5. John Locke

di Umberto Eco

5.1 Un deciso e prudente empirismo

John Locke nasce nel Somerset nel 1632 e i suoi primi studi sono di carattere classico. Benché in seguito si dedichi anche agli studi di medicina, non conseguirà mai il titolo di dottore ma praticherà l’arte medica in molte occasioni. A causa delle sue idee di stampo liberale conosce momenti di difficoltà politica che lo portano a vivere all’estero, prima a Parigi, dove si dedica alla lettura di Descartes e di Gassendi, e poi in Olanda. Tornato in Inghilterra, dopo aver ricoperto varie cariche di carattere politico e civile, muore nel 1704.

Forse a causa dei suoi studi di medicina elabora un atteggiamento empirista, da cui nasce la sua critica all’innatismo cartesiano; e tutta la sua speculazione è caratterizzata da tratti poco accademici, tanto è vero che la sua opera principale, il Saggio sull’intelletto umano (1690), nasce – come egli ci dice – da una serie di conversazioni non specialistiche con un gruppo di amici. Locke è stato considerato come l’anticipatore di molti temi dell’Illuminismo del secolo successivo; con i filosofi dell’Encyclopédie, egli ha in comune lo stile dell’argomentazione – che si svolge in modo pacato come un colloquio tra intellettuali provenienti da formazioni diverse – e la precisa scelta di non impiegare termini filosofici tecnici se non dopo averli definiti, e comunque attenendosi allo stile e alla terminologia del linguaggio quotidiano.

LETTURE

L'Encyclopédie: storia di un progetto filosofico

È interessante confrontare l’inizio del Discorso sul metodo di Descartes con le pagine introduttive del Saggio di Locke. Secondo Descartes “il buon senso è la cosa meglio distribuita nel mondo poiché ciascuno pensa d’esserne così ben provvisto che anche coloro che più difficilmente si accontentano di ogni altra cosa non sogliono desiderarne più di quel che ne hanno”. Questa affermazione apparentemente banale rinvia alla fiducia cartesiana in un patrimonio di idee innate comuni a tutti gli esseri umani, cosicché obbedendo alla loro logica si poteva pervenire con la forza della sola ragione a dedurre tutto ciò che si deve conoscere, compresa l’esistenza di Dio. Il prudente elogio che Locke fa invece del nostro intelletto, che certamente il creatore ha reso capace di intrattenere in un rapporto di conoscenza col mondo, concerne peraltro la sua imperfezione, il fatto che può procedere solo in base a criteri di probabilità, e questo perché noi traiamo le nostre capacità di conoscenza non da un patrimonio di principi innati bensì soltanto dall’esperienza.

5.2 Il Saggio sull’intelletto umano

Critica dell’innatismo

Il Saggio inizia pertanto con un attacco alla persuasione che esistano idee innate: gli uomini possono acquisire tutta la loro conoscenza semplicemente usando le loro facoltà naturali senza l’ausilio di alcuna idea innata; il consenso universale su alcuni principi non dimostra che essi siano innati. È d’altra parte evidente che questo consenso non è propriamente universale, dato che le idee ritenute innate non sono note ai bambini o agli idioti (che pure hanno un’anima). Persino nel campo delle idee morali e dei principi pratici esistono popoli che hanno concezioni del bene e del male diverse da quelle degli europei, e che addirittura non posseggono l’idea di Dio (tema utilizzato dai libertini, ma non da Locke, per trarne conclusioni ateistiche).

Locke è uno dei primi pensatori a mettere a frutto – in termini che oggi diremmo di antropologia culturale – le notizie diffuse da viaggiatori ed esploratori di civiltà esotiche sui modi di vivere e di pensare di altre genti, diffondendo così i principi di un certo relativismo culturale.

TESTO

T9: John Locke, La critica alle idee innate

BOX

Il libertinismo erudito

Certamente, concede Locke, esistono tendenze comuni a tutti gli uomini (come il desiderio della felicità e l’avversione all’infelicità), ma si tratta di inclinazioni del nostro appetito e non di verità concepite dal nostro intelletto. L’uomo ha riconosciuto come innate alcune proposizioni generali sulle quali è parso che fosse istintivo il consenso di tutti. Ma la nostra mente è una tabula rasa, ovvero un foglio di carta bianco su cui vengono scritte le idee solo via via che ci provengono dall’esperienza.

