5. Isaac Newton

di Antonio Clericuzio

5.1 Scritti giovanili e “anni mirabili”

Nato il 25 dicembre 1642 nel Lincolnshire, Isaac Newton è ammesso al Trinity College di Cambridge nel 1661. Da giovane aderisce alle concezioni atomistiche e si dedica allo studio della matematica. Nell’estate del 1665, a causa della peste, Newton lascia Cambridge, dove farà ritorno solo a marzo del 1667, quando diviene fellow del Trinity College: ciò implica l’adesione alla dottrina della Chiesa anglicana e il celibato. Nel 1668-1669 crea un laboratorio chimico all’interno del College e costruisce il primo telescopio a rifrazione.

La prima critica della fisica di Descartes, e in particolare della teoria del moto relativo, è contenuta in un manoscritto che risale alla seconda metà degli anni Sessanta del Seicento, dal titolo De gravitatione et aequipondio fluidorum. In questo scritto Newton afferma che vi sono un moto e uno spazio assoluti. Newton critica inoltre, con argomenti di natura filosofica e religiosa tratti dal filosofo inglese Henry More, la separazione tra sostanza estesa (res extensa) e sostanza pensante (res cogitans) e l’identificazione cartesiana di materia ed estensione. Secondo Newton, la filosofia cartesiana conduce necessariamente all’ateismo, in quanto rende la materia (e l’estensione) indipendente da Dio.

La memoria sulla luce del 1672

Nel 1669 Newton scrive un trattato di matematica dedicato al “metodo delle serie infinite”, ovvero sul calcolo di derivate e integrali, ma non lo pubblica. Nello stesso anno è nominato professore lucasiano di matematica a Cambridge: questa cattedra è istituita nel 1663 a Cambridge in seguito alla donazione di Henry Lucas (1610-1663), membro del Parlamento per l’università di Cambridge. A Cambridge, Newton tiene una serie di lezioni di ottica nelle quali confuta sperimentalmente la teoria corrente secondo cui i colori prodotti dalla rifrazione di un raggio di luce sarebbero il risultato di una modificazione della luce stessa.

Nelle lezioni di Cambridge egli afferma la natura eterogenea della luce, ossia che la luce bianca è composta e le sue componenti hanno differenti indici di rifrazione. Nel 1672 invia alla Royal Society, di cui è stato eletto fellow, una memoria sulla luce e i colori, che viene pubblicata nelle “Philosophical Transactions. In questo lavoro Newton sostiene che: 1) i colori sono proprietà originali e inerenti alla luce; 2) a ciascun colore corrisponde un determinato grado di rifrangibilità; 3) il bianco è un colore composto da tutti i colori primari che sono mostrati per mezzo dell’esperimento condotto con il prisma.

La memoria newtoniana sulla luce e i colori suscita reazioni diverse, incluse critiche, come quelle di Robert Hooke (1635-1702), allora curatore degli esperimenti della Royal Society. Newton è molto infastidito dalle critiche ricevute e decide di astenersi nel futuro dal rendere pubblici i risultati delle proprie ricerche. In seguito ritornerà su questa decisione, ma la sua ostilità nei confronti di Hooke non cesserà, anche perché quest’ultimo rivendicherà la priorità della scoperta della gravitazione universale.

Il calcolo infinitesimale

Nel 1671 Newton scrive un trattato dal titolo Sul metodo delle serie e flussioni (Method of Fluxions), in cui sono esposti i principi del calcolo infinitesimale; lo scritto è pubblicato postumo nel 1736. I contributi newtoniani al calcolo differenziale e integrale sono legati alla disputa con Leibniz (1646-1716) sulla priorità della scoperta: disputa tra le più accese della storia della scienza, in cui non mancano accuse reciproche di plagio e disonestà intellettuale.

