Baruch Spinoza è profondamente influenzato sia dalla tradizione giudaico-cristiana sia dalla tradizione neoplatonica rinascimentale, e alla luce di queste influenze critica e riformula i problemi che gli erano stati posti dal razionalismo di Descartes.
Discendente da una famiglia di ebrei sefarditi, ossia abitanti la penisola iberica, Spinoza riceve la sua prima formazione nella sinagoga di Amsterdam, dove studia la Bibbia e il Talmud, sotto la guida dei rabbini Saul Levi Morteira e Menasseh ben Israel.
Spinoza studia anche con Franz van den Enden, un cattolico di Anversa noto come libero pensatore. A una critica della sua tradizione religiosa lo indirizza anche un evento che accade quando è adolescente: la condanna alla pubblica flagellazione (seguita poi dal suicidio) di un ebreo, Uriel da Costa, che aveva sostenuto teorie eretiche.
Accanto agli studi teologico-religiosi, Spinoza coltiva anche il latino, la matematica, la fisica e la medicina. Studia la tradizione scolastica (da cui accoglie il pensiero dell’infinità divina), il naturalismo e il panteismo rinascimentale (da cui riceve l’idea della infinità del mondo), filosofi come Bacon, Hobbes e Descartes, e scienziati come Galilei e Keplero.
Dalle prime biografie – in particolare quelle di Jean Maximilien Lucas (1677) e di Johan Köhler (1705) – sappiamo che Spinoza nasce ad Amsterdam presumibilmente il 24 novembre 1632 e viene chiamato Baruch qualche giorno dopo la nascita. La famiglia ebrea di origine portoghese si è rifugiata in Olanda a seguito delle persecuzioni che l’Inquisizione aveva inflitto ai conversos (gli ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo).
A sette anni frequenta la scuola ebraica, impara l’ebraico, studia le Scritture nonché alcuni testi del neoplatonismo ebraico. Imparerà il latino in seguito, alla scuola dell’ex-gesuita Franciscus Van den Ende, che frequenta tra il 1652 e il 1656 avendo modo così di conoscere i classici latini, oltre che Descartes.
Alla morte del padre, avvenuta nel 1654, Spinoza ne rileva l’attività commerciale assieme al fratello. Nel frattempo, ha mantenuto un netto distacco rispetto alla religione ebraica, che lo porta a non frequentare più la sinagoga. Nel luglio del 1656, viene emanato un decreto di scomunica (cherem) con cui viene espulso dalla comunità ebraica.
Allontanatosi da Amsterdam, si stabilisce in un villaggio non troppo lontano dalla città, dove intraprende quell’attività di costruttore di lenti che gli consentirà per tutta la vita di provvedere alla sua sussistenza.
Nel 1660 è a Rijnsburg, presso Leida, e ha già attorno a sé una cerchia di amici fedeli, una comunità singolare di medici, artigiani, commercianti dediti allo studio della filosofia: tra questi, Simon De Vries, un mercante che alla morte (1669) lascerà in eredità a Spinoza una discreta rendita. In questi anni lavora al Tractatus de intellectus emendatione, che verrà pubblicato postumo.
Nel 1663, Spinoza ha già terminato il Tractatus de Deo et homine eiusque felicitate (più noto come Breve trattato), pubblicato postumo, e nello stesso anno pubblica a suo nome Renati Descartes principia philosophiae. Cogitata metaphysica: la prima parte è un’esposizione del pensiero di Descartes, la seconda parte raccoglie i commenti e alcune note critiche.
Nel 1669 si trasferisce a Voorburg, nei pressi de L’Aja; l’anno dopo pubblica anonimo il Tractatus theologico-politicus, le cui teorie politiche, che esaltano le libertà di pensiero, di espressione e di culto, tradiscono la sua vicinanza alle idee dei circoli liberali olandesi che si raccolgono attorno ai fratelli De Witt. L’opera ha una pessima accoglienza da parte della stessa opinione pubblica protestante: nel 1672, alcuni predicatori calvinisti riusciranno a sobillare la popolazione a una sommossa che porta al massacro dei De Witt.
