6. Gottfried Leibniz

di Massimo Mugnai

6.1 La logica

L’arte combinatoria...

Nella Dissertazione sull’arte combinatoria (1666), Leibniz osserva che qualsiasi concetto complesso è scomponibile in parti mediante analisi (il concetto di uomo, per esempio, si compone dei concetti di animale e di razionale). Se si procede sistematicamente a scomporre le parti e poi, di nuovo, le parti delle parti del concetto dato, si raggiungerà, infine, un certo numero di concetti semplici, non ulteriormente analizzabili. Ripetendo il procedimento per ciascun concetto complesso, si otterranno tutti i concetti semplici, dalla combinazione dei quali scaturiscono tutti i complessi. Ora, se a ciascun concetto semplice viene associato un segno semplice di un opportuno alfabeto (fatto di lettere, di figure o di un qualunque insieme di segni), una volta che sia avviato il procedimento di ricombinazione dei semplici, ciascun concetto complesso sarà espresso in maniera univoca da un particolare insieme di simboli dell’alfabeto.

… e i suoi vantaggi

I vantaggi di tale meccanismo, qualora fosse realizzato, sono evidenti:

a) dalla sola ispezione di un aggregato di simboli si otterrebbe una descrizione esaustiva e, soprattutto, non equivoca, del concetto corrispondente a quell’aggregato;

b) mentre i semplici verrebbero raggiunti analizzando concetti noti, la ricombinazione dei semplici potrebbe condurci a scoprire nuovi concetti complessi;

c) dal momento che una proposizione elementare è costituita dalla giustapposizione di due concetti (il concetto corrispondente al soggetto e quello corrispondente al predicato), si potrebbero ottenere non solo tutte le proposizioni vere note, ma anche verità finora sconosciute, semplicemente sperimentando nuove giustapposizioni;

d) verrebbe così costruito un linguaggio capace di esprimere direttamente i rapporti tra concetti, e quindi di natura universale, intelligibile a tutti gli uomini, indipendentemente dalla diversità di lingua e di cultura.

Vita di un intellettuale europeo: Leibniz

Leibniz nasce a Lipsia nel 1646 e all’età di sei anni rimane orfano del padre, insegnante di filosofia morale all’università della stessa città. Circa due anni dopo ottiene il permesso di consultare i volumi custoditi nella biblioteca paterna e appena dodicenne è in grado di comprendere gli autori latini e di leggere il greco antico. Giunto all’università, studia diritto e filosofia e, nel 1664, ottiene il grado di magister in filosofia presso l’università di Lipsia che, tuttavia, poco dopo gli rifiuta il titolo di dottore. Si iscrive così a legge presso l’università di Altdorf, dove riesce ad addottorarsi. Nel 1666 pubblica la Dissertazione sull’arte combinatoria, un testo fondamentale per gli sviluppi futuri del suo pensiero. Pur avendo davanti a sé la prospettiva di una brillante carriera accademica, vi rinuncia. Diventa amico del barone Johann Christian Boineburg, che lo presenta all’elettore di Mainz, Johann Philip von Schoenborn, il quale gli dà un incarico di giudice presso la corte d’appello. Nel 1672 Leibniz parte per Parigi, per svolgere una missione diplomatica per conto di Boineburg. Nella città francese entra in contatto con alcuni dei principali protagonisti del rinnovamento scientifico e filosofico promosso da Galileo e Descartes. Incontra, inoltre, il matematico e astronomo Christiaan Huygens, che lo inizia a uno studio sistematico della matematica. Nonostante la morte improvvisa di Boineburg, Leibniz si trattiene ancora a Parigi e nel 1673 compie un primo viaggio a Londra, per conto dell’elettore di Mainz. Quando anche questi muore, trova un nuovo protettore nel duca Johann Friedrich di Hannover, di cui diventa consigliere. Leibniz lascia Parigi nell’ottobre del 1676, dopo una seconda visita a Londra, dove presenta alla Royal Society un modello di macchina calcolatrice. Durante il viaggio di ritorno sul continente, incontra Spinoza a L’Aia.

