1. Thomas Hobbes

di Vittorio Morfino

1.1 “Solo i corpi esistono”

La svolta impressa da Descartes alla discussione sul metodo e alla filosofia moderna in generale non toglie che il Seicento veda il sorgere di una pluralità di schemi di pensiero, tra i quali un posto di rilievo occupa certamente quello di Thomas Hobbes. Il filosofo inglese infatti propone, parallelamente a quello cartesiano (con il quale si confronta criticamente; sue alcune delle obiezioni più note alle Meditazioni metafisiche), il proprio modello di razionalità, improntato a un rigoroso nominalismo e alla “scandalosa” affermazione materialistica secondo cui “solo i corpi esistono”.

1.2 Tra politica e filosofia: vita di Thomas Hobbes

Thomas Hobbes nasce il 5 aprile 1588 a Malmesbury. Studia grammatica e logica a Oxford fino al conseguimento del baccellierato. Iscrittosi all’università di Cambridge, ottiene nel frattempo un posto di precettore presso la famiglia Cavendish, cui rimane legato per tutta la vita e grazie alla quale ha la possibilità di frequentare alcuni dei più grandi filosofi del tempo tra cui Francis Bacon e Herbert di Cherbury (1583-1648). Tra il 1610 e il 1630 si dedica allo studio del greco e del latino, dei poeti e degli storici antichi: di questo periodo ci resta una sua traduzione delle Storie di Tucidide. Sul finire degli anni Venti Hobbes legge gli Elementi di Euclide, modello di scienza rigorosa, e conosce, grazie a un viaggio in Francia e in Italia fatto tra il 1634 e il 1636, l’ambiente scientifico parigino e Galilei.

LETTURE

Galileo Galilei

Da questi incontri nasce in lui la convinzione di poter scrivere un’opera in cui tutti gli aspetti della realtà siano riducibili a movimento: non solo la scienza naturale, ma anche l’etica e la politica devono poter essere spiegati secondo un modello meccanicistico. Quest’opera, gli Elementi di filosofia, doveva articolarsi in tre parti, trattando del corpo, dell’uomo e del cittadino. Poiché tuttavia la fondazione generale della scienza risultava assai complessa, Hobbes si risolve a scrivere nel 1640 un’opera più agile, gli Elementi di legge naturale e politica, che circola manoscritta tra gli amici e viene pubblicata solo nel 1650 in due parti separate (Natura umana e Il corpo politico). In quello stesso anno, non sentendosi più al sicuro in una Inghilterra ormai sulla soglia della guerra civile, Hobbes si trasferisce a Parigi, dove nel 1641, su insistenza di Mersenne (1588-1648), scrive le Obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, tra le quali è celebre quella in cui critica la sostanzializzazione del pensiero, in realtà funzione del corpo.