Estensione e limiti della conoscenza umana

Anche se il bersaglio dell’anti-innatismo di Locke non è tanto Cartesio, dal quale trae molti suggerimenti, ma piuttosto l’innatismo dei platonici di Cambridge e quello di Malebranche, l’empirismo di Locke si preoccupa di stabilire i limiti dell’intelligenza umana rispetto ai fenomeni di cui si può parlare in modo ragionevole. Da questo stile non si discostano neppure le sue opere sull’educazione, sulla religione, sulla tolleranza e sulla filosofia politica. In tal senso Locke ha profondamente influenzato lo stile filosofico anglosassone sino ai giorni nostri.

LETTURE

Malebranche e l'occasionalismo

LETTURE

René Descartes

Dato che l’esercizio dell’intelligenza è la facoltà che pone l’uomo al di sopra degli altri esseri sensibili, nel Saggio Locke intende, dunque, indagare l’estensione e i limiti della conoscenza umana, e stabilire quanto questa conoscenza sia certa oppure basata su principi di probabilità, attraverso i vari gradi della certezza, della credenza, dell’opinione e del consenso.

Non tutte le conoscenze hanno lo stesso grado di certezza. Ma il fatto che esistano cose al di fuori del raggio della nostra conoscenza non significa che questa non possa essere migliorata. “Se un domestico pigro e capriccioso, che non ha compiuto il lavoro che doveva fare al lume della candela, si lamenta che non aveva a disposizione la luce aperta del sole, questo non sarà ammesso come scusa per la sua trascuratezza. La candela, che è accesa in noi, fa una luce sufficiente per tutti i nostri propositi.” Non dobbiamo chiedere la certezza quando può essere ottenuta solo la probabilità, e non dobbiamo rifiutare la credenza in ogni cosa solo perché non possiamo conoscerle tutte. In tal caso “saremmo tanto saggi quanto chi non usasse le gambe, ma restasse fermo e morisse, perché non ha ali per volare” (Saggio, Intr. 1-8).

Sensazione e riflessione interna

Il primo problema che Locke si pone è esaminare in base a quali movimenti della nostra mente e a quali alterazioni dei nostri corpi si crei una sensazione mediante l’aiuto dei nostri organi sensoriali, o un’idea interna del nostro intelletto.

I nostri sensi, che vengono in contatto con oggetti sensibili particolari, convogliano nella mente diverse percezioni delle cose, secondo il modo in cui gli oggetti agiscono sui sensi. La prima fonte delle nostre idee è la sensazione; la seconda è la riflessione interna.

TESTO

T10: John Locke, Le due fonti della conoscenza

Alcune idee sono semplici (colori, sapori, forme, solidità), altre sono complesse (elaborate dalla riflessione interna per composizione di idee semplici) come l’idea di fiore, uomo o cavallo.

“Né il genio più esaltato né l’intelletto più vasto, per rapido e vario che sia il suo pensiero, può inventare o costruire una nuova idea semplice” (Saggio 1, II, 1-2).

5.3 Le idee

Locke chiama “idea” tutto ciò che la mente concepisce in se stessa o è oggetto immediato di percezione. Questi oggetti esibiscono delle qualità. Sono primarie le qualità che sono nei corpi (come la massa, la figura o il numero) e sono secondarie o sensibili quelle che un corpo, a causa delle sue qualità primarie, produce operando sui nostri sensi (colori, suoni o gusti). I corpi hanno inoltre poteri, e possono agire sugli altri corpi, come il fuoco ha il potere di fondere il piombo. Da un punto di vista rigorosamente empiristico, per cui esistono solo le qualità dei corpi, la distinzione tra qualità primarie e secondarie non sarebbe sostenibile, ma pare che Locke consideri primarie le qualità su cui la maggior parte di noi dovrebbe assentire in qualsiasi circostanza (il peso di un corpo non muta a seconda delle circostanze esterne) e secondarie quelle su cui il consenso è determinato dalle circostanze (sapori e colori possono cambiare a seconda del soggetto che li percepisce) e dalle condizioni esterne.

La mente umana è anche capace di separare un’idea da tutte le altre che l’accompagnano: così facendo astrae, e produce idee generali.

Le idee complesse possono essere modi (come l’idea di triangolo o di gratitudine), sostanze singole (come quella di uomo o di pecora) o collettive (esercito o gregge), oppure relazioni tra idee diverse (marito o fratello). Le nozioni che abbiamo delle relazioni sono più chiare di quelle che abbiamo delle sostanze.