Nel 1679 avvia un progetto per la costruzione di mulini a vento orizzontali per il drenaggio dell’acqua nelle miniere dello Harz. Nel 1684, sulla rivista “Acta Eruditorum”, rende pubblica la scoperta del calcolo infinitesimale, che aveva fatto già da qualche anno (Nuovo metodo per i massimi e i minimi e per le tangenti). Quelli che vanno dal 1680 al 1686 sono anche anni d’intensa attività filosofica. In questo periodo Leibniz scrive il Discorso di metafisica che rimarrà inedito, ma che contiene il nucleo centrale del suo pensiero), inizia la corrispondenza con il filosofo e teologo Antoine Arnauld e compone un ampio saggio, nel quale s’ingegna di ridurre la logica a un calcolo (Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità). Intanto sviluppa un’intensa attività diplomatica, e riceve dal duca di Hannover Ernst August l’incarico di ricostruire la storia del casato di Braunschweig-Lueneburg, che lo porterà a viaggiare per quasi due anni consecutivi nel sud della Germania e in Italia.

Nel 1690 torna a Hannover e continua a lavorare simultaneamente a un’incredibile quantità di progetti: avvia la storia del casato di Braunschweig, scrive un saggio di dinamica e pubblica una memoria di geologia sulla storia della Terra, intrattiene una fitta corrispondenza sulla riunificazione delle chiese cristiane; pubblica inoltre il Nuovo sistema della natura e della grazia, nel quale espone la propria teoria dell’armonia prestabilita. Allo stesso tempo, continua a darsi da fare per la costituzione di un’Accademia delle scienze, concepita sul modello della Royal Society e dell’accademia francese. Inoltre intensifica l’attività diplomatica per fare insediare gli Hannover sul trono d’Inghilterra.

Tra il 1703 e il 1704 Leibniz scrive i Nuovi saggi sull’intelletto umano, che concepisce come un commento critico al Saggio di John Locke; ma quando l’opera sta per esser data alle stampe, rinuncia alla pubblicazione per via della morte di Locke, parendogli inopportuno pubblicare una critica a un autore che non può più difendersi. I Nuovi saggi vedranno la luce soltanto nel 1765. Del 1710 è la pubblicazione (anonima) della Teodicea in cui si propone di giustificare Dio dall’accusa di aver creato un mondo imperfetto e di aver permesso il male. Del 1714 è invece la Monadologia.

Gli ultimi anni della vita di Leibniz sono funestati da vari eventi negativi, tra cui la disputa con Newton sulla priorità della scoperta del calcolo infinitesimale, che vede coinvolti gran parte dei matematici e degli scienziati del tempo e che, pur durando a lungo dopo la scomparsa dei due protagonisti, si rivelerà priva di fondamento. Paradossalmente, anche il successo delle attività diplomatiche di Leibniz è fonte di ulteriore amarezza: l’elettore Georg Ludwig di Hannover, una volta salito sul trono d’Inghilterra come Giorgio I, trasferisce a Londra la corte, lasciando Leibniz a Hannover, dove muore il 14 novembre 1716.

M. M.

La caratteristica universale

Col passare degli anni, Leibniz complicherà ulteriormente questo progetto, integrandolo con altri progetti “satellite”, finalizzati alla realizzazione di quella che chiamerà “caratteristica universale” (characteristica universalis). “Caratteri” sono i segni di un qualsiasi linguaggio e la “caratteristica universale” allude in primo luogo a un linguaggio sul tipo di quello prefigurato nella Dissertazione sull’arte combinatoria. Leibniz, tuttavia, si rende conto che per procedere a un’analisi compiuta dei concetti è necessario, prima di tutto, disporre di un inventario generale di tutte le conoscenze in possesso del genere umano.

Progetto per un’enciclopedia generale del sapere

Per questo motivo Leibniz elabora vari piani per la costruzione di un’enciclopedia generale di tutto il sapere del tempo. Una volta costruita l’enciclopedia, sarebbero rimasti ancora aperti, tuttavia, due compiti:

a) definire le regole per condurre a termine l’analisi e quindi la ricombinazione dei concetti;

b) trovare l’alfabeto adatto per costruire la caratteristica in senso proprio.

Per trovare una soluzione al primo compito, Leibniz pensa alla costituzione di una scienza generale formata di due parti: l’analisi e la sintesi. Per risolvere il secondo problema, pensa alla costituzione di un’accademia di scienziati che abbia, tra i vari compiti, quello di trovare l’insieme di caratteri più adatto. Provvisoriamente, in attesa di trovare i caratteri giusti, egli suggerirà d’impiegare i numeri primi per designare i concetti semplici.

