George Berkeley nasce in Irlanda nel 1685. Dopo aver studiato all’università di Dublino viene consacrato sacerdote della Chiesa anglicana e diventa professore di greco, ebraico e teologia in quella stessa università. Nel 1709 esce la sua prima opera, il Saggio su una nuova teoria della visione, seguito poco dopo dalle opere filosofiche più importanti: il Trattato sui principi della conoscenza umana (1711) e i Tre dialoghi tra Hylas e Philonous (1713). Nel 1713 abbandona l’insegnamento e, trasferitosi a Londra, entra in contatto con le più importanti personalità della cultura del tempo, da Swift a Pope. Dopo una serie di viaggi sul continente, a seguito degli incarichi pubblici ottenuti grazie alla stima goduta negli ambienti dell’aristocrazia di corte, ottiene la carica di decano di Derry. Qui coltiva il sogno di un collegio per istruire ed educare moralmente gli indigeni americani: ottenuto dal parlamento inglese un finanziamento, parte per l’America e giunge nel Rhode Island. Di questi anni sono i dialoghi dell’Alcifrone (pubblicati nel 1732), dove l’ideale di una vita semplice e naturale si contrappone alla corruzione della filosofia cittadina. Tornato a Londra nel 1734, anche a causa del sostanziale fallimento del suo progetto educativo, diviene vescono di Cloyne in Irlanda. Del 1744 è la Siris, ultima opera di rilievo filosofico prima della morte, avvenuta a Oxford nel 1753.
George Berkeley è sicuramente uno dei maggiori oppositori dei deisti e dei free-thinkers, o “liberi pensatori”, che nella cultura anglosassone avevano sviluppato l’eredità di Locke nella direzione del materialismo e della critica del cristianesimo. Al tempo stesso Berkeley intese la way of ideas (la “via delle idee”, il metodo tipico di tutta la filosofia moderna) nella direzione dell’immaterialismo, cioè la tesi dell’esistenza solo mentale dei corpi e delle loro presunte qualità oggettive. Nelle sue intenzioni, l’immaterialismo o idealismo avrebbe dovuto al contempo sbaragliare le derive materialistiche del meccanicismo moderno e scongiurare le implicazioni scettiche contenute nella nozione di idea come oggetto vero e proprio della rappresentazione. Al tempo stesso, l’immaterialismo avrebbe dovuto servire a restaurare, nel nuovo clima della scienza settecentesca, le certezze di una visione platonica dell’universo incentrata sul primato degli spiriti e in particolare di quello spirito dominante che è Dio. Tutto questo fa sì che nella riflessione di Berkeley convivano l’analisi dell’esperienza e la riflessione metafisica e apologetica.
Con l’avvento dell’Illuminismo in Inghilterra, alcuni liberi pensatori (free thinkers) fanno propria la definizione di deismo per diffondere una loro visione anticlericale e antidottrinaria della religione.
La diffusione del metodo di ricerca newtoniano nell’ambito delle scienze naturali fa emergere l’esigenza di estendere i principi dell’indagine empirica agli altri campi del sapere e in particolare alla morale e alla teologia. I deisti propongono di circoscrivere la religione entro i limiti della ragione naturale, negando ogni valore alla rivelazione, ai dogmi, ai misteri e ai miracoli, che non si accordano con il principio empiristico dell’uniformità del corso della natura. La religione naturale, portatrice di tolleranza e di equilibrio sociale, si riduce per i deisti a poche idee molto semplici: Dio esiste, ha creato il mondo e premia la buona condotta in una vita futura.
Uno dei problemi principali affrontati dai deisti è quello della rivelazione. Come spiegare il fatto che Dio abbia concesso a un solo popolo (quello ebraico) la salvezza eterna tramite la rivelazione biblica?
John Toland si aggancia alle dottrine di Locke, che separava la dottrina semplice e ragionevole ricavabile dai Vangeli dall’insieme di assurdità di cui si sono fatti portatori nel corso dei secoli i vari concili, per radicalizzare la critica da lui espressa nei confronti delle religioni positive (ossia legate a una rivelazione storica). Toland reputa necessario rifiutare non solo ciò che è contrario alla ragione, ma anche ciò che si ritiene esserle superiore. Nel Cristianesimo senza misteri (1696), Toland sostiene che in ambito teologico, così come in quello scientifico, tutto ciò che appare contraddittorio o elusivo rispetto alla ragione deve essere scartato, e a questo proposito egli avanza un’argomentazione divenuta famosa: “Una persona che avesse l’assoluta certezza che nella natura esiste un essere chiamato blictri, e nel contempo non sapesse che cosa sia questo blictri, potrebbe nutrire giustamente fiducia nella propria conoscenza?”.
