Christian Olavius Zeuthen, Kierkegaard al caffè, 1843, Frederiksborg, Det Nationalhistoriske Museum
Sebbene la sua biografia sia povera di avvenimenti esterni, Søren Kierkegaard vive la propria esistenza con straordinaria intensità, come testimoniano le pagine del suo Diario dove quotidianamente egli commenta la propria esperienza, in un eccezionale documento di riflessione filosofica.
Nato a Copenhagen nel 1813 e orfano di madre dalla più tenera età, Kierkegaard viene educato dall’anziano padre in un clima di austera religiosità pietista. Fin dagli anni giovanili egli soffre di crisi malinconiche, che lo accompagneranno fino alla fine dei suoi giorni. Nel Diario Kierkegaard parla spesso di un “pungolo nelle carni” che egli è condannato a portare, senza che l’origine di questa afflizione venga mai resa esplicita. È parimenti oscuro il riferimento al “terribile terremoto” che lo colpisce a un certo punto della sua vita, inducendolo a cambiare il proprio atteggiamento nei confronti del mondo a seguito di una sconvolgente rivelazione circa la propria famiglia. Infine Kierkegaard non sa fornire una vera spiegazione circa i motivi che, nel 1841, lo portano a troncare il fidanzamento (durato un anno) con la giovanissima Regine Olsen. Tutti questi episodi, oltre ad avere un effetto paralizzante sulla sua vita privata, hanno una profonda risonanza nei suoi scritti, dove è sempre avvertibile una dolente nota autobiografica.
La storia professionale di Kierkegaard è altrettanto tormentata: studente di teologia a Copenhagen per volontà del padre, dopo aver interrotto e poi ripreso gli studi alla morte del padre stesso, si avvicina alla filosofia di Schleiermacher, Hegel e Marheineke (teologo hegeliano), per poi prendere le distanze dall’ortodossia teologica dell’epoca. Nel 1840 si laurea con una tesi Sul concetto di ironia con particolare riguardo a Socrate, pubblicata l’anno successivo. Tra il 1841 e il 1842 si reca a Berlino per seguire le lezioni di Schelling, ma all’iniziale entusiasmo segue una profonda delusione. Di ritorno a Copenhagen, potendosi mantenere grazie al piccolo capitale ereditato dal padre, decide di non intraprendere la carriera di pastore alla quale pure sarebbe abilitato.
In questi anni Kierkegaard comincia a pubblicare i suoi scritti principali, per lo più sotto pseudonimo: Victor Eremita in Aut-aut (1843), Johannes de Silentio in Timore e Tremore (1843), Constantin Constantius ne La ripetizione (1843), Hilarius “il legatore” negli Stadi nel cammino della vita (1845), Johannes Climacus nelle Briciole di filosofia (1844) e nella Postilla conclusiva non scientifica (1846), infine Anticlimacus ne La malattia mortale (1849) e nella Scuola di cristianesimo (1848). L’uso degli pseudonimi serve a segnalare l’irriducibile distanza che lo separa dai contenuti dei propri scritti e, nel delineare le diverse possibilità di vita che sono offerte all’uomo, indica l’intenzione di non abbracciare personalmente nessuno dei modelli proposti. Non è un caso che le uniche opere firmate da Kierkegaard con il suo vero nome siano quelle di argomento strettamente teologico, come i Discorsi edificanti (1843): la religione, nel segno di un cristianesimo radicale, è infatti l’unica scelta di vita che secondo Kierkegaard possa sedare l’inquietudine umana.
Søren Kierkegaard, Johannes Climacus, “Briciole di filosofia”, manoscritto, 1844, Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek - Biblioteca Nazionale
Søren Kierkegaard, Anti-Climacus, “La malattia mortale”, manoscritto, 1849, Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek - Biblioteca Nazionale
Gli ultimi anni dell’esistenza di Kierkegaard sono segnati da due polemiche: nel 1846 egli è fatto oggetto di una serie di attacchi denigratori da parte del giornale umoristico “Il corsaro”, che lo dileggia grossolanamente; gli anni Cinquanta, invece, lo vedono impegnato in una battaglia personale contro la Chiesa luterana danese.