Leibniz e Newton: la disputa sul calcolo infinitesimale

L’analisi infinitesimale si presenta come un prezioso strumento per lo sviluppo delle scienze esatte nell’età moderna. Contribuiscono variamente alla scoperta del nuovo calcolo numerosi matematici, che sciolgono impegnative difficoltà concettuali concernenti la legittimità del ricorso a grandezze infinite e infinitesime e la possibilità di applicarle nelle operazioni matematiche.

Nel 1665 Newton ha già scoperto il metodo degli sviluppi in serie. La serie è infinita, ma non indefinita, ed equivalente a un numero definito. Inoltre, Newton pone subito in correlazione il problema degli sviluppi in serie con quello delle flussioni, vale a dire le velocità di variazione di grandezze capaci di variare con continuità. Infatti, nello studio newtoniano, le grandezze geometriche sono intese in termini cinematici, ossia come generate da un moto continuo: per esempio, una linea è generata dal moto continuo di un punto e le superfici dal moto continuo di una linea. Il metodo di Newton si fonda dunque sul concetto di velocità: le variabili sono intese come grandezze “fluenti” nel tempo (oggi chiamate funzioni) alle quali corrispondono le “flussioni”, ovvero le velocità di accrescimento con le quali esse sono generate (e che oggi sono chiamate derivate). Newton risolve il problema della determinazione della tangente stabilendo che l’inclinazione della tangente alla curva è data dai rapporti fra le flussioni di x ed y. In definitiva, Newton non si serve di funzioni, bensì di curve, e pur non essendo in possesso del concetto di limite, che sarebbe stato introdotto per la prima volta da Leonhard Euler, introduce comunque una regola per l’eliminazione degli infinitesimi.

Intorno al 1666 Newton definisce i principi fondamentali dell’analisi. Tuttavia è restio a pubblicare i risultati delle sue ricerche. La prima elaborazione sistematica del calcolo oltreché delle serie infinite si trova nel De analysi per aequationes numero terminorum infinitas (Sull’analisi mediante equazioni con numero infinito di termini), redatto nel 1669 ma dato alle stampe soltanto nel 1701. Per quel che concerne invece la sua prima esposizione della nuova analisi, bisogna fare riferimento alla prima edizione dei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), nei quali, in uno scolio al lemma II del secondo libro, Newton riconosce che Gottfried Wilhelm Leibniz “aveva scoperto un metodo […] che gli permetteva di raggiungere questi stessi risultati, e che differiva dal mio solo per la terminologia e le notazioni”.

Leinbiz e la disputa sulla priorità della scoperta

Leibniz, come vedremo, è un matematico autodidatta. In occasione di un viaggio a Londra, nel 1673, prende visione di una copia manoscritta del De analysi di Newton, non essendo tuttavia ancora in possesso della preparazione necessaria in geometria ed analisi per comprenderne appieno il valore. Leibniz giungerà nel 1676 ai principi dell’analisi mediante il calcolo integrale. Il metodo leibniziano si fonda sulla differenziazione, in virtù della quale ad ogni variabile corrisponde il relativo differenziale e, nel caso di combinazioni di variabili, consente di calcolare per mezzo di regole semplici il differenziale di una potenza e di una radice, dai quali si può inoltre ricavare il differenziale di una quantità. Una volta calcolato il differenziale, la determinazione delle tangenti, che dipende dunque dalle “differenze” delle ordinate e delle ascisse quando diventano infinitamente piccole, richiede l’esecuzione di calcoli algebrici. Le quadrature presuppongono invece la somma delle ordinate.

I metodi di Leibniz e di Newton quindi sono speculari: ai differenziali di Leibniz corrispondono i “momenti” di Newton (che si ottengono moltiplicando le flussioni per un tempuscolo elementare o).A differenza di Newton, Leibniz slega gli sviluppi in serie dal calcolo, dato che non ammette l’equivalenza di serie e funzioni, e introduce notazioni più eleganti e complete, che del resto sono attualmente in uso: dx e dy indicano il differenziale, dove dx è la differenza fra due valori strettamente collegati di una quantità variabile x, e dy è il cambiamento corrispondente prodotto in una seconda variabile y che è funzione di x.