Discepolo e amico di Locke, Anthony Collins interviene nel dibattito teologico in occasione di una disputa a proposito dell’immortalità dell’anima. Collins assume una posizione anticlericale, definendo i misteri della religione delle invenzioni escogitate dai preti per mantenere gli uomini sotto il giogo della superstizione. Così come nella scienza il progresso verso la perfezione richiede l’autonomia della ricerca, in teologia l’indipendenza di giudizio è la condizione indispensabile per intraprendere il cammino verso la verità. La necessità della libertà di opinione è la tesi di fondo del principale scritto di Collins, il Discorso sul libero pensiero (1713) destinato a diventare il manifesto del deismo: il libero pensiero vi viene definito come “l’uso dell’intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare la natura delle prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove”.
I deisti si interrogano su come giudicare le numerose inverosimiglianze riscontrabili nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Charles Leslie nel Metodo breve e facile contro i deisti (1699) suggerisce quattro regole per valutare l’attendibilità dei miracoli: che siano tali da poter essere percepiti dai sensi umani; che si siano verificati alla presenza di testimoni; che siano poi stati ricordati tramite ricorrenze pubbliche; che tali ricorrenze abbiano avuto inizio all’epoca stessa del miracolo. L’obiettivo di Leslie è quello di dimostrare la verità di tutti i miracoli biblici e la falsità di quelli coranici attraverso un metodo riconoscibilmente storico.
Il deismo svolge un ruolo rilevante nella secolarizzazione della cultura che culmina con l’Illuminismo: il sapere smette di essere monopolio dei religiosi. Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713), si esprime contro il fanatismo nella sua Lettera sull’entusiasmo (1709), in cui suggerisce al primo ministro Lord Sommers, al quale è diretto lo scritto, di combattere l’estremismo religioso con l’irrisione e l’ironia, piuttosto che con la repressione. Tale moderazione è indice della sua visione ottimistica della natura umana: la simpatia istintiva di cui tutti gli uomini sono dotati sta alla base del senso morale, ovvero del sentimento del bene e del male. Senza disconoscere il fondamento razionale del deismo, Shaftesbury abbraccia tuttavia una concezione panteistico-vitalistica della realtà basata sull’autonomia del sentimento rispetto alla ragione.
A questa concezione si riallaccia Francis Hutcheson (1694-1746) nel Saggio sull’origine delle nostre idee della bellezza e della virtù (1725) e nelle successive opere di argomento morale, in cui ribadisce la tesi della naturale benevolenza dell’uomo, che si manifesta nella sua capacità di agire a favore del prossimo indipendentemente dal tornaconto personale. L’originalità del pensiero etico di Hutcheson sta nelle conclusioni utilitaristiche che egli trae dalla morale sentimentale di Shaftesbury, per cui la virtù coinciderebbe con “la maggiore felicità per il maggior numero di persone”.
In polemica con Shaftesbury, Bernard de Mandeville propone nella sua Favola delle api (1714) un originale sviluppo del pensiero di Hobbes: l’uomo è costitutivamente egoista, ma è proprio dai vizi individuali che deriva il benessere della collettività. Se tenute sotto controllo da un’autorità legislativa, le forme di competizione sociale si rivelano come il principio propulsivo del progresso umano, in quanto incanalano l’aggressività umana in una serie di attività utili allo Stato. Secondo Mandeville, in una società ben regolata l’uomo combatte non più per la distruzione dei propri simili, come accade nello stato di disordine primordiale, ma per suscitare l’invidia altrui.