Nel 1674 Spinoza completa la sua opera più importante, l’Ethica more geometrico demonstrata, il cui manoscritto circolerà tra i suoi ammiratori. Due anni prima rifiuta la cattedra di filosofia all’università di Heidelberg, temendo che un incarico del genere potesse mettere a repentaglio la sua libertà di pensiero. Spinoza non è un uomo ambizioso: conduce una vita semplice ma non ascetica; esalta il piacere e la felicità, così come sosterrà sempre il primato delle “passioni gioiose” sulle “passioni tristi”.
Nel 1676 riceve la visita di Leibniz, che desidera incontrarlo dai tempi della lettura del Tractatus theologico-politicus; il filosofo tedesco ottiene da Spinoza di leggere il manoscritto dell’Ethica, e avanzerà in seguito critiche sui temi dell’unicità della sostanza e sul rifiuto spinoziano della teleologia.
L’anno dopo, a soli 45 anni, Spinoza muore di tisi, a L’Aja: è il 21 febbraio del 1677. Nello stesso anno i suoi amici e discepoli pubblicano in latino e in olandese un volume di Opere che racchiude, tra l’altro, l’Ethica e un Tractatus politicus a cui Spinoza stava lavorando, e che è rimasto incompiuto.
Le vicissitudini dell’opera spinoziana dimostrano sia il lento percorso intellettuale che porta Spinoza a definire i propri temi e il proprio sistema, sia le difficoltà che il suo pensiero incontra per affermarsi liberamente.
La prima opera di Spinoza è un piccolo Trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità (noto come Breve trattato) che però non vedrà mai la luce, sino a che il manoscritto, dato per perduto, non sarà ritrovato e pubblicato nel secolo XIX secolo. In quest’opera egli anticipa molti dei temi che poi saranno sviluppati nell’Etica.
Anche uno scritto successivo, il Tractatus de intellectus emendatione, benché sia già probabilmente citato in una lettera a Oldenburg del 1661 (Epistola 6), apparirà postumo insieme all’Etica. Il solo volume di Spinoza apparso durante la sua vita e sotto il suo nome, contiene due opere diverse, i Renati Descartes principia philosophiae e i Pensieri metafisici. Un’altra delle sue opere più famose, il Tractatus theologico-politicus, appare nel 1670 in forma anonima e con luogo di edizione e nome dell’editore falsi, per sfuggire a censure e persecuzioni.
L’opera principale, l’Etica, viene probabilmente scritta tra il 1661 e il 1665 e rielaborata in forma definitiva dopo la pubblicazione del Tractatus theologico-politicus, tra il 1670 e il 1675. Il manoscritto circola riservatamente tra alcuni suoi amici, ma è solo dopo la sua morte che, senza nome dell’autore (salvo le iniziali BDS, per Benedictus de Spinoza) e sotto il titolo generale di Opera postuma, appaiono nel 1677 a stampa sia l’Etica che un altro trattato politico, il Tractatus de intellectus emendatione, una serie di lettere e una Grammatica ebraica.
Le posizioni religiose, filosofiche e politiche di Spinoza gli attirano – in vita e per lungo tempo dopo la sua morte – non solo accuse di eresia, ma anche di materialismo e ateismo, persino da parte di autori che pure gli riconoscono una assoluta purezza di costumi e una profonda dedizione alla ricerca filosofica. La rivalutazione di Spinoza inizierà solo alla fine del XVIII secolo e continuerà per tutto il XIX secolo, specie nell’ambiente romantico e idealistico. Schelling dirà, nelle Lezioni monachesi, che “nessuno può sperare di pervenire al vero e al perfetto in filosofia, se non si è sprofondato almeno una volta in vita sua nello spinozismo”, e per Hegel (Lezioni di storia della filosofia) con Spinoza “per la prima volta l’intuizione orientale dell’identità assoluta è stata accostata immediatamente al modo di pensare europeo”.