Il calcolo logico

LETTURE

Il calcolo infinitesimale

Un momento fondamentale del progetto per la costruzione dell’“arte caratteristica” è la riduzione del ragionamento umano a un calcolo. In molti suoi saggi Leibniz usa le lettere dell’alfabeto latino come variabili per concetti o proposizioni e gli usuali simboli di somma e prodotto per rappresentare operazioni logiche, arrivando a ottenere risultati che saranno riscoperti in maniera autonoma dal matematico e logico George Boole quasi due secoli dopo.

Il pensiero cieco

Nello sviluppare le sue ipotesi circa una characteristica universalisLeibniz è maggiormente interessato alla forma delle proposizioni che può generare col calcolo che non ai significati. In varie occasioni egli paragona la caratteristica all’algebra, e pensa a un calcolo che possa esercitarsi, con rigore quantitativo, su nozioni qualitative. La caratteristica, come l’algebra, deve essere una forma di pensiero cieco, cogitatio caeca (cfr. per esempio De cognitione, veritate et idea) e con questa espressione Leibniz intende la possibilità di condurre calcoli, pervenendo a risultati esatti, su simboli di cui non si conosce necessariamente il significato, o del cui significato non si riesce ad avere una idea chiara e distinta.

Come si dice nell’Accessio ad arithmeticam infinitorum del 1672, quando una persona dice un milione non immagina mentalmente tutte le unità di quel numero. E tuttavia i calcoli che sa fare in base a quella cifra possono e debbono essere esatti. Il pensiero cieco manipola segni senza essere obbligato a evocare le idee corrispondenti. Per questo non ci impone, per aumentare la portata della nostra mente, così come il telescopio aumenta quella della nostra vista, una eccessiva fatica. Pertanto “una volta fatto ciò, quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente infatti che essi prendano la penna in mano, si siedano a un tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un amico): calcoliamo”.

L’intento di Leibniz era quello di creare un linguaggio logico che, come l’algebra, potesse condurci dal noto all’ignoto attraverso la semplice applicazione di regole operative ai simboli usati. In tale linguaggio non è necessario sapere a ogni passo a che cosa il simbolo si riferisca, non più di quanto ci interessi sapere che quantità rappresenti una lettera alfabetica nel corso della soluzione di un’equazione. Per Leibniz i simboli del linguaggio logico non stanno al posto di una idea ma invece di essa. La caratteristica universale quindi non solo aiuta il ragionamento ma lo sostituisce.

Umberto Eco

6.2 Metafisica e teodicea

Concetto completo

Nel Discorso di metafisica (1686) Leibniz mette a fuoco una nozione centrale della sua filosofia, quella di “concetto completo”, che viene strettamente connesso al “criterio di verità” di ogni proposizione: una qualsiasi proposizione in forma elementare soggetto-predicato, sia essa necessaria, contingente, universale, particolare o singolare, è vera se il concetto del predicato è contenuto nel concetto del soggetto. Così, per esempio, “ogni uomo è mortale” è una proposizione vera, poiché il concetto corrispondente a “mortale” è contenuto tra le note costitutive del concetto corrispondente a “uomo”. Analogamente, “Socrate è un filosofo” è vera, in quanto essere un filosofo è una proprietà inerente al concetto completo corrispondente a “Socrate”. Un concetto completo è una sorta di descrizione esaustiva di tutto ciò che si può asserire con verità di un determinato individuo. Leibniz ritiene che il mondo che ci circonda sia composto da una pluralità di sostanze individuali, ciascuna delle quali è subordinata a un concetto completo.

Infiniti mondi possibili

Secondo una concezione radicata nella tradizione cristiana, alla quale Leibniz si uniforma, Dio, alla stregua di un architetto che costruisce una casa, quando si accinge a creare il mondo attuale se ne forma un modello nella propria mente. Leibniz ritiene che siffatto modello si componga dei concetti completi di tutti gli individui (sostanze individuali) che potrebbero farne parte e che Dio, al fine di poter scegliere liberamente il mondo da creare, costruisca nella propria mente una pluralità infinita di mondi possibili. Ciascun mondo possibile non è che un insieme di concetti completi tra loro compatibili, tali cioè che la loro compresenza nel modello del mondo non genera alcuna contraddizione logica.

