Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da Floris, ricco commerciante, e Johanna, futura scrittrice. Dopo la morte del padre nel 1805, pur sentendosi vincolato alla parola datagli di ultimare la formazione commerciale, decide di intraprendere gli studi ginnasiali e di iscriversi nel 1809 a medicina a Göttingen.
Passa presto alla facoltà di Filosofia e, nel 1811, si trasferisce a Berlino per seguire le lezioni di Fichte. Delusissimo da colui che definirà un “pallone gonfiato”, Schopenhauer abbandona la città in guerra e si rifugia a Rudolstadt, a sud di Weimar, per ricevere poi nel 1813 in absentia il titolo di dottore dall’università di Jena. La dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1814) gli guadagna l’attenzione di Goethe che lo introduce alla sua cromatologia (teoria dei colori) e lo presenta all’indologo Friedrich Majer che gli fa conoscere le Upanishad, antichi testi filosofici e religiosi indiani scritti in sanscrito tra il IX e il IV secolo a.C.: si tratta del primo contatto con il pensiero orientale che tanta importanza avrà nella sua filosofia matura. In lite con la madre, si trasferisce a Dresda nel febbraio 1814 dove compone il saggio Sulla vista e i colori (1816) – che sancisce anche la rottura del sodalizio con Goethe – e, successivamente, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819).
La fortuna della cultura orientale nella filosofia tedesca dell’Ottocento è strettamente legata a due fattori storici: in primo luogo all’immagine dell’Oriente giunta attraverso la colonizzazione europea in Asia; in secondo luogo alla nascita del romanticismo. Nell’Ottocento si va sempre più costruendo il mito di un Oriente arcaico e originario, rappresentato soprattutto dalla cultura indiana, “culla della civiltà”, e così raccontato da colonizzatori e avventurieri sulla via del tè.
Per tutto il romanticismo e l’idealismo, la costruzione dell’identità del popolo tedesco passa attraverso la ricerca delle sue radici, soprattutto con lo studio della lingua e della religiosità come principali manifestazioni dello spirito germanico. In tale contesto, in cui la grecità (opposta alla latinità) si afferma come modello culturale predominante, le antiche dottrine orientali sono interpretate in due maniere distinte: da un lato come modello alternativo alla cultura greca; dall’altro come origine del pensiero occidentale, finanche di quello greco.
Della prima interpretazione il massimo esponente è Hegel il quale, nelle Lezioni di filosofia della storia, così compendia le caratteristiche peculiari della cultura orientale: “Non esiste né coscienza, né morale: tutto è solo ordine naturale, che accanto al peggior male lascia coesistere la più sublime nobiltà. La conseguenza di ciò è che in Oriente non si può incontrare alcuna conoscenza filosofica”.
La seconda interpretazione, secondo la quale la cultura greca discenderebbe dall’antica saggezza orientale indiana, è sostenuta, invece, dai fratelli Schlegel e dal circolo di Jena, centro propulsore delle nuove idee romantiche. Tale posizione porta all’approfondimento delle ricerche sull’origine linguistica e religiosa delle Sacre Scritture, allo studio filologico delle fonti orientali della Bibbia, alla verifica della compresenza degli stessi miti nelle dottrine religiose occidentali e orientali.
Una testimonianza di tale orientamento si può trovare in Wilhelm von Humboldt (1767-1835) il quale individua un nesso fra “le differenze linguistiche e la suddivisione dei popoli, da un lato, e la creazione delle energie spirituali dell’uomo, dall’altro”.
È Johann Gottfried Herder (1744-1803), figura ispiratrice del movimento di Jena, a introdurre il pensiero orientale, in particolare quello indiano, nella filosofia tedesca dell’Ottocento. Significative risultano le lettere herderiane sul Śakuntalā, raccolte sotto il titolo Su di un dramma orientale (1792), in cui si discute dell’omonimo poema del poeta indiano Kalidasa (IV-V sec.). Nelle lettere Herder tratteggia un Oriente fantastico ed esotico, così come è raccontato dai primi viaggiatori inglesi e francesi. Il Śakuntalā è per Herder un “fiore d’Oriente”, l’espressione dell’originalità della cultura indiana, di una terra lontana e utopisticamente trasfigurata.
Quando Herder scrive le sue lettere del Śakuntalā, in Europa sono già comparse la prima traduzione ad opera di Charles Wilkins (1785) della Bhagavad Gītā – poema in sanscrito di contenuto religioso, considerato testo sacro per gli induisti – e la prima versione inglese del Śakuntalā di William Jones (1789); è del 1791, invece, la sua versione tedesca a opera di Johann Georg Forster (che è quella letta da Herder).