LETTURE
Hegel
LETTURE
Schelling
Descartes aveva lasciato insoluto il problema dei rapporti tra sostanza pensante (res cogitans) e sostanza estesa (res extensa). La sostanza estesa era il dominio della necessità meccanica, mentre la sostanza pensante era il regno della libertà. Inoltre nel pensiero cartesiano si poneva una differenza tra sostanza pensante divina, che non ha bisogno di nessun’altra realtà per esistere, e sostanza pensante umana. L’originalità di Spinoza consiste nell’elaborare una filosofia dell’unicità della sostanza, che è stata caratterizzata come “monismo”. Esiste un’unica sostanza, un’unica realtà, che si manifesta attraverso infiniti attributi, di cui noi riusciamo a riconoscere solo il pensiero e l’estensione, i quali danno luogo a una infinita molteplicità di modi. L’essere nella sua interezza, da Dio all’infima delle realtà naturali, obbedisce alla stesse leggi ed è dominato dalla necessità. Nel concetto di sostanza si identificano e fondono le nozioni di Dio e di natura.
LETTURE
Le scuole neoplatoniche
Vol.1
Per questo il pensiero spinoziano è stato qualificato come “panteistico”. Ma il panteismo spinoziano non è quello della tradizione neoplatonica. Per il neoplatonismo esiste un Uno che sta all’origine di tutte le cose e di cui non si può predicare nulla; questa unità divina si diffonde poi (ovvero “si emana”) nel creato, sino alla materia infima, ma attraverso un processo di successiva degenerazione. Per Spinoza invece ogni aspetto della realtà è divino allo stesso titolo, e Dio non sta all’origine dell’essere, né ne rimane separato: Dio è l’insieme di tutto ciò che è.
ESERCIZIO
E8: Spinoza
ESERCIZIO
E10: Spinoza
Tale sostanza è causa di se stessa, e la sua essenza implica la sua esistenza. In tal senso Spinoza accetta l’argomento ontologico: “Per causa di sè intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente” (Etica I, Def. 1). Non vi è creazione: la sostanza è natura naturante che si manifesta come natura naturata attraverso i suoi modi; essi possono essere modi dell’attributo del pensiero (e cioè le idee) e modi dell’estensione, tra i quali il corpo umano.
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Il concetto moderno di coscienza
La sostanza è retta da un ordine necessario: non vi è nulla di contingente, nulla cioè che potrebbe essere diverso da ciò che è. Ciò che ci appare contingente è effetto della deficienza del nostro intelletto, che non riesce a comprendere come ogni cosa sia legata causalmente a tutte le altre, e tutte insieme a Dio. Spinoza critica ogni forma di finalismo: nulla si muove in vista di qualche fine. Tutto ciò che è, e che accade, si sviluppa per una necessità di tipo geometrico, nello stesso modo in cui in un sistema matematico teoremi, corollari e lemmi si generano l’uno dall’altro. Il rapporto tra Dio e le cose che ne dipendono è lo stesso che esiste tra un triangolo e le sue proprietà.
Influenzato dal pensiero scientifico del suo secolo, e dall’idea galileiana che il mondo sia scritto in caratteri matematici, Spinoza intende la sostanza come regolata da leggi appunto di tipo matematico. Questa influenza scientifica si traduce nel suo pensiero, tuttavia, in forme metafisiche, per cui la “geometricità” del suo metodo non dovrebbe essere intesa in senso letterale – ma così la intende Spinoza, e l’Etica è strutturata per definizioni, assiomi, proposizioni e dimostrazioni.