LETTURE
Thomas Hobbes
Il punto di partenza di Berkeley è “la strada maestra del buon senso comune”, conforme ai “dettami della natura”, che egli intende sostituire alle astrazioni dei filosofi e degli scienziati. Fra le tesi iconoclaste che Berkeley formula contro Locke e Descartes nei Principi della conoscenza umana (Principles of Human Knowledge, 1710) vi è innanzitutto quella che i corpi esterni o la res extensa sono arbitrarie proiezioni dell’intelletto, risultato di un potere di astrazione della mente che non ha riscontro nella realtà delle idee. All’apparenza, la messa in guardia di Berkeley discende da una preoccupazione metodologica che si innesta direttamente nel metodo empiristico da lui fatto proprio. Fra gli errori in cui Locke sarebbe caduto, vi è innanzitutto la tesi “che la mente possa formare idee astratte, o nozioni astratte delle cose”. Questa pretesa si infrange sia contro l’impossibilità di separare con la mente qualità che sono fra loro connesse in modo stretto, sia contro l’ontologia particolaristica berkeleiana, per cui le idee sono tutte entità perfettamente individuali e determinate. Se pure vi è traccia di “universalità” o di “generalità” nelle idee, per cui esse rappresentano più individui, ciò non deriva dalla “natura o dalla concezione assoluta e positiva” dell’idea, bensì da una “relazione”. Questa “generalità”, da non confondere con l’astrazione, può essere compresa come il rapporto di significazione, con cui, ad esempio, una singola linea viene presa a “segno di tutte le linee rette particolari”, giacché può “denotar[le] indifferentemente”. Secondo Berkeley, il pregiudizio astrattistico è alla base della semantica sviluppata da Locke nel III libro del Saggio sull’intelletto umano per cui a ogni nome deve corrispondere un’idea come “unico significato fisso e preciso”. Per questo Locke non aveva potuto non indicare in “idee astratte determinate” il “vero e unico significato immediato d’ogni nome generale”. Questo, a sua volta, era il risultato di aver privilegiato la funzione comunicativa del linguaggio, per cui “ogni nome comunicativo deve stare per un’idea”. La decisione di Berkeley di considerare le idee come pure entità individuali finisce per sovvertire tutte le basi della semantica lockiana. Facendo appello ai contenuti autentici dell’esperienza, Berkeley propone la sua riforma come una terapia contro gli abusi del linguaggio, nella convinzione che, una volta sollevato il “velame delle parole”, si potrà ottenere “una concezione chiara delle idee”, liberate finalmente dal “rivestimento” e dall’“ingombro” dei termini che tanto oscurano il giudizio e disperdono l’attenzione.
TESTO
T1: George Berkeley, Esse est percipi
Alla polemica contro le idee astratte è strettamente connessa la concezione immaterialistica proposta nei Principi. Nel corso dell’opera Berkeley sempre più chiaramente si rivolge contro un avversario ben determinato, la metafisica realistica sottesa alla teoria della conoscenza di Locke e di Boyle, con il loro presupposto di sostanze materiali attive assunte considerate come cause “esterne” delle idee. L’opinione che “gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir percepiti dall’intelletto” è per Berkeley il massimo e peggiore esempio di “idea astratta”, poiché non vi potrebbe essere “uno sforzo di astrazione più elegante di quello che riesce a distinguere l’esistenza di oggetti sensibili dal fatto che essi sono percepiti”. In realtà, il potere di astrarre non dovrebbe mai andare al di là “della possibilità reale di esistenza o percezione”, per cui non dovrebbe essere consentito distinguere “una cosa od oggetto sensibile [...] dalla sensazione o percezione di esso”. È a questo punto che Berkeley formula il “nuovo principio” del suo empirismo radicale, principio già avanzato in un’opera dal titolo Commentari (Existence is percipi or percipere) e qui applicato agli oggetti del conoscere: “L’esse delle cose è un percipi” (L’essere delle cose è un “essere percepite”), non avendo esistenza alcuna “fuori delle menti”. Astrarre l’oggetto dalla percezione equivarrebbe ad affermare l’impossibile, giacché “oggetto e sensazione di esso sono la stessa identica cosa”.
Persuaso che estensione, forma e movimento siano inconcepibili quando vengano astratti dalle altre qualità sensibili, Berkeley non esita a destituire anche le qualità primarie dei corpi dalla loro posizione privilegiata, per reintegrarle nel novero delle qualità sensibili che “non esistono nella materia”, bensì “soltanto nella mente”. Anzi, è la stessa idea della materia come “sostrato” o “sostegno” delle qualità a rivelarsi incompatibile con l’ideismo. I “materialisti” (cioè i sostenitori dell’esistenza indipendente e “fuori della mente” della materia) sono ai suoi occhi vittime di un “pregiudizio” che contraddice la filosofia, prima ancora di costituire un pericolo per la religione.