Proprio per combattere la teoria e la pratica della Chiesa luterana, che ritiene un’autentica negazione pratica dell’insegnamento del cristianesimo, Kierkegaard fonda nel 1855 il periodico “Øjeblikket” (“Istante”), di cui è editore nonché unico redattore. Nel novembre dello stesso anno viene colto da un malore per strada e, pochi giorni dopo, muore al Frederiks Hospital.
La formazione che Kierkegaard riceve dall’istruzione universitaria è di stampo nettamente hegeliano, ma, pur riconoscendo la grandezza di Hegel, egli dedica la propria opera a smantellare l’edificio speculativo dell’idealismo. Secondo Kierkegaard, Hegel, e l’idealismo in genere, pretendono di ridurre l’uomo a un genere animale, per poi andare alla ricerca delle leggi universali che ne regolino il pensiero e la condotta. Rifiutando la riflessione “oggettiva” rivendicata dalla filosofia hegeliana, Kierkegaard propone una riflessione “soggettiva” che riconosca la centralità del singolo, dell’individuo concretamente esistente. Siccome ogni pensiero non può che essere prodotto da un uomo particolare, l’esistenza concreta occupa un dominio che non si può ridurre a quello della logica, che è invece astratta. In altre parole, “la verità è una verità solo quando è una verità per me” (Diario), e dunque non è possibile raggiungere una conoscenza oggettiva e assoluta della realtà.
ESERCIZIO
E1: Kierkegaard
L’esistenza possiede, secondo Kierkegaard, alcune proprietà fondamentali: in primo luogo, la sua natura dinamica. Nella Postilla conclusiva non scientifica alle briciole filosofiche (1846) Kierkegaard afferma a tale proposito che l’esistenza “non può essere pensata senza movimento”: è assurdo volere imbrigliare la realtà in schemi logici fissi poiché essa si trasforma continuamente, senza che il suo divenire possa essere ridotto ad alcuna legge prevedibile a priori. Una seconda caratteristica dell’esistenza è perciò il suo carattere contingente, giacché “il divenire non è mai necessario” (Briciole di filosofia, 1844), ma rientra nella sfera della possibilità.
Infine Kierkegaard insiste sulla natura non teoretica dell’esistenza: anche quando si limita a pensare, l’individuo non procede per astratte deduzioni e dimostrazioni, ma è sempre mosso dal perseguire un obiettivo, un “interesse”. Ne deriva che, se vuole rimanere fedele all’esistenza, la filosofia deve abbandonare il terreno ideale della gnoseologia, in favore di quello più pratico dell’etica, che vede l’esistenza come un “impegno all’azione” (Postilla).
ESERCIZIO
E2: Kierkegaard
La prima opera di rilievo pubblicata da Kierkegaard è Aut-aut, una raccolta di saggi (tra cui un commento al Don Giovanni di Mozart e il Diario del seduttore) in cui vengono definiti i due “stadi” fondamentali dell’esistenza: la “vita estetica” e la “vita etica”. Tra i due stadi non vige alcuna continuità o sviluppo dialettico, in quanto essi si stagliano di fronte all’individuo nella loro lacerante incompatibilità. L’uomo – che secondo Kierkegaard è destinato in partenza a convivere con un’inafferrabile “coscienza del peccato” e con l’angoscia che ne deriva – è puramente chiamato a scegliere.
La prima esecuzione del dramma giocoso Don Giovanni di Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, risale al 29 ottobre 1787, ma il precedente immediato dell’opera mozartiana è di pochi mesi prima: si tratta di Don Giovanni o il convitato di pietra, musicato da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati, rappresentato al San Moisé di Venezia nel gennaio del 1787. Il personaggio protagonista delle due opere ha già una storia alle sue spalle. Forse la prima apparizione è in un dramma del 1630 di Tirso de Molina: L’ingannatore di Siviglia (El burlador de Sevilla), imperniato sulle malefatte di un seduttore. Il suo comprimario appare nel 1669, nella tragicommedia Convitato di pietra o l’ateista fulminato di Rosimond (1640-1686).