Se le idee sono i modi del pensiero e i corpi i modi dell’estensione, si spiega anche il problema della conoscenza: pensiero ed estensione seguono lo stesso ordine necessario e pertanto “l’ordine e la connessione delle cose sono lo stesso dell’ordine e la connessione delle idee” (Etica II, prop. 7). Questa dottrina è stata definita come parallelismo psico-fisico e spiega il modo in cui la mente umana può giungere alla conoscenza vera della realtà se riesce a comprendere la necessità che regola e dirige la vita stessa dell’unica sostanza universale.
Siccome però la mente umana non conosce se stessa se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo, e non percepisce il proprio corpo se non per mezzo delle idee delle affezioni mediante le quali percepisce i corpi esterni, la nostra conoscenza è inizialmente confusa (Etica II, prop 29, corollario). Ma anche le idee confuse sono necessarie, ed è necessario l’errore, perché anche le idee confuse e inadeguate sono modi della sostanza divina. La conoscenza inizia, dunque, come percezione sensibile e immaginazione, prosegue come conoscenza razionale individuando quelle idee universali o comuni che ci permettono di definire la natura delle cose, e diventa infine scienza intuitiva, ovvero conoscenza adeguata degli attributi e dei modi divini (per cui giunge a vedere le cose come le vede Dio stesso). A questo punto la conoscenza diventa la concezione delle idee “sotto specie di eternità”, vale a dire come necessaria manifestazione di Dio. Il criterio di verità ci permette di distinguere tra questi diversi modi di conoscenza.
Spinoza è cosciente che la nostra mente concepisce la realtà in modo prospettico (ancorata com’è a un corpo e alle sue passioni). Uomini diversi possono essere affetti diversamente da uno stesso oggetto (Etica III, prop. 51); un soldato associa all’idea di cavallo quella di guerra, un contadino quella di campo e di aratro (Etica II, prop. 18, scolio); alcuni intendono per uomo un animale eretto, altri un bipede implume (Etica II, prop. 41, scolio 1). La conoscenza vera è una lunga e faticosa conquista, che parte dalla nostra condizione di esseri umani dominati dalle passioni.
Il pensiero di Spinoza è stato spesso considerato come un tentativo di eliminare le inconseguenze della metafisica cartesiana della sostanza o meglio di mostrare le implicazioni teoriche profonde della definizione cartesiana della sostanza divina in termini di autosussistenza. Se Descartes sostiene che non è possibile attribuire la sostanzialità nello stesso senso a Dio e alle creature, Spinoza risolve il problema alla radice, attribuendo la sostanzialità solo all’essere divino e facendo dei corpi e delle menti finiti dei modi dell’unica sostanza divina.
Ricostruiamo brevemente i passaggi del ragionamento di Spinoza. Nella III definizione della prima parte dell’Etica scrive: “Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ovvero ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere formato” (Etica, 1677). La sostanza è definita nei termini di indipendenza ontologica e di autosufficienza epistemologica: da ciò Spinoza trarrà le più radicali conseguenze teoriche. Nella proposizione 7 dimostra che la sostanza esiste necessariamente; nella proposizione 8 ne dimostra l’infinità e nella proposizione 11 giunge ad identificare la sostanza infinita con il Dio della definizione 6, ossia “la sostanza che consta di infiniti attributi”. Dimostrata l’esistenza necessaria del Dio-sostanza, Spinoza passa a dedurre le altre proprietà: per la proposizione 13 è indivisibile, il che implica che nessun suo attributo possa essere concepito adeguatamente, da cui deriva l’indivisibilità della sostanza, contro la teoria cartesiana della divisibilità all’infinito dell’estensione; per la proposizione 14 è unico, e dunque la res extensa e la res cogitans devono essere pensate come attributi di Dio; infine, per la proposizione 15 include in sé l’essere di tutte le cose.
