4. Malebranche e l’occasionalismo

di Riccardo Fedriga

4.1 Eredità cartesiana e questioni teologiche

La dottrina che nel Seicento prende il nome di “occasionalismo” nasce da un contesto in cui la tesi cartesiana della radicale differenza tra pensiero ed estensione si intreccia con le discussioni teologiche sull’onnipotenza divina e sulla relazione tra Dio e la causalità naturale. Le conseguenze del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa implicano la difficoltà di risolvere il problema del rapporto tra anima e corpo: come può l’anima determinare il movimento del corpo se le due sostanze non hanno nulla in comune? Ma sollevano al contempo difficoltà teologiche all’interno della dottrina cattolica: come intendere, al di fuori della definizione aristotelica dell’anima come forma del corpo, verità di fede quali la transustanziazione del corpo di Cristo nell’eucaristia? In che modo fondare la teodicea in un mondo in cui la sfera del divino è radicalmente distinta da quella naturale? Lungi dal considerarli ambiti distinti, pensatori come La Forge e Malebranche trovano nell’occasionalismo la teoria nella quale quei problemi filosofici e religiosi trovano una conciliazione e una soluzione unitaria.

Era stato lo stesso Cartesio, ragionando sugli effetti che seguono cause a loro eterogenee, a usare nelle Meditationes l’espressione à l’occasion de: i movimenti corporei si verificherebbero “in occasione di” atti di volontà. Questa asserzione non nega il rapporto tra cause ed effetti, ma ne sottolinea l’eterogeneità. Per Cartesio la difficoltà non esiste: che l’anima agisca sul corpo è un fatto attestato dall’esperienza quotidiana e lo spirito umano è capace di concepire chiaramente sia la distinzione tra anima e corpo che la loro unione. Alcuni discepoli di Cartesio, tra i quali Johannes Clauberg, Arnold Geulincx, Louis de La Forge, Géraud de Cordemoy e soprattutto Nicolas Malebranche, avvertono invece le gravi implicazioni di questa affermazione. Se anima e corpo possono interagire, il rischio è quello di favorire una soluzione materialistica sul modello della tesi di Hobbes della corporeità dell’anima.

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Thomas Hobbes

Gli occasionalisti

L’occasionalismo trova la sua formulazione più radicale nell’opera del francese Louis de La Forge (1632-1666). Questi nel Trattato dello spirito dell’uomo (pubblicato nel 1665) ribadisce l’assoluta sovranità di Dio sulle “cause seconde”. La teoria delle cause seconde individua nella semplice successione temporale di due fatti un reale rapporto di causa ed effetto (concetto già discusso nei dibattiti teologici della fine del XIV secolo, in particolar modo in Giovanni Duns Scoto).

Nel Seicento l’occasionalismo definisce “causa seconda” quella che provoca l’occasione per l’intervento della volontà divina, detta anche “causa prima”. Secondo La Forge nei corpi e negli spiriti non vi è alcuna autonomia d’azione, neppure potenziale; piuttosto, il senso della loro esistenza sta nel costituire gli strumenti tramite i quali Dio ha stabilito di produrre un’azione: “io continuo […] a riconoscere i corpi e gli spiriti come le cause particolari di quegli stessi movimenti, non invero perché essi producano alcuna qualità impressa […] ma perché essi determinano e obbligano la causa prima ad applicare la sua forza e la sua virtù motrice su corpi sui quali non l’avrebbe esercitata senza di essi, secondo il modo in cui essa ha deciso di comportarsi” (La Forge, Trattato dello spirito dell’uomo, cap. XVI). La Forge si spinge ad affermare che le sostanze estese non avrebbero neppure la capacità di mantenersi in esistenza, garantita invece da Dio attraverso una “creazione continua”.

Di eguale tenore sono le tesi del filosofo olandese Arnold Geulincx (1624-1669), evidenziate dal principio per cui impossibile est, ut is faciat, qui nescit quomodo fiat (“è impossibile fare ciò di cui si ignora il modo di produzione”). L’azione dell’anima sul corpo è un’illusione e l’accordo tra gli atti delle due sostanze è spiegabile solo facendo ricorso all’azione di Dio. Questi è come un orologiaio che abbia costruito due orologi, differenti tra loro e completamente autonomi, eppure in perfetta sincronia. All’osservatore esterno potrà sembrare che i movimenti dell’uno siano causa o effetto dei movimenti dell’altro, ma al filosofo non può sfuggire che il sincronismo dipende solo dal modo in cui gli orologi sono stati costruiti dall’orologiaio e cioè da Dio, sola e unica causa di tutto.