In queste diverse apparizioni il personaggio subisce numerose metamorfosi: da espressione di una sensualità incontrollata, come nel dramma moralistico di Tirso de Molina, diventa ateo e bestemmiatore e, nel Settecento illuminista e libertino, portavoce ed eroe-martire del libero pensiero e della ragione umana contro ogni superstizione. L’ultima metamorfosi avviene in pieno romanticismo: Don Giovanni si fonde con la figura del Faust goetheano e la sua insoddisfazione, che lo spinge a passare da una donna all’altra senza mai trovare appagamento, diventa immagine emblematica dell’anelito dell’uomo all’infinito.
Per Søren Kierkegaard la figura di Don Giovanni non è riconducibile semplicemente a quella di un peccatore né a quella di un trasgressore blasfemo: egli, piuttosto, è portatore di una sensualità a-morale perché pre-morale, spintasi fino a diventare il proprio stesso fine, valore assoluto. Il merito di Mozart sarebbe stato proprio quello di mostrare il legame indissolubile che sussiste tra l’immediato sensuale e la musica, che ne rappresenta la lingua adeguata, così come le parole sono linguaggio adeguato all’espressione dei concetti.
Come ha sottolineato il musicologo Massimo Mila, la musica, arte del movimento per eccellenza, non può che trovare il suo oggetto precipuo nell’analogo e interminabile movimento della seduzione, che porta il protagonista a tentare di conquistare ogni donna che incontra. Lo stesso Don Giovanni non è da considerarsi, del resto, il soggetto attivo della seduzione, quanto un suo effetto: egli è, per così dire, “agito” da una forza vitale, da un “demone” uguale e contrario all’istinto di continenza proprio di Socrate, che lo trascende e di cui egli non può considerarsi responsabile.
Kierkegaard dedica all’opera di Mozart lo scritto “Gli stadi erotici immediati ovvero il musicale-erotico”, raccolto nel primo tomo della sua opera più voluminosa e nota, Aut-aut. L’opera si presenta come la raccolta, da parte del curatore Victor Eremita – uno degli pseudonimi dietro cui Kierkegaard stesso ama nascondersi –, di due gruppi di carte: il primo, denominato “gruppo A” e che si presume redatto da un ignoto esteta, contiene appunto il saggio su Mozart.
Alexandre-Evariste Fragonard, Don Giovanni, Strasburgo, 1830 ca., Musée des Beaux-Arts
Don Giovanni viene qui presentato da Kierkegaard come un “seduttore riflesso che sta nella categoria dell’interessante, e dove dunque il problema non è su quante egli ne seduca, ma su come le seduca” . L’ipotesi da cui Kierkegaard muove è che una figura come quella di Don Giovanni sia impensabile al di fuori del cristianesimo tardomedievale e sia quindi introvabile, per esempio, nel mondo antico così come in quello dominato dall’amor cortese. In entrambe queste epoche, l’amore, sia esso rivolto esclusivamente e in modo definitivo a una sola persona o a più persone, si presenta come amore totale, ossia che coinvolge corpo e mente. L’uomo greco vive nell’unità immediata con la natura e la società, è unità armoniosa di psiche e sensi: il suo modo di amare, pertanto, non può che essere erotico, ma anche psichicamente e totalmente coinvolgente. Quindi ogni volta sempre fedele, anche se i destinatari delle sue attenzioni possono cambiare col tempo. Questa unità immediata del mondo pagano si è già rotta nella fase dell’amore cavalleresco, ma solo per ricomporsi nell’idea di una “determinatezza spirituale come totalità”. In altri termini, mentre l’amore greco è sia corporeo che mentale, l’amore cavalleresco è interamente ricondotto sul piano spirituale: entrambi i tipi di amore si caratterizzano, quindi, per essere psicologicamente atteggiati, anche se secondo dinamiche differenti, che comportano nel primo caso la compresenza di psiche e di corpo e, nel secondo, l’assorbimento o la sublimazione (ma non l’eliminazione) dell’erotico nello psichico.
