processi associativi fino alla formulazione di idee generali.
Spazio e tempo sono oggettivi e infiniti e accolgono una materia, definita “matrice” di tutte le cose. In questa materia gli atomi, creati da Dio in numero finito, sono dotati di estensione, figura e peso. Quest’ultima proprietà è una forza intrinseca che definisce la particolare posizione che ciascun atomo occupa rispetto a ogni altro. Le proprietà e gli urti tra gli atomi possono spiegare tutti i fenomeni naturali e per questa ragione Gassendi li definisce “cause seconde”.
L’anima si compone di due parti: l’una materiale, l’altra spirituale e immortale, creata direttamente da Dio. Gassendi, infine, definisce il piacere (voluptas) parte della felicità (felicitas). Il piacere è sempre un bene e il dolore sempre un male. Solo in particolari circostanze il piacere può trasformarsi in male, così come il dolore può essere scelto come condizione necessaria per l’acquisizione di un bene futuro.
Nel 1641, Padre Mersenne invia le Meditationes metaphysicae a Gassendi, invitandolo contestualmente a scrivere una serie di obiezioni, che pubblicherà all’insaputa dell’autore, facendole seguire da una replica di Descartes. Successivamente sarà Gassendi a formulare una serie di nuove contro-osservazioni che verranno pubblicate nel 1644, unitamente all’intero scambio precedente, con il titolo Disquisitio metaphysica, seu dubitationes et instantiae adversus Renati Cartesii metaphysicam et responsa.
Nel corso della polemica sono tre i principali argomenti di contesa. In primo luogo, Gassendi critica Descartes quando questi postula la necessaria esistenza di due sostanze distinte (res cogitans e res extensa), a cui ineriscono rispettivamente l’attività razionale e quella sensibile. Gassendi ritiene che non sia possibile separare il soggetto pensante o senziente dalle attività che esso esercita.
Il secondo fuoco polemico concerne la verità della conoscenza sensibile. Gassendi, che intende circoscrivere alla sfera dell’esperienza la riflessione filosofica, sostiene che non vi è alcuna necessità di rifiutarne il valore e l’uso per ricercare una fondazione metafisica eminente rispetto al dato fornito dall’esperienza.
TESTO
T8: Pierre Gassendi, Critica alle idee innate
Viene infine criticata la dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio a partire dall’idea di perfezione, presentata da Descartes nella V Meditazione. L’esistenza – obietta Gassendi – non è di per sé una perfezione, quanto piuttosto la condizione di tutte le perfezioni.