Leibniz scopre il calcolo infinitesimale con un ritardo di circa dieci anni rispetto a Newton, ma è il primo a renderlo pubblico, facendo apparire nel 1684 sugli “Acta Eruditorum” di Lipsia la Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, qua nec irrationales quantitates moratur (Nuovo metodo per trovare i massimi e i minimi, ed anche le tangenti, non ostacolato da quantità irrazionali), che tuttavia non solleva rivendicazioni di priorità. La disputa sull’analisi appassiona numerosi matematici fino a coinvolgere la Royal Society, della quale Newton è nominato presidente nel 1703. La controversia svela divergenze inconciliabili che investono i fondamenti filosofici e fisici delle rispettive visioni del mondo. Nel 1710 Leibniz viene esplicitamente accusato di plagio da John Keill sulle “Philosophical Transactions”, il periodico della Royal Society. Non avendo ottenuto, come sperava, una rettifica con pubbliche scuse da parte di Keill, Leibniz chiede direttamente a Newton di assumere una posizione ufficiale. Così, il presidente della Royal Society istituisce una commissione, componendola per lo più di suoi sodali, affinché la disputa venga risolta. Nel 1713 la commissione fa apparire il Commercium Epistolicum, un repertorio di documentazioni per lo più parziali, come la lettera di Newton del 24 ottobre 1676, contenente indicazioni utili a conseguire il nuovo metodo. L’intera controversia si rivela tanto acrimoniosa da indurre Newton a sopprimere, sin dalla terza edizione dei Principia (1726), lo scolio nei confronti dell’”espertissimo geometra Leibniz”.

Francesco Giampietri

Il metodo di Newton

Newton non si è mai preoccupato di fornire una trattazione sistematica della sua filosofia. Egli espone il suo “modo di filosofare” quasi di sfuggita, come nella prefazione alla prima edizione dei Principi matematici della filosofia naturale (1687), nelle celebri Regulae philosophandi, e nei Quesiti posti in appendice all’Ottica (1704).

Esperimenti e dimostrazioni matematiche

Newton comincia a interrogarsi sul problema del metodo quando è ancora uno studente al Trinity College di Cambridge. La classica separazione tra scienze matematiche e scienze fisiche, cui fa da pendant la distinzione fra metodo matematico e metodo sperimentale, diventa in Newton priva di senso. Attribuendo, infatti, un valore filosofico ai principi della matematica, egli propone l’impiego di un metodo più adeguato per la costruzione di una conoscenza certa, fondato sulla matematica e sull’esperimento. All’elaborazione di questo nuovo metodo di ricerca, Newton giunge grazie ai suoi esperimenti sui colori e allo studio matematico delle rifrazioni, come testimoniano le Lectiones opticae (la cui prima stesura risale al 1670-1672). Nelle LectionesNewton osserva che, nel caso dell’ottica, i cultori di geometria fanno comunque uso, sebbene non in maniera esplicita, di ipotesi fisiche (considerano infatti la luce come un’entità semplice). Questo vuol dire che anche la geometria necessita di esperimenti per dare sostegno e conferma ai principi fisici che essa implicitamente contiene. Lo stesso può essere detto per la filosofia naturale che, al contrario, tramite l’impiego di ragionamenti matematici può allargare i propri principi. Dall’adozione di questo metodo di ricerca, che prevede l’uso congiunto dell’esperimento e della matematica, discende un ripensamento sia della filosofia naturale sia della matematica. Se per quanto riguarda la filosofia naturale, infatti, devono essere bandite le ipotesi, quali quelle impiegate da Descartes, risultato di costruzioni arbitrarie e prive di relazioni con i fenomeni reali, anche nel campo della matematica ci deve essere un cambiamento di metodo, per evitare che i principi di questa scienza si trasformino in sterili speculazioni che non si possono applicare alla natura. Ciò che propone Newton, pertanto, è una scienza della natura differente da quella fisica praticata dai filosofi e da quella dei matematici.