Le cose cambiano di molto allorché lo spirito si separa definitivamente dal mondano e quest’ultimo acquisisce vita propria: nasce l’erotico puro e il mondo, abbandonato dallo spirito, diventa teatro dello scatenamento di una sensualità innocente, puramente e unilateralmente fisica, senza coscienza né presentimento del peccato. Un erotismo la cui vita si schiaccia su una temporalità limitata alla dimensione del solo istante, senza storia, divenire, percezione delle differenze. Kierkegaard ne parla come del “demoniaco nell’indifferenza estetica”. Don Giovanni non conosce differenze tra una donna e l’altra; egli è attratto da una femminilità astratta e il suo modo di amare, pur sincero, non si rivolge a nessuna in particolare, né si traduce in una relazione amorosa, con una sua durata, perché si dissolve piuttosto nell’istante dell’amplesso erotico: per Don Giovanni, afferma Kierkegaard, ogni donna è una donna qualunque, e ogni avventura è una “storia di tutti i giorni”. Questo movimento della seduzione viene espresso magistralmente dalla musica: arte astratta per eccellenza, essa mostra l’universale astratto e vuoto nella sua concretezza immediata, anziché sotto la forma della riflessione intellettuale. Astrazione senza concetto, universalità come inabissamento e sparizione di ogni singolarità, l’arte della musica è tuttavia concreta in quanto capace di far percepire e sentire il desiderio. E così, nell’opera di Mozart, le figure femminili non sono propriamente dei caratteri, ma appaiono piuttosto come concrezioni temporanee di passioni; allo stesso modo, l’azione è azione immediata, anziché atto compiuto in base alla coscienza di uno scopo definito e pianificato.
Incoscienza senza peccato, pura vitalità priva di ogni senso di colpa, ma accompagnata da un’angoscia sostanziale, la musicalità del Don Giovanni, magistralmente espressa dall’ouverture dell’opera di Mozart, sta tutta in questa “potenza della sensualità che nasce in angoscia”.
Nella scelta estetica l’uomo si rifugia nel godimento dell’istante, ovvero nella bellezza dell’effimero, per inseguire uno stato di perenne ebbrezza intellettuale capace di stordirne l’essenziale stato di disperazione. L’uomo estetico descritto da Kierkegaard (di cui Giovanni, il protagonista del Diario del seduttore, è l’esempio paradigmatico) non è un libertino qualunque, ma un raffinato edonista che alla facile avventura preferisce la conquista lenta e minuziosamente calcolata. Tuttavia, nell’istante in cui la sua strategia erotica dà i suoi frutti, il seduttore perde ogni interesse per l’oggetto della sua conquista, abbandonando la vittima al proprio smarrimento. Alla lunga, questa spasmodica ricerca del piacere genera nell’uomo estetico un senso di noia, di oppressione e di estenuazione. Sicché inevitabilmente lo sbocco della scelta estetica sarà proprio quella disperazione che l’esteta disperatamente fugge: privo di un centro interiore, egli ha disperso il proprio io in mille esperienze e si sente “prigioniero di cose che non controlla”.
Tale disperazione può tuttavia scuoterlo dalla propria connaturata indifferenza mettendolo di fronte alla scelta e costituendo la premessa per saltare in un diverso stadio esistenziale: quello etico. La vita etica si fonda, secondo Kierkegaard, sulla riaffermazione di sé mediante l’accettazione di un nuovo impegno esistenziale. Prototipo della vita etica è il marito che, con il matrimonio e il lavoro, si adegua responsabilmente a un modello socialmente accettato e lo riconosce come proprio: un’adesione alla morale comune che non è esteriore e meccanica, ma determinata da un intimo convincimento personale, che prima che al coniuge impone una nuova fedeltà a se stesso.
TESTO
T1: Søren Kierkegaard, Lo stadio estetico
Mentre l’esteta vive solo per il presente e nel presente, l’uomo etico, che agisce in vista di traguardi sociali, recupera la dimensione del passato e si proietta nel futuro, sicché su di lui grava tutto il peso della storia. La conseguenza è che l’uomo etico di Kierkegaard non può sottrarsi alla consapevolezza dei propri errori e al ricordo dei momenti dolorosi della sua passata esistenza. Presto egli avvertirà pertanto che la vita scelta non lo allevia dal senso di colpa che opprime l’umanità intera. L’esito naturale della scelta etica è perciò il pentimento che, nuovamente, sfocia nell’angoscia e nella disperazione.