Leibniz illustra compiutamente la sua visione dei mondi possibili nelle pagine finali della Teodicea (1710). I mondi sono disposti in una struttura piramidale: al vertice è situato il mondo che risulta il migliore di tutti e poi giù, verso il basso, e senza che si raggiunga mai una fine, seguono mondi sempre meno perfetti. Il mondo perfetto è unico, perché se ce ne fosse più d’uno, Dio dovrebbe scegliere in base a un puro atto di volontà, senza poter giustificare la sua scelta sulla base delle proprietà intrinseche del mondo. D’altra parte i mondi possibili devono essere più di uno poiché, se vi fosse un solo mondo, qualora Dio decidesse di crearlo, sarebbe costretto a creare quel mondo (la sua scelta cadrebbe soltanto tra crearlo oppure no).

Il migliore dei mondi possibili

Riguardo ai criteri in base ai quali il mondo creato è il migliore, Leibniz menziona soprattutto la semplicità delle leggi naturali che lo governano, associata alla varietà dei fenomeni e alla quantità di esseri che lo popolano. Il mondo attuale, quello scelto da Dio, contiene il massimo possibile di sostanze individuali e ha le leggi più semplici: ovvero, a parità di complessità, alle leggi del nostro mondo si subordina un maggior numero di fenomeni, rispetto a quanto accade negli altri mondi.

Come Leibniz precisa, il nostro mondo è il solo a esistere: tutti gli altri hanno una natura puramente ideale e sono semplicemente pensati da Dio. Che il mondo attuale esista significa che Dio ha deciso di creare gli esseri corrispondenti a quel particolare insieme coerente di concetti completi che egli giudica il migliore. Dal momento che in ciascun concetto completo di ciascun mondo possibile sono incluse (come possibili) le leggi che lo governerebbero, qualora l’individuo corrispondente esistesse, l’atto creativo di Dio si limita a far passare un determinato insieme di individui possibili dalla mera possibilità alla realtà, senza niente aggiungere o togliere all’intero meccanismo, una volta messo in moto. Così, se nel concetto completo di Cesare è inclusa la proprietà corrispondente a “passare il Rubicone”, una volta che Cesare è stato creato, risulterà vero che passerà il Rubicone. Il passaggio del Rubicone da parte di Cesare non potrà essere modificato neppure da Dio; e lo stesso discorso si applica a tutte le sostanze individuali che popolano il mondo in cui esiste Cesare.

Il problema della contingenza

Così, però, il mondo sembra governato da una ferrea necessità e uno dei problemi che Leibniz dovrà affrontare è che nel mondo esiste la contingenza. In effetti, si può dire che il problema di giustificare la contingenza (e, di conseguenza, la libertà dell’agire umano) abbia tormentato Leibniz fino alla fine dei suoi giorni. Di tale problema egli offre due soluzioni, che non è agevole conciliare e che forse lo stesso Leibniz si limita a giustapporre, destinandone ciascuna a un pubblico differente.

Prima soluzione: i decreti divini

Secondo la prima soluzione, nel concetto completo di ogni individuo creato sarebbero compresi, oltre alle leggi di natura che governano il mondo, anche certi “decreti ultimi”, che hanno guidato Dio nella costruzione del mondo stesso. Se pensiamo alle azioni degli individui come a conseguenze dell’avere un determinato concetto completo, allora, per esempio, il passare il Rubicone da parte di Cesare segue dal concetto completo di Cesare; e perciò segue anche dai particolari decreti divini che in quel concetto sono inclusi. Come osserva Leibniz, assunti i decreti di Dio e l’intera natura del concetto completo di Cesare, il passare il Rubicone segue di necessità dal concetto di Cesare: si tratta, tuttavia, di una necessità condizionata. Sotto l’ipotesi di altri decreti divini, il passaggio del Rubicone potrebbe non verificarsi, e in questo senso è una proprietà contingente.

Naturalmente, la soluzione appena prospettata solleva un ulteriore problema: se al variare dei decreti divini il concetto completo di Cesare, o comunque l’individuo che vi corrisponde, non rimane il medesimo, non è chiaro in che senso per il Cesare che passa il Rubicone sia possibile non passarlo, rendendo il passaggio un fatto contingente.

