Karl Marx, le sue figlie Laura, Eleanor e la moglie Jenny, con Friedrich Engels a Londra, 1864, Collezione privata
Karl Marx nasce nel 1818 a Treviri in Renania. Gli anni della sua formazione giovanile sono contrassegnati dall’esperienza degli effetti di due rivoluzioni, quella politica in Francia e quella economica della prima rivoluzione industriale, e dalla percezione dell’arretratezza politica ed economica della società tedesca. Nel pieno della Restaurazione europea, sono gli anni in cui si avvertono i segni del mutamento e le tensioni nello spazio sociale e politico. In questo contesto il giovane Marx sarà, al tempo stesso, un osservatore analitico e un partecipante intransigente, con una tensione fra teoria e prassi che sarà persistente nel tempo.
L’orizzonte culturale dominante in Prussia coincide con l’eredità dell’insegnamento e della costruzione filosofica di Hegel; gli eredi si dividono fra destra e sinistra, a seconda dell’orientamento conservatore o progressista. Marx, che si schiera con la sinistra dei giovani hegeliani, studia approfonditamente l’opera del filosofo tedesco e il confronto con Hegel lo accompagnerà in vario modo per tutta la sua vita e la sua ricerca, ponendosi alla base della sua costruzione teorica.
Marx dedica la tesi di laurea alla filosofia della natura di Democrito ed Epicuro e la discute all’università di Jena nel 1841. Insieme a Prometeo, Epicuro resterà uno dei suoi eroi intellettuali e l’eco della sua massima, secondo cui “infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità”, lo accompagnerà a lungo.
Dopo la conclusione degli studi universitari, Marx si dedica fra il 1842 e il 1843 a un’attività pubblicistica in cui può realizzare il suo impegno politico, intransigente e radicale nei confronti delle misure oppressive e repressive del regime prussiano. È la prospettiva del partecipante a prevalere. Collabora agli “Annali tedeschi” di Arnold Ruge; poi, alla “Gazzetta Renana” di Moses Hess, che lo converte alle prospettive socialiste e comuniste insieme a Friedrich Engels, che diverrà l’amico di una vita e il suo instancabile collaboratore. Marx si trasferisce da Bonn a Colonia, dove diviene redattore capo della rivista. Nel marzo del 1843, però, consapevole dell’impossibilità di un esercizio libero della funzione intellettuale, Marx lascia la redazione. La rivista è soppressa dal governo dopo pochi giorni. Nel giugno dello stesso anno, dopo aver sposato Jenny von Westphalen, la straordinaria compagna della sua vita, Marx parte per Parigi. Il progetto, condiviso con Ruge, è una nuova rivista, gli “Annali franco-tedeschi”, che si avvale della collaborazione di Heinrich Heine, Moses Hess e dell’amico Engels.
La prospettiva teorica e politica di Marx rivela, nel periodo parigino, un progressivo distacco dagli intellettuali della sinistra hegeliana. Il conflitto delle interpretazioni dell’eredità della “cattedrale” filosofica hegeliana aveva posto al centro della riflessione e della critica il senso e il ruolo della religione. Marx è convinto che sia urgente mettere a fuoco criticamente lo spazio della politica e delle sue istituzioni, a partire dallo Stato. In una lettera a Ruge del settembre 1843, scrive: “Come la religione è l’indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo Stato politico lo è delle loro battaglie pratiche […] il critico non solo può, ma deve interessarsi dei problemi politici […]. Il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente”.
Nel fascicolo doppio del 1844 degli “Annali franco-tedeschi” Marx pubblica l’Introduzione alla sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in cui viene confutata la pretesa hegeliana di trasformare lo Stato prussiano nelle vesti dell’idea di Stato. Per fare teoria di una società, sostiene Marx, non si deve partire dall’“idea” di società, ma ci si deve impegnare nell’analisi della struttura materiale di società determinate e situate. Nello stesso fascicolo esce un penetrante saggio Sulla questione ebraica, in cui Marx discute e critica le tesi di Bruno Bauer sullo Stato laico che emanciperebbe le persone rispetto alle religioni. Marx sostiene che si debba distinguere fra almeno tre tipi di emancipazione: l’emancipazione religiosa, quella politica e, infine, quella umana. Bauer esaurisce il discorso critico sull’emancipazione riducendolo ai primi due tipi.
L’emancipazione politica è in realtà incompleta e limitata. Essa si basa sulla tensione e sulla contraddizione fra l’emancipazione del cittadino nel cielo dei diritti eguali per tutti (Liberté, Egalité e Fraternité) e la condizione del borghese sul piano della società civile dominata dagli interessi privati e dalle diseguaglianze. Quella politica è, in questo senso, una “comunità illusoria”.
L’incompletezza dell’emancipazione politica può essere colmata solo con la realizzazione storica del terzo tipo di emancipazione: l’emancipazione umana. E quest’ultima è a sua volta compiuta solo nelle circostanze storiche e concrete, in cui gli esseri umani realizzano l’eguaglianza della loro comune appartenenza all’umanità. Ma perché ciò sia possibile, è necessario che si dia una classe universale che, subendo l’ingiustizia generale, non rivendichi spettanze o diritti particolari, ma possa emancipare se stessa e l’intera società.
L’attore sociale dell’emancipazione è, secondo Marx, il proletariato urbano. Attraverso l’azione del proletariato urbano la teoria può realizzarsi nella pratica e, in questo senso, si potrà affermare che il proletariato è l’erede della filosofia classica tedesca. In questo modo il giovane Marx connette la grande esperienza storica della Rivoluzione francese con l’insorgenza del modo di produzione capitalistico, con l’articolazione in classi della società e, in particolare, con la formazione del proletariato urbano. Rivoluzione politica e rivoluzione industriale generano, nella loro connessione, la questione sociale della modernità.
Esponente di prestigio di quella filosofia anglo-scozzese che aveva eletto a tema prioritario di indagine l’analisi della natura umana e posto le basi dell’utilitarismo, Adam Smith (1723-1790) applica questo tipo di approccio all’ambito economico, diventando uno dei padri dell’economia politica classica con le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776).
Ritratto di Adam Smith, dal “Dictionnaire de l’economie politique”, di Charles Coquelin, 1854
Secondo Smith la società non deve contrastare l’ordine naturale, bensì essere in sintonia con esso; le istituzioni politiche a loro volta devono guardarsi dall’esercitare violenza su una natura umana guidata da impulsi dotati tutti di una loro ragion d’essere e di una loro funzionalità, dall’istinto di conservazione al senso della proprietà, dalla simpatia alla propensione al lavoro. Se non si infrange quell’ordine, la comunità umana riuscirà a perseguire l’interesse collettivo mentre ciascuno dei suoi membri persegue il proprio interesse privato, senza alcuna contraddizione: è la dottrina della cosiddetta “mano invisibile”.
Il motore che ha storicamente messo in movimento il progresso nella vita economica è stata la divisione sociale del lavoro, alla cui analisi Smith riserva l’incipit della sua opera. Stabilita una proporzione fra divisione del lavoro e progresso di un Paese, è proprio questo tema a fornire il migliore argomento contro le tesi fisiocratiche (il cui principale esponente è François Quesnay, autore del Quadro economico e collaboratore dell’Encyclopédie), giacché è l’industria, e non l’agricoltura come sostenevano i fisiocrati, a permettere una maggiore divisione del lavoro. Egli concorda con i fisiocrati nell’individuare nell’agricoltura il primo ambito di sviluppo dell’economia: storicamente essa ha prodotto un surplus che, circolando, ha riversato i suoi benefici sulle altre classi sociali.
L’indagine sulla divisione del lavoro introduce quella sull’origine della moneta, con la conseguente distinzione fra valore di scambio e valore d’uso dei beni. Ogni bene ha un prezzo nominale (in moneta) e un prezzo reale, che equivale alla quantità di lavoro necessaria per l’acquisto di quel bene. Non è dunque la moneta ma il lavoro a essere la misura del valore di scambio delle merci. L’analisi del valore reale prosegue con l’esame delle tre parti componenti il prezzo: il valore aggiunto dal lavoro operaio, il profitto del capitalista e la rendita del proprietario terriero. Quindi si conclude con un’indagine sul salario operaio, che esiste in quanto tale solo perché esiste accumulazione capitalista; di qui la contrapposizione di interessi tra operaio e padrone.
Oltre a combattere qualsiasi forma di privilegio economico, tra cui i dazi troppo onerosi, il monopolio del mercato e altre limitazioni, quello di Smith è un liberismo (termine con il quale si intende generalmente un sistema economico fondato sul libero mercato) che limita in modo consistente l’intervento dello Stato in economia, riservandogli come soli settori di competenza la difesa, l’amministrazione della giustizia e le opere pubbliche.