Spinoza propone dunque un concetto di sostanza cui è propria l’esistenza necessaria (è causa sui, cioè causa di sè), l’unicità, l’infinità, l’indivisibilità e l’omnicomprensività. Nelle proposizioni 16-36 mostra come l’essenza di questa sostanza consista nella produttività immanente dei modi (per cui la sostanza è causa sui nello stesso senso in cui è causa dei modi); di questi, per effetto del loro legame necessario con la sostanza, nega la contingenza e dunque ogni forma di libertà intesa come libero arbitrio. Rispetto alla metafisica cartesiana dunque Spinoza nega la trascendenza della sostanza divina rispetto alla pluralità delle sostanze pensanti e alla sostanza estesa, ridefinendo queste come attributi dell’unica sostanza, di cui i corpi e le menti singolari non sono che modificazioni: ciò lo conduce da una parte a pensare la stessa mente umana nella dimensione della necessità e dall’altra a pensare l’estensione come infinita e indivisibile, cioè ad elevare l’estensione ai caratteri della divinità.
LETTURE
Il concetto di sostanza nel Seicento
Conoscendo la necessità divina, l’uomo si appaga nella tranquilla accettazione del corso delle cose. È interessante notare come questa dottrina della necessità, e del suo pacificato e religioso riconoscimento, preveda una teoria delle emozioni o degli affetti (Etica III). Ma anche le emozioni sono deducibili geometricamente dai presupposti della teoria.
Secondo Spinoza, ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere, nella forma della volontà quando questo sforzo riguarda la mente, e dell’appetito quando riguarda il corpo. La cupidità è la passione per cui l’uomo desidera qualcosa e per ciò stesso ritiene buono quel che desidera. La gioia è la passione connessa alla conservazione e al perfezionamento del proprio essere, e la tristezza quella connessa a una sua diminuzione. Quando gioia e tristezza sono connesse a una causa esterna che le produce, si generano amore e odio. Da queste passioni fondamentali Spinoza deduce secondo il suo metodo geometrico tutte le altre, realizzando un’analisi di grande finezza psicologica.
Ma se così fosse la teoria spinoziana non permetterebbe l’elaborazione di una vera teoria morale, perché l’uomo sarebbe portato a fare solo ciò che gli procura gioia e tristezza, indipendentemente da ogni giudizio etico. Anche qui interviene la teoria della necessità: solo quando l’uomo comprende quale sia la legge che governa l’universo, saprà scegliere ciò che maggiormente corrisponde a questo disegno; compresa la natura delle emozioni e la loro necessità, grazie a questa comprensione saprà anche agire indipendentemente da esse. L’affermazione della sua libertà consisterà nell’affermazione dell’amore intellettuale di Dio (Etica V, prop. 32) da cui consegue la gioia serena e pacata del filosofo che riconosce la necessità universale. Diventa così libero colui che riesce a riconoscere la necessità e a svincolarsi da qualsiasi causa. Per esempio, il filosofo riconosce la necessità della morte, ma non ne soffre la paura (Etica IV, Prop. 67).
TESTO
T5: Baruch Spinoza, Sul libero arbitrio
Sugli stessi presupposti si fonda la teoria politica di Spinoza. Gli uomini sono guidati per temperamento da passioni contrastanti, e debbono quindi eleggere a guida la ragione mirando a realizzare ciò che è essenziale alla natura umana e quindi identico per tutti, cercando come proprio utile l’utilità reciproca (Etica IV, prop. 73). Le norme del diritto naturale, che per Hobbes e i giusnaturalisti erano fondate sulla ragione, sono per Spinoza fondate sulla necessità. Il diritto naturale, espressione della necessità cosmica, stabilisce che l’uomo non è libero di agire secondo la propria natura ma, per evitare la guerra di tutti contro tutti, cerca di stabilire un ordine sociale, un diritto comune, che si esprime nella forma di un governo. Solo all’interno di questo patto sociale, che stabilisce regole e leggi, prendono significato le idee di bene e di male, o di giusto e ingiusto.