La critica all’idea di sostanza

La critica dell’idea di sostanza è un caposaldo della filosofia lockiana. Nel comporre idee semplici in idee complesse noi siamo portati a conferire a queste idee complesse una esistenza autonoma. Così pensiamo che esistano sostanze come uomo o pecora, e riteniamo che le loro varie qualità primarie o secondarie siano altrettanti accidenti che sono sostenuti da un sostrato (o sostanza, o essenza) nel senso che riteniamo che una tale sostanza umana sia bianca, o alta, o in movimento. Tuttavia di queste sostanze non abbiamo alcuna idea chiara e distinta che non sia la composizione delle varie qualità attuate nella riflessione interna. Nello stesso modo ci comportiamo supponendo che esista una sostanza spirituale come supporto dei vari nostri atti di pensare, ragionare o temere.

La teoria del linguaggio

La critica dell’idea di sostanza si basa sulla concezione lockiana del linguaggio. Le parole che usiamo sono segni sensibili delle idee che sono nella mente di chi le usa. Solo in modo mediato riteniamo anche che siano (1) segni delle idee che sono nella mente di chi ci ascolta e (2) segni delle cose di cui parliamo.

Ma le parole significano in prima istanza solo le idee, alle quali sono state applicate in base a una scelta arbitraria. È impossibile che ogni cosa particolare di cui abbiamo esperienza possa essere nominata (come se si dovesse elaborare un termine particolare per il colore di un certo fiore in una certa ora del giorno e in un determinato momento dell’anno). Se anche questo fosse possibile, nulla garantirebbe che il nome che diamo a questa esperienza particolare possa riferirsi alle esperienze altrettanto particolari che si riflettono nella mente dei nostri ascoltatori. Pertanto la maggior parte delle parole che usiamo sono termini generali, ovvero segni di idee generali.

Locke non nega che la natura faccia molte cose simili tra loro, come è testimoniato dal fatto che gli animali che assegniamo a una certa specie generano solo animali della stessa specie. Ma l’assortire cose sotto termini generali (uomo, pecora, cane ecc.) è operazione dell’intelletto umano, che costruisce idee generali astratte sulla base delle somiglianze che percepisce.

L’essenza reale di una cosa sfugge alla nostra conoscenza, e noi parliamo solo della sua essenza nominale (che ne è l’idea generale astratta contrassegnata da un nome). Le idee nominali sono costruzioni artificiali che dipendono dal grado d’informazione che possediamo circa qualcosa. Il linguaggio è lo strumento grazie al quale organizziamo la nostra conoscenza della realtà individuando essenze nominali. In tal senso si è detto che Locke riproduce il “nominalismo” di Ockham, ovvero – a essere corretti – il suo concettualismo.

Pur essendo strumento indispensabile di conoscenza della realtà, il linguaggio è tuttavia imperfetto perché spesso le parole non si riferiscono a idee chiare e distinte, vengono usate in modo incostante o oscuro, oppure si crede che le parole siano cose, o le si usa per cose che esse non significano; infine si crede che chi ci ascolta debba necessariamente associare alle parole che noi usiamo le stesse idee che vi associamo noi. Locke dedica il terzo libro del suo Saggio non a proporre (come altri pensatori del suo tempo) una lingua perfetta, ma a fornire istruzioni per controllare l’uso che noi facciamo delle parole, per eliminare quanto possibile ambiguità e imprecisioni. La critica degli usi linguistici diventa perciò in Locke la critica dei limiti della nostra conoscenza. Questo terzo libro è opera di straordinaria modernità ed è certo sotto la sua influenza che la filosofia anglosassone ha poi elaborato, nel corso del secolo XX, un’analisi del linguaggio ordinario come riflessione filosofica per eccellenza.

La teoria del giudizio

Una teoria della conoscenza basata sull’individuazione dei suoi limiti induce Locke a formulare una teoria del giudizio (mediante il quale si sopperisce alla mancanza di conoscenze chiare e certe) come basato sulla probabilità e la verosimiglianza. Il più alto grado di probabilità si ha quando il generale consenso, di tutti gli uomini e in tutte le epoche, concorre a confermare con l’esperienza costante e continua la verità di una data opinione. Gradi più deboli di conoscenza si basano sulla fiducia.