Newton è convinto che la strategia migliore e più adeguata per analizzare i problemi consista nel partire dagli esperimenti e dalle dimostrazioni matematiche. Sebbene quindi il metodo per conseguire conoscenze certe sia unico, l’obiettivo può tuttavia essere raggiunto in due modi. Nel primo caso, utilizzando gli esperimenti e le osservazioni, tramite un procedimento che scarta le ipotesi fisiche e fa uso dei ragionamenti matematici, si ottengono per via empirico-induttiva delle conclusioni generali. Nel secondo, invece, si stabiliscono prima i principi matematici e quindi, per loro tramite, è possibile spiegare i fenomeni, dimostrando poi le conseguenze sia in termini di esperimenti sia in termini di teoremi. La scienza che si serve di questo metodo di ricerca è denominata da Newton “filosofia sperimentale”.

Il metodo di ricerca elaborato da Newton, quindi, è caratterizzato da due elementi fondamentali: 1) il primato degli esperimenti, ossia dei dati di fatto; 2) il ragionamento matematico quale strumento privilegiato per la loro elaborazione. Si spiega in questo modo la sua avversione per le ipotesi, ovvero per tutti quei tentativi di spiegazione dei fenomeni che non si possono ricondurre ai fatti. Nella filosofia sperimentale, afferma Newton, “le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante ipotesi contrarie, essere considerate vere in maniera esatta o approssimata, finché non interverranno altri fenomeni, a causa dei quali o sono rese più esatte o sono soggette a eccezioni”. E ciò vale anche per la gravitazione universale, la cui azione è empiricamente osservabile, anche se la sua causa non può essere stabilita con certezza dai fenomeni (Newton, almeno, ammette di non esserci ancora riuscito). Egli quindi si astiene dal fingere o immaginare ipotesi – “hypotheses non fingo” dirà nella seconda edizione dei Principia (1713) –, in quanto ciò che si immagina o si finge, non essendo dimostrabile, risulta, oltre che inattendibile, inutile. Le uniche ipotesi ammesse da Newton sono quelle presentate in forma di “questioni” o “domande” (queries), quali si trovano formulate nell’appendice dell’Ottica, che vengono proposte allo scopo di essere esaminate per via sperimentale.

LETTURE

Il ruolo dell’esperimento mentale nella filosofia del Seicento

Il metodo di Newton eserciterà un’influenza capillare e profonda nel XVIII secolo, che andrà ben oltre gli ambiti delle singole discipline da lui rinnovate, fino a estendersi alle scienze umane.

TESTO

T9: Isaac Newton, Contro le ipotesi

Franco Giudice

5.2 I Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687)

I Principia, l’opera più celebre di Newton, sono divisi in tre parti o libri: il primo tratta dei principi generali della dinamica dei corpi in movimento; il secondo della meccanica dei fluidi e della teoria delle onde; il terzo applica i principi della meccanica all’intero universo. Con i Principia Newton porta a compimento il processo di unificazione di fisica terrestre e fisica celeste. Guidato dall’idea che i fenomeni della natura siano riducibili a leggi matematiche, Newton sostiene che un’unica legge, l’attrazione gravitazionale, rende conto tanto della caduta dei gravi sulla Terra, quanto del moto dei corpi celesti.

Il primo libro dei Principia contiene le definizioni dei concetti fondamentali della meccanica: quantità di materia o “massa”, quantità di moto, forza. La massa, che per la prima volta è distinta dal peso, è definita come il prodotto della densità per il volume occupato da un corpo; la quantità di moto è il prodotto della massa per la velocità; la forza insita nella materia è il potere di persistere nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme; la forza impressa è la forza che fa cambiare ad un corpo il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme.

Tempo, spazio e moto assoluti e relativi

Nella nota alle definizioni del primo libro Newton distingue tempo, spazio e moto assoluti da tempo, spazio e moto relativi. Come Henry More, Newton ritiene che il tempo assoluto e lo spazio assoluto siano immutabili in quanto immutabile è il Creatore e che essi sussistano indipendentemente dai corpi dell’universo. La distinzione tra spazio e tempo assoluti e relativi, che poggia su fondamenti di carattere teologico, permette a Newton di affermare la possibilità del moto assoluto e in particolare la rotazione assoluta della Terra e dei pianeti e la quiete relativa del Sole come centro dei loro moti.