LETTURE

René Descartes

Nel 1642 Hobbes pubblica De cive (Il cittadino) in cui riprende ampliandoli i temi politici presenti negli Elementi, dedicandosi poi, fino al 1646 a studi di filosofia naturale, di cui sono l’esito alcuni trattati sull’ottica e un manoscritto sul moto, il luogo e il tempo in cui viene difeso il Dialogo sui massimi sistemi di Galilei dagli attacchi di un teologo cattolico. Lo scritto più significativo di questo periodo è quello Sulla libertà e la necessità (1654) che Hobbes scrive per fissare i termini di una discussione sulla questione avuta con il vescovo John Bramhall, la cui risposta sarà l’occasione della pubblicazione nel 1656 di un testo più ampio, Le questioni riguardanti la libertà, la necessità e il caso. Negli anni Quaranta riprende la scrittura del De corpore (Il corpo), abbandonandola successivamente per scrivere un’opera in cui vengono riprese le tematiche già esposte negli Elementi e nel Cittadino: vede così la luce la sua opera più famosa e controversa, il Leviatano, pubblicata a Londra nel 1651 contemporaneamente al suo ritorno in Inghilterra. In essa egli espone con maggiore ampiezza, ma senza variazioni di un qualche rilievo, le sue teorie fisiologiche, gnoseologiche, antropologiche e politiche. Quasi del tutto nuovo invece il contenuto della terza e della quarta sezione dell’opera, dedicate rispettivamente ai rapporti tra potere religioso e potere politico e alle dottrine oscure (“regno delle tenebre”) utilizzate dalla Chiesa cattolica per perpetrare il dominio sugli uomini. Nel 1655 vede finalmente la luce il De corpore, fondamento di tutto il sistema, composto di una logica, una filosofia prima, una geometria, una meccanica e una fisica. Infine, con il De homine (L’uomo), pubblicato nel 1658, Hobbes conclude la trilogia degli Elementi di filosofia, il cui progetto aveva concepito quasi vent’anni prima. A quest’opera Hobbes attribuisce il compito fondamentale di legare la fisica alla politica. Dopo il 1658 Hobbes non pubblica più alcuna opera sistematica, dedicando il suo tempo alla stesura di scritti polemici di argomento sia scientifico che politico: tra questi ultimi il Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra (1666), in cui sostiene il primato della legge scritta sulla consuetudine, e il Behemoth (1668), una storia delle cause della guerra civile in Inghilterra. Muore nel 1679 a Hardwick.

1.3 La logica

Thomas Hobbes ritiene che tutti i nostri pensieri abbiano origine dalla sensazione, la cui causa è il corpo esterno che agisce sull’organo proprio a ciascun senso, mettendo in moto un meccanismo fisiologico che produce l’immagine (o “fantasma”) dell’oggetto. Dopo che l’oggetto ha colpito direttamente o indirettamente i nostri organi di senso noi continuiamo a trattenerne un’immagine, benché più oscura: questa facoltà è definita da Hobbes “immaginazione” o “memoria”. Il linguaggio surroga la debolezza della memoria, fornendoci la possibilità di fissare i pensieri e di richiamarli alla mente attraverso i nomi. Questi hanno una duplice funzione:

(1) sono “note” in quanto hanno la funzione di richiamare alla mente i pensieri;

(2) sono “segni” in quanto servono a comunicarli.

Hobbes fa dunque propria una posizione rigorosamente nominalistica, caratterizzata da due punti di estrema importanza:

(1) il rapporto tra le parole e le cose è arbitrario;

(2) gli universali non sono il nome di qualcosa esistente in natura, ma nome di nomi.

In questa prospettiva la ragione non è che calcolo di nomi generali. Mentre la scienza è la conoscenza della dipendenza di un fatto da un altro, il che ci permette di prevedere il futuro e di utilizzarlo a nostro vantaggio. La chiave del discorso scientifico è la “definizione”, che deve suscitare nella mente l’idea della cosa definita attraverso la sua generazione (per esempio l’idea di cerchio si può ottenere facendo ruotare il raggio intorno al centro). Se non si ha questa idea nella definizione non la si potrà avere nella conclusione del sillogismo e tantomeno in una serie di sillogismi, cioè in una dimostrazione. La definizione, per Hobbes, non è l’essenza della cosa, ma un tentativo di significazione di essa tra quelli possibili, cioè, in ultima analisi, è una pura convenzione. Il filosofo e storico della scienza Ernst Cassirer (1874-1945) interpreta ciò come il sintomo della penetrazione dell’ideale politico-giuridico di Hobbes nella sua logica: il sovrano assoluto, che ha anche il compito di stabilire il significato delle parole, non domina solo le nostre azioni ma anche i nostri pensieri, stabilendo la verità e falsità delle loro connessioni.