Ad analoghe conclusioni giunge anche il francese Géraud de Cordemoy (1614-1683). Il movimento di un corpo può essere conservato solo da quella causa che lo ha prodotto; l’uomo non è in grado di conservare i movimenti del proprio corpo, quindi non può nemmeno esserne l’autore. Cordemoy, al pari di Geulincx, nega che lo spirito abbia il potere di influenzare e orientare il moto corporeo, ed estende a Dio la facoltà di causare i nostri pensieri così come i movimenti simultanei della nostra lingua. Tutti i processi spirituali derivano da Dio e la libertà umana si riduce all’intenzione: la responsabilità umana è salvaguardata dal fatto che, se è Dio a farci pensare, siamo pur sempre noi che pensiamo. La stessa conoscenza umana è limitata all’ambito delle proprie passioni e al riconoscimento che le cose non sono in sé come egli le conosce. Virtù fondamentale per l’uomo, che deve inchinarsi alla superiore sapienza di Dio, è allora l’umiltà.

R. F.

La volontà come causa occasionale

Preoccupati di salvaguardare la spiritualità dell’anima e allo stesso tempo di dimostrare l’agire diretto di Dio sul mondo, essi giungono a negare l’azione dell’anima sul corpo e a sostenere che è Dio a intervenire direttamente, anche nel caso in cui sembra che una delle due sostanze agisca sull’altra. È Dio a imprimere il movimento a un corpo quando l’anima lo vuole e a produrre contemporaneamente nell’anima la sensazione di aver compiuto quel movimento. Niente di quello che precede (affermano gli occasionalisti) è causa efficiente di ciò che segue. La volontà di alzare un braccio non è la vera causa efficiente dell’alzarsi del braccio, ma determina solo l’evento in occasione del quale la vera causa efficiente, cioè la potenza divina, si decide ad agire. La volontà è dunque solo causa occasionale. Identica soluzione si prospetta per la trasmissione del movimento, sia nel caso di un fatto materiale che ne provochi un altro materiale, sia nel caso di un evento psichico che ne generi un altro di identica natura. Chi muove i corpi è Dio, colui cioè che in principio ha dato movimento alla materia creandola. Ad esempio, l’urto tra due corpi, come nel caso di una palla da biliardo che ne colpisca un’altra, è solo la causa occasionale che provoca l’intervento divino.

4.2 Nicolas Malebranche

La trattazione più completa dell’occasionalismo si ha nell’opera di Nicolas Malebranche (1638-1715) che esce a Parigi nel 1675 col titolo La ricerca della verità (La recherche de la vérité). Convertito alla filosofia dalla lettura del Trattato dell’uomo di Cartesio e accolto il metodo cartesiano che assegna validità solo alle proposizioni che appaiono evidentemente vere, Malebranche non accetta però la tesi, propria della psicologia cartesiana, secondo la quale le idee consisterebbero in stati della coscienza. Negli Eclaircissements (Chiarimenti, pubblicati a partire dal 1678 in appendice a La ricerca della verità) Malebranche riconosce in esse gli archetipi delle cose, le essenze iscritte nell’intelletto di Dio. Si tratta, dunque, di un platonismo di impronta agostiniana, spiegabile con l’ingresso di Malebranche nella congregazione degli oratoriani (avvenuta nel 1660) e con la convinzione che il pensiero di Agostino costitui-sca un correttivo ai problemi epistemologici posti dal cartesianesimo e un contrappeso al meccanicismo di quella filosofia della natura.