Berkeley ha già sperimentato la formulazione del suo nuovo principio nel Saggio per una nuova teoria della visione (An Essay towards a New Theory of Vision, 1709), contestando minutamente ogni rappresentazione geometrica e corpuscolare dei fenomeni luminosi e rifiutando così le ipotesi scientifiche avanzate da Descartes, Barrow, Huygens, Newton. I fasci rettilinei di corpuscoli, le onde, gli angoli di riflessione e di rifrazione gli appaiono come schemi artificiali, laddove egli vorrebbe limitarsi ai fenomeni soggettivi, alle pure percezioni di luci, colore e forme, senza postulare una realtà fisica dietro di esse. Lo stesso spazio non è direttamente percepito, ma è semplicemente “suggerito” dall’associazione di idee visuali e tattili. Si tratta di una “connessione abituale” che non ha alcuna base materiale. Secondo Berkeley la visione è “il linguaggio dell’Autore della natura, mediante il quale ci viene insegnato come regolare le nostre azioni” in vista dell’utilità e del benessere del nostro corpo.
La scienza dovrebbe dedicarsi interamente alla descrizione dei phaenomena, rinunciando alla ricerca della cause materiali: “la materia non serve a nulla in fisica”, scrive Berkeley nei Principi, giacché basta ricostruire la “successione ordinata di idee nelle nostre menti”, per formulare “predizioni sicure e ben fondate”. Le teorie scientifiche sono dunque ricondotte alla funzione di fornire descrizioni abbreviate, mentre la distinzione tra le “leggi di natura” e le “chimere” è assicurata dal “processo regolare, ossia serie ordinata” di idee, che per la loro “ammirevole connessione” dimostrano “la sapienza e la benevolenza” dell’Autore divino. A Dio, cioè alla suprema mente, è affidata inoltre la funzione di assicurare la continuità delle idee anche durante gli intervalli che separano le percezioni, necessariamente discontinue, delle menti finite.
Il tutto si risolve in un’esplicita riabilitazione del finalismo provvidenziale, che era stato espulso dalla scienza meccanicistica. Chinandosi sul “libro della natura” i fisici dovrebbero applicarsi a intenderne il “senso”, piuttosto che attardarsi in “osservazioni grammaticali sul linguaggio”. Fuor di metafora, gli scienziati dovrebbero dedicarsi, secondo Berkeley, ad “ampliare la nostra conoscenza della grandezza, della saggezza e della benevolenza del Creatore”, senza preoccuparsi dell’“esattezza nel ridurre ogni fenomeno particolare a regole generali”, o peggio ancora di “vagabondare in cerca di cause seconde”.
In generale le idee sono caratterizzate dalla passività e anche le leggi fisiche si riducono a “diverse combinazioni di idee”, inattive e incapaci di svolgere alcuna azione causale. E dato che le idee sono soltanto “percezioni inattive nella mente”, e non le cause degli effetti naturali, il lato più importante della ricerca filosofica è, invece, quello che indaga sui principi attivi, da cui le stesse idee dipendono.
L’“intera conoscenza umana” – si legge nei Principi – può essere “ridotta a due argomenti”: “quello delle idee e quello degli spiriti”. Mentre le idee sono “passive ed inerti”, lo spirito, invece, è “un essere semplice, indivisibile, attivo” e quindi l’idea non può rappresentarlo. Lo spirito non è “percepito per se stesso, ma soltanto per gli effetti che produce”. Allo spirito Berkeley restituisce il carattere di sostanzialità che sottrae, invece, alla materia, giacché “uno spirito è la sola sostanza o supporto nel quale possano esistere enti che non pensano, ossia idee”.
Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous (1713), scritti per combattere materialisti e free-thinkers, Berkeley ha facile gioco nel demolire il modello meccanicistico dell’io senziente, tutto incentrato sulla trasmissione del “movimento vibratorio” dall’oggetto agli organi di senso, sino al cervello. Contro questa impostazione, Philonous invoca tutti gli argomenti cartesiani, dal dualismo all’occasionalismo, per sottolineare l’irriducibile alterità che sussisterebbe fra idea e impressione materiale. Riprendendo poi alcuni spunti già presenti nei Principi, lo stesso personaggio sostiene il carattere “intuitivo” e “immediato” della conoscenza dell’io.