Nel 1808, Schlegel pubblica il celebre Sulla lingua e sulla saggezza degli Indiani. Lo scritto ha una vasta risonanza nella cultura europea e soprattutto in Germania, nel circolo protoromantico, per la sua tesi mistico-panteistica dell’uno-tutto. Schlegel espone qui la sua teoria dell’unità dei contenuti religiosi della Bibbia e dei sacri testi indiani.
Si tratta di una lettura già mutata rispetto a quella di Herder. Schlegel, infatti, non descrive più un Oriente esotico, ma individua in esso il luogo d’origine della cultura occidentale. Attraverso il principio schlegeliano della “poesia universale progressiva”, l’India è idealizzata come “culla di tutte le civiltà”, capace di ispirare una “nuova mitologia”. Infine, Schlegel sostiene che tutte le lingue discendono da un popolo originario, gli Arii o Ariani (da arya, “nobile”). Da qui prenderà vita, purtroppo, anche l’idea dell’origine divina del popolo primigenio, quello ariano, perché divina – per Schlegel – doveva essere la lingua originaria. Al tema delle origini si congiunge quindi quello della purezza della razza ariana, che in seguito alimenterà le moderne correnti xenofobe e razziste europee e fornirà materiale ideologico ai nascenti movimenti nazionalisti di tutta Europa. Nel 1823, August Wilhelm Schlegel, fratello maggiore di Friedrich, dopo aver studiatolingue orientali a Parigi e a Londra, si trasferisce a Bonn (1818). Lì fonda la rivista “Indische Bibliothek” e provvede ad allestire una tipografia dotata di caratteri in sanscrito, con i quali pubblicare la sua edizione della Bhagavad Gītā. Sempre a Bonn, August Wilhelm Schlegel diviene il primo professore tedesco di sanscrito.
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Le tesi schlegeliane sull’uno-tutto indiano interessano anche Schelling, il quale, però, diversamente da Schlegel, considera la filosofia indiana solo una tappa del processo di autocoscienza dello spirito del mondo. E come Hegel, Schelling crede nella superiorità della cultura greca, costruttiva, su quella indiana, distruttiva. A differenza di Hegel, però, Schelling ammette la comune radice della filosofia orientale e di quella occidentale.
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Il mondo orientale esercita il suo fascino anche sul classicismo grecizzante di Goethe il quale, pur affermando la pericolosità dell’“orientaleggiare”, nondimeno, nel Divano occidentale-orientale (1814-1827), trasfigura la propria esistenza nel mito e nella letteratura orientale. E giunge sino a trasformare la sua Weimar da Olimpo greco a Eden persiano. Goethe non è attratto dall’esotismo misticheggiante, dall’alterità estraniante, ma è mosso sempre dall’obiettivo di “riunificare tutte le cose separate da sempre” in una forma compiuta e in un modello utile per la vita.
Solo con Schopenhauer, però, alla religione indiana è conferita dignità di pensiero filosofico. Tralasciando l’annosa questione, ancora aperta, se il sistema filosofico schopenhaueriano sia stato condizionato o meno dalla filosofia indiana nella fase della sua genesi, è certo che Schopenhauer si sia interessato a ogni fonte disponibile del suo tempo sulla cultura indiana antica.
Nel salotto culturale della madre Johanna, Schopenhauer può frequentare numerose personalità del circolo romantico, fra cui gli Schlegel e Friedrich Majer, indologo e allievo di Herder. Proprio quest’ultimo gli consiglia la lettura della traduzione latina di Duperron delle antiche Upanishad (o Vedānta), commentari "segreti" dei Veda, ossia di quella raccolta di testi sacri da cui prende nome la più antica religione delle popolazioni arie dell’India (vedismo), da cui successivamente si svilupperà l’induismo.
Per Schopenhauer, le dottrine esoteriche contenute nelle Upanishad sono “emanazione della più alta saggezza umana”, poiché contengono in forma allegorica le verità del suo sistema filosofico: il principio panteistico di Brahma, essere supremo, creatore del cosmo che contiene tutto in sé e che a sua volta è presente in ogni creatura, e il mito del velo di Maya, ossia quel “velo” di natura metafisica e illusoria che impedisce agli individui di conoscere la realtà se non in maniera offuscata e alterata. Agli occhi di Schopenhauer essi rappresentano la trasfigurazione mitologica del Mondo come volontà e rappresentazione. “La ‘Maya’ dei Veda [e] il fenomeno di Kant” – scrive Schopenhauer – “sono una sola e unica cosa”. Schopenhauer fa coincidere il dolore metafisico generato dall’affermazione della volontà con il cerchio delle rinascite descritto dal samsāra, ossia dalla dottrina brahmanica del ciclo di vita, morte e rinascita.