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Agostino

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La teoria della conoscenza

Se le idee prendono forma nella mente divina, non sarà l’uomo, ma Dio il loro autore. La teoria della conoscenza di Malebranche, quindi, sarà prima di tutto un’indagine sui nostri errori e sul modo di eliminarli. Le soluzioni fornite da Malebranche risentono della sua vasta cultura scientifica, che spazia dall’ottica alla meccanica: ai lunghi studi dedicati al fenomeno dell’urto, per esempio, si deve il famoso esempio delle due palle da biliardo. Chi muove i corpi è Dio, colui cioè che in principio ha dato movimento alla materia creandola: in questo caso l’urto tra le due palle da biliardo è solo la “causa occasionale” che provoca l’intervento divino, “causa reale” del movimento della seconda palla.

Ci sono errori che dipendono dai sensi e dall’immaginazione ed errori commessi dall’intelletto. La conoscenza sensibile ha un’utilità esclusivamente pratica, non essendo i sensi in grado di giudicare come sono le cose in se stesse. D’altronde anche l’anima non è in grado di produrre le idee che le consentono di conoscere la realtà, poiché la produzione delle idee è un vero e proprio atto di creazione e gli uomini non hanno facoltà di creare. Credere che gli uomini abbiano la possibilità di causare, di provocare cioè dei movimenti, per Malebranche è solo un residuo di paganesimo. Causare equivale a creare, e questo è attributo che appartiene solo a Dio, la cui volontà è l’unica forza motrice e unica vera causa delle nostre idee.

TESTO

T8: Nicolas Malebranche, La causa reale e le cause occasionali

Tutta la conoscenza che l’uomo ha delle idee e del reale è dovuta al fatto che l’uomo li vede direttamente in Dio. In questo modo Malebranche rimane nel solco della dottrina occasionalista della separazione tra anima e corpo, ma sottolineando la partecipazione dell’anima alla ragione divina si ricollega anche all’idea agostiniana del contatto immediato tra l’anima e Dio. Non a caso i contemporanei lessero la teoria della visione in Dio come testimonianza del misticismo di fondo di Malebranche. Quello che noi vediamo in Dio sono comunque solo le cose conoscibili mediante le idee e cioè le caratteristiche geometriche dei corpi. Tutto quello che riguarda le sensazioni e le qualità sensibili, essendo queste prive di oggettività, ci è sconosciuto. Ma se la nostra conoscenza dell’anima è incerta, anche il possesso delle idee di un corpo non è sufficiente a dimostrare la sua esistenza. Se Cartesio risolve il problema affidandosi alla garanzia di un Dio incapace di ingannare, per Malebranche solo la Rivelazione, l’autorità delle Scritture e infine la fede sono in grado di colmare il divario, irrisolvibile per la ragione, tra le idee e la realtà esterna.

La natura e la grazia

Se già negli Eclaircissements Malebranche stabilisce un parallelo tra l’ordine della natura e quello della grazia, entrambi sottoposti alle stesse leggi di semplicità e generalità, una trattazione più completa del problema si ha con la pubblicazione del Trattato della natura e della grazia (Traité de la nature et de la grâce, 1680).

Com’è possibile, si domanda Malebranche, conciliare la provvidenza di Dio con la presenza del male nel mondo? Questo interrogativo, centrale per la teologia classica, è ingigantito da una dottrina teocentrica come quella occasionalista, che individua in Dio l’unica causa di tutto ciò che avviene. La riflessione di Malebranche, inoltre, lo affronta alla luce del problema del compatibilismo tra onnipotenza divina e libertà dell’uomo, riprendendo il filo di una riflessione sul fatalismo teologico che ha le proprie radici nel De consolatione philosophiae di Boezio: come puo conciliarsi il sapere divino, che preconoscendole necessita le cose contingenti, con il libero accadere degli eventi e come può l’uomo avere conoscenza stabile (e quindi necessaria) di realtà mutevoli? Temi che erano stati al centro della controversia sulla grazia e sulla libertà, interna alla tarda scolastica, tra i sostenitori del gesuita Luis de Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez.

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Severino Boezio

Vol.1

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La disputa sulla grazia: Molina e Bañez

La soluzione proposta da Malebranche traspone nel campo della dottrina teologica alcuni principi strettamente scientifici. Attributo principale di Dio è, prima della bontà, la saggezza: Dio è tanto più saggio quanto più opera con il minor numero possibile di leggi stabilite una volta per tutte e valide per sempre, sia nel campo della natura sia in quello della grazia. Per questo non si può fare una colpa a Dio per la presenza del male: la bontà con la quale Egli vorrebbe impedirlo è infatti subordinata alla saggezza che gli suggerisce di non compromettere la semplicità delle leggi che regolano il mondo con interventi ad hoc. Come non è saggio per Dio stabilire con un decreto che la pioggia non cada sul mare ma sul deserto, così nel campo della grazia non è saggio che Dio complichi le sue leggi con un’infinità di decreti particolari.