TESTO

T1: Thomas Hobbes, Il primato della sensazione

I procedimenti dimostrativi

Hobbes distingue due procedimenti dimostrativi: il primo è quello in cui si muove dalle cause agli effetti ed è del tutto certo, il secondo, dagli effetti risale alla cause ed è invece ipotetico. Agli uomini è stata concessa una scienza del primo genere, con una dimostrazione certa, a priori, solo nel caso di quegli oggetti “la cui generazione dipende dall’arbitrio degli uomini stessi” (De homine, 1658), come la geometria, l’etica e la politica: sia le figure geometriche che le leggi e i patti sociali sono infatti creati da noi. Per quanto riguarda le cose naturali, invece, essi non sono in nostro potere e non possiamo dedurne le proprietà dalle cause, poiché non le possiamo vedere.

1.4 La fisica

La filosofia della natura di Hobbes parte da un’ipotesi originale, un esperimento mentale: la ficta universi sublatio o rerum annihilatio, ossia l’esperimento mentale dell’annichilazione del mondo eccezion fatta per un solo uomo. Quest’ipotesi evidenzia per una via paradossale la natura del nostro ragionare, poiché mostra come il pensare sia un calcolo di nomi che noi abbiamo imposto alle idee o fantasmi delle cose e non un calcolo delle cose stesse.

Attraverso quest’ipotesi Hobbes giunge a definire i concetti fondamentali della sua fisica (spazio, tempo, sostanza…) in termini di “fantasmi” ossia di ricordi della mente. Se infatti ricordiamo una cosa che esisteva prima dell’annichilamento considerandola non nella sua determinatezza ma solo nella sua esistenza al di fuori della mente, abbiamo secondo Hobbes il concetto di “spazio”, uno spazio immaginario, caratterizzato non dal fatto di essere già occupato, ma di poter essere occupato. Se poi ricordiamo quella stessa cosa in movimento otteniamo il concetto di “tempo”, poiché esso lascia nella mente il fantasma del suo movimento nel passare in successione continua da uno spazio a un altro. Per mostrare questo legame tra il tempo e il moto dei corpi Hobbes porta degli esempi: “quando vogliamo conoscere in quali momenti il tempo scorre, ci serviamo di un movimento, come del sole o di un orologio o di una clessidra, o tracciamo una linea sulla quale immaginiamo che si muova qualcosa; e in nessun altro modo appare il tempo” (De corpore, 1655).

Sostanza e qualità

Al concetto di sostanza poi, che egli pensa esclusivamente come corporea, Hobbes giunge attraverso la supposizione che ciò che si è riproposto dopo la ficta universi sublatio “non solo occupi una parte dello spazio di cui si è detto, o che coincida e si coestenda con esso, ma anche che ci sia qualcosa che non dipende dalla nostra immaginazione” (De corpore). Se poi pensiamo questa sostanza corporea in quanto occupa uno spazio oppure si muove, notiamo che lo spazio e il movimento sono accidenti del corpo. In questo senso la distinzione tra qualità primarie e secondarie è fondata sul fatto che mentre “l’estensione, il moto, lo stato di quiete o la figura” (ovvero le qualità primarie) sono accidenti dei corpi, “il colore, il calore, l’odore, la virtù, il vizio e simili” (le qualità secondarie) sono riducibili a moti dei corpi o a moti della mente che percepisce.

Hobbes distingue poi, contro Descartes, tra la grandezza di un qualunque corpo e lo spazio che coincide con essa, spazio che egli chiama “luogo”. Il luogo è infatti immobile e il movimento è definito di conseguenza da Hobbes come “l’abbandono continuo di un luogo e l’acquisto continuo di un altro luogo”. In quanto immobile il luogo può essere pensato tanto come pieno quanto come vuoto, benché Hobbes neghi il vuoto assoluto, affermando che lo spazio tra i corpi è occupato da una materia fluida e omogenea.