Anche l’etica schopenhaueriana concorda nei suoi esiti con la dottrina vedantica: come la prima mostra la liberazione dal dolore attraverso la conoscenza e la negazione della volontà (noluntas), così la seconda indica l’uscita dal samsāra attraverso l’illuminazione meditativa e il nirvana. Inoltre, per Schopenhauer, l’intuizione della volontà come unità metafisica, grazie alla quale è possibile il miracolo della compassione, è prospettata “nei Veda e nei Vedānta con la formula mistica permanente tat tvam asi (“ciò sei tu”) che viene espressa riferendosi a ogni essere vivente, sia uomo o animale”.
Diversamente dal cattolico Schlegel, per Schopenhauer i monoteismi, in particolare il giudaismo, hanno corrotto l’antica saggezza vedica a causa del loro ottimismo e hanno posto erroneamente l’uomo al di sopra di ogni altro essere vivente. Le Upanishad contengono la vera dottrina metafisica del mondo, il pessimismo, che la filosofia schopenhaueriana intende spiegare con il primato della volontà metafisica e universale.
Schopenhauer fa spesso un uso strumentale delle dottrine religiose indiane, con le quali identifica la propria metafisica, e non sempre distingue con esattezza i principi del brahmanesimo (inteso appunto come la religione generatasi intorno alla letteratura delle Upanishad vediche) da quelli del buddhismo che farà la sua comparsa nel VI sec. a.C. Tuttavia, una folta schiera di allievi e seguaci si ispira alla filosofia schopenhaueriana per dedicarsi allo studio della filosofia indiana e considera il “Saggio” di Francoforte come il primo Buddha d’Occidente.
A trent’anni Schopenhauer ritiene l’essenziale del suo compito concluso e si premia con un lungo viaggio in Italia. Al suo rientro lo accoglieranno le deludenti recensioni del suo lavoro. Fallisce inoltre il successivo tentativo di accreditarsi come professore di filosofia a Berlino, anche per la sua polemica continua contro Hegel e i suoi allievi, che lo ignorano del tutto. Solo l’epidemia di colera del 1831 (che uccide Hegel) vale a fargli abbandonare la città e archiviare un decennio frustrante, contraddistinto da frequenti viaggi, da una lunga malattia (forse d’origine nervosa), da un insoddisfacente legame amoroso con la cantante Medon, da un pericoloso processo per percosse e da un’attività di docenza privata del tutto inconcludente.
Si trasferisce quindi a Francoforte, dove trascorre il resto dei suoi anni riuscendo a stabilizzare la propria attività di intellettuale privato e a tornare alla produzione filosofica. Compone dapprima il Saggio sulla volontà nella natura (1836), poi i due importanti saggi Sulla libertà del volere umano e Sul fondamento della morale (1841) e infine l’opera che in vita lo porta al successo: Parerga e paralipomena (1851). La seconda edizione de Il mondo come volontà e rappresentazione (1844), pure accresciuta di un secondo volume, così come la ripubblicazione delle altre sue opere, sono invece nuovamente degli insuccessi e saranno riscoperte solo dopo la sua morte.
Schopenhauer si spegne nel 1860 mentre lavora all’edizione delle sue Opere complete, che saranno portate a termine dal suo “apostolo” Julius Frauenstädt, erede della sua biblioteca e di un corposo lascito manoscritto.
Nella dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Schopenhauer espone una gnoseologia ispirata alla filosofia kantiana, della quale si professa l’unico autentico seguace, ma da cui si distingue nella formulazione della dottrina delle categorie e per la concezione della funzione dell’intelletto. La definizione di “principio di ragion sufficiente” è ricavata invece da Leibniz (“Nulla è senza una ragione per la quale sia piuttosto che no”) e rende conoscibile il mondo delle nostre rappresentazioni.
La premessa radicalmente idealistica dell’opera è che l’oggetto, “ciò che è sempre conosciuto e mai conoscente”, si definisce solo in rapporto al soggetto, “ciò che è sempre conoscente e mai conosciuto”, e coincide con la rappresentazione. Gli oggetti non hanno però tutti gli stessi caratteri, e si distribuiscono in quattro classi (che si escludono reciprocamente), dove regnano quattro diverse forme, o radici, del principio di ragion sufficiente.