I temi della grazia e della teodicea sono al centro della polemica tra Malebranche e i giansenisti, in particolare Antoine Arnauld con il quale la diatriba si protrae per quasi vent’anni, dal 1680 al 1694.

Arnauld rifiuta alcune idee centrali nella teodicea di Malebranche: ad esempio la teo-ria della visione in Dio, che a suo avviso cancella ogni differenza tra la conoscenza umana e quella divina, dato che tutti conoscerebbero in Dio. Quello di Arnauld è un Dio volontarista, che agisce attraverso volontà particolari rivolte a fatti e oggetti specifici. Malebranche contrappone a questa visione quella di un Dio razionale che agisce in conformità alla propria saggezza nello scegliere, secondo leggi generali, il migliore dei mondi possibili. È il progetto stesso di una teodicea a essere infondato, per Arnauld, dal momento che egli la giudica come una forma di limitazione all’onnipotenza assoluta di Dio. Da questo punto di vista, i due erano condannati a non capirsi.

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Onnipotenza divina e mondi possibili

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Blaise Pascal

Rispetto ai giansenisti, invece, che sostengono la totale passività umana nei confronti della grazia e la tesi per cui non tutti gli uomini verrebbero salvati da Dio, Malebranche riafferma la possibilità per ogni uomo di porsi, grazie all’amore di Dio e alla conoscenza del bene, nella condizione di poter ricevere la grazia quando questa lo tocchi.

Il problema della teodicea in Malebranche

L’antica questione del male e della “teodicea” (un termine coniato da Leibniz, letteralmente “giustificazione di Dio”), come problema del rapporto tra l’esistenza di un Dio perfetto e sommamente buono e la presenza del male nel mondo, viene discussa intensamente in età cartesiana, anche se Cartesio non dedica un’attenzione specifica al problema. In questo ambito Cartesio riprende posizioni tradizionali come la riconduzione agostiniana del male nel suo complesso al male cosiddetto “metafisico”, ovvero inteso come mera “privazione” del bene e dipendente dalla finitezza dell’uomo, e offre spunti che verranno sviluppati nei decenni successivi.

A uno di questi spunti si collega Nicolas Malebranche, il quale presta al tema ben altra attenzione, soprattutto nel Trattato della natura e della grazia (1680). Malebranche non accetta la soluzione agostiniana del male metafisico come semplice privazione, e sviluppa un’intuizione cartesiana che corrisponde alla nuova immagine del mondo della scienza moderna: la natura è retta da leggi semplici e universali. L’uniformità della natura è data infatti dalla saggezza divina – il predicato di Dio che Malebranche mette in primo piano rispetto alla giustizia o alla bontà – e le sue leggi sono leggi universali; la presenza del male è la conseguenza di questa generalità delle leggi naturali, in quanto non sarebbe saggio, per Dio, intervenire su ogni singolo avvenimento contravvenendo a esse. Se Malebranche riprende un’indicazione cartesiana, la sua posizione entra in conflitto con un’altra tesi importante dell’autore delle Meditazioni, ovvero l’onnipotenza di Dio vista come sua assoluta libertà. La semplicità e la generalità delle leggi della natura finiscono infatti per essere un ordine dotato di un valore proprio, punto di riferimento dello stesso agire divino. Cartesio, al contrario, aveva spinto la libertà divina fino a renderla liberamente creatrice di ogni verità o regola morale. Così facendo, Malebranche va incontro all’obiezione di limitare l’onnipotenza divina, come infatti gli viene fatto rilevare da Antoine Arnauld (1612-1694), il cartesiano giansenista di Port-Royal, con il quale intavola una significativa polemica.