Altro autore di rilievo per l’economia classica è l’inglese David Ricardo (1772-1823). Egli pone le basi della riflessione economico-politica ottocentesca nel testo Sui principi dell’economia politica e della tassazione (1817). Eliminando la rendita dal calcolo del costo di produzione, Ricardo – sagace agente di borsa – vuole spiegare la distribuzione del reddito come effetto della dinamica industriale, ed è questo il motivo della sua insistenza sulla semplificazione massima della struttura del costo di produzione. Il risultato di tale ricerca (che tende però a isolare il fattore tecnologico) è che il valore di un bene è determinato dalle ore di lavoro necessarie a produrlo. Questa stessa ricerca sarà alla base della teoria del plusvalore di Marx, che insisterà sul tema del valore-lavoro indagato a fondo da Ricardo.
Nei Manoscritti economico-filosofici (1844) il quadro si allarga e Marx mette a frutto lo studio assiduo dell’economia politica classica – disciplina che cerca di spiegare il processo di sviluppo economico della società, non dello Stato, nel contesto della rivoluzione industriale – e dei suoi critici. Lo spazio dell’economia politica assume un rilievo che diventerà centrale nello sviluppo del suo programma scientifico e caratterizzerà tutta la sua ricerca, sotto il duplice profilo dell’osservatore e del partecipante. Nel primo abbozzo di una critica dell’economia politica classica, riferendosi in particolare a Smith e muovendo dalla sua distinzione fra salario, profitto e rendita, Marx formula una teoria dell’alienazione che costituisce il nucleo della sua visione antropologica. L’alienazione, un termine che è mutuato dalla terminologia di Hegel, assume quattro dimensioni cruciali nello spazio dei rapporti di produzione.
La prima dimensione riguarda l’alienazione o l’estraniazione del lavoratore dal prodotto del proprio lavoro: il prodotto del lavoro si contrappone al lavoratore come un ente estraneo. Qui è all’opera un processo strutturale di privazione del lavoratore.
La seconda dimensione investe il rapporto fra il lavoratore e il suo stesso lavoro: non solo il prodotto del lavoro, ma l’attività stessa del lavoro diviene estranea per il lavoratore salariato.
La terza dimensione coincide con l’alienazione del salariato dall’essenza stessa della sua umanità, della sua appartenenza all’umanità, mentre è proprio di ogni uomo che la sua attività di trasformazione della natura, cioè il suo lavorare, la sua prassi, siano attività libere e consapevoli. Esse sono attività che hanno a che vedere con i fini. Ma il lavoro alienato del salariato è semplicemente un mezzo per la sua esistenza, e ciò cancella e deforma la sua “essenza” umana.
Infine la quarta alienazione riguarda il rapporto dell’uomo con l’altro uomo, in quanto il rapporto umano nel sistema produttivo capitalista è del tutto alterato.
Così accade, nell’economia borghese, che il lavoratore conosca l’esperienza del divenire straniero a se stesso in quanto essere umano. È proprio questa condizione, che è l’esito di un complicato processo storico, a essere naturalizzata e assolutizzata dallo sguardo dell’economia politica: essa trasforma le leggi storiche e determinate che regolano il meccanismo della produzione capitalistica in leggi “eterne”, immunizzate rispetto al mutamento e alla storia. Il riconoscimento del carattere storico dell’economia borghese, invece, implica hegelianamente il riconoscimento della sua intrinseca “impermanenza” e della necessità del suo superamento. Il “comunismo”, il nuovo sistema di organizzazione sociale propugnato da Marx, è, in questo senso, lo sviluppo storico necessario che, sopprimendo le condizioni dell’economia borghese, genera la liberazione dell’essere umano dall’alienazione e la riappropriazione della sua essenza intrinsecamente umana. Il “sogno di una cosa” (di cui Marx parla nella già citata lettera a Ruge) è ora trasparente. Il suo significato ci parla dell’emancipazione umana.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx inizia il confronto con l’economia politica che verrà sviluppato in vari scritti successivi e troverà compimento nel Capitale. L’economia politica fornisce, secondo Marx, una valida analisi della società borghese e del modo di produzione capitalistico, sebbene in maniera mistificata, poiché tende ad assolutizzarlo ed “eternizzarlo” senza comprenderne il carattere storico, esattamente come i modi di produzione che l’hanno preceduto.
Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885, Otterloo, Rijksmuseum Kröller-Müller
Nel primo manoscritto vengono innanzitutto analizzate le tre categorie principali dell’economia politica – salario, profitto, rendita fondiaria – per mostrare che la condizione più debole, sia che la società si trovi in una situazione economicamente sfavorevole sia che si trovi in una favorevole, è quella di coloro che vivono del salario, cioè gli operai, in quanto sempre, come classe, dipendenti dai capitalisti. Proprio in relazione allo stato del salariato che non possiede altro che la propria forza lavoro da utilizzare come merce di scambio sul mercato, viene messo l’accento sull’importanza del denaro per il costituirsi del processo di produzione capitalistico che, come verrà mostrato nel Capitale, ha un carattere intimamente monetario: la classe dei proprietari, che possiede globalmente sia i mezzi di produzione sia appunto il denaro (inteso in senso lato, per esempio come possibilità di accesso al credito), acquista il lavoro di una classe che è priva di entrambi.
Il concetto più significativo che troviamo nei Manoscritti è tuttavia quello di alienazione (terzo manoscritto). L’origine del termine risiede nella filosofia hegeliana e in Feuerbach, dal quale Marx lo riprende, anche se il significato originale è propriamente giuridico: alienazione indica infatti la cessione di un bene. In Hegel, esso indica il processo di oggettivazione dello spirito nella natura e nella realtà; questo momento è in Hegel pura apparenza destinata a essere superata nel momento in cui lo spirito, fattosi spirito assoluto, comprende che questa esteriorità è posta da lui, è un suo prodotto. Così intesa, l’alienazione è un fatto filosofico. In Feuerbach, invece, l’alienazione consiste nella proiezione nella divinità, in forma infinita, degli attributi positivi umani: l’entità fittizia così costruita, cioè Dio, assume un potere da cui, come singolo, egli si sente schiacciato. In questo caso l’alienazione è un fatto di coscienza.
Marx concepisce l’alienazione in modo materialistico: sono i rapporti di produzione capitalistici creati dagli uomini stessi, che sono sfuggiti al loro controllo e si ergono contro di loro in vari modi come una forza/potenza estranea. L’origine dell’alienazione viene vista proprio in ciò che l’economia politica, come già precisato, considera come assoluto, “atemporale”, cioè i rapporti di produzione borghesi e in particolare la proprietà privata. L’assetto sociale che su di essa si fonda permette infatti al capitalista di entrare in possesso, se pure per un periodo limitato, del tempo dell’operaio (cioè della giornata lavorativa) e organizzarlo a proprio piacimento.
Concretamente, dunque, l’alienazione viene descritta da Marx nel terzo manoscritto secondo quattro aspetti:
(1) Alienazione rispetto al prodotto, in quanto il prodotto del lavoro non appartiene a chi lo ha eseguito, cioè all’operaio, ma al capitalista. Questo prodotto nella forma di lavoro accumulato che diventa capitale si contrappone all’operaio come una potenza estranea.
(2) Alienazione rispetto all’attività, perché l’operaio svolge un lavoro su cui non ha controllo, deciso da altri (cioè dal capitalista) nei tempi, nelle modalità e nei fini, oltre che meccanico e ripetitivo.
(3) Alienazione rispetto all’essenza di genere (nel senso di genere umano), cioè rispetto al fatto che l’essenza del genere umano, in quanto distinto dall’animale, dovrebbe essere il lavoro libero e creativo, mentre il lavoro capitalistico è un lavoro meccanico e ripetitivo (e spessissimo, viste le condizioni delle fabbriche ai tempi in cui Marx scriveva, abbruttente).
(4) Alienazione rispetto all’altro uomo, in quanto nel modo di produzione capitalistico i rapporti umani sono alterati e l’altro uomo è spesso visto come un estraneo/nemico: è il capitalista che lo domina, ma spesso anche l’altro operaio percepito come un potenziale concorrente rispetto al posto di lavoro. Una fase più evoluta della società, che Marx chiama “comunismo”, viene dunque identificata nella soppressione della proprietà privata. Questo aprirà la strada al recupero dell’essenza umana e all’eliminazione dell’alienazione.