ESERCIZIO
E1: Berkeley
La conoscenza delle altre menti è frutto di inferenza, mentre alla cognizione dell’esistenza dello spirito supremo, cioè Dio, si giunge constatando che le nostre percezioni sono involontarie, dunque non dipendono dalla nostra mente, e manifestano per di più una costanza e una regolarità ben superiori a quanto si potrebbe ricavare dalle semplici percezioni soggettive. Pensate in Dio, le idee acquistano la stessa stabilità e indipendenza che il realismo rappresentativo di Locke o dei materialisti aveva attribuito agli oggetti.
LETTURE
Malebranche e l'occasionalismo
La nuova teoria delle idee e degli spiriti implica una profonda riforma della semantica che Locke ha posto alla base della sua teoria del linguaggio. Se infatti il significato dipende dalle idee, ma a parole come anima e spirito non corrisponde alcuna idea (un’idea passiva non può rappresentare un principio attivo), c’è il rischio che tutto il linguaggio dello spirito diventi insignificante. È soprattutto nell’Alcifrone: ovvero il filosofo minuzioso (1732) che Berkeley trae le conseguenze del nuovo approccio: “le parole – sentenzia Eufranore, uno dei personaggi del dialogo – possono essere significanti, sebbene non stiano in luogo di idee”, e questo è il caso dei termini che “denotano un principio attivo, anima o spirito”. Così si comprende il significato della parola “io o me stesso”, anche se questo non è “un’idea”, bensì “ciò che opera su di esse”. Berkeley sviluppa dunque una concezione operativa del segno che ne mette in rilievo la funzione pragmatica più che quella semantica.
In Berkeley troviamo anche una riflessione sul linguaggio della matematica e della scienze (L’analista, 1734). La significatività di questi linguaggi consiste assai più nelle finalità operative e nelle tecniche di trasformazione dei simboli (“abile uso e maneggio” dei segni), che non nella riproduzione mentale di improbabili idee astratte. Tutte le scienze, in quanto sono universali e dimostrabili, vertono “su segni come loro oggetto immediato”, ma non è detto che il loro fine sia la rappresentazione semantica: il loro scopo “non è semplicemente, né principalmente, né sempre, comunicare o acquistare idee, ma piuttosto qualcosa di natura attiva e operativa, tendente a un bene che si concepisce”. Il carattere dell’attività, propria degli spiriti, contrapposto alla mera passività delle idee, veniva così estendendosi anche alle “nozioni” che li rappresentano, sino a investire le finalità del linguaggio in cui Berkeley vedeva la forma suprema di ordinamento delle idee.
La polemica contro i “liberi pensatori” (Collins, Toland, Tindal, Hobbes, Mandeville e Shaftesbury), contenuta nell’Alcifrone è preceduta e seguita da un’intensa campagna di Berkeley contro la decadenza dei costumi e per il rinnovamento cristiano della società inglese. Nei tre sermoni su L’obbedienza passiva (1712) predica il perfetto conformismo monarchico, schierandosi contro i principi contrattualistici lockiani; nel Saggio per prevenire la rovina della Gran Bretagna (1720) trae spunto dal grande scandalo politico-finanziario che portò al crollo della Compagnia dei Mari del Sud per attaccare le politiche mercantilistiche della borghesia britannica; nel 1729-1731 trascorre due anni a Rhode Island dedicandosi all’attività missionaria per convertire i “selvaggi” americani; infine assume nel 1734 le funzioni di vescovo di Cloyne in Irlanda. Nell’ultima fase della sua produzione, compone la Siris (1744), “una catena di riflessioni e ricerche filosofiche sulle virtù dell’acqua di catrame e su diversi altri argomenti connessi insieme e scaturenti gli uni dagli altri”. In quest’opera bizzarra si risale dalle virtù terapeutiche dei balsami vegetali dei pini da cui si ricava il catrame sino a ripercorrere la scala delle essenze naturali; queste si ricollegano all’anima mundi della tradizione stoica e neoplatonica. Il modello è il dialogo platonico del Timeo, giacché Berkeley vede un unico spirito pervadere e modellare tutta la realtà naturale, con l’esplicito ricorso a un simbolismo che traduce il “linguaggio divino” della natura in evidente misticismo. Ogni sorta di materiale vi è assorbito, dalle speculazioni di Newton sullo spazio assoluto “sensorio” di Dio sino alla medicina paracelsiana e alle dottrine degli alchimisti. Nella Siris Berkeley rivela tutta la nostalgia di un uomo del Settecento per il mondo rinascimentale delle simpatie e delle rispondenze occulte entro una trama di significati che la scienza illuministica ha irrimediabilmente lacerato.