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La teodicea da Malebranche a Kant

La scienza della morale

Allo studio della morale, che Malebranche considera la più necessaria tra tutte le scienze, è dedicato il Trattato della morale (Traité de morale, 1684). Se La ricerca della verità stabilisce che l’amore è legato indissolubilmente al male causato dal peccato originale, il Trattato trova il fondamento metafisico del bene nella contemplazione del verbo o ragione. Qui l’uomo scopre i rapporti di perfezione che costituiscono l’“ordine” immutabile che Dio stesso consulta quando agisce; anche in questo caso, un esplicito richiamo alla metafisica di Agostino. La virtù si identifica allora con lo sforzo che l’uomo fa per passare dalla legge naturale, compromessa dal peccato, alla legge immutabile dell’ordine. Sforzo che coincide con un movimento libero e razionale verso il bene, in grado di sottrarre l’uomo alle inclinazioni che gli derivano dalle passioni e di trasformare l’amore per l’ordine in un’“abitudine dominante”. Ma poiché noi potremmo ancora amare l’ordine solo per istinto, è necessario che esso sia regolato dalla conoscenza esatta dei nostri doveri, che Malebranche distingue in doveri verso Dio, la società e noi stessi.

Gli studi scientifici

Il favore di cui godono i giansenisti sotto il pontificato di Innocenzo XI porta alla condanna all’Indice dei libri proibiti delle opere metafisiche e teologiche di Malebranche. Pur non ottenendo gli esiti sperati dai giansenisti, la condanna lo induce ad abbandonare le questioni metafisico-teologiche per dedicarsi agli studi scientifici e in particolare alla matematica. Partito da un’impostazione strettamente cartesiana, che con il concetto di grandezza esprime in termini chiari e distinti quei rapporti finiti di uguaglianza e disuguaglianza che hanno nell’idea di unità la loro misura comune, Malebranche finisce con l’accogliere le critiche di Leibniz. Questi sosteneva che il concetto di grandezza fosse da sostituire con quello di “quantità variabile”, che aumenta e diminuisce in continuazione e rispetto al quale tutte le quantità costanti sono solo casi particolari.

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Gottfried Leibniz

Malebranche accoglie quindi il calcolo infinitesimale e se ne fa promotore negli studi scientifici francesi. Anche l’adesione generale di Malebranche alla fisica cartesiana si evolve in posizioni più critiche riguardo l’ipotesi che individua nel riposo la forza capace di resistere al movimento. Nell’ultimo capitolo della Ricerca si afferma che, se è indispensabile la volontà divina per far passare un corpo dallo stato di quiete al movimento, mentre è sufficiente che Dio smetta di volere perché un corpo non si muova più, sarà il movimento e non il riposo ad avere forza.

L’ingresso all’Académie des Sciences, nel 1699, segna l’affermazione di Malebranche come scienziato e l’inizio della sua influenza sugli studi matematici. In quell’occasione compila una Memoria in cui s’impegna nella definizione del concetto di “materia sottile” e si occupa della trasmissione della luce e dei colori, della gravità dei corpi e delle loro proprietà, e soprattutto delle leggi che riguardano la trasmissione del movimento. All’interno di un metodo che resta sostanzialmente ipotetico-deduttivo, Malebranche assegna tuttavia all’esperienza un ruolo preminente. Così, nella quinta edizione della Ricerca, egli critica il principio della conservazione della quantità di moto che Cartesio fa derivare dall’immutabilità di Dio: l’esperienza ci insegna che, in caso di urto tra due corpi, la quantità di movimento trasmessa aumenta e diminuisce incessantemente.

La diffusione del pensiero di Cartesio tra successi e insuccessi

Descartes non aveva elaborato soltanto una filosofia, ma aveva anche concepito una strategia che avrebbe dovuto condurlo a sostituire l’egemonia culturale del sapere scolastico (ancora largamente dominante nelle università, nell’istituzione ecclesiastica e nella cultura ufficiale) con un nuovo tipo di filosofia, aperto alla nuova scienza ma anche capace di salvaguardare le certezze religiose. Questo disegno emerge con chiarezza nelle grandi opere sistematiche, ma determina anche alcune scelte tattiche del filosofo.