Nel terzo manoscritto si trovano anche interessanti osservazioni sul rapporto tra i sessi. Dopo aver preso in considerazione alcune forme immature di comunismo – come quello che Marx chiama comunismo rozzo, “in quanto nega la personalità dell’uomo ovunque ed è soltanto l’espressione conseguente della proprietà privata che è tale negazione” – Marx osserva che, essendo il rapporto tra uomo e donna il più elementare e naturale, esso costituisce un indicatore del grado di civilizzazione ed evoluzione di una società.
Nell’ultima parte del terzo manoscritto, troviamo infine una sorta di confronto di Marx con il suo maestro Hegel. Quest’ultimo viene apprezzato sostanzialmente per aver compreso ed enfatizzato la processualità del reale, per aver concepito l’uomo in un’ottica storica e quale risultato del proprio lavoro e per aver compreso che questo processo di autoformazione ha una struttura particolare, cioè passa attraverso l’alienazione (intesa come perdita, uscita da sé stessi e “smarrimento”) e l’eliminazione e il superamento di essa. Questi aspetti positivi sono tuttavia inseriti nella cornice idealistica complessiva della filosofia hegeliana di cui Marx identifica con chiarezza i limiti, così riassumibili:
(1) protagonista del processo appena delineato è lo Spirito e l’autocoscienza e non gli individui concreti;
(2) sempre in questo processo, il lavoro di Hegel è il lavoro spirituale, ovvero filosofico speculativo;
(3) l’alienazione e la disalienazione sono processi astratti che avvengono nella coscienza e sul piano filosofico, ma non pratico reale;
(4) l’alienazione, cioè un fenomeno negativo, viene identificata in Hegel con l’oggettivazione cioè con la creazione di una realtà oggettiva; questa realtà, come già si è osservato, viene compresa nello stadio finale della filosofia hegeliana come qualcosa di non pienamente reale quando il soggetto inteso come autocoscienza e spirito comprende di esserne l’origine e il fondamento. Al contrario in Marx l’oggettivazione non è alienazione come tale, cioè non è negativa in sé, ma solo nella sua forma capitalistica disumanizzata.
Stefano Bracaletti
Nel febbraio del 1845 Marx è espulso dalla Francia su richiesta del governo prussiano e lascia Parigi per Bruxelles. Ora ha bisogno di elaborare una teoria del processo storico e quindi prevale in lui la prospettiva dell’osservatore analitico. Distaccandosi definitivamente dalle prospettive utopistiche del socialismo francese e abbandonando coerentemente l’idea di tratteggiare i lineamenti ideali e normativi di un modo di convivenza e di riproduzione sociale superiore a quello borghese, diventa per lui prioritario definire una nuova concezione della storia, intesa come processo di formazione e trasformazione dei modi di produzione e riproduzione materiale delle società nel tempo. Il distacco dall’utopia nella direzione di una scienza dello sviluppo storico va insieme al rovesciamento della prospettiva di Hegel e, quindi, si svolge in parallelo alla critica del carattere astratto e illusorio della stessa sinistra hegeliana.
Anche il pensiero di Ludwig Feuerbach, che è decisivo per la critica della filosofia hegeliana, viene a questo punto sottoposto a critica e confutazione per la sua incapacità di fare i conti con la dimensione concreta della praxis umana come attività. “I filosofi si sono sinora limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di trasformarlo”, annota Marx come undicesimo punto delle sue Tesi su Feuerbach, un breve scritto del 1845, pubblicato alla morte dell’autore da Friedrich Engels nel 1888.
TESTO
T4: Karl Marx, Le Tesi su Feuerbach
L’Ideologia tedesca, il testo inedito cui Marx lavora con Engels nel 1844-1845, è dedicato a delineare una prima formulazione della concezione materialistica della storia. La dinamica storica e il mutamento si fondano sulla connessione fra il grado di sviluppo delle forze produttive, a sua volta dipendente dal tipo di divisione del lavoro, e i rapporti sociali di produzione: ciò che conta non è solo che cosa gli esseri umani producano entro condizioni empiriche determinate e concrete, ma anche il modo in cui producono ciò che producono. La produzione è produzione di beni e, al tempo stesso, di rapporti sociali di produzione. Una determinata formazione sociale trae le sue proprietà distintive dalla particolare relazione tra grado di sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. È in questo spazio, generato dalla connessione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, che possiamo individuare, con un’ architettonica, la base, la struttura su cui si edifica in ultima istanza il sistema delle istituzioni e delle credenze, delle idee coerenti con la struttura, a loro volta definite “sovrastruttura”: “L’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società […] sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza attuale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita” (Per una critica dell’economia politica, Prefazione). Concetto, quello di sovrastruttura, che per Marx include non solo le istituzioni politiche ma anche le ideologie religiose e filosofiche nonché le forme dell’arte e della letteratura. Entro questo spazio si genera propriamente l’ideologia, intesa come falsa coscienza. La concezione materialistica della storia dispone di criteri per definire le regole di transizione e passaggio da una formazione sociale all’altra. Transizioni e passaggi da un tipo di proprietà e un’altra, alternativa.
ESERCIZIO
E10: Marx
Nell’abbozzo del processo storico dell’Ideologia tedesca ritroviamo così la sequenza che dalla forma della proprietà tribale passa alla proprietà della comunità antica, a quella feudale, sino all’insorgenza della proprietà privata nella società borghese, in cui assume spicco una struttura dicotomica delle classi sociali: da un lato la classe dei proprietari, dall’altra la classe del proletariato. È a questo punto del processo storico che si può affermare che la divisione del lavoro e lo sviluppo delle forze produttive hanno generato per un verso una “trasformazione della storia in storia universale”, in virtù della costruzione di un “mercato mondiale”, e per altro verso hanno dato luogo alla crescita di una classe “che deve sopportare tutti i pesi della società” e che acquisisce nel tempo “la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo”. L’idea della dilatazione planetaria del modo di produzione capitalistico accompagnerà sino alla fine, in modo persistente, la ricerca di Marx.
TESTO
T3: Marx e Engels, La determinazione materiale della coscienza
La concezione materialistica del processo storico conferma che la liberazione e l’emancipazione umana sono l’esito necessario delle leggi di movimento della storia. E che il “sogno di una cosa” (della lettera a Ruge del settembre 1843) non può che essere realizzato nella dinamica materiale della produzione e della riproduzione sociale e nel salto relativamente inevitabile da una società divisa in classi a una società senza classi; l’approdo alla storia finalmente umana, dopo il lungo travaglio della preistoria.
Nelle sue linee essenziali il quadro concettuale di sfondo per la ricerca di Marx è approntato. Vi saranno variazioni e ritocchi, anche significativi, ma la visione del grande programma scientifico è ormai definita.
ESERCIZIO
E8: Marx
Gustave Doré, Slum londinesi, da Jerrold Blanchard, “London, a Pilgrimage”, Londra, 1872
Questa visione del processo storico è al centro del celebre Manifesto del Partito Comunista che la Lega dei comunisti, nata dallo scioglimento della Lega dei giusti nel congresso di Londra del giugno 1847, chiede a Marx ed Engels di redigere nel secondo congresso tenutosi nel novembre dello stesso anno. Alla base dell’eloquente e appassionata narrazione del Manifesto è appunto l’idea dello sviluppo storico delle formazioni sociali, caratterizzato dal conflitto e dalla lotta fra le classi sociali sino alla nascita della borghesia: la classe rivoluzionaria della modernità capitalistica che ha lasciato alle sue spalle il vecchio mondo sociale d’ancien régime, ha lacerato i vincoli e le legature della tradizione, ha innescato un impressionante sviluppo della scienza e della tecnica, ha liberato enormi e crescenti forze produttive, ha reso liquido tutto ciò che era stabile nella vecchia società divisa in ceti, ha modellato le idee dominanti e le istituzioni del dominio. La borghesia ha sostituito allo sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche “lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido”, ma è inevitabile, alla luce della concezione materialistica della storia, che l’impressionante e accelerato sviluppo delle forze produttive sia destinato ad entrare in contraddizione con i rapporti sociali di produzione. Così, si legge nel Manifesto, “la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte. Ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari”.
LETTURE
1848: riformatori e rivoluzionari
Il Manifesto esce nel 1848, poco prima della rivoluzione parigina del 23 febbraio e della grande ondata insurrezionale europea che investe l’assetto istituzionale e politico generato dalla Restaurazione del Congresso di Vienna. Marx partecipa alle fasi dell’ascesa e della sconfitta dei movimenti. Espulso dal Belgio, torna ai primi di marzo alla Parigi del governo provvisorio. In aprile è a Colonia per avviare la pubblicazione della “Nuova Gazzetta Renana”. Quando l’ordine viene restaurato dall’esercito, Marx rientra a Parigi, ma dopo i moti del giugno 1849 di fronte alla reazione del governo francese che gli chiede di abbandonare la capitale, sceglie di andare a Londra, dove resterà sino alla morte.