ESERCIZIO
E5: Kierkegaard
Mentre nel Concetto dell’angoscia (1844) Kierkegaard analizza la sofferenza dell’uomo nei confronti del mondo esterno e delinea un’idea di angoscia come sentimento costitutivo della natura umana, in quanto esposta alla “vertigine della libertà” di scelta tra bene e male, ne La malattia mortale (1849) egli si sofferma sull’affanno generato dal rapporto dell’uomo con se stesso. La malattia mortale a cui Kierkegaard fa riferimento (definita così non perché provochi la morte, ma perché consiste nel “vivere la morte” del proprio io) è la disperazione, esito dell’incapacità dell’individuo di convivere pacificamente con il proprio io. Le due modalità in cui essa si esprime sono quella di “disperatamente volere essere se stessi” e “disperatamente voler essere altro da se stessi”. Kierkegaard ritiene infatti che nell’uomo agisca un insanabile conflitto tra la consapevolezza della propria limitatezza e l’anelito verso l’illimitato. A seconda di come ciascun individuo affronta questo conflitto, vengono elaborate risposte diverse, tutte ugualmente destinate allo scacco. Infatti, se l’uomo vuole essere diverso da ciò che è, scopre di non essere in grado di abbandonare se stesso (disperazione della debolezza); ma anche qualora egli voglia essere se stesso, scopre i propri limiti e se ne dispera (disperazione dell’orgoglio). Che ne siano o meno consapevoli, tutti gli uomini sono afflitti da questo morbo: l’unica differenza è che chi non sa di essere disperato è più lontano dalla guarigione di chi abbia preso coscienza della propria malattia.
Esiste allora un’unica via di salvezza dalla “malattia mortale”: la fede. Riconoscendo la propria dipendenza da Dio, il credente risolve l’angoscioso conflitto tra la consapevolezza dei propri limiti e la sua aspirazione all’illimitato. La scelta religiosa si configura perciò come una terza possibilità di vita offerta all’uomo, accanto a quella estetica e a quella etica.
Peter Christian Nygaard Mattat Klæstrup, Søren Kierkegaard, 1845 ca., Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek - Biblioteca Nazionale
È importante osservare, tuttavia, che, come nel passaggio dallo stadio estetico a quello etico, anche nel passare da quello etico allo stadio religioso non può esservi alcuna continuità, ma solo un “salto” abissale. La natura di questo salto è chiarita nelle pagine di Timore e tremore (1843) dove Kierkegaard riflette sulla figura di Abramo che, per eseguire l’ordine divino, è disposto a uccidere il figlio Isacco nonostante ciò contravvenga, oltre che al suo naturale affetto di padre, a tutte le regole della morale comune. Ciò dimostra che il principio etico e quello religioso sono inconciliabili e che la fede in Dio è scandalosamente d’ostacolo a ogni forma di pacificazione esistenziale e sociale. Il religioso è colui che rompe con la società degli uomini isolandosi nel suo rapporto con Dio e la fede è un’esperienza solitaria che nulla ha a che vedere con i rituali socialmente condivisi, cui la storia del cristianesimo l’ha invece drammaticamente ridotta.
Allo stesso modo, la fede è estranea alla filosofia e alla ragione. Avere fede significa infatti accettare lo “scandalo logico” dell’infinito che si incarna nel finito, “l’assoluto paradosso” di Dio che si fa uomo. Una questione che Kierkegaard trovava già posta in tutta la sua drammaticità dalla domanda di Lessing se sia possibile che un atto storicamente determinato, e quindi situato in un tempo finito, possa avere un effetto eterno, ossia un significato infinito. La risposta che Lessing cercava non poteva essergli offerta dalla ragione, giacché l’enigma è risolto solo dall’azione, da quel salto nella fede che Lessing non seppe e non volle compiere.
ESERCIZIO
E6: Kierkegaard
Da qui anche la principale colpa della filosofia hegeliana, di avere sacrificato l’unico significato proprio alla fede – la sua irriducibilità alla ragione e all’utile – impostando la teologia su basi filosofiche, con grande successo nel dibattito teologico, ma a scapito del significato del cristianesimo. Cristo soffre e muore scandalosamente come uomo, ma chi crede lo riconosce irrazionalmente come Dio. In modo analogo l’insorgere della fede rappresenta una contraddizione inesplicabile poiché da un lato è l’individuo stesso che deve scegliere di credere, ma dall’altro la fede deriva da Dio e dunque non può essere il frutto di un’iniziativa personale. Solo riappropriandosi del significato della propria esistenza individuale e quindi vivendo il dramma della fede in Dio, l’uomo può sottrarsi a un’esistenza massificata e anonima cui lo consegnano le forme di vita socialmente virtuose della contemporaneità.