Le Meditazioni e i teologi dell’università di Parigi

Le Meditazioni sulla filosofia prima si aprono con una lettera “ai molto saggi ed illustrissimi signori della Sacra Facoltà di Teologia di Parigi” in cui Descartes propone la sua nuova metafisica come una via sicura per accertare “verità” come l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo. Al momento della seconda edizione Descartes aggiunge al testo le Settime obiezioni: si tratta delle obiezioni del padre gesuita Pierre Bourdin, già professore al collegio di La Flèche ove lo stesso Descartes aveva studiato. A esse Descartes replica con particolare attenzione, ma di fronte alle incomprensioni del suo autorevole interlocutore contemporaneamente scrive al padre Dinet, dal 1639 provinciale dei gesuiti di Francia, per difendersi dalla “asprezza” delle critiche e per presentarsi come attaccato su due fronti: da una parte i protestanti olandesi che lo accusavano come cattolico e dall’altra quei gesuiti che vedevano nella sua filosofia una “novità” capace di minacciare la filosofia “antica”. Su quest’ultimo fronte, Descartes ribatte che proprio i “principi della filosofia volgare” sono nuovi, mentre la sua filosofia “è la più antica di tutte”, perché la verità viene prima e perché “nella filosofia volgare non vi è nulla che, essendole contrario, non sia nuovo” (lettera a Dinet, maggio 1642).

Un contro-manuale: i Principi della filosofia

Nel 1644 pubblica i Principi della filosofia, che avrebbero dovuto essere un manuale (o meglio un contro-manuale) per l’insegnamento nelle scuole capace di soppiantare i manuali aristotelico-scolastici. Per la stessa ragione lo fa tradurre dal latino in francese e vi premette la grande lettera-prefazione a Picot in cui rivela apertamente la sua ambizione sistematica: la filosofia (in primo luogo la sua) è “come un albero le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che qui si riducono a tre principali: la medicina, la meccanica e la morale”.

L’episodio del Mondo

Questo disegno egemonico impone a Descartes anche ripiegamenti e scelte tattiche: la più celebre resta la decisione di non pubblicare Il mondo o Trattato sulla luce, a causa della condanna di Galileo avvenuta nel 1633. Poiché quel trattato di cosmologia era tutto imperniato sull’ipotesi eliocentrica, Cartesio preferisce lasciarlo nel cassetto per non scontrarsi direttamente con l’autorità ecclesiastica (e infatti verrà edito solo postumo). Per un altro verso, intende mostrare che la nuova metafisica da lui proposta non minaccia il dogma dell’eucarestia, anche se di fatto abbandona la spiegazione in termini di sostanza e accidenti che erano state codificate dal concilio di Trento.

Il fallimento della strategia cartesiana

Malgrado tutti questi sforzi, il tentativo cartesiano di proporre la propria metafisica come una base nuova e migliore per l’insegnamento istituzionale va incontro a un sonoro insuccesso. Le università continuano a utilizzare i vecchi manuali, sia pure con qualche aggiornamento, soprattutto scientifico; le stesse opere di Descartes vengono messe all’Indice dei libri proibiti nel 1667. Anche il suo principale allievo francese, Nicolas Malebranche, subisce condanne analoghe: nel 1690 viene messo all’Indice il Trattato della Natura e della Grazia, nel 1709 la traduzione latina della Ricerca della Verità, nel 1714 il Trattato di Morale e le Conversazioni sulla metafisica e sulla religione. Il cartesianesimo fallisce dunque nel suo tentativo di imporsi come nuova filosofia “ufficiale” delle università e delle istituzioni, tant’è vero che ancora all’inizio del Settecento i philosophes che seguono una formazione scolastica regolare si formano su manuali che integrano aspetti delle nuove scienze entro una compagine di logica e di metafisica largamente tradizionali.

Il successo della “via delle idee”

Il cartesianesimo, invece, riscuote un grande successo – tale da condizionare tutta la cultura, non solo francese ma continentale, dentro e fuori delle università – nell’imporre quella che Bayle chiamava la “cultura dell’evidenza” e che consiste principalmente nell’analisi delle idee come arte del ben ragionare. Sembra anzi che questa cultura dell’evidenza possa separarsi dalla metafisica dualistica in cui si è forgiata e sopravvivere così, autonomamente, alla crisi della scienza cartesiana che viene rapidamente sostituita da quella newtoniana. La “via delle idee” diventa un linguaggio comune ai filosofi, agli scienziati e in genere agli uomini di cultura che prendono le distanze dalla filosofia aristotelico-scolastica, anche senza aderire totalmente al controverso sistema di Descartes.