Le convulsioni del lungo ‘48 europeo, che il partecipante Marx non rinuncia ad analizzare con la lente dell’osservatore, sembrano chiedere “teoria”: il “sogno di una cosa” ha bisogno di una dimostrazione scientifica. Il programma di Marx sarà d’ora in avanti quello di formulare i teoremi dell’emancipazione umana, e a ciò dedicherà l’imponente progetto della sua critica dell’economia politica.
Il Manifesto è un’opera che ha avuto un’influenza enorme nel pensiero politico e sociale posteriore a Marx, diventando il punto di riferimento teorico di tutti i movimenti operai. Da esso emergono infatti, in modo abbastanza netto, sia alcuni concetti chiave della visione della storia di Marx ed Engels, sia i tratti fondamentali di quello che Marx e Engels chiamano “socialismo scientifico”, in contrapposizione ai “falsi socialismi” che l’hanno preceduto. Non si deve dimenticare, tuttavia, che il Manifesto, nell’intenzione dei suoi autori, era fondamentalmente un’opera di propaganda politica che doveva far presa sulle masse e offrire ai dirigenti dei partiti socialisti e agli attivisti uno strumento di comunicazione efficace. Per questo motivo esso usa volutamente una “narrazione” schematica e semplificata e un linguaggio evocativo supportato da varie strategie retoriche.
L’unica pagina della prima stesura del “Manifesto”, 1847, Collezione privata
ESERCIZIO
E14: Marx
TESTO
T5: Marx e Engels, Il Manifesto del Partito Comunista
LETTURE
Il trionfo della borghesia
Nel Manifesto la borghesia è vista come una classe inizialmente rivoluzionaria che si è liberata dal giogo feudale e, allo scopo di ampliare le zone di smercio per i propri prodotti, ha gettato le basi per la creazione di un mercato mondiale. Essa, inoltre, per necessità imposte dalla concorrenza, è una classe dinamica che deve continuamente modificare le forze produttive, in contrapposizione alle classi dirigenti dei modi di produzione precedenti, che invece tendevano a conservarle immutate.
In questo processo, che porta per sua stessa natura a crisi periodiche, la borghesia ha “creato” attraverso varie dinamiche storiche (che sono descritte nel Capitale, in particolare l’espropriazione della piccola proprietà e l’eliminazione della proprietà comune per il pascolo) il proletariato: una classe che non possiede quale sua fonte di sostentamento altro che la propria forza lavoro, che è quindi costretto a vendere sul mercato. Questa classe rappresenta la condizione globale di esistenza della borghesia – è infatti dal meccanismo di sfruttamento descritto nel Capitale, cioè dall’appropriazione di plusvalore, che la borghesia trae il proprio sostentamento –, e come tale ha interessi totalmente opposti a quelli della borghesia stessa. A livello politico questi interessi, proprio in quanto identici a prescindere dalla nazionalità e dalla realtà geografica, portano conseguentemente al rifiuto di concetti quali patriottismo e nazionalismo e all’azione collettiva dei proletari in una dimensione sovranazionale.
Per questi motivi il proletariato, nella visione del Manifesto, si pone inevitabilmente come forza antagonista alla borghesia stessa e, quando saranno maturate alcune condizioni, realizzerà, grazie alla guida della sua avanguardia avanzata, cioè i comunisti, un ulteriore cambiamento rivoluzionario della struttura sociale. Questo proletariato presenterà, tuttavia, caratteristiche peculiari rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Se infatti, in un primo tempo, il proletariato assumerà il potere politico come classe, abolirà la proprietà privata e accentrerà la proprietà nelle mani dello Stato quale sua espressione, in un secondo tempo questo potere politico si estinguerà così come si estinguerà il proletariato come classe insieme a tutte le altre classi.
È questo l’effettivo processo dell’instaurarsi del “socialismo” e quelle indicate sono le caratteristiche che ne definiscono la forma autentica in contrapposizione a quelli che Marx ed Engels definiscono “falsi socialismi” (alla cui analisi critica è dedicata l’ultima parte del Manifesto).
Tra i falsi socialismi, la prima tipologia è quella del socialismo reazionario, che si oppone al capitalismo vagheggiando un ritorno a modi di produzione del passato. Esso assume varie forme.
1) Il socialismo feudale (come quello propugnato da Benjamin Disraeli) auspica il ritorno a una realtà precapitalistica e preborghese che elimini i danni causati dall’industrialismo, in particolare in relazione alla condizione dei lavoratori di fabbrica.
2) Il socialismo piccolo borghese (rappresentato dalle teorie di Jean-Charles de Sismondi) è espressione degli interessi dei piccoli produttori e dei piccoli proprietari: auspica un ritorno alla piccola industria manifatturiera corporativa e alla piccola proprietà agricola basata sul sistema patriarcale.
3) Il socialismo tedesco (di Bruno Bauer e Moses Hess), infine, viene visto da Marx ed Engels come la traduzione filosofica del socialismo francese: esso è costruito su una terminologia astratta che non coglie gli autentici rapporti di classe ma parla dell’uomo in generale e si oppone strenuamente a qualsiasi espressione della società borghese, precludendosi quegli aspetti di essa (come lo Stato rappresentativo e la libertà di stampa) da cui potrebbe trarre vantaggio anche il proletariato.
La seconda tipologia è quella del socialismo conservatore e borghese, identificato nelle dottrine di Proudhon, che vorrebbe sopprimere gli aspetti negativi del capitalismo senza sopprimere il capitalismo stesso. Esso mira quindi non all’abolizione della proprietà, ma alla sua redistribuzione.
La terza e ultima tipologia è quella socialismo critico utopistico (rappresentato da pensatori quali Saint-Simon, Charles Fourier, Robert Owen), che, rispetto alle prime due, rappresenta una forma di socialismo comunque più evoluta, perché comprende correttamente l’antagonismo e il conflitto tra le classi. Il suo limite, però, è quello di delineare una soluzione pacifica a questo conflitto attraverso un’azione di riforme che cerca di coinvolgere anche i ceti dominanti. Questa visione, improntata a principi morali, si sviluppa in una fase iniziale della società industriale e mette capo a visioni utopiche di società ideali non comprendendo, secondo Marx ed Engels, la funzione storica autonoma del proletariato.
LETTURE
Istituzioni del capitalismo
Il nucleo del programma scientifico della critica dell’economia politica coincide con la “teoria del valore”. Nella biblioteca del British Museum lo scrivano instancabile Marx si impegna in un corpo a corpo con le teorie dell’economia politica classica e, in particolare, con le teorie del valore di Smith e Ricardo, oltre che con una vasta gamma di dottrine economiche borghesi, generate dalla transizione al modo di produzione capitalistico. Ora prevale la prospettiva dell’osservatore analitico che indaga sulle cose economiche e sociali. Nel 1857-1858 Marx consegna gli esiti ormai maturi della sua ricerca ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e, un anno dopo, a Per la critica dell’economia politica.
Il quadro concettuale di sfondo si dilata e si approfondisce; nella genealogia dei modi di produzione che precedono la formazione sociale capitalistica assumono rilievo il modo di produzione asiatico e, nel contesto europeo, la comunità germanica. La percezione del tempo storico e del processo di transizione da una forma di produzione all’altra incontra una crescente complessità e stratificazione. In questo senso l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico può avvalersi di categorie che rendono conto in modo più adeguato sia del suo funzionamento determinato e storicamente situato, sia della combinazione complessa di tempi e modi diversi di produzione e rapporti di produzione arcaici che persistono e coesistono, sia – infine – delle cause della sua impermanenza. La critica dell’economia politica può mostrare e mettere in luce quanto era rimasto opaco e nascosto allo sguardo indagatore dei classici, che avevano immunizzato il modo di produzione capitalistico rispetto alla trasformazione e al mutamento storico.
Una celebre lettera del luglio 1868, un anno dopo l’uscita del primo libro de Il Capitale, ci introduce in modo eloquente nello spazio della teoria del valore di Marx. “Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa anche che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite non sia affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma può solo cambiare il suo modo di apparire, è autoevidente. Le leggi della natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma con cui quelle leggi si impongono. E la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti. La scienza consiste appunto in questo: svolgere come la legge del valore si impone”.