(1) Gli oggetti dell’esperienza. La prima classe di oggetti è quella delle rappresentazioni complete che costituiscono l’intero dell’esperienza, ovvero, kantianamente, quelle che comprendono tanto il materiale dell’esperienza (i dati sensibili ordinati nello spazio-tempo) quanto il suo ordinamento formale (la sintesi operata dalle categorie dell’intelletto). Queste rappresentazioni sono connesse dal principio di ragion sufficiente del divenire, la “causalità” propriamente detta, che permette di spiegare perché un determinato stato fisico risulti necessariamente da uno precedente, come per esempio l’ebollizione dell’acqua, che deriva dall’innalzarsi della sua temperatura a 100°. Tale connessione necessaria è infatti istituita dall’intelletto che tramite la causalità, l’unica categoria kantiana ammessa – sebbene profondamente ridefinita nelle sue funzioni – lega intimamente spazio e tempo permettendo il manifestarsi degli oggetti. Grazie a essa il nostro intelletto connette in modo originario e inconscio la rappresentazione spazio-temporale del nostro corpo, come oggetto immediato, alla rappresentazione che, tramite i sensi, ci facciamo degli altri oggetti. Il mondo dell’esperienza fisica è quindi una rete di rappresentazioni in costante divenire, disposte una accanto all’altra nello spazio, una dopo l’altra nel tempo e in relazione causale tra loro e con il nostro corpo.
ESERCIZIO
E7: Schopenhauer
(2) I concetti. Da tali rappresentazioni oggettuali vanno distinti i concetti, gli oggetti della seconda classe, che sono rappresentazioni ottenute facendo astrazione dai caratteri individuali delle prime. La facoltà di dar vita ai concetti è la ragione, che inoltre li connette in giudizi. Di questi concetti ci chiediamo perché siano veri e per rispondere dobbiamo fare uso del principio di ragion sufficiente; per esempio riconducendo un giudizio incerto a un altro già accertato, oppure confrontandolo con lo stato di fatto che descrive. Nel primo caso si ha una “verità logica”, dedotta in base a un sillogismo, nel secondo una “verità empirica”, ottenuta verificando che il rapporto tra i concetti esibito nel giudizio rispecchi la reale connessione causale degli oggetti descritti.
Esistono infine due ultimi tipi di giudizi, di per sé veri, quelli dotati di “verità metafisica”, che enunciano le condizioni di possibilità dell’esperienza, come per esempio l’enunciato del principio di ragion sufficiente stesso, e quelli dotati di “verità metalogica”, che esprimono le condizioni di possibilità del pensiero, come il principio di non contraddizione.
(3) Le intuizioni. Gli oggetti della terza classe sono invece presenti nelle sole forme pure dell’intuizione singolarmente prese: nello spazio, quelli della geometria, e nel tempo, quelli della matematica. Il motivo per cui tali oggetti possiedono certe caratteristiche, per esempio il fatto che il seno di un angolo vari proporzionalmente alla sua ampiezza, o al 3 segua sempre il 4, dipende unicamente da come tali oggetti sono stati definiti. Questa classe è caratterizzata dal principio di ragion sufficiente dell’essere.
(4) Il soggetto del volere. Infine la quarta classe contiene un unico oggetto, il soggetto del volere. Delle azioni umane si chiede il perché quanto al loro motivo, giacché decidersi per una determinata azione non segue da un fatto come sua causa fisica, né consegue da premesse logiche. Ciascuno percepisce giustamente la propria decisione come libera, sebbene l’incontro di un dato motivo con la costituzione di un determinato soggetto del volere in circostanze date, non avrebbe potuto produrre alcun’altra decisione. Questa classe è caratterizzata dal principio di ragion sufficiente dell’agire.
Con la dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficienteSchopenhauer mostra come il mondo sia rappresentazione, flusso fenomenico. Nel corso dei due anni successivi si occupa di una seconda intuizione fondamentale: che l’essenza di tale mondo fenomenico, la cosa in sé di cui anche Kant aveva parlato, coincide con la volontà. Questa diventa quindi la chiave dell’enigma del mondo, ciò che promette di svelarne il significato. Il lavoro in cui egli espone in maniera sistematica il contenuto di questa intuizione è Il mondo come volontà e rappresentazione.
Suddiviso in quattro libri, dopo il primo che argomenta la proposizione “il mondo è mia rappresentazione” riprendendo i contenuti della dissertazione, il secondo è dedicato alla volontà e all’interpretazione di tutto lo spettacolo della natura come suo fenomeno.