Seconda soluzione: proprietà contingenti

L’altra soluzione, per esplicita ammissione di Leibniz, è destinata a un pubblico di persone che abbiano almeno “un’infarinatura di matematica”. Leibniz ritiene che una dimostrazione in senso proprio consista nel passaggio da premesse, o assunzioni, a una determinata conclusione in un numero finito di passi. Ora, tra i concetti che compongono un determinato concetto completo, alcuni seguono da altri, e quindi sono dimostrabili logicamente a partire da questi ultimi, mentre altri non sono deducibili in un numero finito di passi. Per esempio: se Socrate è uomo, si può dimostrare che è razionale, in quanto l’esser razionale può esser dedotto, mediante definizioni e opportune sostituzioni, dal concetto di uomo. Dal concetto di uomo, però, non è deducibile l’esser saggio o filosofo; e per poter dimostrare, dal concetto completo di Socrate, che questi è filosofo occorre far riferimento a nozioni che concernono il mondo e che sono di una complessità infinita. Leibniz afferma, quindi, che contingenti sono tutte quelle proprietà che non si possono dedurre dimostrativamente da un determinato concetto completo: in questo senso, “passare il Rubicone” è una proprietà contingente di Cesare.

È importante osservare, a questo proposito, che neppure Dio, che pur domina l’infinito, può dimostrare che “passare il Rubicone” inerisce al concetto completo di Cesare: egli, cogliendo l’infinito con un solo sguardo, vede l’inerenza, e quindi ne ha certezza, ma non è in grado di dimostrarla. Questa soluzione, per ammissione dello stesso Leibniz, è concepita sulla base di un’analogia col calcolo infinitesimale e forse, proprio per questo è, in certo senso, “estrinseca”: non chiarisce, cioè, in che senso, se la proprietà di passare il Rubicone non è dimostrabile a partire dal concetto completo di Cesare, ciò implichi che Cesare avrebbe potuto non passarlo.

La teodicea in Bayle e Leibniz

I Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male di Leibniz, del 1710, affrontano il problema della teodicea ponendosi subito in contrapposizione con le posizioni del filosofo francese Pierre Bayle: l’accento cade infatti proprio sul predicato divino sul quale la critica di Bayle insiste maggiormente: la bontà. Inoltre, la trattazione vera e propria viene preceduta da un “discorso” sulla conformità della fede con la ragione che intende neutralizzare la radicalità della critica bayliana. Leibniz muove dalla ripresa di argomenti apologetici tradizionali, a partire da quella distinzione tra ciò che è contro la ragione e ciò che è al di sopra di essa che Bayle aveva ritenuto irrilevante: per Bayle, la distinzione non vale per la ragione divina, perché i misteri non sono né contro né sopra di essa, ma nemmeno per la ragione umana, che non può spiegare né ciò che è contro la ragione né ciò che è al di sopra di essa.

Il razionalismo di Leibniz si contrappone a due posizioni che egli ritiene ugualmente errate e pericolose. Da un lato, contro Bayle, si tratta di offrire una giustificazione razionale della bontà e della giustizia di Dio; dall’altro, si tratta invece di sottolineare il fatto che non c’è una differenza assoluta, o qualitativa, tra ragione umana e ragione divina, come invece sostenuto, a suo parere, da Cartesio e da alcuni cartesiani. Questi ritengono che Dio sia dotato di una libertà assoluta, e che le stesse verità eterne dipendano da una sua decisione. Leibniz – come Malebranche – rifiuta quindi una concezione volontaristica, o “arbitraristica”, di Dio, sostenendone invece un’immagine razionalistica: le regole della giustizia divina sono le nostre stesse regole. Le “perfezioni” divine non sono diverse dalle nostre, per quanto senza i limiti della ragione umana: il nostro “lume naturale”, la ragione, differisce dalla ragione divina solo dal punto di vista quantitativo, per quanto questa differenza quantitativa sia grandissima, come – scrive Leibniz – una goccia d’acqua rispetto all’oceano.

LETTURE

Pierre Bayle

LETTURE

Malebranche e l'occasionalismo

La difesa leibniziana della teodicea si fonda anche su argomenti tradizionali. Innanzitutto, egli si preoccupa di minimizzare la presenza del male, sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista morale: è, ancora una volta, una replica al quadro pessimistico tracciato, come si vedrà, da Bayle. Anche Leibniz si serve, tra l’altro, di un argomento apologetico diffuso e che aveva le sue radici nelle Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle (1686). Seppure dolore e malvagità fossero prevalenti sulla Terra, essi non lo sarebbero in altri pianeti dello sconfinato universo creato da Dio. Altrettanto tradizionali sono argomenti ripresi da Leibniz come la necessità di un bene particolare per il bene dell’intero, l’idea del male come privazione o l’immagine di una “grande catena dell’essere”.