ESERCIZIO

E15: Isaac Newton

Nel primo libro dei Principia, Newton presenta inoltre gli assiomi o leggi del moto. Il primo, noto anche come “legge d’inerzia”, afferma che ogni corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non interviene alcuna forza a modificare tale stato. Il secondo, che introduce e sviluppa il concetto di forza, asserisce che il cambiamento di moto è proporzionale alla forza impressa e avviene nella direzione della linea retta secondo cui quella forza è stata impressa. La terza, nota come “principio di azione e reazione” – a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria – può essere considerata come una generalizzazione, in termini dinamici, dei processi di urto già descritti dall’olandese Christiaan Huygens (1629-1695).

Nel terzo libro dei Principia si trova l’applicazione della dinamica dei corpi terrestri ai moti celesti. Infatti, basandosi sulle leggi di Keplero, Newton afferma che due corpi nell’universo si attraggono l’un l’altro con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze.

Newton dimostra che la Luna è trattenuta nella propria orbita intorno alla Terra e i pianeti nelle loro orbite intorno al Sole da una forza identica a quella che causa la caduta dei gravi sulla Terra.

Il dibattito sulla gravità

La causa della gravità è tema su cui scienziati e teologi danno interpretazioni discordanti. Nell’Ipotesi sulla luce (Hypothesis explaining the properties of Light, 1675), Newton ipotizza che la gravità sia l’effetto della condensazione di una sostanza eterea diffusa nel cosmo; nella lettera a Robert Boyle del 1679, congettura che l’etere sia responsabile della gravità; in una lettera a Richard Bentley (1662-1742), rettore del Trinity College, scritta dopo la pubblicazione dei Principia, Newton nega che la gravità possa essere considerata “essenziale” alla materia e afferma che essa ha origine direttamente da Dio. Nella prefazione alla seconda edizione dei Principia, Roger Cotes (1682-1716), collaboratore di Newton, sostiene invece che la gravità è una proprietà essenziale di tutti i corpi, al pari dell’estensione e dell’impenetrabilità.

Il sistema del mondo di Newton e la gravitazione universale

Nello studio dei moti planetari il giovane Newton è meccanicista e spiega i moti dei pianeti come la risultante della tendenza a recedere dal centro (forza centrifuga) e di una forza che, controbilanciando la prima, li trattiene nelle loro orbite. Newton ipotizza che questa forza, diretta verso il centro, diminuisca con il quadrato della distanza, ma non ritiene che agisca a distanza e suppone che sia prodotta da cause meccaniche, ossia da urti di particelle.

Nei Principia Newton approfondisce l’esame della forza centripeta: nel primo teorema dimostra che, se un corpo che è sospinto continuamente verso lo stesso punto, il suo moto, altrimenti inerziale, sarà una linea curva; inoltre, asserisce che una linea condotta dal corpo in moto al punto verso cui è sospinto spazza aree uguali in tempi uguali. In questo modo Newton ha ricavato la seconda legge di Keplero, la legge delle aree, dalla combinazione del moto inerziale con la forza centripeta diretta verso il Sole. Successivamente Newton dimostra che, se la traiettoria è ellittica e se il Sole occupa uno dei due fuochi, allora la forza che produce tale moto è inversamente proporzionale al quadrato della distanza; e lo stesso vale anche per l’iperbole e la parabola. Quindi dimostra anche il reciproco, ossia che, supponendo che vi sia una forza centrale inversamente proporzionale al quadrato della distanza, la traiettoria è una sezione conica: un’ellisse, un’iperbole o una parabola. Mentre nei primi due libri dei Principia la trattazione dei moti dei corpi avviene in termini matematici, nel terzo, di carattere soprattutto astronomico, presenta il sistema del mondo, che si basa sulle leggi del moto e sulla gravitazione universale.