Il Capitale si compone di tre libri dedicati rispettivamente al processo di produzione (I), al processo di circolazione (II) e al processo complessivo della produzione capitalistica (III). Il punto di partenza del primo libro è l’analisi della merce nella sua duplice forma di valore d’uso e valore. Il primo è l’utilità del prodotto, il secondo è il tempo di lavoro sociale medio in esso incorporato. Questa duplicità trova compimento nel denaro che rappresenta la forma resasi esterna e autonoma del lavoro sociale. La parola “feticismo” indica il fenomeno per cui – all’interno del processo di circolazione – il denaro e le merci perdono ogni rapporto con il lavoro sociale e la loro funzione e utilità sembra provenire da loro qualità intrinseche. Il processo di scambio presenta le due forme M-D-M (“merci-denaro-merci”) e D-M-D (“denaro-merci-denaro”): la prima è la forma della circolazione semplice delle merci, che corrisponde a stadi di produzione precapitalistici. La seconda esprime il ciclo del capitale in quanto valore (in forma di denaro) che si valorizza. Data l’uguaglianza qualitativa dei due estremi, la seconda formulazione va quindi riscritta D-M-D’, dove D’ rappresenta una somma aumentata di denaro.
Frontespizio della prima edizione russa del “Capitale” di Karl Marx, San Pietroburgo, 1872
Copertina dell’edizione italiana del “Capitale” di Karl Marx, pubblicata a Roma nel 1951
Ma come si arriva a D’? È qui centrale il concetto di valore della forza-lavoro, che a sua volta è dato dal valore dei mezzi di sussistenza necessari al suo sostentamento. Il capitalista acquista la forza-lavoro sul mercato a questo valore (quello della forza-lavoro, appunto) e – dato che la lunghezza della giornata lavorativa è imposta giuridicamente – può farla lavorare per un tempo più lungo rispetto a quello necessario alla produzione del valore dei mezzi di sussistenza. Questa eccedenza rappresenta pluslavoro e durante quest’ultimo viene creato plusvalore, che è variabile in funzione di diversi fattori. La forza-lavoro viene definita capitale variabile in opposizione al capitale costante, che consiste nelle materie prime e nei mezzi di produzione, il cui valore semplicemente si ripresenta nel prodotto finito.
Detto v il valore della forza-lavoro e pv il plusvalore, il rapporto pv/v viene definito “saggio del plusvalore”. Fondamentale è la distinzione tra plusvalore assoluto – ottenuto prolungando la giornata lavorativa – e plusvalore relativo, ottenuto riducendo, tramite innovazioni tecniche, il valore dei mezzi di sussistenza necessari alla forza-lavoro. In questo modo – all’interno di una giornata lavorativa della medesima lunghezza – si riduce la parte di lavoro necessario e aumenta quella di lavoro non pagato. L’evoluzione storica del plusvalore relativo viene esaminata nei capitoli su “Cooperazione”, “Divisione del lavoro e manifattura” e “Macchine e grande industria”. Nel capitolo sull’“Accumulazione capitalistica” Marx esamina vari aspetti del ciclo economico e definisce l’importante concetto di composizione organica del capitale, espressa dal rapporto tra parte costante e parte variabile (c/v). La legge generale dell’accumulazione si esprime nella progressiva sostituzione di forza-lavoro con macchinari, quindi nell’aumento della composizione organica. Il primo libro si conclude con l’analisi dell’accumulazione originaria, che mostra le condizioni storiche della nascita del capitalismo e il modo in cui si sono formate la classe operaia e la classe capitalista.
Il secondo libro passa ad analizzare il processo di circolazione. All’interno del processo di circolazione il capitale – concepito come valore che si valorizza – assume le tre forme di capitale monetario, capitale merce e capitale produttivo. La somma di tempo di produzione e tempo di circolazione costituisce il tempo complessivo impiegato dal capitale a compiere una rotazione completa, cioè da D a D’. All’interno del tempo di produzione è importante la distinzione tra periodo di lavoro e periodo di produzione: il primo si riferisce alle fasi in cui l’oggetto viene sottoposto a una qualche forma di lavorazione o da una macchina o per mano dell’uomo (in esso vi è, rispettivamente, trasferimento e creazione di valore); il secondo indica i casi in cui il prodotto, per assumere la sua forma finita, necessita dell’azione di agenti chimici naturali (come nella fermentazione, nella concia delle pelli, nella silvicoltura) senza l’intervento dell’uomo (secondo un’interpretazione rigida della teoria del valore lavoro non si dà qui né trasferimento né creazione di valore).
Il tempo di circolazione è composto da operazioni completamente improduttive, cioè che non aggiungono valore al prodotto, eccezion fatta per i costi di conservazione normale e per i costi di trasporto. La distinzione tra capitale fisso e capitale circolante si riferisce al modo particolare in cui il valore circola: il primo (strutture e macchinari) rimane fisso nella sua forma d’uso e cede il suo valore al prodotto attraverso più cicli produttivi; il secondo (materie prime e ausiliarie e forza-lavoro) entra completamente, come valore, nel prodotto finito, a ogni ciclo.
L’ultima parte del secondo libro è dedicata all’analisi della riproduzione del capitale complessivo sociale. La produzione viene suddivisa da Marx in due settori: mezzi di produzione e mezzi di consumo. La composizione di valore del loro prodotto è rispettivamente Ic+Iv+Ipv e IIc+IIv+IIpv. Poiché Ic esiste nella forma di mezzi di produzione esso rimane all’interno della prima sezione e ne sostituisce il capitale costante. IIv e IIpv esistono nella forma di mezzi di consumo e vengono consumati all’interno della sezione II da capitalisti e operai.
La riproduzione si suddivide poi in semplice e allargata. Nella prima tutto il plusvalore viene consumato e l’economia rimane in uno stato stazionario, nella seconda una parte di esso viene reinvestita generando vari sentieri di espansione.
Il terzo libro è dedicato al processo complessivo della produzione capitalistica. Le categorie economiche più importanti che appaiono alla coscienza degli agenti della produzione sono il prezzo di costo, il profitto, il saggio del profitto, i prezzi di produzione e la rendita fondiaria. Il prezzo di costo di una merce è capitale costante (c) più capitale variabile (v), il profitto viene visto dal capitalista come un residuo – originato dalla vendita – su questa quantità di denaro originaria. Il saggio del profitto è s/c+v: il capitalista calcola, cioè, la valorizzazione su tutto il capitale anticipato e non soltanto sulla forza-lavoro, occultando l’origine del plusvalore. Date ora diverse sfere di produzione con differente composizione organica e differente saggio di profitto, la formazione di un saggio del profitto medio avviene come segue: i capitali si spostano verso i settori a più bassa composizione organica e più alto saggio del profitto (il più alto saggio del profitto è dato dal fatto che questi settori impiegando più lavoro vivo, creano maggior plusvalore). Per effetto della concorrenza i prezzi in questi settori diminuiscono.
Viceversa accade nei settori ad alta composizione organica. Attraverso una miriade di movimenti si formano alla fine i medesimi prezzi in tutti i settori, detti “prezzi di produzione”, che impongono lo stesso saggio del profitto a tutti i capitali, indipendentemente dalla loro composizione organica. Il modo particolare in cui lo sviluppo delle forze produttive si presenta nel modo di produzione capitalistico è la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: tenendo presente infatti la legge generale dell’accumulazione capitalistica – cioè l’aumento del capitale costante e la diminuzione relativa di quello variabile – e applicandola nella formula pv/c+v la diminuzione del valore del rapporto risulta evidente.
Marx espone minuziosamente una serie di cause antagonistiche che ostacolano il pieno dispiegarsi della legge come tale e delle contraddizioni a essa intrinseche. Tra le prime ricorda l’intensificazione del lavoro, la diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante e la creazione di una sovrappopolazione relativa che viene assorbita da rami a bassa composizione organica. Tra le seconde le più importanti sono la contraddizione tra la capacità produttiva e la capacità di consumo della società e quella tra l’estensione della produzione e la valorizzazione del capitale esistente.
Alla fine del terzo libro viene presentata una vasta analisi della rendita fondiaria, e soprattutto della genesi della rendita fondiaria capitalistica.
ESERCIZIO
E13: Marx
La teoria del valore di Marx mira a spiegare la forma che il costo sociale reale dei prodotti, corrispondente a una quota di lavoro sociale erogato, assume nel caso storico e determinato in cui i prodotti siano merci e, perciò, abbiano un valore di scambio con altre merci. Il mondo, leggiamo nel classico incipit del primo libro del Capitale, è un’immane raccolta di merci. E se i valori d’uso delle merci sono differenti, come del resto aveva riconosciuto Ricardo, la possibilità del loro scambio presuppone che si dia un “equivalente generale”, grazie al quale realizzare il loro valore di scambio, generato dal tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione. L’equivalente generale coincide con il denaro.