AMBIENTE CULTURALE
Dopo l’erudito del tardo Rinascimento e del barocco, anticipato alla fine del Seicento dal Bayle scettico del Dizionario storico-critico, l’homme de lettres si apre all’interpretazione del mondo e del presente con il rigore di un razionalismo polemico attento alla storia, ai suoi conflitti e alle sue contraddizioni. Riconoscendosi nell’esercizio di un senso critico educato dalla ragione postcartesiana e assunto a misura del buon gusto e del giudizio, l’homme de lettres allarga la sua competenza ai diversi campi del sapere. Così il letterato del paradigma volterriano opera, a partire dal diritto e dalla matematica applicata, nella solitudine del suo scrittoio e parla direttamente ai lettori che l’espansione del mercato rende più numerosi, anch’essi protagonisti della nuova “repubblica delle lettere” quanto più vi si afferma la logica dell’economia di mercato. Orgoglioso ma non misantropo, il letterato proposto da Voltaire, quale poi si conosce nei colloqui di Sans-Souci con Federico II di Prussia, guarda all’Inghilterra di Newton, Swift e Pope per delineare un modello di società e una forma corrispondente di cultura che abbia nella parola il suo centro di forza comunicativo. Nelle Lettere filosofiche Voltaire loda l’apprezzamento sostanzioso che la nazione inglese attribuisce ai suoi letterati, non ricorrendo al protezionismo di un’accademia, ma con un reale miglioramento della loro posizione economica, come è accaduto nel caso di Pope. E non resta che ascoltare quanto osserva: “Se lo stato religioso non permette a Monsieur Pope di ottenere un alto ufficio, tuttavia non si è potuto impedirgli di ricavare con la sua traduzione di Omero duecentomila franchi”.
Ma l’arricchimento di Pope con le traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea non ha nulla di strano; a partire dal Copyright Act del 1709 si assicurano i futuri successi editoriali di Pamela, Clarisse, del Viaggio sentimentale e infine dei Canti di Ossian. Non va dimenticato, d’altra parte, che molto si deve all'immaginario di un nuovo pubblico femminile.
L’editoria in espansione Il mercato editoriale in grande espansione funziona quasi come una Borsa dei generi letterari giacché dal primo al secondo Settecento, mentre diminuisce la fortuna della letteratura religiosa, salgono i titoli del romanzo, spesso poi inserito nella categoria “arte e scienza” fra libri di viaggio, curiosità e opere di storia naturale. In ultima analisi, la professione del letterato si consolida non solo attraverso l’appello a quella che Voltaire definisce la decima Musa della critica, ma anche perché si lega a un più saldo dialogo con i lettori mediante la divulgazione delle gazzette, le biblioteche circolanti, le società di lettura e le fiere librarie (tale ad esempio quella di Lipsia). Vero è che Voltaire compiange la sorte dei letterati costretti a pagarsi la vita con ciò che scrivono e preferisce la figura di un intellettuale non asservito, pronto a intervenire nelle cose del mondo con la sua intelligenza reattiva, dall’edonismo al pessimismo, dall’analisi implacabile della macchina della giustizia alla riaffermazione della libera dignità dell’uomo, che significa anche la sua perfettibilità.
Se il letterato si identifica nel XVIII secolo con la ragione comunicativa, l’articolo “Philosophe” scritto da Diderot per l’Encyclopédie ribadisce l’intervento, la presenza necessaria nella società dell’uomo di cultura. Osservatore degli uomini e delle loro passioni, affrancato dai pregiudizi di un passato irrazionale, il filosofo di Diderot vive nel presente secondo l’ideale illuministico di essere utile alla società, proprio nella stagione dell’ancien régime che prepara le costituzioni degli Stati Uniti e della Francia rivoluzionaria. Alla figura secentesca dell’honnête homme egli aggiunge non solo l’impegno inesauribile del senso critico, ma anche l’amour de la société e la riprova sta nello straordinario sforzo organizzativo che Diderot sostiene, promuovendo a un tempo un’attività scientifica di luminosa originalità culturale e un’idea viva di intellettuale che abbandona la cattedra aristocratica dello scrittoio volterriano per scendere nel democratico arengo di un lavoro collettivo, nel dibattito delle idee del nuovo spirito borghese.