Infine la causalità è l’azione di un corpo su un altro. Si dice che un corpo agisce su un altro quando “genera o distrugge in questo un accidente”: si dice causa il corpo che agisce ed effetto il corpo che patisce. La “causa semplice o intera” è definita da Hobbes come “l’aggregato di tutti gli accidenti” tanto nel corpo che agisce che nel corpo che patisce: la presenza di questo aggregato implica necessariamente il prodursi dell’effetto, mentre l’assenza anche di uno solo di questi accidenti implica il non prodursi di esso. Utilizzando ma allo stesso tempo ripensando la terminologia aristotelica, Hobbes definisce l’aggregato degli accidenti nel corpo che agisce “causa efficiente” e l’aggregato degli accidenti nel corpo che patisce “causa materiale”; la “causa formale” e la stessa “causa finale”, che egli ammette solo nella considerazione dell’agire umano, sono ricondotte dal filosofo inglese alla causa efficiente. Partendo da queste ipotesi, l’universo descritto dalla fisica di Hobbes è perciò totalmente deterministico: in esso ogni evento accade o non accade necessariamente a seconda che siano o no presenti nell’agente e nel paziente tutte le condizioni del suo apparire. Non v’è alcuno spazio per le categorie di possibilità e di contingenza: ciò che esiste è necessario e ciò che non esiste è impossibile, e il futuro è pensato come contingente solo perché ignoriamo la catena causale che ne produrrà gli eventi.

1.5 L’antropologia

L’antropologia hobbesiana è costruita sulle premesse materialistiche della sua fisica secondo cui la sola realtà che possa essere detta sostanza è il corpo: il corpo umano e la dinamica delle sue passioni sono dunque il suo oggetto. Hobbes distingue nell’uomo due tipi di movimento: il primo, ch’egli definisce “vitale”, è costituito dai movimenti che regolano il suo ciclo biologico, come la circolazione del sangue, la pulsazione, la respirazione, la digestione, la nutrizione, l’escrezione ecc.; il secondo è il movimento “volontario”, così definito perché è determinato dal modo in cui la mente precedentemente lo ha immaginato. L’immaginazione è dunque, secondo Hobbes, “la prima origine interna del movimento volontario”. La sensazione (il fantasma) prodotto dall’azione dell’oggetto sugli organi di senso, infatti, non ha solo una portata conoscitiva, ma anche una portata emotiva. I sentimenti di piacere e dolore si producono a seconda che l’oggetto assecondi o meno il movimento vitale. Con il ripetersi di queste esperienze, si generano nei confronti degli oggetti esterni dei “conati” (il “conato” è l’equivalente del “punto” in geometria, ossia l’unità minima del movimento). Questi conati prendono due forme opposte: di “appetito” o “desiderio” nel caso in cui il conato si rivolga verso la causa che lo ha prodotto; di “avversione” nel caso in cui tenda a evitarla. L’amore è desiderio e l’odio avversione, tranne che amore e odio si riferiscono all’oggetto presente, mentre desiderio e avversione all’oggetto assente; il disprezzo infine consiste nell’assenza di reazione nei confronti dell’oggetto e dunque è ciò che noi chiamiamo generalmente “indifferenza”.

ESERCIZIO

E3: Hobbes

Una visione meccanicista

Sulla base di questo modello meccanicistico della natura umana, Hobbes costruisce una tavola dei valori in netto contrasto con la tradizione teologica e metafisica: buono è l’oggetto dell’appetito, cattivo è l’oggetto dell’odio e vile e insignificante è l’oggetto del disprezzo.

Radicalmente meccanicistica è anche la concezione della “deliberazione”, ossia della scelta. Essa è secondo Hobbes “l’intera somma dei desideri, delle avversioni, delle speranze e dei timori, protratti fino al momento in cui l’azione venga compiuta o ritenuta impossibile” (Leviatano, 1651), e la “volontà” non è altro che l’ultimo appetito che precede l’azione o l’omissione. La volontà non è dunque la facoltà in cui risiede il libero arbitrio, bensì un atto, influenzato dalla diversità dell’indole umana, la quale trae origine da sei fonti:

(1) dal temperamento, che può rendere l’uomo più audace o più timido;

(2) dall’abitudine, che piega la natura umana alle cose a cui da principio essa oppone resistenza;

(3) dall’esperienza delle cose esterne, da cui, a seconda dell’ampiezza, deriva la cautela o la temerarietà;

(4) dai beni di fortuna, come ricchezza, nobiltà e potenza politica;

(5) dall’opinione di sé, poiché, per esempio, chi si ritiene saggio è inadatto a correggere i propri vizi;

(6) dall’autorità altrui, cioè dall’esempio di chi è ritenuto saggio.