Al di là di quanto detto, e della dotta rassegna che in questo senso la Teodicea leibniziana rappresenta, il contributo originale di Leibniz al problema del male sta nella tesi del “migliore dei mondi possibili”. Leibniz propone cioè un effettivo nuovo argomento in difesa della teodicea, del tutto differente da quelli tradizionali.

L’intelletto divino contiene per Leibniz l’intero ambito della possibilità, tutti i mondi possibili, ovvero tutto ciò che non è contraddittorio: la creazione consiste nella scelta divina di una determinata combinazione di possibilità. Per divenire reale, ogni possibilità deve essere “compossibile”, ovvero compatibile, con gli altri elementi della combinazione, cioè di un mondo. Leibniz intende in questo modo rispondere alla domanda che attraversa poi la filosofia occidentale: “perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?” L’idea che il mondo presente sia il migliore dei mondi possibili non è frutto di una considerazione minimizzante del male che vi si può trovare, né del tentativo di mostrarne la funzionalità in vista del bene o di altre considerazioni a posteriori, ma di una tesi del tutto a priori sul funzionamento della deliberazione divina a partire dal fatto dell’esistenza del mondo. Qualunque altro mondo sarebbe peggiore di questo, anche se ciò non può essere mostrato, scrive Leibniz “nel dettaglio”, perché l’uomo non è minimamente in grado di rappresentarsi, come l’intelletto divino, tutte le combinazioni possibili. Si deve quindi partire piuttosto dal fatto che Dio ha scelto “questo mondo così come è”.

Come la volontà umana, per quanto con capacità infinitamente maggiori, anche la volontà divina funziona secondo il principio di ragion sufficiente: Dio non avrebbe creato il mondo se non ci fosse stato un unico e migliore tra i mondi possibili; altrimenti, egli non avrebbe creato nulla.

Luca Fonnesu

6.3 La teoria dell’azione

Se la teoria del concetto completo, associata alla nozione di verità come inerenza del predicato nel soggetto, pone Leibniz nella condizione di ammettere che una qualche sorta di necessità lega le proprietà contingenti di un individuo alla sua essenza individuale, qualcosa di analogo avviene per la teoria dell’azione.

Il principio di ragion sufficiente

Secondo Leibniz, infatti, tutto ciò che accade è regolato da un principio metafisico fondamentale: il cosiddetto “principio di ragion sufficiente”. Tale principio afferma che niente avviene senza una ragione che ne determini il verificarsi. “Ragione”, in questo caso, è assunto da Leibniz come sinonimo di “causa”, sebbene in qualche occasione egli cerchi di differenziare i due concetti, senza dare mai, tuttavia, un carattere sistematico alla distinzione.

La scelta razionale

Leibniz ritiene che gli esseri umani, quando scelgono, non agiscono mai in base a un puro atto di volontà, ma che la volontà segue sempre a un giudizio relativo a ciò che ritengono sia il loro bene. Leibniz concepisce l’anima umana come una specie di campo di forze, o impulsi, che, in ogni momento, puntano in diverse direzioni; e sostiene che ogni scelta che facciamo corrisponde alla composizione di tali forze in una direzione prevalente. Egli nega, cioè, che si diano situazioni nelle quali la nostra anima si trova in uno stato d’indifferenza nei confronti di una qualsiasi scelta. Il caso dell’asino di Buridano che, posto a eguale distanza da due secchi d’acqua, identici per formato e per il liquido contenuto, morirebbe di sete se non si decidesse a un atto arbitrario della volontà, è reputato da Leibniz una “mera finzione dei filosofi”.

Libertà e percezioni

Nella vita reale non si dà mai una situazione del genere: l’asino, per continuare nell’esempio, troverebbe comunque, nei due secchi, nel modo in cui sono situati, oppure nel susseguirsi o nel disporsi delle proprie percezioni, un motivo per preferire l’uno all’altro. In tutte le scelte che compiamo nella vita quotidiana, anche nelle più banali, c’è sempre un fascio di percezioni, situato al di sotto della soglia della coscienza, che contribuisce, spesso in maniera decisiva, a determinare il prevalere di un impulso su un altro e quindi a orientarci nella scelta.

Leibniz sostiene esplicitamente che non è possibile sottrarsi all’impulso prevalente, ma anche in questo caso, egli cerca di difendere la libertà della scelta, appellandosi alla possibilità puramente logica di una scelta differente da parte dell’agente. In altri termini, il fatto che esista un mondo possibile in cui un determinato agente non compie la scelta che fa in questo mondo, rende quest’ultima contingente, e non necessaria.