Gianni Paganini

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L’ascesa della “via delle idee”

Dibattiti e polemiche

ESERCIZIO

E11: Malebranche

La biografia di Malebranche è segnata da vivaci contrasti intellettuali, che spesso lo costringono a doversi difendere su più fronti. Né va dimenticato che, tra tutte le opere di Malebranche, solo la Ricerca otterrà l’approvazione della censura. Si è detto dello scontro con Arnauld e con i giansenisti. Ma non meno aspra fu la polemica con i gesuiti. Malebranche intende l’occasionalismo come una teoria che, conciliando il cristianesimo con le conquiste della filosofia cartesiana, si pone in alternativa all’aristotelismo della tradizione scolastica sostenuto dai gesuiti. Egli rileva come quel sistema di pensiero, attribuendo realtà sostanziale alla causalità, che invece a sua avviso è un puro termine del linguaggio, ricada in un nominalismo che è, al contempo, un errore filosofico e una pericolosa forma di idolatria. Lo scontro si ripresenta in alcuni opuscoli d’occasione. Conversazione di un filosofo cristiano e un filosofo cinese sull’esistenza e la natura di Dio (Entretien d’un philosophe chrétien et d’un philosophe chinois, 1708), ad esempio, nel quale Malebranche contesta ai gesuiti l’opportunità di accogliere alcuni riti della tradizione cinese per meglio favorire la riuscita della propria opera missionaria, gli offre l’occasione per tornare ad affrontare temi filosofici, dopo la condanna all’Indice, e soprattutto per dirimere la questione, poi ripresa in uno scambio epistolare con il segretario dell’Académie Jean-Jacques Dortous de Mairan, sulle presunte affinità tra la sua dottrina della visione in Dio e alcuni aspetti delle teorie di Spinoza. Preoccupato dagli accostamenti tra la propria concezione dell’essere infinito in assoluto e la definizione spinoziana di Dio, che riduce tutte le cose a manifestazione di un’unica sostanza, Malebranche attacca la tesi dell’impossibilità della creazione, vista come passaggio decisivo che conduce il filosofo olandese a posizioni panteistiche.

L’esistenza dell’essere infinito non esclude il concetto di creazione: contraddittorio è semmai pensare che a un essere onnipotente sia negata la facoltà di creare. Sempre sul dogma dell’unicità della sostanza divina si fonda il parallelismo di Spinoza fra i modi dell’estensione e i modi del pensiero, entrambi attributi della sostanza; il che lo porta a concludere che noi vediamo le cose in se stesse. Ma in realtà, obietta Malebranche, quello che noi vediamo in Dio non sono le cose in sè, ma soltanto le idee. Sono tentativi per sottrarsi all’abbraccio, giudicato fatale dallo stesso Malebranche, tra la sua concezione di un Dio soggetto alla “costrizione” della propria saggezza e il carattere di necessità del mondo di Spinoza. Eppure la lettura di Malebranche alla luce della polemica sullo spinozismo segnerà la storiografia fino a tutto l’Ottocento: ancora Hegel, nelle Lezioni sulla storia della filosofia, parlerà della filosofia di Malebranche come di uno spinozismo in forma pia e teologica.

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Il concetto di sostanza nel Seicento

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Baruch Spinoza

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Hegel

Harvey: la circolazione del sangue

Annunciata nel De motu cordis del 1628, ma frutto di un lungo periodo di ricerche testimoniate dalle lezioni del 1616, la scoperta della circolazione del sangue è insieme il risultato di elaborazioni teoriche, di considerazioni di carattere quantitativo e di attività sperimentale.