Tanto la successione alternata degli appetiti contrari quanto l’ultimo appetito che precede l’azione, ossia la deliberazione e la volontà, sono causate da fattori esterni a essi. La libertà per Hobbes non risiede dunque nel “poter volere” liberamente, ma nel fare ciò che si vuole, dunque la libertà non è il contrario della necessità, bensì della costrizione esterna: “così [...] diciamo che chi è legato manca della libertà di andarsene, poiché l’impedimento non sta in lui, ma nei suoi legami, mentre non diciamo altrettanto di chi è malato o è storpio, poiché l’impedimento sta in lui stesso”.

ESERCIZIO

E2: Hobbes

ESERCIZIO

E5: Hobbes

1.6 La politica

Nello stato di natura gli uomini sono uguali tra di loro. Benché infatti vi siano delle differenze quanto alla forza fisica, queste non sono tali da impedire che i più deboli riescano a uccidere i più forti attraverso delle macchinazioni o alleandosi fra loro. L’uguaglianza di fronte alla morte dà luogo a una contesa permanente, di cui le principali cause sono la rivalità, la diffidenza e l’orgoglio: “la prima porta gli uomini ad aggredire per trarne un vantaggio; la seconda per la loro sicurezza; la terza per la loro reputazione” (Leviatano, 1651). Al di fuori di un potere comune che li assoggetti, gli uomini si troverebbero quindi in uno stato di guerra di tutti contro tutti in cui nulla può essere ingiusto, poiché “le nozioni di diritto e torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo”, così come non esiste proprietà e dominio, “ma appartiene a ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi per tutto il tempo che riesce a tenerselo”. Gli uomini hanno diritto, nello stato di natura, a “ricorrere a tutti i mezzi, e compiere tutte le azioni, senza cui non [possono] conservarsi”: questo è lo ius naturale (“diritto di natura”). Le virtù cardinali in tempo di guerra sono dunque violenza e frode.

Nello stato naturale vi sono tuttavia passioni, come la paura della morte, che spingono l’uomo alla pace; proprio facendo leva su queste passioni la ragione suggerisce delle clausole di pace grazie alle quali gli uomini possono raggiungere un accordo: le leggi naturali o recta ratio. Queste leggi naturali restano tuttavia delle pure indicazioni della ragione, fino a che non venga istituito un potere coercitivo: “i patti – conclude Hobbes – senza la spada non sono che parole”.

ESERCIZIO

E1: Hobbes

TESTO

T2: Thomas Hobbes, Il diritto naturale

Il Leviatano

Gli uomini dunque abbandonano lo stato di guerra, che è “un effetto necessario” delle passioni naturali, solo trasferendo tutto il loro potere e la loro forza a un uomo o a un’assemblea di uomini, dando così corpo alla persona artificiale dello Stato. Il grande Leviatano – mostro biblico immane e fortissimo, tra il drago e la balena, citato nel libro di Giobbe –, cui gli uomini devono la pace e la difesa, nasce da una serie di patti tra ciascun membro della moltitudine, il cui testo è così formulato da Hobbes: “Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni”. Chi incarna la persona nata da questa serie di patti si chiama sovrano, ciascuno degli altri si chiama suo suddito. La formula dei patti incrociati attraverso cui ogni diritto, eccetto quello alla vita (perché altrimenti verrebbe meno la ragione fondamentale dei patti), viene trasferito al sovrano, fa sì che i sudditi non possano più cambiare forma di governo, stipulando un nuovo patto, né possano confiscare il potere al sovrano, né protestare contro di lui, né infine, qualsiasi cosa faccia, giudicarlo o punirlo: a questi diritti infatti essi hanno rinunciato nell’atto di istituzione dello Stato. Il sovrano si trova dunque in possesso di una serie di diritti “non trasmissibili e inseparabili”:

TESTO

T3: Thomas Hobbes, Necessità e origine dello Stato

(1) è giudice di ciò che è necessario fare per la pace e la difesa dei sudditi e delle dottrine che conviene loro insegnare a questo scopo;

(2) prescrive le regole che danno luogo alla proprietà;

(3) è giudice nelle controversie;

(4) ha diritto di fare guerra o pace, “vale a dire di giudicare sia quando l’una o l’altra convenga al bene pubblico, sia l’entità delle forze da radunare, armare e pagare in vista di quel fine, sia di imporre tributi ai sudditi per coprire le spese relative”, sceglie consiglieri, ministri, magistrati e funzionari;

(5) ricompensa o punisce i sudditi in conformità a una legge promulgata, o anche in sua assenza qualora egli lo “giudicherà massimamente efficace a incoraggiare gli uomini a servire lo Stato, o a dissuaderli dal creargli danno”; assegna onorificenze e onori.

La libertà dei sudditi è definita dal rapporto con le leggi, che sono le catene artificiali che gli uomini si sono dati instaurando il potere statale: in questo senso la libertà risiede “in quelle cose che il sovrano ha trascurato, nel disciplinare le azioni dei sudditi, quali la libertà di comprare, di vendere e fare tra loro altri contratti, di scegliere la loro dimora, la loro dieta, la loro occupazione, di educare i figli come loro stessi ritengono opportuno e di fare cose analoghe”. Questa libertà dei sudditi non limita mai il potere del sovrano, e la sola limitazione che conosce la sua assolutezza risiede nelle leggi naturali in quanto emanazioni di Dio: le azioni del sovrano sono dunque una questione tra Dio e la sua coscienza. Tuttavia vi è una libertà che il suddito possiede indipendentemente da ciò che gli è comandato dal sovrano: la libertà di difendere il proprio corpo. Poiché infatti la paura della morte violenta è la ragione dell’istituzione dello Stato, se viene meno la sicurezza della vita, viene meno allo stesso tempo la ragione di tale istituzione.

Il giusnaturalismo nel Seicento

Giusnaturalismo” (da ius naturale) è il nome che assume la teoria del diritto naturale (ossia di quel diritto conforme alla natura dell’uomo e quindi intrinsecamente giusto) durante i secoli XVII e XVIII. Essa prende avvio dalla riflessione del domenicano Francisco Vitoria (1492-1546) sui diritti degli indigeni americani rispetto ai colonizzatori europei: lo schema fondamentale della teoria giusnaturalistica moderna prevede, a partire da un modello di natura umana proposto sotto forma della descrizione di uno stato di natura (reale o fittizio), di proporre la teoria di uno Stato che, sorto da un patto o contratto, garantisca agli individui alcuni diritti che vengono considerati, appunto, naturali.

Grozio: appetitus societatis e ragione

Huig de Groot (1583-1645), o Grozio, è l’autore del De jure belli ac pacis (1625). In questo testo vengono gettate le basi del diritto internazionale moderno (il cosiddetto ius gentium, cioè “diritto delle genti”): il libro, infatti, stabilisce i vincoli giuridici cui sono sottoposti gli stati sia in tempo di pace che di guerra. Grozio fonda il proprio discorso sui dettami del diritto naturale (in particolare sul principio che impone di rispettare i patti: “pacta sunt servanda”). Secondo Grozio, l’uomo è un animale di ordine più elevato rispetto agli altri perché è dotato di un appetitus societatis, cioè del bisogno “di una comunità pacifica e ordinata […], con coloro che sono della sua stessa specie”. Fonte del diritto è la conservazione della società, nel cui ambito rientrano “l’astenersi dalle cose altrui, la restituzione di ciò che appartiene ad altri e che noi deteniamo, e del profitto che ne abbiamo tratto; l’obbligo di mantenere i patti; la riparazione del danno arrecato per propria colpa; l’incorrere in una pena meritata per la trasgressione”.