Stanno in ciò le ragioni della polemica che, con crescente radicalità – fino a rifiutare i sacramenti in punto di morte – contrappongono Kierkegaard alla Chiesa danese: nel fatto che il luteranesimo di Stato abbia finito per coprire e ammansire lo scandalo del cristianesimo, e quindi scristianizzare l’esperienza religiosa e di fatto operare contro ogni possibilità di autentica redenzione esistenziale.
ESERCIZIO
E3: Kierkegaard
All’esperienza del pensatore danese e al suo uso filosofico del concetto di “esistenza” si richiamerà l’esistenzialismo del Novecento, che si presenta esplicitamente come una Kierkegaard-Renaissance, cioè una rinascita del pensiero di Kierkegaard a distanza di circa cinquant’anni dalla morte. Saranno soprattutto il senso tragico dell’esistenza e la coscienza della radicalità del male e dell’assenza di fondamento dell’agire umano a suscitare, nel XX secolo, l’interesse di teologi come Karl Barth e Nikolaj Berdjaev, così come di filosofi quali Martin Heidegger e Karl Jaspers nell’area tedesca, Jean-Paul Sartre in Francia (su un terreno preparato dal Diario metafisico di Gabriel Marcel e dagli studi su Kierkegaard di Jean Wahl) e Nicola Abbagnano, Luigi Pareyson e Remo Cantoni in Italia. Il concetto al quale più si rifaranno i filosofi dell’esistenza sarà quello dell’angoscia, che si genera nell’uomo quando scopre “l’angosciante possibilità di potere”. Neppure il rapporto con Dio rappresenta, nel quadro della riflessione di Kierkegaard come nel contesto dell’esistenzialismo novecentesco, una garanzia assoluta per l’uomo alla ricerca di certezze e di una salvezza dalla disperante assenza di fondamento dell’esistenza. Sarà prevalentemente alla luce di questa rilettura esistenzialista in termini di “filosofia dell’angoscia” o dello “scacco” che l’opera del pensatore danese tornerà in auge, influenzando profondamente il dibattito filosofico della prima metà del Novecento.
TESTO
T2: Søren Kierkegaard, L’angoscia della libertà
ESERCIZIO
E4: Kierkegaard
Diversamente dalla paura che, essendo riferita a una particolare realtà esterna, viene allontanata quando ne siano rimosse le cause, l’angoscia (che per Kierkegaard è strettamente collegata col senso del peccato) non ha un oggetto preciso o, se si vuole, il suo oggetto è il nulla. Nel Concetto dell’angoscia (1844) Kierkegaard afferma che essa ha origine nel momento in cui, messo dinanzi a una serie indefinita di possibilità future, l’uomo si rende conto di avere la facoltà di scegliere liberamente che cosa fare della propria esistenza. La scoperta di questa libertà è resa sconvolgente dall’indeterminatezza delle vie che gli si offrono, in totale assenza di direttrici circa le scelte da compiere: per ogni possibilità favorevole all’individuo, infatti, infinite sono quelle a lui sfavorevoli. Così il “sentimento del possibile” si è originariamente affacciato alla mente di Adamo (l’opera reca infatti come sottotitolo Una semplice riflessione di carattere psicologico in riferimento al problema dogmatico del peccato originale) allorché, posto di fronte al divieto divino, egli avvertì in sé “l’angosciante possibilità di potere”, pur privo di ogni idea riguardo a ciò che effettivamente può. L’angoscia è, dunque, l’idea della libertà come “possibilità per la possibilità”. Il vuoto che in questo modo si aprì davanti al primo uomo è per Kierkegaard l’autentica fonte e l’immagine più efficace dell’angoscia. Essa si presenta dunque come costitutiva dell’esistenza umana, tanto che, scrive Kierkegaard, “se l’uomo fosse animale o angelo, non potrebbe provare angoscia”.