TESTO
T3: Arthur Schopenhauer, Il mondo come rappresentazione
ESERCIZIO
E9: Schopenhauer
La via a questa essenziale consapevolezza per Schopenhauer non è dischiusa dalla nostra struttura cognitiva, ma dal corpo in cui essa è radicata. Questo si presenta alla nostra coscienza in due modi: come oggetto, al pari degli altri oggetti conosciuto rappresentativamente (cioè secondo il principio di individuazione, che attraverso spazio, tempo e materia conosce la realtà solo nelle sue forme finite e determinate), ma anche “in tutt’altra maniera, toto genere diversa, la quale viene indicata con la parola ‘volontà’”. Alla volontà possiamo infatti ricondurre il principio dei moti del corpo, tanto di quelli volontari, quanto, per estensione, di quelli involontari, dal battito cardiaco al ricambio cellulare, e perfino i movimenti subiti dall’esterno. Schopenhauer conclude allora che il nostro corpo non è solo rappresentazione, ma anche volontà, che questa è il principio di realtà di quel corpo che può essere colto anche come rappresentazione e che, per analogia, anche per altri corpi fatti come il nostro va ipotizzato lo stesso rapporto tra corpo-rappresentazione e corpo-oggettivazione-della-volontà. Per estensione, tutto ciò che ci vien dato in forma solo rappresentativa deve fondarsi su di un principio analogo alla nostra volontà, sicché la duplice fonte di conoscenza del nostro corpo ci rivela che all’intero mondo come rappresentazione deve sottostare il mondo come volontà.
ESERCIZIO
E12: Schopenhauer
ESERCIZIO
E11: Schopenhauer
Con questa chiave di lettura Schopenhauer si rivolge al libro della natura per spiegare come ogni fenomeno si chiarisca quando si pensa la volontà a suo fondamento. In questa oggettivazione la volontà non persegue alcun fine, se non la sua cieca conservazione ottenuta attraverso uno straziante conflitto che investe l’intero mondo naturale. La volontà trionfa come cosa in sé, fuori dallo spazio e dal tempo, e sgretola l’esistenza di tutto quanto vive solo nello spazio e nel tempo. Una volta trovato il significato del mondo nella volontà, il mondo stesso si rivela allora quale teatro di un’immane tragedia metafisica, segnata dal doloroso sacrificio di ogni forma individuale che la volontà esige per la propria conservazione.
TESTO
T4: Arthur Schopenhauer, La volontà
ESERCIZIO
E10: Schopenhauer
ESERCIZIO
E8: Schopenhauer
A questo pensiero si connette anche la schopenhaueriana teoria delle idee che, prima che nella sua riflessione estetica, trova impiego nella filosofia della natura. La dialettica tra volontà ed esistenze individuali è infatti mediata dalle idee, che sono le forme di oggettivazione permanente della volontà: la forza gravitazionale, le forze chimiche e magnetiche, il galvanismo, ma anche le classi vegetali e le specie animali su su fino all’uomo, la specie dotata di ragione, sono tutte idee in cui la volontà si oggettiva ed eternamente si conserva a un determinato grado di potenza. D’altro canto le espressioni individuali di tali idee sono destinate a soccombere dopo una lotta che assicura solo il sopravvivere della volontà nelle sue forme ideali. In questo consiste la radice del pessimismo schopenhaueriano, che vede la vita dell’uomo, secondo una formula divenuta molto celebre, “oscillare fra il dolore e la noia”: il dolore provocato dalla mancanza, implicita in ogni volere, e la noia che sopraggiunge quando quella mancanza è colmata.
In questa visione l’arte assume un ruolo fondamentale: permette di aprire uno squarcio nel velo di Maya che avvolge il reale. L’arte è contemplazione delle cose, diretta e intuitiva, indipendente dal principio di ragione sufficiente: nell’opera d’arte è data la possibilità di cogliere le idee.
A questo è dedicato il terzo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il mondo viene visto attraverso le idee in quanto speciali rappresentazioni fuori dallo spazio e dal tempo che restituiscono l’essenza del molteplice. Esse non sono colte concettualmente, per astrazione, ma intuitivamente. Il termine “idea” è derivato da Platone e indica la capacità di restituire l’autentica forma del molteplice prescindendo dalle singolarità spazio-temporali: meglio che nell’osservazione della natura, le idee sono colte nelle opere dell’arte, dove sono fatte oggetto dello sforzo riproduttivo dell’artista. Il genio sa non solo innalzarsi al di sopra del molteplice per cogliere le sue forme primigenie, ma sa anche ridare forma sensibile a tali intuizioni mettendoci per così dire sotto gli occhi le idee in se stesse, e offrendoci in tal modo uno spiraglio di serenità. La contemplazione dell’opera d’arte ha infatti sull’uomo l’effetto di sollevarlo brevemente dal dolore che la volontà gli arreca.