Hobbes: diritto naturale, legge naturale, Stato

Thomas Hobbes propone – negli Elementi di legge (1647), nel De cive (1641) e nel Leviatano (1651) – una teoria del diritto naturale opposta a quella di Grozio. Lo stato di natura è una condizione di estrema insocievolezza, il celebre bellum omnium contra omnes (“la guerra di tutti contro tutti”) in cui homo homini lupus (“l’uomo è lupo per l’altro uomo”). In questa condizione il diritto naturale coincide con il puro fatto dei rapporti di forza: ogni uomo ha diritto a tutto ciò che è in grado di prendersi con la forza o con l’astuzia. Questo stato di guerra e di insicurezza permanente induce la paura di una morte violenta, che porta gli uomini a dare ascolto ai dettami della recta ratio (cioè la legge naturale): la ricerca della pace (quando possibile), il rispetto dei patti e dei diritti altrui. Proprio la non coercività della lex naturalis conduce gli uomini, attraverso una serie di patti reciproci, a rinunciare al proprio diritto a tutte le cose a favore di un uomo o di un consiglio: nasce così lo Stato, a cui viene quindi delegato il compito di esercitare il diritto e il cui potere assoluto ha come unico limite la sicurezza della vita dei sudditi.

Spinoza, diritto e potenza

La teoria politica spinoziana è una radicale decostruzione della tradizione del diritto naturale. Nel Tractatus theologico-politicusSpinoza scrive: “Per diritto e istituto naturale non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più piccoli”. Il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata “potenza”. Per Spinoza il patto non è che un rapporto di forze: il potere del sovrano è assoluto solo fintanto che è sorretto dalla potenza della collettività. In questo senso la libertà di pensiero e di parola è una potenza della collettività che la somma autorità non può reprimere se non vuole perdere il proprio potere.

Pufendorf e il doppio patto

Samuel Pufendorf (1632-1694) tenta di costruire un sistema organico e scientifico del diritto naturale. Pufendorf prende le distanze dall’idea hobbesiana di una guerra di tutti contro tutti: “lo stato naturale degli uomini, considerati al di fuori di qualsiasi istituzione civile, non è uno stato di guerra, ma di pace”. Tuttavia, gli uomini tendono talvolta a recarsi danno: da qui la necessità di istituire un’autorità in grado di garantire la sicurezza degli individui. Lo Stato nasce secondo Pufendorf da due patti, l’uno successivo all’altro: il pactum unionis, con il quale gli individui “manifestano la volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza”, e il pactum subjectionis, che si verifica quando gli individui indicano la persona o le persone cui affidare le sorti dello Stato, una volta decisa per maggioranza la forma di governo.

Locke e il diritto alla proprietà

Anche John Locke, nel secondo dei Due trattati sul governo (1690), formulerà una teoria della legge naturale: essa si identifica con la ragione stessa e lo stato naturale è “uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone”. Tuttavia libertà non significa licenza: lo stato naturale è governato “da una legge di natura che è per tutti vincolante”. Il rispetto di questa legge nello stato di natura è affidata a tutti gli uomini ma la precarietà dello stato di natura conduce gli uomini a unirsi in Stati e ad assoggettarsi a un governo “per la salvaguardia della loro proprietà”. Il contratto attraverso cui viene instaurato il potere dello Stato consente dunque agli uomini di godere di quei diritti che derivano loro dalla legge di natura e che tuttavia nello stato di natura sono condannati alla precarietà.

V.M.

LETTURE

Il Tractatus theologico-politicus di Spinoza