E qui, in corrispondenza con la dilatazione del commercio editoriale della metà del Settecento, le arti liberali si incontrano con la tecnica e la meccanica, consolidando nella metafora di una casa ben ordinata il capitale unitario dell’umanità. Anche la parola si commisura al mondo del fare, dove vengono meno le vecchie gerarchie di un pensiero metafisico tradotto nelle strutture della compagine sociale.
Se ora si passa dalla Parigi dei Salon alla Ginevra di Rousseau, lo scrittore-filosofo assume il volto dell’uomo schietto e intransigente mentre esalta uno stato di natura incorrotto tra l’Emilio e la Nuova Eloisa (sono 70 le edizioni del suo romanzo epistolare), e denuncia i vincoli della vita sociale di fronte alla libertà di sentimento e di cuore.
Alfieri o dell’indipendenza del letteratoE dalla solitudine roussoiana che ritrova la naturalezza, la ragione ricongiunta con l’istinto nell’universo dell’infanzia e nella sua integrità non ancora alienata dalle convenzioni cittadine, si giunge così all’intellettuale, all’uomo di lettere che prende posizione contro la società, contro il potere e affida alla propria scrittura la certezza dell’utopia. Si veda solo l’avventura esistenziale di Vittorio Alfieri. Una volta rifiutato il suo status di aristocratico fra vita militare e diplomazia, l’Alfieri sceglie l’indipendenza del letterato e ne fa un modo di essere, quasi una vocazione, un destino da opporre all’edonismo volterriano in nome di un’etica intimamente drammatica del forte sentire, che ha bisogno della maschera di una classicità severa e sdegnosa per convertire l’eccentricità del libertino nella retorica dell’eroe plutarcheo.
Al ragionamento analitico subentra quello oratorio di un personaggio che sembra declamare i propri enunciati, ma le sue tesi hanno una forza polemica che non si può negare, anche nel richiamo alla radicalità di un Machiavelli. Partecipe della tradizione empiristica per cui “i sensi dell’uomo sono tutto” lo scrittore ideologo di due libri come La tirannide e Il principe e le lettere rovescia il colloquio con il potere auspicato da d’Alembert nel Saggio sui rapporti tra intellettuali e potenti così come mette a nudo il compromesso dell’assolutismo illuminato e della cultura che se ne fa interprete in termini istituzionali. Così, conclude l’Alfieri nel suo liberalismo anarchico da ricco signore, la superiorità del letterato rispetto all’uomo di scienza sta proprio nel fatto che egli non dipende dai finanziamenti che solo il potere pubblico può assicurargli e perciò non deve rinunciare all’autonomia della propria coscienza, all’impulso di verità che è all’origine della missione letteraria.
Ciò che conta alla fine è l’ideale, per ripetere l’efficacissima espressione alfieriana, dello scrittore “sprotetto”, indipendentemente, bisogna subito aggiungere, dal riscontro sempre più decisivo dell’industria editoriale.
In realtà a definire la nuova moralità dello scrittore concorre quella che sarà chiamata la “nazione dei lettori” quale la si rintraccia china sulle pagine fruscianti di un libro tanto nei caffè delle metropoli quanto nei circoli di lettura in provincia. Da essa nasce l’opinione pubblica alimentata da saggi, epistolari, giornali, almanacchi, memorie, romanzi, drammi e pamphlet, a cui guarda ormai l’homme de lettres come al vero committente del proprio lavoro.
L’idea saturnina del letterato incline alla malinconia trasmessa dall’età classica alla modernità si secolarizza con il secolo dei Lumi nelle patologie professionali della gens de lettres quali vengono studiate dal medico veneziano Pujati, il quale, dalle pagine della Preservazione della salute de’ letterati, invita i suoi lettori ipocondriaci a giovarsi dell’uso della gondola e del cavallo per migliorare la circolazione degli umori in eccesso del corpo. Convertita da malattia dello spirito, come era nell’accezione classica di accidia, di grave tristezza contemplativa, la malattia diviene condizione abituale di chi chiuso nello studio è prima o poi soggetto ai disturbi di un’esistenza sedentaria: convulsioni, insonnia, aneurismi, idropisia e soprattutto ipocondria, quest’ultima addirittura cronica. Ai margini del mondo anche quando ne studia i meccanismi e le configurazioni, il letterato prende coscienza della propria separatezza e di ciò che lo minaccia dall’interno allorché viene meno il commerce des hommes.