Su queste idee politiche Spinoza fonda la sua teoria della libertà filosofica e religiosa dell’uomo. È singolare, e in parte contraddittorio, che questa teoria della necessità (per cui le cose sono così come sono e nessuna azione umana può modificare l’ordine del mondo) generi al proprio interno una delle più appassionate difese della libertà di pensiero concepita nel XVII secolo.
TESTO
T7: Baruch Spinoza, Il diritto naturale
In effetti l’affermazione del diritto alla libertà di pensiero si fonda sulla dottrina della fede. Nel Tractatus theologico-politicus Spinoza sostiene che le Sacre Scritture non affermano alcuna verità ma soltanto il principio dell’obbedienza a Dio e il precetto dell’amore per il prossimo. Ridotto quindi il problema della fede a pochi principi essenziali, cade ogni conflitto tra fede e ragione. La fede consente a ciascuno la massima libertà nel ricercare la verità filosofica. Il dovere dello Stato è di garantire tale libertà.
Il Tractatus theologico-politicus è pubblicato nel 1670 anonimo e ben presto viene condannato dalle Corti d’Olanda insieme al Leviatano di Hobbes. Nei capitoli XVI, XIX e XX Spinoza vi espone i cardini della sua teoria politica, riprendendo le problematiche giusnaturalistiche. Egli pensa la società come il risultato di un patto: “gli uomini […] per vivere in sicurezza e nel miglior modo, dovettero necessariamente unirsi e far sì da avere collettivamente il diritto che ciascuno per natura aveva su tutte le cose e che questo fosse determinato, non più dalla forza e dall’istinto di ciascuno, ma dal potere e dalla volontà”. Tuttavia, mentre in Hobbes nel patto ogni uomo aliena una volta per sempre il suo diritto naturale a favore del sovrano, in Spinoza il patto sussiste solo fintanto che dura la sua utilità e viene meno con essa. Questa concezione radicalmente innovativa del patto che dà origine alla società si fonda su una concezione del diritto naturale individuale differente da quella giusnaturalistica. Il diritto naturale infatti non è un valore tipicamente umano e razionale che deve essere riconosciuto e difeso dallo Stato, ma è la regola di funzionamento di ogni individuo della natura: ogni individuo ha tanto diritto a esistere e ad agire quanto sarà la sua potenza.
In un contesto di tal genere lo Stato non può che essere il risultato di un accordo basato su un calcolo di vantaggi e di svantaggi, a cui ogni uomo può sottrarsi nel momento in cui vengano meno le ragioni del patto. Tra lo stato di natura e lo stato politico non vi è dunque una cesura netta, non vi è reale opposizione tra naturalità e artificio, ma il primo si prolunga nel secondo senza venire mai meno.
Se pure il potere sovrano non è soggetto ad alcuna legge, tuttavia, per mantenere il proprio potere deve agire secondo ragione e per il bene comune; in caso contrario vengono meno le condizioni che hanno dato luogo al patto. Per questa ragione Spinoza afferma che il potere democratico è la forma politica più naturale, poiché è difficile che la maggioranza cada in un assurdo che toglierebbe le condizioni del patto.
Il capitolo XX del Tractatus dimostra che in una libera repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa. La libertà di pensiero e di parola non sono tanto un diritto che lo Stato deve riconoscere, quanto un dato di fatto di cui lo Stato deve prendere atto: nessuno – afferma pertanto Spinoza – può essere costretto a rinunciare alla propria facoltà di ragionare liberamente e di esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa. Ogni tentativo da parte delle supreme autorità di eliminare questo diritto è, secondo Spinoza, destinato a indebolire l’autorità dello Stato e a produrre sedizioni. Lo Stato ben costituito deve dunque concedere tanto libertà di filosofare quanto libertà religiosa, l’unico vincolo richiesto all’individuo è di essere rispettoso delle decisioni prese dallo Stato, anche nel caso in cui non le condivida.