L’enigma che deve essere dissolto è quello per cui, nel modo di produzione capitalistico, il denaro impiegato per comprare una merce al suo valore di scambio generi più denaro. Il “feticismo delle merci” ha impedito agli economisti classici di decifrare il meccanismo all’opera nel processo di produzione di merci e, per questo, studiosi come Smith e Ricardo hanno messo a fuoco il processo di distribuzione del prodotto sociale, per rendere conto del sovrappiù che contraddistingue l’economia capitalistica. Marx, invece, vuole tenere fermo lo sguardo al processo di produzione, che è al tempo stesso processo di produzione di merci e di produzione di rapporti sociali di produzione.
La tesi avanzata, nella sua forma più elementare, è la seguente: quando si dia una merce come la forza-lavoro, il capitalista che l’acquista nello scambio sul mercato eroga un salario corrispondente al valore d’uso dei mezzi di sussistenza del lavoratore e, quindi, si appropria legittimamente del valore eccedente, incorporato nelle merci prodotte; questo valore eccedente deriva a sua volta dal lavoro che eccede il valore dei mezzi di sussistenza. Il pluslavoro del salariato coincide, dunque, con il plusvalore per il capitalista; e questa è la forma che assume, nel modo di produzione capitalistico, lo sfruttamento. Il plusvalore generato nel processo di produzione rende conto del processo di accumulazione e di sviluppo capitalistico.
La condizione che deve essere soddisfatta perché si inneschi questo processo è l’esito di un complesso processo storico e dipende, come abbiamo visto, da una determinata connessione fra i rapporti sociali di produzione e il grado di sviluppo delle forze produttive. Come osserva Marx nel secondo libro del Capitale (dedicato all’analisi e alla costruzione degli schemi di riproduzione e che uscirà postumo a cura di Engels nel 1885), “l’atto introduttivo, che costituisce un atto di circolazione, la compravendita della forza-lavoro, si fonda esso stesso, a sua volta, su una distribuzione degli elementi di produzione che precede la distribuzione dei prodotti sociali e ne è un presupposto, cioè la separazione della forza-lavoro come merce del lavoratore dai mezzi di produzione come proprietà di non lavoratori”. Lo scambio fra capitale e forza-lavoro presuppone l’articolazione contrapposta delle classi sociali centrali: la classe dei proprietari dei mezzi di produzione e la classe dei proprietari della propria forza-lavoro. Il valore dei mezzi di produzione corrisponde al lavoro erogato e incorporato, il lavoro morto; e ciò coincide con il capitale costante. La forza-lavoro è lavoro vivo e coincide con il capitale variabile. Il rapporto fra capitale costante e capitale variabile definisce la composizione organica del capitale. Il rapporto fra il plusvalore, derivante solo dal capitale variabile, e la somma di capitale costante e variabile si esprime nel saggio di profitto.
ESERCIZIO
E12: Marx
Una volta determinata la struttura del modo di produzione capitalistico, Marx si impegna nell’analisi e nella ricostruzione della sua genesi e dei suoi presupposti: nel continuum dei modi di produzione e riproduzione sociale è necessario indagare le modalità della transizione al capitalismo e l’insorgenza dello specifico modo di produzione capitalistico. Il grande affresco storico e la grande narrazione marxiana mettono a fuoco, con questo scopo, il processo dell’accumulazione originaria di capitale che prende le mosse dalla crisi del modo di produzione feudale. E, delineando le distinte fasi capitalistiche della cooperazione e della manifattura, l’osservatore analitico perviene ai tempi della grande industria.
La genealogia del capitalismo è genealogia, al tempo stesso, dei metodi di produzione e dei rapporti sociali di produzione. Ai tempi della grande industria lo sviluppo delle forze produttive, grazie all’uso su larga scala delle macchine e alla crescita della scienza e delle tecniche, genera la classe del capitale e la classe del proletariato urbano. La tendenza alla polarizzazione dicotomica della società, nella quale si contrappongono le due classi sociali dei capitalisti e dei proletari, è individuata grazie al progressivo aumento del capitale costante e alla creazione di un “esercito industriale di riserva”. L’accumulazione di ricchezza in poche mani coincide con l’accumulazione di miseria e sofferenza sociale fra amplissime frazioni di popolazione. Marx è convinto che la tendenza sia inevitabile e che la legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica possa essere definita nei termini dello sviluppo crescente dell’esercito industriale di riserva.
LETTURE
La grande industria
Così i teoremi della critica dell’economia politica dimostrano la natura storica del modo di produzione capitalistico e le ragioni del suo superamento, ossia della sua transizione a un modo di produzione e riproduzione sociale in cui si dissolva l’antagonismo fra le classi, e a una società in cui si realizzi l’emancipazione umana.
ESERCIZIO
E11: Marx
Negli anni in cui Marx si impegna nella realizzazione del suo programma scientifico, incentrato sui teoremi di dimostrazione dell’impermanenza del modo di produzione capitalistico, la prospettiva dell’osservatore analitico si intreccia costantemente e nervosamente con la prospettiva del partecipante. Nel 1864, tre anni prima della pubblicazione del primo libro del Capitale nasce a Londra la Prima Internazionale. Marx è convinto, dal punto di vista teorico, che l’associazione dei lavoratori debba naturalmente assumere una dimensione che attraversi le frontiere, rispondendo antagonisticamente al processo di unificazione capitalistica senza frontiere e alla costruzione del mercato mondiale. Nell’“Indirizzo inaugurale” del novembre del 1864, Marx mira a conseguire una convergenza fra le differenti correnti e i distinti movimenti, comunisti, socialisti, socialisti utopisti, anarchici, repubblicani che aderiscono all’Internazionale. Ottiene il consenso unanime. Ma Marx continuerà la sua battaglia da partecipante intransigente, prima con i seguaci di Proudhon, la cui visione aveva severamente criticato negli anni giovanili ne La miseria della filosofia, poi con gli anarchici di Bakunin, l’autore di Stato e anarchia. Nella critica alle posizioni degli avversari politici, Marx si avvale sistematicamente degli esiti e degli strumenti concettuali della sua teoria. Quando nel 1870, dopo la sconfitta francese nella fulminea guerra con la Germania e la proclamazione della repubblica, Marx deve scrivere ai primi di settembre il secondo manifesto dell’Internazionale, la sua preoccupazione principale lo induce a mettere a fuoco il carattere prematuro di un’azione rivoluzionaria del proletariato parigino. Nel marzo 1871 l’insurrezione della Parigi operaia proclama la Comune rivoluzionaria: Marx, quale osservatore, è scettico quanto alle possibilità di successo dell’esperimento di governo operaio; quale partecipante, non può che aderire.
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La Comune di Parigi
Nel 1875, un anno prima dello scioglimento della Prima Internazionale alla conferenza di Filadelfia, Marx usa ancora una volta gli strumenti dell’osservatore analitico per gli scopi politici del partecipante. Riunito a Gotha, il Partito operaio tedesco approva il proprio programma. Marx elabora una critica puntigliosa di molte tesi, consegnata alla Critica del Programma di Gotha (1875). Le dure repliche della storia, la memoria viva dei profitti e delle perdite dei movimenti rivoluzionari, suggeriscono a Marx la necessità, nel processo di trasformazione rivoluzionaria, di una transizione in cui si eserciti la dittatura rivoluzionaria del proletariato. E il remoto “sogno di una cosa” evoca una fase più avanzata della società comunista in cui, al di là dei rapporti di sfruttamento, della scarsità e della macchina borghese dello Stato, nel pieno e onnilaterale sviluppo umano e della ricchezza sociale, la società possa finalmente scrivere “sulle proprie bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Nel 1881, l’anno della morte della moglie Jenny e due anni prima della propria morte (che avverrà il 14 marzo 1883), Marx medita a lungo sulla risposta appropriata alla lettera della rivoluzionaria russa Vera Zasulich che, dalla Russia in larga parte arretrata, gli pone la questione delle possibili vie alternative alla rivoluzione proletaria e alla transizione alla società comunista. La sua idea di fondo resta salda: solo il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico può aprire la strada al processo rivoluzionario di transizione alla società senza classi, in cui si realizzino le condizioni dell’emancipazione umana.