Le arti sono quindi ordinate in funzione della loro capacità di riflettere idee sempre più elevate: dall’architettura che rivela la gravità, alla pittura e alla scultura, che riproducono l’idealità della figura umana, fino alla poesia, che nella sua più alta forma è rappresentata dalla tragedia, capace di restituire l’idealità presente in ogni singolo carattere umano e rivelare la tragicità della condizione umana. Uno specifico ruolo è infine assegnato alla musica che, per non avere un contenuto rappresentativo, va pensata come oggettivazione diretta della volontà nella sola forma intuitiva del tempo.
TESTO
T6: Arthur Schopenhauer, La musica come espressione della volontà
ESERCIZIO
E13: Schopenhauer
Con il quarto libro, sottotitolato Affermazione della volontà di vivere, e sua negazione dopo raggiunta la conoscenza di sé, si torna sulla volontà vista nel mondo della vita specificamente umana, ossia socialmente organizzata, normata dal diritto, guidata da principi morali e orientata alla salvezza. Nell’uomo, che rappresenta il grado di oggettivazione più alto della volontà, la sua affermazione si manifesta con particolare violenza, e a essa Schopenhauer riconduce ogni fenomeno dell’esistenza umana. È giustamente famosa l’interpretazione radicalmente prosaica che egli offre dell’amore ne La metafisica dell’amore sessuale (uno dei supplementi alla seconda edizione del Mondo del 1844): tutta la bellezza e la poeticità del gioco della seduzione sono ricondotte a un inganno della volontà per accecare l’egoismo del singolo predisponendolo a perpetuare la specie e con essa l’umano dolore.
Ogni individuo è guidato dal suo egoismo pratico, volto ad affermare la propria individuale volontà e a considerare ogni altro essere esistente privo di alcun valore. Ciascuno è guidato dal suo “carattere intelligibile” che, determinatosi in tutta libertà al di fuori delle condizioni spazio-temporali, si esprime in uno specifico “carattere empirico”: “l’operare segue l’essere”. A sua volta il carattere empirico, che a fronte di un motivo determinato fa invariabilmente decidere per una determinata azione, è per ognuno l’unico oggetto della conoscenza di sé, ottenuta per prove ed errori. Il doloroso pentimento per decisioni conseguenti alla scelta dei motivi sbagliati, fatti cioè artificiosamente prevalere da ragioni che contraddicono il nostro autentico carattere, ci mette sulle tracce di quest’ultimo, insegnandoci ad assecondarlo. L’esito di questa autoeducazione lenta e dolorosa è il “carattere acquisito”.
All’egoismo di un carattere malvagio, che cioè mira a estendere con la violenza il dominio della propria volontà individuale sulla volontà e sul corpo altrui, si oppone innanzitutto il diritto che, amministrato dallo Stato, ne sanziona le forme più gravi: dall’inganno all’omicidio. Il suo strumento è il potere di comminare punizioni, la cui conoscenza vale da contromotivo da considerare nei calcoli che eseguiamo per prendere le nostre decisioni. Alla base di quello giuridico sta però il diritto naturale come giusta pretesa di ciascuno di non vedere invasa la sovranità della propria volontà, per lo meno sul proprio corpo e sulle sue dirette estensioni, come il frutto del proprio lavoro.
A possedere un fondamento naturale – una volta rigettata la sua fondazione sul “dovere assoluto” prescritto dall’imperativo categorico kantiano – è anche la morale: tale fondamento è costituito dal sentimento della compassione o pietas che, come avviene nell’arte, ci permette di andare oltre il particolare fenomeno e ci fa sentire il dolore altrui come nostro.
In soggetti predisposti la pietas permette che tutto il vivente sia intuitivamente colto come dolente per mano del medesimo carnefice, la volontà: un’intuizione, questa, che dischiude la possibilità di una radicale inversione di rotta da parte del soggetto volente, la cosiddetta “conversione trascendentale”. Nel santo la cognizione che deriva dalla pietas agisce da “quietivo” del volere, interrompendo la spasmodica affermazione della volontà. Mediante l’ascesi il santo, a partire da castità e povertà volontarie, può giungere alla noluntas, la soppressione della volontà stessa. Sta nella realizzazione di questa possibilità il precipuo significato dell’esistenza umana, quale unica forma d’individuazione della volontà capace di portare il suo oscuro principio a una tale limpida coscienza di sé da porre le condizioni della sua negazione e, di conseguenza, della liberazione dal dolore. Nel cuore del pessimismo cosmico, attraverso la soppressione della volontà, l’individuo può trovare una possibile via di redenzione dal dolore.