AMBIENTE CULTURALE
Tessera della Prima Internazionale firmata anche da Marx, rappresentante della Germania, Londra 1864
Arthur Schopenhauer nasce nel 1788; Friedrich Nietzsche muore nel 1900; tra di loro, si dipana la breve, intensa vicenda esistenziale e filosofica di Kierkegaard (1813-1855): tre filosofi che coprono l’arco di un secolo e contemporaneamente attivi attorno alla metà dell’Ottocento.
Politicamente, il periodo è caratterizzato dal consolidamento del cosiddetto “sistema di Westfalia”, con riferimento alla pace del 1648 che conclude la guerra dei Trent’anni e afferma in Europa il primato dello Stato sovrano come forma di organizzazione politica e la pari dignità tra stati come carattere del sistema internazionale. Il sistema di Westfalia, poi consolidatosi con il congresso di Versailles, si configura come un sistema nel quale gli attori sono gli stati, senza che vi sia altra autorità al di fuori di essi. Caratteristica degli stati è ora l’esercizio pieno della sovranità, ossia l’accentramento in un unico soggetto istituzionale di elementi giuridici e organizzativi. La concettosa “piena” sovranità include un principio di sovranità interna (all’interno dei confini dello Stato esiste un’autorità che prevale su tutte le altre), un principio di sovranità esterna (uno Stato non deve interferire negli affari interni di un altro Stato), un principio di indipendenza (nessuno Stato può avanzare pretese su un altro) e, infine, un principio di pari dignità degli Stati.
Il XIX secolo conosce anche il consolidamento del concetto di “nazione”. Se lo Stato può definirsi come una costruzione organizzativa attraverso la quale un sistema sufficientemente coerente esercita il proprio potere su un territorio definito, il concetto di nazione fa riferimento a elementi di natura culturale e affettiva che definiscono una comune identità di appartenenza. Tali elementi vanno dai caratteri etnici, alla lingua, a un insieme di memorie storiche selezionate, a un complesso di simboli, segni, monumenti. Questo concetto, sconosciuto al mondo greco-romano, fa quindi riferimento a un popolo unito dalle tradizioni, dalla comunanza di costumi e di lingua, oltre che dal radicamento territoriale.
La rivoluzione industriale e il socialismo L’età che segue l’illuminismo e la Rivoluzione francese, l’impero napoleonico e la Restaurazione, si caratterizza per l’ascesa della borghesia, la nascita del modo di produzione capitalistico a seguito della rivoluzione industriale e la costituzione di una classe operaia che non tarderà a sviluppare una propria coscienza di classe. Le reazioni intellettuali ai massicci cambiamenti verificatisi nella società europea della seconda metà del Settecento e nel corso del secolo successivo dal punto di vista politico-ideologico costituiscono uno spettro assai ampio: dal rifiuto di quei cambiamenti nel nome della continuità con il passato, all’approvazione entusiastica del loro apporto allo sviluppo della civiltà, fino a posizioni critiche che rimproverano a quei cambiamenti un’insufficiente radicalità.
Paradossalmente il termine “borghese”, nel momento in cui la borghesia raggiunge il suo apice, viene impiegato dagli intellettuali e dagli artisti in senso spregiativo, includendo in sé i caratteri della meschinità, mediocrità, ipocrisia e utilitarismo. Dal punto di vista storico, si va dal marxismo al darwinismo sociale di Spencer, dall’approccio positivistico di Comte a quelli dello storicismo e dell’ermeneutica propri della tradizione sociologica tedesca.
Nella prima metà del secolo, in Francia e in Inghilterra vengono formulate le prime teorie del socialismo moderno e vengono tentati i primi esperimenti per una nuova organizzazione della società. Essi indicano essenzialmente due vie per instaurare una comunità umana più giusta: la prima fa leva sull’economia e sulla società civile, la seconda sulla conquista del potere politico. Un socialismo delle origini che è stato definito “utopistico” da Engels in contrapposizione a quello marxiano, che ricostruisce “scientificamente” le leggi del sistema sociale ed economico nel suo percorso storico e attribuisce alla sola classe operaia il compito di sovvertire i rapporti di potere.