D’accordo con Diderot, il Tissot ammonisce che l’equilibrio viene da un rapporto positivo con la società: “gli uomini sono stati creati per gli uomini, il loro mutuo commercio ha vantaggi ai quali non si rinuncia impunemente ed è stato notato a ragione che la solitudine getta nel languore”.
Ma proprio questo stato melanconico, ora che la sua interpretazione si sposta dalla medicina ippocratica degli umori a quella moderna della vibratilità, sancisce anche un nuovo statuto soggettivo della gens de lettres.
Soggettività dello scrittore romantico Ed ecco il concetto concomitante di genio assimilato al modello di raccoglimento elegiaco di uno Young e poi alla figura paradigmatica del poeta sentimentale di Schiller, a cui non resta che prendere coscienza del suo distacco dalla natura ossia della sua soggettività ideale, autonoma ma incompiuta. La malinconia può anche divenire passione tempestosa e selvaggia come nei proclami drammatici dello Sturm und Drang o addolcirsi in solitudine intenta e riflessiva come nell’antropologia poetica di uno Zimmermann, ma resta sempre come fondamento di un nuovo rapporto fra l’io della letteratura e il mondo delle emozioni, degli impulsi vitali immanenti alla struttura organica del corpo.
Non più gli umori della fisiologia aristotelica ma la fisiologia dinamica della scienza postgalileiana. Così, allorché chi scrive prende a scrutarsi, a interrogarsi nello specchio mobile delle confessioni, al moralista si affianca l’analista di una vibratile sensibilità nervosa quasi nello stile di una eterodossa anamnesi medica. Se poi il linguaggio della diagnostica psichica giunge sino agli epistolari delle dame e degli eroi dei Salon, in compagnia dei fantasmi temibili della noia e del niente, ciò significa che la nuova tipologia della letteratura fa ormai testo anche per i lettori che ne vogliono prolungare l’effetto all’interno della propria storia di individui in quanto partecipi della stessa tensione, dello stesso codice interpretativo. Immagine esemplare di una coscienza infelice, il Werther goethiano rappresenta anche il mito dello scrittore che scopre nel proprio destino la scissione insanabile dell’esistenza. Di là dal razionalismo, tra passioni, ebbrezza e malinconia, l’homme de lettres, dopo l’Encyclopédie si scontra con le dissonanze, le ombre e le contraddizioni della modernità.
Nel secolo dei Lumi si fa strada l’esigenza di una nuova monumentalizzazione dello scrittore, di una consacrazione laica del suo ruolo nella storia. Del resto il successo del genere biografico e autobiografico nel corso del secolo ubbidisce alle stesse ragioni. Nell’orizzonte secolarizzato dell’Illuminismo, fra deismo e materialismo storico, messa fuori gioco la rivelazione cristiana, il desiderio di immortalità riemerge nella memoria autobiografica e nel genere accademico, che è altrettanto sintomatico, dell’elogio celebrativo o epidittico.
Nel 1770 Thomas pubblica il suo Saggio sugli elogi, dove rivendica il páthos dell’antica tradizione oratoria alla celebrazione moderna illuminata. Mentre gli enciclopedisti disseminano fra i paragrafi degli articoli dell’Encyclopédie i loro encomi, come quello ad esempio di Montesquieu nella voce “Eclettismo”, l’oratoria massonica rilancia i modi solenni del genere epidittico a ricordo perenne dei propri campioni: da Franklin a Greuze, da Voltaire a Federico II, nella luce di un futuro redento dalla pace universale di un’umanità finalmente unita. Quando poi irrompe la Rivoluzione francese tocca all’eloquenza giacobina prendere il posto di quella massonica con una drammaticità che sostituisce al teatro la realtà dura e inesorabile del potere e della distruzione.
Parola e azione: il letterato post-rivoluzionario Parola e azione vogliono unirsi: la voce si fa gesto, atto che decide di un destino. L’homme de lettres è investito da questa violenza, sia che la sottoscriva sia che vi si opponga, e con l’ultima generazione del Settecento muta il proprio volto quanto più si allontana deluso e perplesso dal sogno di una ragione sconfitta dagli eventi tragici e atroci della storia. Romanticismo e Restaurazione ne fisseranno la metamorfosi entro una dialettica sempre più radicale del moderno, del contrasto fra passato e presente, tradizione e giovinezza. Dai padri ai figli, anche nella letteratura la continuità si è interrotta.