Segni e realtà: la semiotica

L’interesse centrale che il linguaggio assume nella speculazione di Locke trova conferma nel fatto che il filosofo inglese, alla fine del Saggio sull’intelletto umano, specifichi come l’insieme della conoscenza sia articolato in fisica, etica o pratica, e semiotica. La semiotica, identificata con la logica, diventa la disciplina che considera “la natura dei segni dei quali la mente fa uso per comprendere le cose o per trasmettere agli altri la propria conoscenza” (Saggio, 4, XXI, 4).

La nostra conoscenza è vera solo quando si stabilisce una conformità tra le nostre idee e la realtà delle cose. Il criterio di conformità si basa sulla certezza che sia le idee semplici sia quelle complesse (tranne quelle delle sostanze) siano conformi alla realtà che le provoca. La verità consiste dunque nell’unire e separare segni “secondo che le cose significate da quei segni sono in accordo o disaccordo l’una con l’altra” (Saggio, 3, IX, 3).

Per poter poi estendere la conoscenza al di là delle evidenze empiriche disponiamo della ragione, le cui facoltà sono la sagacia e l’illazione (o inferenza), grazie alle quali si trovano le connessioni tra le idee, e le si ordina in modo da pervenire a deduzioni esatte. Però anche la ragione ha dei limiti: essa non può funzionare se non si esercita su idee ottenute attraverso l’esperienza, viene spesso applicata a idee confuse, non riesce sovente a individuare la giusta connessione tra le idee, è molte volte ingannata da parole dubbie e segni incerti usati nei ragionamenti.

U. E.

5.4 La vita della coscienza

Nell’ambito della riflessione interna Locke analizza anche la vita della coscienza (memoria, ricordo, contemplazione, attenzione) e spiega come dalle idee semplici di dolore e piacere si generino quelle di bene e male, e da queste altre passioni come amore e odio, disagio, gioia, desiderio ecc. Dalla riflessione sulle passioni scaturiscono anche le nozioni di volontà e libertà che rivestono un ruolo centrale nella teoria politica di Locke.

Il cogito,, la realtà, la fede in Dio

Quanto ai temi classici della riflessione cartesiana, Locke ritiene che l’essere umano abbia della propria esistenza una percezione chiara e certa che non richiede alcuna altra prova. Se si assume, poi, che l’intelletto è tabula rasa, è evidente che le idee vi si formano solo a opera di una realtà esterna. Quanto all’idea di Dio, essa non è innata, tuttavia ci appare evidente che qualcosa debba esistere dall’eternità.

ESERCIZIO

E12: Locke

Questa parte della filosofia lockiana appare la più debolmente argomentata sia perché non si comprenderebbe, allora, il fatto che esistano dei popoli privi dell’idea di Dio, sia perché il pensiero di una sostanza divina dovrebbe cadere sotto la stessa critica che viene rivolta alla nozione di sostanza pensante.

LETTURE

Il concetto moderno di coscienza

La certezza delle verità di fede, sostiene Locke, è data dal fatto che esse si basano sulla testimonianza di chi non può né ingannare né essere ingannato, e cioè Dio stesso. Evidentemente questa sicurezza implica la fede in una verità rivelata. Locke (sia nel Saggio sia in Sulla ragionevolezza del cristianesimo) sostiene che, per quanto distinta dalla ragione, la fede è un saldo assenso dello spirito: “Ora, se esso è regolato come è ragionevole regolarlo, non può essere concesso a una cosa se non sulla base di una buona ragione, e questo non può essere opposto alla ragione” (Saggio 3, XVIII, 24). La fede è accettata sulla base della rivelazione ma, siccome neppure la rivelazione può comunicare idee che noi non abbiamo ricevuto dall’esperienza, nessuna rivelazione può contraddire la nostra conoscenza intuitiva. Al massimo alcune verità di fede possono essere accettate anche quando mostrano probabilità assai deboli, ovvero quando, senza contraddire la ragione, sono contro la probabilità. Il “cristianesimo razionale” (o ragionevole) di Locke si limita in effetti a credere che vi è stato il peccato di Adamo e che Cristo è il Messia e il nostro maestro di vita morale.