LETTURE
Il pensiero di Kant
Una volta terminato il suo sistema, Schopenhauer non ne modifica più i contenuti di fondo, ma li approfondisce nelle opere degli anni Trenta e nei supplementi al Mondo della seconda edizione. Solo con Parerga e paralipomena del 1856 – una raccolta in due volumi di scritti stesi in tempi e circostanze diverse che nel titolo (letteralmente “aggiunte e resti”) intende riconfermare la fedeltà al suo opus magnum – Schopenhauer cambia radicalmente stile. Abbandona la forma del saggio e del trattato filosofici, per scegliere un tono più “popolare” con il quale trattare i più diversi soggetti: dalla critica degli intellettuali contemporanei (Sulla filosofia nelle università e Sul mestiere dello scrittore), alla raccolta di Osservazioni psicologiche e di Fisiognomica; dallo sguardo sulla società (Delle donne, Dell’educazione), alla critica delle degenerazioni del filisteismo dilagante (Pensare da sé, Sul leggere i libri e Sulla lingua e sulle parole).
Nel cuore dell’opera si inserisce infine un elemento di novità che pare addirittura minare la fama di pessimista dell’anziano filosofo. Si tratta degli Aforismi per una vita saggia che chiudono il primo volume dei Parerga e paralipomena e presentano una eudemonologia, “l’arte di percorrere la vita nel modo più possibilmente piacevole e felice”. Schopenhauer, che ha assiduamente frequentato la letteratura moralistica europea (Baltasar Gracián, Calderón de la Barca, La Rochefoucauld, Chamfort, Leopardi), si cimenta con lo stile alto dei moralisti, distillando una precettistica utile a trarre il meglio possibile dal “peggiore dei mondi possibili”.
È dai Parerga che proviene la stragrande maggioranza dei motti schopenhaueriani ancora oggi molto diffusi, ed è grazie al successo di questo lavoro, pubblicato in tutte le lingue, molto spesso frammentato, che Schopenhauer e il suo stile avrebbero poi fatto scuola.
TESTO
T5: Arthur Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia
Nell’opera di Giacomo Leopardi (1798-1837) compaiono diversi temi che rientrano a pieno diritto nell’ambito delle questioni filosofiche: l’analisi critica della modernità e il giudizio sulla cultura filosofica del proprio tempo, la riflessione sulla condizione antropologica e sulla precarietà dell’esistenza umana, le considerazioni in merito al ruolo dell’intellettuale nella società, oltre alla nota teoria della natura come perpetuo ciclo di creazione e distruzione ignaro delle sofferenze umane. Temi che ricorrono nell’opera poetica come in quella saggistica (soprattutto nello Zibaldone, composto prevalentemente tra il 1817 e il 1832), ma che trovano una trattazione più puntuale e specificamente teorica nelle Operette morali. Il progetto dell’opera risale agli anni tra il 1819 e il 1820, quando Leopardi allude nell’epistolario all’idea di scrivere dei “dialoghi satirici alla maniera di Luciano”, ma la composizione delle venti operette che costituiscono il nucleo dell’opera si colloca nel 1824.
Le complesse vicende editoriali delle Operette (dagli interventi della censura alle modifiche nell’ordine e nella scelta dei testi introdotte da un’edizione all’altra) rendono difficile tracciare un quadro sistematico del pensiero filosofico e morale di Leopardi; ma è comunque possibile rintracciare alcuni temi oggetto di una particolare attenzione e di una approfondita elaborazione teorica.