L’enorme influenza che il progetto di Marx eserciterà, nello spazio e nel tempo, sulle vicende politiche e sociali del Novecento è tanto nota quanto controversa. Il secolo breve ha conosciuto un’impressionante varietà di interpretazioni teoriche e pratiche del retaggio del grande pensatore della questione sociale della modernità, e lo spettro di Marx sembra destinato ciclicamente a riemergere, nelle costellazioni di crisi e mutamento; anche se la sua battuta preferita resta “Je ne suis pas marxiste” (“io non sono marxista”).
ESERCIZIO
E9: Marx
Il modo di produzione capitalistico presenta un tipico andamento ciclico fatto di fasi di sviluppo cui seguono fasi di contrazione dell’attività economica e poi di ripresa dello sviluppo. La crisi è una situazione in cui la fase di contrazione permane oltre un certo periodo e nella quale si evidenzia il peggioramento progressivo di una serie di indicatori come il prodotto interno lordo (che calcola attraverso alcuni parametri il valore totale dei beni e dei servizi prodotti in un paese) e l’occupazione. Anche se Marx non ha elaborato una teoria compiuta delle crisi, dalle sue analisi emergono tuttavia alcuni meccanismi centrali per capire l’intrinseca instabilità del capitalismo e i suoi ciclici fenomeni di turbolenza. Questi meccanismi, che necessariamente e in maniera ricorrente inceppano – per così dire – la tendenza all’espansione continua, cioè all’accumulazione, intrinseca all’economia capitalistica, devono essere sempre tenuti presenti quali fattori strutturali profondi al di là di quelli multipli e contingenti che entrano in gioco nelle singole crisi e le innescano: per fornire un esempio recente, nella crisi del 2008, fattore contingente fu il fallimento di grandi istituti di credito americani che avevano concesso in grande quantità mutui immobiliari – i famosi subprime – richiedendo scarsissime garanzie di solvibilità.
Frank Bellew, Il Panico, nelle sembianze di un Funzionario della Salute, spazza via i rifiuti da Wall Street. Vignetta satirica sulla Grande Depressione (1873-1895), “Daily Graphic”, 29 settembre 1873
Il primo fattore strutturale di crisi è lo squilibrio tra capacità produttiva di una struttura economica e sua capacità di consumo. In un’economia capitalista, la capacità produttiva della società, sotto la spinta dell’accumulazione, aumenta molto più rapidamente della sua reale capacità di consumo compressa dai salari sempre necessariamente limitati dei lavoratori (da qui il progressivo aumento del debito al consumo, che in alcune nazioni come gli Stati Uniti assume forme estreme con conseguente aumento dei rischi di insolvenza). Questo porta a periodiche e ricorrenti situazioni in cui le merci – in senso lato, dalle magliette alle abitazioni – risultano difficilmente vendibili, salvo una forte riduzione del loro prezzo; e nei casi peggiori neppure così.
L’aspetto importante da richiamare è che queste crisi periodiche sono sempre esclusivamente crisi di sovrapproduzione. Il capitale continua a espandere la produzione finché si creano delle circostanze che rendono impossibile l’ulteriore accumulazione. Ciò che si blocca non è solo la realizzazione del valore contenuto nella merce, ma anche la realizzazione del plusvalore, cioè della parte di lavoro oggettivato in eccesso sulla quota che corrisponde al lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro. Questo avviene a causa dell’insufficiente domanda legata alla massa di merci che sono in eccesso rispetto allo stock globale necessario ai bisogni dei lavoratori ed effettivamente alla portata del loro potere d’acquisto.
Il secondo fondamentale meccanismo di crisi è l’aumento ininterrotto della parte costante del capitale (e più specificamente del capitale fisso, ovvero i macchinari e gli impianti), l’espulsione dal processo produttivo dei lavoratori da essa sostituiti e la conseguente disoccupazione. Questa tendenza fondamentale trova spiegazione e sviluppo concettuale nella teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.
In una vasta parte della tradizione marxista, la teoria della caduta del saggio del profitto è stata interpretata per avallare un presunto imminente crollo del sistema capitalistico dando così fondamento a finalità eminentemente politiche. Se si analizzano con cura i testi marxiani si vede tuttavia che le analisi – eccezion fatta per alcune decise affermazioni sull’impossibilità che il saggio del plusvalore aumenti – sono molto più attente alla complessità e all’indeterminatezza intrinseca di molte tendenze e alla multifattorialità delle dinamiche concrete e definiscono in modo molto più convincente un quadro di fenomeni ciclici, cioè una teoria del ciclo economico, che non un’evoluzione lineare verso una certa meta.
Il terzo meccanismo – o, più esattamente, insieme di meccanismi – è legato al ruolo del denaro nell’economia capitalistica che è intrinsecamente un’economia monetaria. Per capire questo aspetto, solo apparentemente ovvio, basta partire da una constatazione: qualsiasi iniziativa economica comporta l’anticipo di somme di denaro. Quando queste somme sono molto elevate, come nel caso di progetti industriali molto ampi, entrano in gioco complessi meccanismi creditizi. Le catene causali che allora si instaurano dal momento in cui il denaro viene anticipato al momento in cui ritorna come profitto (questo ciclo si chiama “rotazione del capitale”) sono molto articolate, chiamano in gioco un gran numero di attori e, soprattutto, comportano l’intreccio di piani temporali diversi, legati alle differenti fasi del processo economico in cui questi attori si trovano.
L’esempio più significativo in questo senso riguarda la riproduzione del capitale fisso, cioè dei macchinari e degli impianti. Questo processo richiede la costituzione di un fondo monetario per un numero di anni variabile, a volte molto elevato. Ciò a sua volta implica vendite unilaterali in vari settori, da parte delle imprese che devono costituire questo fondo e acquisiti unilaterali in altri, da parte delle imprese che hanno accantonato il denaro e sono pronte alla sostituzione. Questo sfasamento temporale è all’origine di profondi fenomeni di squilibrio. Semplificando al massimo, il sistema creditizio aggira, ma ovviamente solo in maniera provvisoria, la necessità di denaro reale attraverso diversi strumenti finanziari. La complessità che questi strumenti finanziari hanno assunto nel corso del tempo – si pensi ancora, al giorno d’oggi, ai cosiddetti “derivati” – e il loro essere legati a parametri temporali di diversa natura dipendono proprio dal complesso intreccio temporale dei meccanismi della rotazione, basati su continue situazioni di simultaneità su un certo piano e in un certo ambito, e di non simultaneità in un altro. Cercando di abbreviare il tempo di rotazione, cercando cioè di accelerare il momento il cui il denaro rifluisce all’origine ed è pronto per un nuovo ciclo produttivo, il sistema creditizio crea tuttavia complesse strutture di interdipendenza e rende il sistema molto più vulnerabile a varie forme di insolvenza, favorendo così l’erompere e l’accelerarsi di dinamiche di squilibrio.
Pierre-Joseph Proudhon è pensatore centrale e autore prolifico nella Francia ottocentesca, dagli anni Quaranta fino all’inizio degli anni Sessanta. È del 1840 la pubblicazione del testo Che cos’è la proprietà, in cui il filosofo francese teorizza come la proprietà privata, lungi dall’essere un diritto in sé, debba essere limitata per evitare l’appropriazione da parte di pochi dei prodotti dei lavoratori. Nel quadro di una posizione che si riconduce al socialismo utopistico, Proudhon sottolinea la necessità di una totale eliminazione della mediazione politica, e infine della stessa autorità, dal programma di emancipazione dell’uomo moderno. L’anarchia presuppone come fondamento l’eguaglianza nelle retribuzioni, a prescindere dal tempo-lavoro dedicato alla propria occupazione. Una volta scongiurato il pericolo di una sperequazione artificiale sui salari, e garantito il loro completo livellamento, sarà possibile la realizzazione dell’eccedenza di energia che differenzia, e perciò qualifica, ogni uomo rispetto ai suoi simili. Alla domanda “che cos’è la proprietà?”, quindi, Proudhon risponde: “è un furto”. L’autore reputa tuttavia il possesso un valore basilare per l’uomo libero, così come lo è la famiglia monogamica, e non giudica le differenze tra gli uomini negative in sé: se si sviluppano come conseguenza della libera espressione delle potenzialità umane, esse non potranno che tendere infine all’omogeneità, muovendosi sulla linea dei principi della solidarietà e della mutua assistenza.
Gustave Courbet, Ritratto di Pierre-Joseph Proudhon con le figlie, 1865, Parigi, Musée du Petit Palais
Nel 1846 Proudhon dà alle stampe il Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, cui Marx risponde con un’opera dal titolo chiaramente polemico: Miseria della filosofia. Il pensiero dei due è infatti intrinsecamente contrastante e sfocia in una polemica che coinvolge tanto il concetto di lotta di classe quanto quello di organizzazione operaia.