Leibniz compie ogni sforzo per difendere la tesi che l’agire umano è nello stesso tempo determinato e libero, ma i presupposti della sua metafisica rendono difficilmente conciliabili queste due proprietà.

L'armonia prestabilita

Oltre a quello della contingenza, un altro problema che si pone nel mondo leibniziano in cui tutte le sostanze individuali vengono create da Dio già dotate delle proprietà che le indurranno a compiere le loro azioni, è come sia possibile l‘interazione tra queste sostanze. Com’è possibile cioè che le azioni di un individuo rispondano esattamente alle sollecitazioni di un altro soggetto, se egli porta già in sé, dal momento della sua creazione, tutta la serie delle azioni che compirà?

La soluzione proposta da Leibniz si basa sull’ipotesi dell’“armonia prestabilita”, in base alla quale Dio, creando il mondo, ha già previsto gli effetti reciproci delle sostanze individuali, facendo sì che essi si verifichino nel momento esatto in cui azioni e reazioni accadono nei soggetti interagenti. Dio è paragonato da Leibniz a un perfetto orologiaio, che realizza sin dall’inizio una infallibile sincronia tra tutte le sostanze.

Il concetto di armonia prestabilita è impiegato da Leibniz anche per spiegare il rapporto tra anima, o mente, e corpo: una delle questioni fondamentali della filosofia occidentale dopo Cartesio. Mentre per Cartesio res cogitans e res extensa avevano natura completamente diversa ed era impossibile un’azione diretta della prima sulla seconda, per Leibniz tanto la mente quanto il corpo sono composti dei medesimi ingredienti (le “monadi”) e tuttavia, come accade per le sostanze individuali, non possono esercitare un influsso diretto l’una sull‘altro. L‘azione dell’anima sul corpo non va dunque interpretata in senso proprio; tra fisico e psichico esiste una “corrispondenza”, un parallelismo perfetto garantito dall’onnipotenza divina. Il sistema dell’armonia prestabilita, scrive Leibniz nella Monadologia, “fa sì che i corpi agiscano come se (per un’ipotesi impossibile) non ci fossero anime, e le anime agiscano come se non ci fossero corpi, e tutti e due agiscano come se l’uno influisse sull’altra”.

La teoria dell’armonia prestabilita ha molti punti in comune con l’occasionalismo, la dottrina filosofica elaborata nel secondo Seicento da alcuni seguaci di Cartesio secondo la quale i fatti corporei sono “occasioni” di cui Dio si serve per agire di volta in volta sulle menti; l’occasionalismo però, per Leibniz, commette l’errore di considerare Dio un “cattivo orologiaio”, presupponendo un suo intervento continuo per “sincronizzare” tra loro gli eventi corrispondenti. Mentre inoltre gli occasionalisti, con Cartesio, ritenendo la realtà fisica res extensa, la consideravano semplicemente passiva, e affidavano soltanto a Dio la facoltà di “agire”, Leibniz riconosce tale facoltà anche alla natura creata, lasciando a Dio il compito di intervenire soltanto all’inizio, nella creazione.

6.4 Le monadi

Nella storia della filosofia Leibniz è ricordato soprattutto come “il filosofo delle monadi”.

La parola “monade” deriva dal greco (monás, unità) e significa un’unità indivisibile, un elemento isolato, chiuso in se stesso. Nella Monadologia (1714) Leibniz dà il nome di “monadi” a certi atomi immateriali, che ipotizza siano a fondamento della realtà esistente, e che concepisce come concentrati di energia, attraversati ciascuno da un flusso continuo di rappresentazioni. Le monadi sono atomi poiché, essendo immateriali, non sono divisibili (“La monade non è altra cosa che una sostanza semplice, la quale entra come parte nei composti; semplice, cioè senza parti”); esse sono infinite e sono caratterizzate da un mutamento continuo. Ogni monade, inoltre, è diversa da ogni altra, perché “nella natura non vi sono mai due esseri che siano perfettamente uguali l’uno all’altro e nei quali non sia possibile una differenza interna”.