Friedrich Overbeck, Germania e Italia, post 1828, Dresda, Galerie Neue Meister
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Biedermeier
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Pittura e fotografia
L’attività artistica dell’Ottocento si caratterizza per la ricerca costante di sperimentazione di nuovi linguaggi, che porta alla formazione continua di correnti e movimenti: dalla fase dello Sturm und Drang, tesa alla riscoperta dell’arte medioevale e rinascimentale, si passa presto a nuove forme di realismo, che porteranno gli artisti a sperimentare modalità rappresentative inedite. Il paesaggio diventa il motivo conduttore di queste ricerche, e si può dire che la pittura en plain air apra la strada anche all’invenzione della fotografia, il cui battesimo si può far risalire alla presentazione del procedimento di Niépce e Daguerre all’“Académie des Sciences et des Beaux-Arts” del 1839: il dagherrotipo – come fu originariamente chiamata la fotografia, proprio dal nome di Daguerre, uno dei due inventori – permettendo una raffigurazione impersonale e obiettiva della realtà obbliga gli artisti a riflettere sullo statuto e le modalità del loro stesso operare, e li spinge piuttosto a puntare la loro attenzione alla portata soggettiva della loro visione.
Dallo studio del paesaggio nasce la rivoluzione “impressionista”. La nascita del movimento impressionista, che si diffonderà fino al 1880, viene fatta risalire all’esclusione dal Salon del 1863 del Déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet (1832-1883): a ciò fece seguito l’esposizione (voluta da Napoleone III) dei pittori esclusi dalla manifestazione nel Salon des Refusées. Il nome del movimento, usato dapprima in senso dispregiativo, viene dal dipinto di Claude Monet (1840-1926) Impression, soleil levant, esposto nel 1874 presso il pittore, e poi soprattutto fotografo, Nadar.
Claude Monet, Impression. Soleil levant, 1872, Parigi, Musée Marmottan Monet
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Édouard Manet e la pittura di vita moderna
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Claude Monet e l’impressionismo
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Richard Wagner
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Giuseppe Verdi
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Gaetano Donizetti
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Vincenzo Bellini
Musica L’Ottocento è anche il secolo dell’esplosione – e forse dell’annuncio della fine – del melodramma. Tra il 1820 e il 1860 la scena musicale è dominata dal melodramma italiano, divenuto con Bellini, Donizetti, Rossini e infine Verdi un’autentica industria culturale. Rispetto alle opere del passato, in cui l’operista musicava un testo già composto da un poeta, adesso il compositore sceglie il tema e stende un progetto, intervenendo anche in modo decisivo sul libretto, che si trova ad essere quindi completamente secondario e subordinato alla musica. L’argomento è ottenuto dalla trasposizione musicale di opere letterarie o teatrali contemporanee: solo per restare a Verdi, La traviata deriva dalla Signora delle camelie di Dumas figlio, Rigoletto da Il re si diverte di Victor Hugo, altre opere sono ricavate direttamente da Schiller (I masnadieri, Don Carlo).
Nel 1851 Richard Wagner pubblica Opera e dramma, la sua dichiarazione di poetica più estesa e sistematica: l’errore dell’opera tradizionale, egli scrive, è di aver reso la musica – mezzo di espressione – un fine e del fine, ossia il dramma, uno strumento. L’opera deve essere Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale, che compendia in sé tutte le arti, poesia, danza, musica, nel dramma. È qui che il poeta si ricongiunge col musicista – Wagner fu anche autore dei libretti delle sue opere – e se ne lascia guidare nel tentativo di esprimere l’inesprimibile. Tra il 1848 e il 1874 (26 anni di lavoro discontinuo) Wagner compone il monumentale ciclo dell’Anello del nibelungo, comprendente un prologo (L’oro del Reno) e tre opere (La Valkiria, Siegfried, Il crepuscolo degli dèi): opera-fiume in cui reminiscenze dei giovanili fervori socialisti e utopici (la catastrofica fine del mondo e la nascita di una nuova umanità suggerite nel Crepuscolo) si uniscono alla trasfigurazione mitologica del conflitto tra aristocrazia e nascente borghesia e a motivi schopenhaueriani e nietzscheani. È del resto ormai nota, e affidata a celebri pagine di Nietzsche, la vicenda del loro sodalizio culturale, della sofferta amicizia e infine della sua aspra conclusione.