5.5 La teoria politica: l’origine della democrazia moderna

Nei Due trattati sul governo del 1690 Locke pone le basi giuridiche dello Stato costituzionale moderno. Nel primo Trattato confuta la pretesa di legalità dello Stato assoluto, e dimostra falsa la pretesa di poter fondare il potere monarchico su una legittimità divina, attraverso interpretazioni distorte delle Sacre Scritture, come aveva invece tentato lo scrittore politico inglese Robert Filmer (1590-1653).

Nel secondo Trattato espone le sue tesi sull’origine del diritto e dello Stato. Tutti gli uomini nascono naturalmente liberi, e lo stato di natura è visto da Locke come condizione positiva di uguaglianza naturale in cui ogni individuo agisce per la sua conservazione senza subire la volontà di altri. Il suo modello di stato di natura, come d’altronde accade per la concezione globale della politica, è radicalmente opposto a quello di Hobbes.

Lo stato di natura comprende il diritto alla proprietà privata individuale e all’uso dei frutti del proprio lavoro. È anzi il lavoro che legittima la proprietà dei beni e dei terreni lavorati. Il passaggio all’associazione politica tra individui (la fondazione di una comunità o di uno Stato) diventa necessario a scopo di protezione, per stabilire un diritto eguale per tutti e un giudice imparziale.

Lo Stato nasce quindi per contratto comune allo scopo di difendere i diritti e la libertà dei singoli. Nell’associazione gli individui si impegnano a seguire le decisioni della maggioranza, e delegano a un’autorità la difesa dei diritti naturali: vita, sicurezza, proprietà, punizione per chi offende la legge naturale.

Lo Stato organizza il potere politico dividendolo tra potere legislativo (che fissa le leggi), esecutivo (che fa rispettare le leggi con la forza) e federativo (che regola i rapporti tra Stati).

Questi poteri devono, secondo Locke, essere separati e rappresentati da persone diverse.

Il potere politico è affidato al governo. Se il governo viola i patti danneggiando la comunità, il popolo può destituirlo esercitando il diritto alla rivolta. Il potere è quindi uno strumento scelto dalla società per migliorare l’esistenza dei singoli, e deve rispettare questa finalità. Locke, dunque, sostiene il modello della democrazia rappresentativa inglese, realizzato a partire dal 1689 con la prima monarchia costituzionale della storia.

I platonici di Cambridge

Per “platonismo di Cambridge” si intende un indirizzo filosofico di orientamento per lo più neoplatonico, che si sviluppa in reazione al meccanicismo di Hobbes e all’atomismo di Gassendi attorno all’università di Cambridge, nell’Inghilterra del Seicento. I suoi tratti fondamentali sono: l’idea che esistano idee o forme delle cose, verità matematiche e principi morali innati; un dualismo fondato sulla priorità della sostanza pensante o spirituale sulla materia; la rivalutazione di temi teologici in accordo con i principi dell’argomentazione razionale; l’apertura alle scoperte e ai procedimenti della scienza moderna; infine, un sincretismo che sostiene l’accordo di fondo tra la conoscenza scientifica e la teologia.

Herbert di Cherbury e la religione razionale

I platonici di Cambridge riprendono dal De veritate del filosofo inglese Edward Herbert di Cherbury (1583-1648) il concetto di “religione razionale”. Pur muovendo da differenti esperienze religiose, la ragione di ogni singolo credente è in grado di individuare una serie di elementi comuni e universali in cui i fedeli possano riconoscersi e nel nome dei quali trovare unità e accordo: l’esistenza di Dio, il dovere di credere in lui, l’espiazione dei peccati e la ricompensa o castigo dopo la morte. Si tratta di verità eterne e principi etici fondamentali, che Cherbury chiama “idee comuni” e “principi inviolabili”, dati da Dio a ogni uomo dalla nascita: sono dunque idee innate che si trovano in una facoltà universale della ragione a sua volta in contatto con l’universalità divina. La mente dell’uomo è simile a un libro chiuso che contiene in sé tutte le nozioni fondamentali di un sapere eterno e universale che precede l’esperienza e che si apre al contatto sensibile con il mondo esterno. In modo speculare, la religione svolge un ruolo fondamentale nella filosofia: essa è al contempo il punto di partenza e il fine ultimo di ogni riflessione.

Queste idee avvicinano le posizioni dei platonici di Cambridge a quelle dei “teologi della chiesa bassa” (John Tillotson e Edward Stillingfleet) e più in generale ai “latitudinari” (latitude-men). Con questo termine vennero definiti polemicamente quei pensatori, vicini ai platonici di Cambridge, che sostenevano l’esistenza di un nucleo essenziale di principi religiosi, oltre i quali è possibile concedere ampia libertà di coscienza, per un’esperienza della fede all’insegna della moderazione e della tolleranza e contro il fanatismo e la superstizione.