TESTO

T12: Gottfried Wilhelm Leibniz, La monade

Leibniz è spinto a ipotizzare l’esistenza delle monadi (parlerà sempre, infatti, di “ipotesi delle monadi”) dallo studio della dinamica (o studio delle forze). Si rende conto, infatti, che la prospettiva cartesiana che cercava di spiegare la fisica con i soli concetti di materia in movimento secondo certe leggi è inadeguata, in quanto non riesce a dar conto del concetto fondamentale di forza. A questo scopo egli immagina che il mondo dei fenomeni, il mondo come appare a noi, sia il prodotto dell’attività incessante di un’infinità di centri di energia, le monadi appunto, in tutto simili ad anime. Ciascuna di queste anime si rappresenta il mondo secondo la propria prospettiva, senza agire direttamente sulle altre anime e senza subire la loro azione: in questo senso, oltre che indivisibile, ciascuna monade è un mondo a parte (“le monadi non hanno né porte né finestre”). E quella che, nel mondo dei fenomeni, appare come una loro relazione causale, viene spiegata, in base all’ipotesi dell’armonia prestabilita, non come una interazione nel senso proprio del termine, non come un influsso reciproco diretto, ma come un mutuo adattamento di tipo puramente ideale. Le uniche azioni di cui le monadi sono capaci sono le loro percezioni reciproche. Le percezioni hanno diversi gradi di consapevolezza, passando dalle percezioni più confuse e inconsapevoli a quelle più chiare, distinte e consapevoli. Le sostanze caratterizzate da una percezione chiara e distinta, e quindi da un elevato grado di consapevolezza (appercezione) sono attive, le altre passive: “Si attribuisce azione alla monade in quanto essa ha percezioni distinte, e la passività in quanto ne ha di confuse”, mentre solo l’intervento di Dio permette una loro coordinazione e corrispondenza (“per questa mediazione [di Dio] le azioni e passioni fra le creature sono mutue”).

TESTO

T13: Gottfried Wilhelm Leibniz, Il “mulino di Leibniz”

Ogni monade, eccetto Dio, può esistere inoltre soltanto associata a un corpo. Leibniz immagina, pertanto, che ciascuna monade domini su una “colonia” di monadi che le è subordinata, che funge da “corpo” e che è composta a sua volta da un aggregato di monadi, ciascuna delle quali domina su una colonia, e così via all’infinito.

In questa costruzione gioca un ruolo fondamentale il concetto di aggregazione: ogni oggetto, ogni fenomeno, tanto i corpi organici quanto gli oggetti inanimati e le macchine, sono infatti per Leibniz entità complesse, aggregati appunto, che risultano composte da elementi semplici. Egli distingue due tipi di aggregati: l’uno dotato di unità reale, di cui il corpo organico è l’esempio principale, è l’altro che ne è privo, e di cui sono esempi gli oggetti inanimati o i gruppi di oggetti (come un mucchio di sassi, o un gregge o una comunità di persone). Negli aggregati di primo tipo, l’unità reale che caratterizza i corpi organici è conferita da una monade, la monade dominante, che costituisce il principio di organizzazione o, in termini aristotelici, l’entelechia dell’aggregato, e rappresenta un vero e proprio “principio di vita”. La monade dominante è quella che ha percezioni particolarmente distinte e, negli animali, si identifica con l’anima mentre negli esseri coscienti con l’io, considerato un principio unificatore di tutti gli stati mentali. Quando un aggregato ha unità reale, esso mantiene la sua identità anche se mutano le sue parti, purché la monade dominante resti la stessa. Ciò non vale invece nel caso del secondo tipo di aggregati, quelli privi di unità reale, che perdono la loro identità se mutano i loro elementi costitutivi: un gruppo di sassi, per esempio, non è più lo stesso se i suoi elementi vengono sostituiti.

TESTO

T11: Gottfried Wilhelm Leibniz, Percezione e appercezione

In questo impianto resta comunque il problema – uno dei principali di tutta la filosofia leibniziana – di come sia materialmente da intendere l’aggregazione, dal momento che le monadi non sono di fatto parti della realtà (allo stesso modo che il punto geometrico compone la linea, senza esserne parte). Si tratta cioè di comprendere come si possa generare da un aggregato di enti immateriali un corpo materiale.

Per risolvere questo problema Leibniz cerca di differenziare vari concetti di materia, ipotizzando una “materia prima”, identificata col principio della resistenza, e una “materia seconda”, identificata con la massa, ma le soluzioni a cui perviene rimangono oscure.

ESERCIZIO

E16: Leibniz