Per il giudizio di Leopardi sul pensiero contemporaneo è cruciale il Dialogo di Timandro e di Eleandro, che il poeta stesso indicava come emblematico dello “spirito di tutta l’opera”. Esso infatti è una critica ai filosofi moderni, incapaci di consolare o distrarre dal destino di infelicità che grava fin dalla nascita sull’uomo; anzi, la verità colta dalla ragione filosofica non può che rendere più dolorosa la coscienza della natura finita e ingiustificata dell’esistenza umana. È un motivo esposto diffusamente nella prima delle operette (Storia del genere umano), dove l’ansia di verità della filosofia viene profilandosi, contro l’ideale illuminista della cultura quale emancipatrice dell’umanità, come la peggiore condanna per gli uomini: “egli [Giove] si risolse, posta da parte ogni pietà, di punire in perpetuo la specie umana, condannandola per tutte le età future a miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la Verità fra gli uomini a stare […] ma dandole eterno domicilio fra loro […] farla perpetua moderatrice e signora della gente umana”; ma se la verità è motivo di felicità per gli dèi, perché mostra loro come siano estranei al destino di morte delle realtà finite, agli uomini essa rivela che ogni piacere è vano e caduco e che unica realtà è il dolore.
Per Leopardi, filosofia moderna significa critica della metafisica classica (fondata sul soggetto e sull’uomo) e al contempo risoluzione del pensiero filosofico nei modi del nuovo metodo scientifico. Dal punto di vista storico la filosofia moderna è rappresentata dalla linea che a partire da Galilei giunge a Newton e Locke. La prospettiva razionalistica riconduce ogni aspetto della vita dell’universo alle forze della meccanica e alla struttura fissata dalle leggi della fisica matematica, ma in questo modo lascia sospeso e irrisolto l’interrogativo sul senso della vita e sul significato e sul ruolo che vi ha l’uomo. Proprio perché così efficace nella descrizione dei fenomeni fisici della natura come ciclico e cieco processo di generazione e distruzione, la filosofia moderna rinuncia alla ricerca del senso e alla possibilità di agire; e quanto agli ideali etici e politici della cultura classica, essi si rivelano inefficaci dal momento che la filosofia moderna ne ha rivelato la natura illusoria.
L’analisi critica condotta dalla ragione – e indicata come tratto tipico della filosofia moderna – e la scoperta del carattere convenzionale (e quindi infondato) dei valori condivisi rende ormai impossibile, secondo Leopardi, il fondamento della società sul vincolo sociale e sul senso civico. È piuttosto l’egoismo individuale a prevalere: la società si regge su interessi laici e particolari che si rivelano costitutivamente precari, perché sospesi a un criterio sempre mutevole come è quello dell’utilità personale. Per Leopardi l’accrescimento del sapere, scopo del progetto illuminista, mostra i propri limiti nell’infelicità dell’uomo contemporaneo, il quale non trova nella società massificata del proprio tempo gli spazi per manifestare la propria identità: una identità appiattita su una razionalità incapace di riconoscere e valorizzare l’affettività propria dell’individuo.
Il rifugio dai mali della società contemporanea non è tuttavia individuato da Leopardi, al contrario di molti romantici, nella natura. È nel Dialogo della Natura e di un Islandese che le considerazioni sull’infelicità umana si allargano a una dimensione cosmica: “Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie […] sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo […]. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.
La natura è per Leopardi un “perpetuo circuito di produzione e distruzione”, vita e morte, nel quale non c’è posto per considerazioni sulla felicità individuale ma solo per un unico fine, cioè la conservazione del mondo come totalità: l’universo non è dunque altro che il perenne distruggersi e riformarsi dei mondi, mentre ciò che permane è solo la nuda materialità priva di forma e significato. Questo concetto di “natura” non risulta quindi dissimile dal concetto di “volontà” elaborato da Schopenhauer, che riconosceva in Leopardi colui che più di tutti aveva rivelato la miseria della condizione umana di fronte a un universo indifferente alle sue sofferenze.
Per Leopardi la morte non è, quindi, il momento dell’accesso a una dimensione metafisica dove si sveli il significato ultimo dell’esistenza, bensì una fase del ciclo naturale di creazione e distruzione. Il tema attraversa un nucleo importante delle Operette morali: è al centro di un testo come il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, dove la morte è presentata in termini epicurei come assenza di sensazione – e quindi di sofferenza – , il che la rende preferibile alla vita; o come il Cantico del gallo silvestre, nel quale ogni creatura e ogni processo naturale sono ricondotti alla morte quale fine ultimo dell’universo.
Nel Dialogo di Plotino e Porfirio, in particolare, la volontà di misurarsi su temi e posizioni del dibattito storico-filosofico si fa esplicito. Il mal di vivere e la meditazione di Porfirio, allievo di Plotino, sul suicidio è occasione per una riflessione sul significato della morte e della vita che, se non rinuncia alla consueta lucidità sul destino infelice degli uomini, schiude tuttavia la speranza della consolazione che deriva dalla solidarietà umana e dal reciproco sostegno nella comune sofferenza e nella lotta contro l’indifferenza della natura: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.