Newton esamina i moti dei satelliti di Giove, di Saturno, dei pianeti intorno al Sole e della Luna intorno alla Terra e osserva che in tutti questi casi sono valide le leggi di Keplero. Secondo la terza legge della dinamica di Newton, ogni pianeta deve attrarre il Sole con una forza uguale ma contraria a quella con cui è attratto dal Sole. Newton estende questo principio a tutti i corpi dell’universo, formulando la legge di gravitazione universale per la quale tutte le masse dell’universo si attraggono reciprocamente con forze uguali, la cui grandezza è direttamente proporzionale alla quantità di materia e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze. È così in grado di dimostrare che una sola forza mantiene i pianeti nelle loro orbite intorno al Sole; mantiene i satelliti in orbita, inclusa la Luna intorno alla Terra; è la causa dei moti delle comete lungo traiettorie che sono sezioni coniche; produce la caduta dei gravi sulla Terra in tempi uguali; trattiene i corpi sulla Terra e causa le maree. Determina quindi le caratteristiche di questa forza centrale: innanzitutto stabilisce che è differente dalla forza magnetica, poiché quest’ultima non è proporzionale alle masse e decresce non con il quadrato della distanza, ma con il cubo. La forza di gravità è invece proporzionale alle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza; in una sfera omogenea, si manifesta come se tutta la sua massa fosse concentrata nel suo centro. Poiché la Terra è schiacciata ai poli, la gravità, e quindi l’accelerazione del pendolo, variano a seconda della latitudine. La meccanica newtoniana spiega questa variazione con la variazione del raggio terrestre o distanza dal centro ed è anche in grado di ottenere una misura approssimativa dello schiacciamento ai poli.

L’origine della gravità

Newton non vuole presentare la gravità come una proprietà essenziale della materia, non vuole cioè attribuire alla materia l’origine della gravità, che tuttavia egli considera una forza cosmica reale, da cui dipendono i fenomeni del cielo, le maree, la caduta dei gravi. Precisa inoltre: “è inconcepibile che l’inanimata, bruta materia, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, possa influire su un’altra materia senza reciproco contatto. […] La gravità deve essere causata da un agente che opera costantemente in accordo a determinate leggi”. In altri termini, Newton afferma che Dio ne è la causa; la gravità non è in grado di spiegare la struttura dell’universo e Dio, dopo aver creato il mondo, interviene di tanto in tanto regolando i moti dei corpi celesti per evitare che le masse collassino, mentre il Dio cartesiano e leibniziano, che si limita a costruire la macchina del mondo, è un Dio assente. Quella di Descartes e Leibniz è – secondo Newton – una dottrina che inevitabilmente bandisce Dio dall’universo. L’universo di Newton è un universo costituito da un numero indefinito di corpi, immersi in uno spazio infinito creato da Dio onnipotente e onnipresente, che lo governa con il suo costante intervento. Dopo la pubblicazione dei Principia, si leveranno diverse voci critiche, in particolare tra i cartesiani, che contesteranno la teoria della forza di gravità.

A. C.

Gli studi di teologia

Gli studi di teologia e di storia ecclesiastica occupano una posizione di rilievo nella carriera intellettuale di Newton. Ma per motivi di prudenza Newton, che riveste un ruolo di primo piano nella società inglese, essendo presidente della Royal Society, direttore della Zecca e membro del Parlamento, mantiene il massimo riserbo sui suoi studi teologici. Ne fa menzione solo a John Locke, William Whiston e Samuel Clarke. Il riserbo di Newton è motivato dal carattere fortemente eterodosso delle sue idee religiose: egli non si limita infatti a esprimere critiche radicali nei confronti degli aspetti idolatri e superstiziosi della religione cattolica, ma esprime idee di carattere antitrinitario. Sulla base di accurate ricerche storiche, egli perviene alla conclusione che la chiesa cristiana alle origini aveva professato un credo semplicissimo, cui era estraneo il dogma della trinità che viene introdotto surrettiziamente solo nel corso del IV secolo, dopo il concilio di Nicea.