La novità introdotta da William Harvey (1578-1657), che ha un ruolo di primo piano nei successivi sviluppi della fisiologia, è l’affermazione che il sangue torna al cuore senza essere stato consumato e ne esce continuamente. Harvey asserisce che tutto il sangue venoso fluisce in direzione centripeta, e che il cuore contraendosi forza il sangue nelle arterie verso la periferia. Il moto del sangue è circolare e la stessa quantità di sangue parte dal cuore e a esso fa ritorno. La teoria di Harvey è contraria alla concezione di Galeno, per la quale solo una porzione del sangue venoso giunge nel ventricolo destro, mentre le vene trasportano il sangue dal fegato (che ne è l’origine) direttamente alla periferia, per nutrire le parti del corpo.

Harvey confuta su basi osservative le concezioni galeniche relative al cuore mostrando per mezzo della vivisezione di una rana il transito polmonare del sangue; mostra poi che, se si recide un’arteria, il sangue fuoriesce dal corpo in circa mezz’ora. Adduce quindi una prova sperimentale: applica una legatura ben stretta al di sopra del gomito cosicché il sangue arterioso non possa fluire verso il basso e nota che al di sotto della legatura non c’è pulsazione delle arterie e la mano si raffredda, mentre al di sopra l’arteria di gonfia; allenta quindi la legatura in modo tale che il sangue arterioso possa fluire verso il basso, cosicché la mano si riscaldi. Se la legatura è messa in basso, il sangue venoso non può fluire e quindi le vene si gonfiano. Ciò dimostra che il sangue va dal cuore alla periferia attraverso le arterie e dalla periferia al cuore attraverso le vene. Il principale argomento a sostegno della circolazione è di carattere quantitativo. Harvey afferma che qualora il sangue non circolasse, si dovrebbe produrre una quantità di sangue superiore al peso del corpo. A tali osservazioni Harvey aggiunge anche argomenti filosofici: riprendendo il concetto aristotelico di causa finale, egli afferma che le valvole interne alle vene hanno un ben preciso fine, cioè permettono il transito del sangue solo in una direzione, impedendo che rifluisca verso le estremità. La circolazione stessa è finalizzata alla conservazione del sangue come principio vitale. Il sangue e non gli spiriti, come era sostenuto dalla medicina galenica e da quella rinascimentale, costituisce per Harvey il fondamento della vita.

Antonio Clericuzio

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Galeno

Vol.1

La teoria corpuscolare di Robert Boyle

Lo scienziato e filosofo irlandese Robert Boyle (1627-1691) comincia a lavorare alla definizione della teoria corpuscolare della materia già nei primi anni Cinquanta del Seicento e nel 1666 pubblica L’origine delle forme e della qualità (The Origin of Forms and Qualities), dove presenta in modo dettagliato la sua “filosofia meccanicistica”. I principi su cui si basa la filosofia corpuscolare di Boyle sono materia e movimento. La materia è una sola, omogenea, universale, comune a tutti i corpi – i suoi unici attributi sono l’estensione, la divisibilità e l’impenetrabilità. Il moto locale (definito da Boyle come la principale tra le cause seconde) non è congenito alla materia, ma viene a essa impresso da Dio al momento della creazione: l’attribuzione alla materia di un principio interno di moto, infatti, rappresenterebbe per Boyle una pericolosa concessione alle filosofie materialistiche e all’epicureismo. Per Boyle, il moto ha origine da Dio ed è da Dio mantenuto e diretto in tutto l’universo. Per effetto del moto, la materia viene divisa in particelle insensibili, i cui unici attributi sono la forma (shape) e la grandezza (bulk). Le particelle di materia, che costituiscono le unità ultime di cui sono composti tutti i corpi, possono essere scomposte dall’azione di Dio, ma, a causa della loro compattezza, rimangono immutate in natura. Da questi corpuscoli, che Boyle chiama prima naturalia, si formano i primi aggregati di corpuscoli, o concrezioni primarie, che, a differenza dei corpuscoli semplici, sono scomposti in natura. Ciò accade raramente, essendo la loro struttura estremamente compatta. Si tratta di corpuscoli composti che rimangono integri in un gran numero di reazioni chimiche e che possono essere recuperati. In Nell’Origine delle forme e delle qualità Boyle fa riferimento alla reductio ad pristinum statum per provare la teoria atomistica: la possibilità di recuperare l’oro e l’argento o altri metalli sottoposti all’azione di solventi prova sperimentalmente che i primi aggregati di corpuscoli rimangono integri nel corso di reazioni chimiche.

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Robert Boyle