Se da un lato Proudhon ha una visione arcaica della società come comunità di contadini e di artigiani fondata sulla famiglia, sull’indissolubilità del matrimonio e sulla posizione subordinata della donna (e su questi elementi incontrerà le critiche di Marx), dall’altro il suo pensiero acquista caratteri di spiccata modernità proprio quando afferma che nessun sistema concettuale può essere considerato concluso in sé, poiché ogni teoria dovrà essere continuamente modificata in relazione all’infinita varietà delle situazioni. Egli è considerato il padre dei concetti di “mutualismo” e “federalismo”, e uno degli ispiratori del pensiero anarchico. Tra le altre opere vanno menzionate: Le confessioni di un rivoluzionario (1849), L’idea generale della rivoluzione nel secolo XIX (1851), La rivoluzione sociale dimostrata dal colpo di Stato del 2 dicembre (1852), La Giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa (1858, che è una sorta di manifesto del laicismo francese) e Del principio federativo (1863).
Comunardi, Parigi, 1871
Nella letteratura dell’Ottocento, un tema centrale della grande narrativa europea, da Dickens a Balzac, è la rappresentazione della nuova società che si viene formando in seguito alla rivoluzione industriale. Contrasti sociali, miseria, degrado urbano, quel “sottosuolo” (per usare le parole di Dostoevskij) umano che Marx renderà oggetto della sua analisi critica del mondo capitalistico. Dopo la Rivoluzione francese lo scrittore non può che rimettersi in discussione: egli si trova nell’alternativa di puntare direttamente all’azione politica o di tentare di darsi un rinnovato statuto ideologico di sacerdote laico, di profeta senza Dio, con il rischio di restare alla fine un bohémien (termine in uso dal XIX secolo per descrivere lo stile di vita anticonformista di pittori, musicisti, poeti) un vagabondo, un flâneur (letteralmente “colui che passeggia”, indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine in cerca di emozioni e ispirazione) ai margini dell’ordine sociale e delle sue convenzioni, di tutto ciò che i romantici tedeschi avevano chiamato “filisteo”. Il rapporto tra l’arte e la vita muta radicalmente e la letteratura prende coscienza del proprio squilibrio, del destino della parola come opposizione e critica al reale. Si compie così la rivoluzione che era iniziata con l’Illuminismo e che fa dello scrittore un “intellettuale”, un osservatore che scruta e giudica il presente nel momento in cui la sua indipendenza dipende, a sua volta, dalla possibilità di un lavoro retribuito. Si prospetta per lo scrittore la strada complementare del giornalismo.
Il romanzo, come quello di Balzac o di Dickens, diventa un racconto che è insieme invenzione, testimonianza, esplorazione, conoscenza della società e del suo inesorabile tessuto umano. Il narratore sta già costruendo, prima che venga lo scienziato, una sociologia, una descrizione critica del presente.
E questo è il realismo, sorto dal romanticismo ma antiromantico, che s’impone dopo la delusione dei movimenti del ’48, allorché si istituzionalizza il conflitto tra l’artista e la società borghese messa a nudo dal socialismo critico di Karl Marx.
In Inghilterra Charles Dickens con i suoi romanzi contribuisce a svelare l’ipocrisia dei valori tradizionali e dell’ingiustizia sociale. In un famoso saggio, Chesterton dice di lui: “Dickens fu una folla, una folla in rivolta. Egli non aveva teorie, non aveva particolari piani di riforma, ma ambiva a qualcosa di umile, di umano. Dickens attaccò il freddo compromesso vittoriano, ma lo fece senza saperlo e senza sapere che altri lo stavano facendo”. Dickens ritrae la città come un luogo da cui Dio è assente, a differenza delle piccole comunità di campagna, più vicine alla natura. Questa separazione diventa sempre più evidente man mano che la sua opera si fa più matura, fino a costituire uno dei temi centrali in David Copperfield (1849-1850), dove si presenta come un problema metafisico. Il racconto retrospettivo della vita di David Copperfield, infatti, si può considerare come la graduale rivelazione di un destino che la provvidenza aveva già in serbo per lui. Le opere finali di Dickens si incentrano sul riconoscimento del vuoto che sottende alla società costruita liberamente dagli uomini e con Il nostro comune amico (Our mutual friend, 1864-1865) – la sua ultima opera compiuta – l’autore svela il nichilismo emergente nella società e nella cultura inglesi, con un romanzo il cui senso può essere sintetizzato nello slogan “money, money, money”.
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Fotografia
Manifesto per “Germinal” di Emile Zola, 1884, Parigi, Musée des Arts Décoratifs
In Francia la poetica inaugurata dal disegno della Commedia umana (comédie humaine) di Balzac trova in Flaubert il suo portavoce pessimistico e giunge sino a Zola e al naturalismo come lo stile della rappresentazione oggettiva, dell’artificio che finge di negare l’artificio di un io nascosto che guarda, racconta. Non per niente si può parlare persino di “romanzo sperimentale”. In Russia, per passare all’altro estremo dell’Europa, a conferma della latitudine e della varietà del fenomeno, il realismo assume un’intensità etico-esistenziale, sia che con Dostoevskij penetri nel profondo dell’uomo e delle sue angosce tra crimine e mistero, sia che con Tolstoj porti uno sguardo epico ma implacabile sulla storia dell’uomo tra natura, innocenza, corruzione e libertà. Ogni lingua, si capisce, dà un’intonazione diversa all’impulso della verità rappresentata.
E lo stesso si deve ripetere per il teatro del naturalismo, a cominciare da quello analitico di Ibsen e dai suoi drammi “familiari”. Come il romanzo, anche il teatro non può rinunciare alla propria origine nazionale, sia pure in un circuito rapidamente europeo.
Il rapporto tra scrittore e lettori, anche per effetto dell’ascesa di una classe media borghese, si modella sempre di più sulle leggi economiche del mercato e della chose littéraire, come la chiama Saint-Beuve (letteralmente “cosa letteraria”, indica appunto la letteratura). Se alla metà del secolo è ormai inserita in questo processo di industrializzazione, si apre anche per la letteratura un nuovo capitolo di mediazione commerciale, che deve costruire il consenso e il successo di un’opera, anche a costo di una denuncia giudiziaria (come accade a Madame Bovary di Flaubert). I codici interpretativi non vengono più soltanto dalla critica alta d’élite, ma anche dalla pubblicistica, dalla notizia di giornale, dalla discussione che si rivolge all’uomo comune e al suo mondo di desideri e di attese. Reduce dal suo viaggio negli Stati Uniti, Tocqueville ha intuito presto i caratteri fondanti della società di massa: nelle terre d’oltreoceano si legge per appagare il bisogno dell’emozione sensazionale, per sostituire al grigiore della consuetudine quotidiana l’incanto dell’immaginario, il fascino dell’ignoto, con la stessa tecnica di un manifesto pubblicitario, di uno spettacolo che si consuma nell’istante. E per la verità la prima industria culturale conosce già la produzione seriale del feuilleton, del romanzo a puntate che dialoga con i lettori e plasma via via i propri personaggi secondo le loro reazioni o le loro richieste, combinando i generi più diversi, dal racconto d’avventura al quadro di costume, dall’intrigo al mistero poliziesco. E persino Dostoevskij ne tiene conto nelle sue lucide e labirintiche reinvenzioni romanzesche. Questo vuol dire che i livelli narrativi si moltiplicano e interagiscono tra loro, contano alla fine i meccanismi, le possibilità combinatorie, le geometrie conflittuali.
Di più, a partire dalla metà del secolo, entra in scena il positivismo, strettamente legato al processo della organizzazione industriale, che esalta la scienza come strumento di conoscenza e dominio del reale, predicando una fede neoilluministica nel sicuro progresso della società. Di qui i paradigmi della biologia, della fisiologia, della meccanica, che passano alla letteratura e che si traducono, sul piano della riflessione critica, nella teoria dell’ambiente di un Taine o nella botanica spirituale di un Sainte-Beuve. E la stessa fortuna tocca al darwinismo, non importa se anche attraverso il rifiuto che suscita nello spiritualismo antievoluzionistico di tradizione religiosa. Ma è un fatto innegabile che la parola romanzesca, anche quando sottoscrive il vero della scienza, lo trasfigura in un quadro di immagini e di situazioni nuove, in una intuizione originaria del vivere, come accade ad esempio con Giovanni Verga.