5.3 L’ottica

L’Ottica (Opticks) del 1704, che è divisa in tre libri ed è di più facile lettura rispetto ai Principia, eserciterà una considerevole influenza nel Settecento, divenendo il modello della nuova filosofia sperimentale. Affermata la natura corpuscolare della luce, Newton spiega per mezzo di “ragioni ed esperimenti” la natura e le proprietà della luce. Il primo libro tratta della riflessione, della rifrazione, della dispersione (variazione di rifrangibilità) e della scomposizione della luce bianca. Il secondo tratta soprattutto dell’interferenza della luce nelle lamine sottili; in questa sezione egli presenta il fenomeno degli anelli, che prenderà il nome di “anelli di Newton”: posta una lente biconvessa sulla parte piana di una lente piano-convessa, si crea un sottile strato di aria di spessore variabile. Illuminato il sistema, Newton osserva che intorno al punto di contatto tra le lenti si formano anelli regolari, colorati e concentrici. Il fenomeno era già noto, ma Newton lo interpreta in termini sperimentali e ne dà una trattazione matematica. Il terzo libro tratta dei colori dei corpi naturali.

Al posto di un progettato (e mai realizzato) quarto libro dell’Ottica, Newton pubblica in conclusione del terzo libro una serie di Questioni (Queries), che, da un numero di sei nella prima edizione, divengono 23 nella edizione latina del 1706 curata da Samuel Clarke, per arrivare a 31 nell’edizione inglese del 1717. Le Queries affrontano problemi (alcuni dei quali connessi con argomenti già trattati nei Principia) cui Newton non dà una soluzione in termini sperimentali. Egli ipotizza, per esempio, l’esistenza di forze attrattive e repulsive intraparticellari che agiscono a breve distanza e che ritiene responsabili di fenomeni chimici quali la fermentazione, della coesione dei corpi, della capillarità e dei fenomeni elettrici.

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L’universo infinito di Newton

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Newton e la meccanica classica

Newton e l'occulto

Chimica e soprattutto alchimia – disciplina che Newton ben conosce e coltiva, come è attestato dalle sue note di lettura e dall’ingente numero di testi di alchimia presenti nella sua biblioteca – occupano un posto di rilievo nelle ricerche di Newton. Egli lascerà un gran numero di manoscritti su argomenti di carattere alchemico oltre al De natura acidorum (1692), unico testo newtoniano sull’argomento a essere pubblicato. Questo testo rappresenta la traduzione in termini chimici di concetti mutuati dalla letteratura alchemica. Le particelle degli acidi, secondo Newton, sono dotate di un’attrazione in virtù della quale dissolvono numerose sostanze e stimolano gli organi di senso; le particelle di zolfo contenute in molti corpi costituiscono principi attivi dotati di forza di attrazione. Nei manoscritti, inoltre, egli prende in seria considerazione il concetto di “spirito” inteso come sostanza generatrice di vita, e l’idea che i metalli siano prodotti da un processo di tipo biologico.

Gli studi di alchimia di Newton poggiano sulla convinzione che in epoche remotissime gli uomini siano stati in possesso di una sapienza, poi dispersa, successivamente tramandata in forma volutamente oscura e simbolica. La decodificazione dei simboli alchemici potrebbe quindi svelare i contenuti di conoscenze antichissime come quelle degli antichi egizi cui Newton attribuisce, tra l’altro, l’origine della teoria atomistica della materia.

Questa compresenza di “studi occulti” e ricerca fisico-matematica ha a lungo fatto pensare a una sorta di schizofrenia newtoniana, a un pensatore diviso tra scoperte innovative e legami mai rinnegati con un sapere tradizionale. Di fatto è stato dimostrato come sia stata proprio la tendenza (tradizionale) a vedere la natura mossa da forze occulte a permettere a Newton di pervenire alla stessa nozione (scientificamente dimostrata) di gravitazione universale.