Il maestro dei platonici di Cambridge: Benjamin Whichcote

Benjamin Whichcote (1609-1683), considerato il “padre fondatore” del platonismo cantabrigense, è sostenitore di una teologia razionale e tollerante: Dio, in quanto essere supremo e perfetto, non può che essere buono e amorevole. Per questo, sostiene Whichcote, “nulla è più specifico all’uomo della capacità di religione e del senso di Dio”; ma tale “capacità di religione” contempla l’uso della ragione come strumento per comprendere quella Rivelazione attraverso la quale Dio ha stabilito un dialogo con lui. La ragione dell’uomo è paragonata alla “candela del Signore” che con la sua luce costituisce l’unico rimedio contro i danni che derivano dall’abbandonarsi all’entusiasmo disordinato delle passioni.

Henry More

L’introduzione di Cartesio in Inghilterra si deve a Henry More (1614-1687). Il pensiero di Cartesio viene inserito in un’apologetica che ripercorre a ritroso le tappe della storia del pensiero occidentale fino a trovare un filo conduttore tra Cartesio stesso, Democrito e il pensiero delle Scritture.

More dissente tuttavia da Cartesio in merito al rapporto tra sostanze spirituali e corpi; dato che l’estensione è antecedente alla suddivisione della sostanza, infatti, si può tranquillamente concepire un’estensione spirituale che precederà quella corporea; in entrambi i casi si tratta di attributi della stessa sostanza. Nell’originale soluzione di More ogni sostanza, sia essa materiale o spirituale, è estesa.

La costituzione gerarchica degli esseri propria del neoplatonismo è l’impianto su cui si innesta il sistema di More. Tutta la realtà è costituita da un principio spirituale, “lo spirito plastico” o “spirito della natura”, che altro non è che una rielaborazione della dottrina medievale dell’anima mundi e di quella stoica del pneuma. Lo spirito plastico parte dall’assoluta spiritualità di Dio e per emanazione degrada man mano che si discende verso gli esseri materiali. Anche la più infima parte di materia, tuttavia, conserva un qualche residuo di spiritualità.

L’attività dell’anima viene spiegata dal filosofo di Cambridge con il ricorso al principio dell’estensione spirituale: l’anima è concepita come un punto spirituale esteso che si differenzia nelle varie funzioni per emanazione. Il suo collegamento con il corpo lo deve al fatto che ne condivide l’estensione; l’interazione anima-corpo si spiega con l’attrazione posta tra di essi dallo spirito plastico.

Riccardo Fedriga

La tolleranza in Locke

Locke ha lasciato scritti fondamentali sul problema politico e sul concetto di tolleranza, dall’Epistola sulla tolleranza ai Due trattati sul governo civile. Sulla base di una fede fondamentalmente estranea all’accettazione di ogni dogma (e la posizione di Locke è stata in seguito identificata con il “deismo” degli illuministi) Locke sostiene che nessuna Chiesa può vincolare i credenti in modo indissolubile, nessun potere ecclesiastico può essere costrittivo, dato che non riguarda gli affari di competenza dello Stato, e può esercitarsi solo attraverso ammonizioni e consigli che non possono pretendere l’intervento coercitivo del potere politico per la loro esecuzione. Del pari, nessuno Stato può identificarsi con una Chiesa particolare. Locke sostiene la limitazione e il mutuo rispetto dei due poteri, ecclesiastico e politico: il primo ha come scopo la salvezza dell’anima mentre il secondo è legato alla tutela dei diritti naturali dell’uomo. Egli tuttavia esclude dal diritto alla tolleranza i cattolici (che si rifanno al diritto politico del papa) e gli atei, i cui giuramenti sono infidi perché non credono in Dio; la libertà di culto non può infatti costituire, per Locke, una minaccia alla sicurezza dello Stato né interferire con le finalità della politica. Sia pure con queste limitazioni, tipiche del suo tempo e della situazione politica in cui viveva, Locke diventa il campione di un pensiero liberale che fiorirà nei secoli successivi, sostenendo la non confessionalità dello Stato, il diritto di libera associazione e il rispetto di tutte le fedi.